I Non stava sognando di morire, come gli era già

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I Non stava sognando di morire, come gli era già
I
Non stava sognando di morire, come gli era già capitato.
Qualcuno lo aveva ucciso e non sapeva perché. Non sapeva
nemmeno se erano state due coltellate o due proiettili, spari
non ne aveva uditi. Passato il primo momento, un dolore
acuto, insopportabile, come di violente bastonate sulla
schiena, forse era svenuto, ora avvertiva solo un’angoscia
profonda. Sentiva di avere la gola e l’esofago pieni di sangue che non riusciva a deglutire e nemmeno a espellere; non
riusciva a muoversi, alzare un braccio, spostare una gamba,
articolare un dito. Paralizzato, come se lo avesse colpito una
scarica elettrica. Era fisicamente morto e lottava solo per
cercare di mantenere ancora attivo il cervello: voleva capire
perché Magda avesse commesso quell’infamia. Poteva essere stata solo lei. Doveva ricostruire tutta la storia, indagare
per trovare una logica, il movente, come fanno i detective.
Non aveva molto tempo prima di diventare solo energia lost
in space in cerca di un pianeta di ricambio.
La memoria lavorava alacremente con una grande confusione e accelerazione di immagini per ripassare i tre anni
trascorsi con quella donna e trovare un punto rivelatore. La
mente si dibatteva in un carosello di fotogrammi talvolta
sfocati e talvolta così definiti da sembrare in rilievo. Gli
impulsi erano troppo nervosi per ottenere lo scorrimento
fluido di un film. Giungevano in frenetica sequenza quadri,
disegni non complanari come le tavole dei fumetti, il sonoro e la luce avevano intensità discontinue. Non riusciva a
dare la cadenza voluta e spesso doveva tornare indietro per
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rintracciare il filo. Le scene si succedevano dense di sensazioni e sentimenti in una lucidità scompensata temporalmente come in quelli affetti dal morbo di Alzheimer. Non
aveva mai avuto una memoria cronologica ed era ancora
peggio adesso che stava morendo, sdraiato bocconi sul letto
della camera d’angolo, numero 11, al primo e ultimo piano
dell’Hotel Les Muscadins a Mougins con vista sulla Baie de
Cannes.
Gli dispiaceva non poter avvisare sua madre, salutarla,
come sempre, quando partiva. Non aveva altri affetti, oltre
lei e Magda.
Una leggera brezza faceva ondeggiare la tenda oscurante tirata sui battenti socchiusi del terrazzino.
Non ci aveva mai pensato, ma gli sembrava innaturale e
ingiusto morire di mattina, in pieno sole.
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II
L’aspettavano al ristorante. Si era guardata in giro senza
alcun imbarazzo, poi, localizzato il tavolo degli amici,
aveva attraversato la sala con passo sicuro, da milanese di
rango abituata a essere osservata. Trasportava una grande
borsa piatta, da grafico, come quelle che talvolta usava lui,
quelle che se uno è più basso di un metro e settanta toccano
terra e devi tenere il braccio a uncino, come fanno i galli con
la zampetta quando ti guardano aggressivi. Capelli biondo
scuro da viennese, tagliati corti. Anellini alle orecchie. Seno
libero, non esibito e non nascosto, elegante. Occhi nocciola.
Abbigliamento così stravagante che sembrava trovato
facendo il giro delle bancarelle al mercatino: pantaloni larghi color sabbia di taglio morbido, spiegazzati, con allacciatura a coulisse, camicia fucsia senza maniche e, nella
mano libera, una specie di mantiglia, uno scialle nero tipo
zendado da popolare veneziana in cui si avvolse subito cercando di proteggersi dai soffi dell’aria condizionata. (Aveva
appena appreso cos’era lo zendado facendo una ricerca per
l’immagine del Casinò di Venezia). Polsi sottili, aristocratici, con un “tennis” di brillantini in quello destro, sull’altro
un orologio tipo gadget con cinturino giallo-limone da americana in tour. Dita affusolate con unghie dipinte di smalto
trasparente. Anche le scarpe erano divertenti: basse, pezzate
di bianco, azzurro e blu con una sfilza di asole e lunghe
stringhe rosse. Proveniva direttamente dal lavoro e aveva
avvisato gli amici del ritardo. Era solo qualche centimetro
più bassa di lui, robusto mediterraneo di un metro e settan15
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totto. Seduta, le cosce schiacciate sulla poltroncina gonfiavano la pelle d’uovo dei pantaloni come l’aria nei galleggianti dei gommoni. Il ridotto campo visivo gli aveva impedito di valutare il culo, per essere una bella donna secondo
lui è di rigore averlo ben modellato. Comunque, con una
estrapolazione lineare, dai dati visibili di quella linea armoniosa, lo aveva definito: alto, sodo e rotondo. “Le donne con
il sedere piatto” sentenziava Gavino, il dentista viveur,
“quelle che ce l’hanno come il fondo di una padella, sono
molto cattive perché lo vivono come una seconda castrazione.” Gavino Marras era mezzo sardo e mezzo emiliano:
quelli, probabilmente, erano momenti di emilianità.
La stura ai progetti d’allegria della serata era stata fatta
con uno spumantino di Franciacorta. Gavino le aveva riempito il suo flûte e lei beveva sportiva, senza inibizioni. Poi
Gavino aveva preso la parola in modo quasi formale.
“Adesso vi presento come si deve perché questa è stata
proprio un’improvvisata. Ecco qua due personaggi di successo.” Sembrava un banditore di paese. “Da questa parte
Maddalena Borgonovo, detta Magda o Pucci, una fotografa eccezionale, moda, arte, reportage. La sua vera passione sarebbe andare nei teatri di guerra. Voleva andare in
Iraq ma per fortuna nessuno ce l’ha inviata. Meglio così,
pensa i rischi che avrebbe corso. Al suo fianco il grande
graphic-designer Michele Chiari detto Michel o Mike.
Non è un grande conversatore, non aspettiamoci molto da
lui con le parole, se la cava meglio con i segni. Anche lui
va alla grande, vince un sacco di gare. Giusto ieri ha vinto
quella per il progetto dell’immagine coordinata del Museo
di Montelupo. Siete due creativi, penso che abbiate molte
cose in comune, tutt’e due lavorate con gli occhi...
Magda, devi stare attenta perché Michel è un tombeur de
femmes, parla poco ma... Ce l’ha proprio del tipo francese, anzi del duro del Midi. Sua madre infatti è di Marsiglia
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e anche lui è nato là. E tu Michel stai sul chi vive perché
Magda è un’ape regina. Siete due bei caratterini...”
Gavino quando assumeva quel tono burlesco, la voce da
teatrante col birignao, diventava fastidioso “...e adesso
facciamo un brindisi.”
Avevano girato la testa per osservarsi, con un sorrisetto
di cortesia. Magda era disinvolta in ogni atteggiamento,
sembrava socialmente ben allenata alle banalità salottiere.
“Ma quale ape regina? Semmai un’ape operaia. Lavoro
come una pazza e sono sola da un sacco di tempo.”
“Oh, che terribile spreco” gli venne fatto di pensare,
“sarà ora di recuperare.”
“Comunque, caro Michel, ti assicuro che se io non fossi
felicemente sposato con la qui presente Gabriellona”
Gavino mise un braccio attorno alle spalle di quella specie
di cammello e le diede una scrollata, “con questa donna il
pungiglione lo rischierei volentieri. Hai visto che occhi
d’oro? No, non sono sicuro che tu li abbia notati.
Scommetto che hai guardato altre cose.”
“Per adesso ho dato un’occhiata in generale” aveva detto
fingendo di scusarsi.
Magda sembrava divertirsi. Invece sul viso di
Gabriellona era appesa un’espressione sofferente come
quella di chi sa di portare, in un martirio accettato, più corna
del famoso cesto di lumache.
Non aveva nessuna voglia di passare la serata avendo di
fronte quel viso molossoide che assomigliava alla Fiat
Multipla, un incrocio tra un ranocchio e un catamarano, così
pensò di mettersi davanti quello di Magda. Senza tanti complimenti fece un cenno a Gavino: “Vieni qui tu, gli occhi
d’oro voglio guardarli io.” Da Magda non trapelò nessun
segno di sorpresa, semmai un trattino di compiacimento. Ma
attuò una contromossa e quella fu la prima indicazione che
era una donna volitiva: “No, resta qui tu. Vado io al posto di
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Gabriella, così sto con le spalle al muro e mi tolgo quest’affare di dosso.”
Il viso pensoso era quello di un’attrice drammatica che
si apre volentieri al sorriso, il naso piccolo e diritto, la bocca
con gli angoli amari come quella di Meg Ryan, quella di C’è
post@ per te e gli occhi nocciola avevano davvero i riflessi
preziosi e misteriosi dell’oro antico. La pelle era chiara,
allegra, da ragazza, e la lieve abbronzatura evidenziava
qualche efelide da bambina e da albicocca.
Anche lei aveva lavorato con gli occhi, fotografando.
Come gli avrebbe poi confidato durante una delle loro infinite conversazioni, si era trovata di fronte un tipo inquartato
dal naso leggermente a becco, dagli occhi scuri malincoironici molto mobili, circondati da rughe di languida dissolutezza, con lunghe ciglia da cerbiatto, sempre curiosi di vedere cosa c’è in fondo al bicchiere. Aveva notato quella sottile
cicatrice che iniziando appena dopo il pomo d’Adamo si infilava sotto il colletto della polo blu, si notava anche se teneva
la testa abbassata e protesa come un torello. Le mani nodose
erano ben curate. I capelli neri e lisci erano troppi e troppo
corti e scolpiti per i suoi gusti: che razza di parrucchiere,
sembrava un taglio da soldato in partenza per il fronte della
guerra ’15-’18. Ma emanava un fluido, un’energia che colpiva la sua sfera erotica con la precisione di un laser e questo
era un aspetto da non buttare via. Perciò decise, a scopo precauzionale, che per rientrare avrebbe chiamato un taxi, così
come era arrivata. Quello sembrava proprio il tipo che andava sul pratico senza perdere tempo. Le braccia appoggiate ad
arco sul tavolo, con le mani che stringevano il bicchiere di
whisky sembravano stringere d’assedio lei più che il bicchiere. Non che avesse problemi ad accettare assalti anche la
prima sera, quando graditi, e il Signor Chiari era molto gradevole, ma in quel momento non si sentiva in forma, la giornata era stata da nevrosi, fotografare scarpe l’aveva molto
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stressata, le scarpe non rientravano proprio tra i soggetti preferiti. Anche le donne possono temere di non fare bella figura, la prima volta.
Il cameriere che aveva portato il pesce era il solito sardo
invadente che, come paventato, divenne un commensale
aggiunto e si mise a discutere con Gavino di misteriose
ricette regionali. Chissà perché Gavino gli dava sempre
corda, non riusciva a dirottarlo. Gabriella era intenta a
gustarsi l’orata, a tirare lunghe sorsate di Arneis e sembrava
estraniarsi da quell’incontro, quasi le dispiacesse, probabilmente assai invidiosa. Praticamente cenarono da soli,
Magda gli parlava di “Milano noir”, un libro di foto di
Gianluca Bucci e lui aveva ascoltato, parzialmente, distraendosi spesso a immaginarla, morbida, tra le sue braccia.
Quando si erano salutati intuì che, alla prossima, quella
bella donna gli avrebbe concesso tutte le opportunità che
voleva.
C’era stato un prologo.
“Se stasera vieni a cena con noi ti presento una donna di
classe, completa di optional” aveva detto Gavino, l’amico
dentista, per alleviare la seduta. Per il fatto che Gavino fosse
mezzo bolognese e mezzo nuorese su certi argomenti era
meglio non fidarsi ciecamente: non si poteva mai sapere con
quale metà stavi parlando.
“Di classe, come?” aveva indagato appena sceso da
quella specie di poltrona ginecologica.
“Senti Michele Chiari, detto Michel Auclair, se ti dico
che è completa voglio dire che è bella, affascinante, simpatica oltre che di coscia lunga, ovviamente. Ha anche delle
belle gengive.”
“Le gengive non mi danno nessuna emozione. Le altre
mucose come sono?”
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“Ho visto solo quelle, purtroppo.”
“Cosa fa, quanti anni ha?”
“Una trentina, trentadue, trentatré. È una fotografa molto
apprezzata. Ma non se la tira, non si dà importanza, anzi, sa
prendersi in giro. È un’amica dei Dubcic, quelli dei würstel,
amici di mia moglie, insomma è nel nostro giro. Mi ha disdetto un appuntamento dopo l’altro. Dobbiamo rifare il
piano di cura e siccome non trova il tempo per venire in studio l’abbiamo invitata da Stefano, il toscano, qui vicino, ci
sei venuto altre volte. Ho voglia di una bella orata al sale.
Speriamo sia puntuale perché ho una fame da lupo, come sai
io a mezzogiorno mangio frutta. È una donna allegra, se
trova la compagnia giusta... È un po’ come te, ma lei ha una
tastiera più ampia... Tu assomigli a un macigno.”
“Ma lascia stare, io sono tenero come una mozzarellina.
Allegra? Che bella notizia! Si incontrano solo donne che
vogliono scaricarti un sacco di problemi. Sembra che ti frequentino solo per questo, mica per divertirsi.”
“Stai tranquillo, Magda ha meno problemi di te.”
“Questa donna ha un sacco di pregi! Ma devo fidarmi
perché sei il dentista-casanova della Milano bene e non
penso che mi presenteresti un rospo. Ce l’ha un difetto o è
una donna virtuale costruita al computer?”
“Ssss, parla piano. C’è di là mia moglie. Be’, è un po’
stravagante, temperamento artistico si dice. Ma anche tu
non ti puoi certo lamentare, sei il dongiovanni nella categoria designer!”
“Sbagliato, Gavì. Sono sempre io la vittima, sedotto e
abbandonato. A quarant’anni sono ancora single.”
“Per forza, ti innamori di donne sposate. Questa
Maddalena è anche ricca, qualora la cosa ti interessi.”
“Vediamo se ce la faccio, con tutte queste qualità. Però non
ti mettere a parlare con quel pallido e invadente cameriere
sardo. Conversa con me, passami la palla, fammi degli assist.”
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“Tu non hai bisogno che qualcuno ti passi la palla. Basta
che ogni tanto sventoli quelle ciglia da bambolotto.”
Il giorno dopo al telefono, il mezzo barbaricino Gavino
si era sbilanciato in pronostici.
“Sarà lo scontro ormonale del secolo. Durante la cena,
dopo pochi minuti ho sentito che c’era già tensione nell’aria. Cerca di non fare subito il derby Inter-Milan, quella è
una cavalla di razza, s’imbizzarrisce facilmente, devi applicare la regola del dressage: demander souvent, caresser
beaucoup et se contenter de peu. Capito mi hai?”
“Mi sembra proprio completa di tutto come avevi detto.
Deve essere anche un tipo divertente.”
“Ricordati che è molto intelligente e indipendente e tenterà sempre di condurre il gioco. Credo sia anche un tipo
fedele, per quello che si può capire delle donne. Mi risulta:
‘mai più di uno per volta’.”
“Tra un po’ la chiamo. Vorrei invitarla a cena dopodomani. Vorrei portarla dal nostro vecchio amico Chicco Uva.
Secondo te conosce già quel posto? Mi seccherebbe, vorrei
giocare in casa la partita d’andata.”
“Non credo. Mi sembra una buona idea. Lei bazzica
dalle parti di Porta Garibaldi, corso Como, quella zona lì e
tutto corso Sempione vicino a casa sua, in via Melzi d’Eril.
Non ce la vedo sui Navigli. Salutami il Chicco. Bonne
chance!”
Aveva conosciuto il coetaneo Gavino e la sua ricca e
brutta moglie durante una vacanza in Sardegna, a Palau,
forse cinque anni prima. Vi era andato con Anna Paola, che
chiamava Amapola, una ragazza per l’estate, biondissima
come un’ucraina, sua promettente allieva alla Scuola
Politecnica. “La pupa del boss”, l’aveva battezzata Gavino:
fumava dappertutto spinelli maleodoranti e non poteva stare
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al sole sennò si ustionava. Non usciva mai in barca con gli
amici, passava i pomeriggi in albergo a guardare la TV e a
spremersi con delle spatole di legno tipo quelle per tagliare
la polenta, che custodiva gelosamente in una scatola da scarpe assieme a rotoli di spinelli. A cena: bianchissima, bellissima, con un travolgente sguardo incantato e obliquo. A
letto tuttavia era come una ricotta e rimaneva meno reattiva
del materasso. La volta che aveva visto Magda fumare uno
spinello, usciti da una mostra fotografica da Formia in via
Giovenale, lei che detestava il fumo, le aveva raccontato
l’avventura con quella Amapola spinellomane, una delle
poche cose che era riuscito a raccontarle. Non aveva gradito: “io non fumo mai niente” aveva detto brusca, sorvolando sul resto del racconto “questo è un caso, me lo hanno
regalato” e lo aveva buttato per terra, nauseata.
Da Gabriellona aveva percepito subito una specie di
avversione forse perché credeva di scorgere in lui certe affinità con il marito e comuni navigazioni in un mondo erotico da cui si sentiva esclusa. Gavino invece era simpatico,
permaloso e ostinato, goliardico e crapulone, ma in difficoltà a distinguere tra l’amicizia e le pubbliche relazioni che
esercitava da maestro di giorno e di sera. Gavino, appassionato di cavalli, ne manteneva un paio a San Siro che non
avrebbero vinto neanche a drogarli con un chilo del famoso
peperoncino sotto la coda. Gavino, una faccia da Dean
Martin.
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