B) Giurisprudenza costituzionale ed europea
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B) Giurisprudenza costituzionale ed europea
B) Giurisprudenza costituzionale ed europea 62. Sulla legittimità costituzionale della previsione normativa che rimuove l’impedimento alla elezione passiva ai Consigli degli ordini forensi ed agli organismi della Cassa di previdenza e di assistenza forense per gli avvocati che abbiano fatto parte delle commissioni di esame di abilitazione forense solo dopo che siano state espletate le elezioni immediatamente successive all’incarico ricoperto. Corte costituzionale, ordinanza 15 aprile 2011, n. 138, Pres. De Siervo – Rel. Grossi – Remittente Consiglio Nazionale Forense. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, sesto comma, del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, come modificato dall’art. 1-bis del d.l. 21 maggio 2003, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, impugnato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 51, commi primo e terzo, Cost. ed agli artt. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e 11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella parte in cui rimuove l’impedimento all’elezione passiva ai Consigli degli ordini forensi ed agli organismi della Cassa di previdenza e di assistenza forense per gli avvocati che abbiano fatto parte delle commissioni di esame di abilitazione forense solo dopo che siano state espletate le elezioni immediatamente successive all’incarico ricoperto. Premesso che tra i parametri dedotti risulta incongruamente ricompreso quello di cui all’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la preclusione alla candidatura per le distinte tornate elettorali previste per i Consigli dell’ordine forense, da un lato, e per la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, dall’altro, non riguarda un periodo né temporalmente indeterminato né, in sé, eccessivo o irragionevole, poiché il divieto normativo si riferisce soltanto alle elezioni immediatamente successive allo svolgimento dell’incarico di componenti delle commissioni e sottocommissioni per gli esami di avvocato. D’altra parte, l’avere il legislatore coerentemente stabilito un divieto reciproco per gli avvocati, tra l’espletamento dell’ufficio di componente le commissioni d’esame e la partecipazione ai suddetti organismi, chiaramente denota una scelta – discrezionale, ma non certo priva di una intrinseca ragionevolezza – di separazione funzionale, intesa ad impedire possibili commistioni di Rassegna Forense – 1/2011 99 Giurisprudenza costituzionale ed europea Incompatibilità elezioni forensi attribuzioni reputate non opportune, secondo una prospettiva di trasparenza amministrativa e di efficienza gestionale perfettamente in linea con i valori espressi al riguardo dalla Carta fondamentale. (Omissis) Ritenuto che con ordinanza del 26 aprile 2010, il Consiglio nazionale forense, in sede giurisdizionale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3 e 51, primo e terzo comma, della Costituzione, nonché in riferimento all’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, «valorizzabile ex art. 117 Cost.», ed all’art. 11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, sesto comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, come modificato dall’art. 1-bis del decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, nella parte in cui rimuove l’impedimento alla elezione passiva ai Consigli degli ordini forensi ed agli organi della Cassa di previdenza e di assistenza forense per gli avvocati che abbiano fatto parte delle commissioni di esame di abilitazione forense «solo dopo che siano state espletate le elezioni immediatamente successive all’incarico ricoperto per entrambe le elezioni»; che il Consiglio rimettente premette di essere stato investito a seguito del ricorso proposto dall’avvocato C. T. avverso la candidatura dell’avvocato A. G. alle elezioni per il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma per il biennio 2010-2011, nonché avverso la proclamazione di detto candidato risultato eletto, il quale, avendo svolto l’incarico di componente supplente di una sottocommissione di esame per l’abilitazione all’esercizio della professione forense presso il distretto della Corte di appello di Roma fino al 3 luglio 2008, avrebbe illegittimamente presentato la propria candidatura ed illegittimamente sarebbe stato proclamato eletto, avuto riguardo alla previsione ostativa di cui alla norma denunciata; che, dato atto dei rilievi difensivi svolti dal controinteressato, il Consiglio rimettente sottolinea che, ove fosse ritenuta impraticabile l’interpretazione del quadro normativo suggerita nell’atto defensionale, si profilerebbe un dubbio di legittimità costituzionale del denunciato art. 22, sesto comma, dal momento che la sua formulazione risulterebbe «talmente opinabile da delegare all’interprete, anziché alla legge, la determinazione delle condizioni di incandidabilità o ineleggibilità», in contrasto con il principio di stretta legalità di cui all’art. 51 Cost.; che, d’altra parte, la previsione dei casi di ineleggibilità, incidendo su un diritto fondamentale, potrebbe ritenersi ragionevole solo in funzione della salvaguardia di interessi anch’essi di rango costituzionale; che, richiamata la giurisprudenza di questa Corte in tema di ineleggibilità, per sottolineare come la norma in questione debba essere interpretata in senso restrittivo, il rimettente ha considerato evidente che la norma si fondi sulla esigenza di evitare che chi si trovi a comporre la commissione per l’esame di abilitazione all’esercizio della professione possa acquisire il favor 100 Rassegna Forense – 1/2011 Parte Seconda – Giurisprudenza degli elettori ed essere eletto alle elezioni indette nel periodo dell’espletamento delle prove e in un periodo che la legge indica in riferimento alle elezioni “immediatamente” successive all’incarico; che, se è chiaro il senso della espressione “immediatamente”, il problema si porrebbe relativamente ai rapporti tra le due ipotesi di elezione (per la carica di consigliere dell’ordine forense e di rappresentante della Cassa nazionale di assistenza e di previdenza forense), legate fra loro, nel testo della norma, dalla congiunzione “e” invece che dal «disgiuntivo “o”», che il legislatore avrebbe utilizzato ove avesse inteso renderle alternative; che, escludendo la possibilità di una interpretazione adeguatrice, il rimettente osserva che «il testo legislativo conduce quindi ad una situazione di irrazionalità manifesta», dal momento che le elezioni di ogni Consiglio dell’ordine si svolgono ogni biennio e quelle della Cassa ogni quadriennio, «sicché si potrebbe addirittura verificare il caso di ineleggibilità per un sessennio addizionandosi i due periodi di durata delle cariche elettive»; che, dunque, si tratterebbe di una «misura evidentemente sproporzionata», la quale, in contrasto con i parametri evocati, risulterebbe «volta peraltro a colpire quanti si sobbarcano il gravoso compito di componente delle commissioni di esame»; che, d’altra parte, se lo scopo della norma è quello di impedire la captatio benevolentiae, questa dovrebbe indurre ad una preclusione senza limiti temporali, posto che «la benevolenza o la gratitudine dovrebbero essere “eterne”»; che sussisterebbe, perciò, violazione dell’art. 3 Cost., per la discriminazione di chi sia stato componente delle commissioni di esame rispetto a chi non abbia svolto tale compito, risultando vulnerato anche l’art. 51 Cost., dal momento che un vincolo di ineleggibilità così «incerto nel tempo e di durata potenzialmente così lunga» sarebbe tale da non giustificare una simile compressione di un diritto fondamentale, rispetto alla tutela del valore contrapposto che la norma mira a presidiare; che, inoltre, considerato che il diritto di elettorato passivo consente «la libera espressione della propria personalità», la norma censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 2 Cost., nonché con l’art. 11 della C.E.D.U., «interpretato nel senso che il diritto di far parte degli organismi rappresentativi delle professioni intellettuali vulnera la libertà di riunione e associazione in modo eccedente quanto necessario al raggiungimento della finalità perseguita»; che si è costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio principale, avvocato C. T., «rapp.to e difeso da sé stesso ex art. 86 c.p.c.», per chiedere che la questione venga dichiarata inammissibile e, nel merito, manifestamente infondata; che l’ordinanza di rimessione risulterebbe illogicamente motivata dal momento che si baserebbe sull’inesistente presupposto di fatto di una possibile ineleggibilità per sei anni, omettendo di considerare che gli eventi elettorali delle due istituzioni prese a riferimento dalla norma denunciata «si “intersecano”, mai si “sommano”; così come i periodi di ineleggibilità»; Rassegna Forense – 1/2011 101 Giurisprudenza costituzionale ed europea Incompatibilità elezioni forensi che, d’altra parte, affermando che la gratitudine e la benevolenza dei candidati all’esame «dovrebbero essere eterne», sarebbe lo stesso rimettente ad auspicare una soluzione irrazionale e sproporzionata, e non il legislatore, che ha invece razionalmente contemperato i contrapposti interessi in gioco; che, censurando non il principio che sta a base della norma, ma la disciplina temporale, il rimettente solleciterebbe la Corte ad una pronuncia non “a rime obbligate”, senza tuttavia additare alcuna soluzione tra le molte discrezionalmente possibili; che sarebbe, poi, del tutto criptica ed illogica la motivazione della ordinanza che riferisce il dubbio di costituzionalità all’art. 2 Cost. ed all’art. 11 della C.E.D.U.; che risulterebbero, del resto, evidenziati profili di incostituzionalità estranei al giudizio a quo, dal momento che, sulla base delle effettive circostanze di fatto, ogni limitazione di elettorato passivo a carico del resistente nel giudizio principale sarebbe venuta a cadere nell’arco di circa un anno e sei mesi a decorrere dalla cessazione dell’incarico di commissario d’esame; che, nel merito, la questione dovrebbe considerarsi infondata, posto che il legislatore – recependo, peraltro, le istanze delle istituzioni rappresentative del ceto forense – si sarebbe attenuto a quanto previsto dall’art. 51 Cost., per come interpretato dalla consolidata giurisprudenza costituzionale, limitando la ineleggibilità «al minimo possibile», e cioè alle «elezioni immediatamente successive»; che il principio di uguaglianza risulterebbe anch’esso rispettato, in quanto la disciplina censurata, investendo «una particolare situazione nella quale il soggetto non eleggibile può influenzare a suo favore il corpo elettorale» e prendendo in considerazione «“intere categorie e non singoli cittadini”», perseguirebbe l’obiettivo, con la previsione di «una ineleggibilità limitata», di «consentire al ceto forense di autogovernarsi nella delicata funzione di selezionare l’accesso alla professione di nuovi colleghi e, nel contempo, evitare il formarsi e il radicarsi di forme di clientelismo elettorale dannose per la dignità della professione forense»; che con successiva memoria, l’avvocato T. ha in particolare sottolineato, a proposito della interpretazione della disposizione oggetto di censura, come «la grammatica, la semantica e la logica – prima ancora del diritto – impongono di valutare la locuzione “e” [che compare nel testo della norma] come congiuntiva e non come disgiuntiva, ché – altrimenti – il legislatore avrebbe usato la locuzione “o”» e che, pertanto, la ineleggibilità non sarebbe altro che la protrazione della “doppia” incompatibilità per il consigliere dell’ordine e per il rappresentante della Cassa, non potendo essere intesa come una «ineleggibilità alle elezioni immediatamente successive, alternativa o casuale o, peggio, arbitraria a seconda che subito dopo la cessazione dell’incarico di commissario si tengano le elezioni o della Cassa o del Consiglio»; che il 22 febbraio 2011, ampiamente oltre il previsto termine, l’avvocato A.G., resistente nel giudizio a quo, ha depositato una “comparsa di costituzione”; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per una 102 Rassegna Forense – 1/2011 Parte Seconda – Giurisprudenza declaratoria di inammissibilità o di manifesta infondatezza della questione proposta; che, secondo la difesa erariale, la questione sarebbe da dichiarare inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, non avendo il rimettente dato conto delle ragioni per le quali l’eccezione proposta dal resistente nel giudizio principale – secondo cui l’annullamento dell’elezione avrebbe dovuto determinare l’indizione di un’elezione suppletiva e non, come richiesto dal ricorrente, la proclamazione del primo dei non eletti – sia stata considerata infondata, quando, invece, il suo accoglimento avrebbe dovuto comportare il rigetto del ricorso e, di conseguenza, l’irrilevanza della questione proposta; che, d’altra parte, la questione risulterebbe infondata, sulla base della «regola generale» – riconducibile oltre che, come «nella contigua materia dei concorsi pubblici», all’art. 97 Cost., anche agli artt. 24 e 4 Cost. – secondo cui «gli organi preposti alla disciplina e all’amministrazione di una determinata attività (come sono i consigli forensi rispetto alla professione legale) non possono contestualmente provvedere anche al reclutamento o alla selezione dei soggetti chiamati a svolgere l’attività (funzione pubblica o professione tutelata) alla cui organizzazione e al cui controllo quegli organi sono preposti»; che, dunque, ispirandosi al principio della «separatezza tra organizzazione/controllo da un lato e selezione tecnica dei professionisti dall’altro» e perciò prevedendo sia l’ineleggibilità negli organismi professionali rappresentativi di chi sia stato commissario d’esame sia, reciprocamente, la nomina a commissario dei componenti dei consigli forensi, la disposizione censurata si sottrarrebbe «alle censure di irragionevolezza e di arbitraria limitazione di diritti fondamentali di partecipazione democratica sotto specie di elettorato passivo». Considerato che il Consiglio nazionale forense, in sede giurisdizionale, dubita – in riferimento agli artt. 2, 3, 51, primo e terzo comma, della Costituzione, nonché in riferimento anche all’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, «valorizzabile ex art. 117 Cost.», ed all’art. 11 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali – della legittimità costituzionale dell’art. 22, sesto comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, come modificato dall’art. 1-bis del decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, nella parte in cui rimuove l’impedimento alla elezione passiva ai Consigli degli ordini forensi ed agli organismi della Cassa di previdenza e di assistenza forense per gli avvocati che abbiano fatto parte delle commissioni di esame di abilitazione forense «solo dopo che siano state espletate le elezioni immediatamente successive all’incarico ricoperto per entrambe le elezioni»; che, a parere del Collegio rimettente, risulterebbero violati i parametri indicati in quanto la norma censurata, oltre a creare un irragionevole vulnus nei confronti di coloro che si siano assunti il «gravoso compito» di componenti delle commissione di esame per l’esercizio della professione forense, determinerebbe un ostacolo anche per la libera competizione elettorale, introducendo un vincolo di ineleggibilità incerto nel tempo e potenzialmente di dura- Rassegna Forense – 1/2011 103 Giurisprudenza costituzionale ed europea Incompatibilità elezioni forensi ta tale da incidere su un diritto fondamentale, senza che ciò risponda ad un effettivo soddisfacimento dei contrapposti interessi che la norma in questione intenderebbe tutelare; il tutto, anche, con riverberi sul piano della stessa libertà di riunione e di associazione che gli organismi professionali rappresentativi sono chiamati a presidiare; che occorre preliminarmente disattendere la eccezione di inammissibilità per omessa adeguata motivazione sulla rilevanza, prospettata dalla difesa dello Stato; che, infatti, a prescindere dallo specifico petitum sollecitato in sede impugnatoria dal ricorrente, è comunque incontroverso che il reclamo proposto ha inteso coinvolgere la validità del procedimento di nomina del “controinteressato” e, quindi, la concreta applicabilità, ai fini della relativa decisione, del quadro normativo coinvolto nella questione di legittimità costituzionale, con evidente rilevanza della tematica inerente alla “preclusione” che scaturisce dalla regola della «incandidabilità» oggetto di censura, ai fini della decisione che il collegio rimettente è chiamato ad adottare nel caso di specie; che, del resto, il Collegio rimettente pone a fulcro delle proprie censure non tanto la preclusione in sé che scaturisce dalla norma impugnata – del cui fondamento e della cui ratio essendi, dunque, non pare dubitare – quanto la relativa durata, stimata eccessiva, ma omette di formulare, coerentemente con tale premessa, un petitum volto a ricondurre la disposizione medesima entro i confini reputati congrui, richiedendo, invece, in apparente contraddizione, una ablazione totale della norma, la cui introduzione, per di più, venne sollecitata – come emerge dai relativi lavori preparatori – dagli stessi organismi professionali; che, nel merito, le censure proposte sono palesemente prive di fondatezza in rapporto a tutti i parametri dedotti, tra i quali risulta incongruamente ricompreso, anche alla luce della sentenza n. 80 del 2011, quello di cui all’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; che, contrariamente, infatti, all’assunto del Consiglio rimettente, la preclusione alla “candidatura” per le distinte tornate elettorali previste per i Consigli dell’ordine forense, da un lato, e per la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, dall’altro, non riguardano un periodo né temporalmente indeterminato né, in sé, eccessivo o irragionevole, posto che il previsto divieto si riferisce soltanto alle elezioni «immediatamente successive» allo svolgimento dell’incarico di componenti delle commissioni e sottocommissioni per gli esami di avvocato; che, d’altra parte, l’avere il legislatore coerentemente stabilito un divieto “reciproco” per gli avvocati, tra l’espletamento dell’ufficio di componente le commissioni d’esame per l’esercizio della professione forense e la partecipazione agli organismi rappresentativi locali nonché a quelli della Cassa di previdenza e assistenza forense, chiaramente denota una scelta – discrezionale, ma non certo priva di una intrinseca ragionevolezza – di separazione “funzionale” intesa ad impedire possibili commistioni di attribuzioni reputate non opportune, secondo una prospettiva di trasparenza amministrativa e di efficienza gestionale perfettamente in linea con i valori espressi al riguardo dalla Carta fondamentale. 104 Rassegna Forense – 1/2011 Parte Seconda – Giurisprudenza per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, sesto comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, come modificato dall’art. 1-bis del decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112 (Modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2003, n. 180, – sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 51, primo e terzo comma, della Costituzione, nonché in riferimento all’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, «valorizzabile ex art. 117 Cost.», ed all’art. 11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – dal Consiglio nazionale forense, in sede giurisdizionale, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Rassegna Forense – 1/2011 105 63. Sull’obbligo di rispettare le tariffe massime in materia di onorari e l’insussistenza di ostacoli all’accesso al mercato. Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, 29 marzo 2011, causa C-565/08 (Commissione europea c. Repubblica italiana) La normativa italiana sugli onorari da riconoscere agli avvocati è caratterizzata da una flessibilità che sembra permettere un corretto compenso per qualsiasi tipo di prestazione fornita; è possibile, infatti, aumentare gli onorari fino al doppio delle tariffe massime altrimenti applicabili, per cause di particolare importanza, complessità o difficoltà, o fino al quadruplo di dette tariffe per quelle che rivestono una straordinaria importanza, o anche oltre in caso di sproporzione manifesta, alla luce delle circostanze nel caso di specie, tra le prestazioni dell’avvocato e le tariffe massime previste. Inoltre, è consentito agli avvocati concludere un accordo speciale con il loro cliente al fine di fissare l’importo degli onorari.Pertanto, tale disciplina non ostacola l’accesso degli avvocati provenienti dagli altri Stati membri al mercato italiano sicchè non sussiste alcuna restrizione ai sensi degli artt. 43 CE e 49 CE. (Omissis) 1. Con il suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di constatare che, prevedendo disposizioni che impongono agli avvocati l’obbligo di rispettare tariffe massime, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 43 CE e 49 CE. Contesto normativo nazionale 2. La professione di avvocato è disciplinata in Italia dal regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore legale (GURI n. 281, del 5 dicembre 1933, pag. 5521), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36 (GURI n. 24, del 30 gennaio 1934), come successivamente modificato (in prosieguo: il «regio decreto legge»). In base agli artt. 52-55 del regio decreto legge, il Consiglio nazionale forense (in prosieguo: il «CNF») è istituito presso il Ministero della Giustizia ed è costituito da avvocati eletti dai loro colleghi, in numero di uno per ciascun distretto di Corte d’appello. 3. L’art. 57 del regio decreto legge prevede che i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità dovuti agli avvocati ed ai procuratori in materia tanto civile, penale quanto stragiudiziale sono stabiliti ogni biennio con deliberazione del CNF. Tali criteri devono essere successivamente approvati dal Ministro della Giustizia, sentito il parere del Comitato interministeriale dei prezzi e previa consultazione del Consiglio di Stato. 4. Ai sensi dell’art. 58 del regio decreto legge, i criteri di cui all’art. 57 del medesimo decreto sono stabiliti con riferimento al valore delle controversie e 106 Rassegna Forense – 1/2011 Parte Seconda – Giurisprudenza al grado dell’autorità giudiziaria adita, nonché, per i giudizi penali, alla durata degli stessi. Per ogni atto o serie di atti devono essere fissati un limite massimo ed un limite minimo dell’importo degli onorari. In materia stragiudiziale occorre tenere conto dell’importanza dell’affare. 5. L’art. 60 del regio decreto legge stabilisce che la liquidazione degli onorari è fatta dall’autorità giudiziaria sulla base dei citati criteri, tenendo conto della gravità e del numero delle questioni trattate. Tale liquidazione deve mantenersi entro i limiti massimi e minimi previamente fissati. Tuttavia, nei casi di straordinaria importanza, tenuto conto della specialità delle controversie e qualora il valore intrinseco della prestazione lo giustifichi, il giudice può oltrepassare il limite massimo. Viceversa egli può, quando la causa risulta di facile trattazione, fissare onorari in misura inferiore al limite minimo. In entrambi i casi la decisione del giudice dev’essere motivata. 6. Ai sensi dell’art. 61, n. 1, del regio decreto legge, gli onorari praticati dagli avvocati nei confronti dei propri clienti, in materia sia giudiziale che stragiudiziale, sono determinati, salvo patto speciale, in base ai criteri di cui all’art. 57, tenuto conto della gravità e del numero delle questioni trattate. Conformemente al n. 2 del medesimo articolo, tali onorari possono essere maggiori di quelli liquidati a carico della parte condannata alle spese se la specialità della controversia o il valore della prestazione lo giustificano. 7. L’art. 24 della legge 13 giugno 1942, n. 794, sugli onorari di avvocato per prestazioni giudiziali in materia civile (GURI n. 172, del 23 luglio 1942), prevede che sono inderogabili gli onorari minimi stabiliti per le prestazioni degli avvocati, a pena di nullità di qualsiasi accordo derogatorio. 8. L’art. 13 della legge 9 febbraio 1982, n. 31, sulla libera prestazione di servizi da parte degli avvocati cittadini di altri Stati membri della Comunità europea (GURI n. 42, del 12 febbraio 1982, pag. 1030), che recepisce la direttiva del Consiglio 22 marzo 1977, 77/249/CEE, intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati (GU L 78, pag. 17), estende l’obbligo di rispettare le tariffe professionali in vigore agli avvocati di altri Stati membri che svolgono in Italia attività giudiziali e stragiudiziali. 9. I diritti e gli onorari degli avvocati sono stati successivamente disciplinati da più decreti ministeriali di cui gli ultimi tre sono il D.M. 24 novembre 1990, n. 392, il D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, e il D.M. 8 aprile 2004, n. 127. 10. Conformemente alla deliberazione del CNF allegata al decreto ministeriale 8 aprile 2004, n. 127 (GURI n. 115, del 18 maggio 2004; in prosieguo: la «deliberazione del CNF»), le tariffe applicabili agli onorari degli avvocati si suddividono in tre capitoli, vale a dire il capitolo I, relativo alle prestazioni giudiziali in materia tanto civile, amministrativa quanto fiscale, il capitolo II, concernente le prestazioni giudiziali in materia penale, e il capitolo III, riguardante le prestazioni stragiudiziali. 11. Per il capitolo I, l’art. 4, n. 1, della deliberazione del CNF vieta qualsiasi deroga agli onorari e diritti stabiliti per le prestazioni degli avvocati. 12. Per quanto riguarda il capitolo II, l’art. 1, nn. 1 e 2 di suddetta deliberazione dispone che, per la determinazione dell’onorario di cui alla tabella, deve tenersi conto della natura, complessità e gravità della causa, delle con- Rassegna Forense – 1/2011 107 Giurisprudenza costituzionale ed europea Tariffe massime forensi testazioni e delle imputazioni, del numero e dell’importanza delle questioni trattate e della loro rilevanza patrimoniale, della durata del procedimento e del processo, del valore della prestazione effettuata, del numero di avvocati che hanno collaborato e condiviso la responsabilità della difesa, dell’esito ottenuto, anche avuto riguardo alle conseguenze civili, nonché delle condizioni finanziarie del cliente. Per le cause che richiedono un particolare impegno, per la complessità dei fatti o per le questioni giuridiche trattate, gli onorari possono giungere fino al quadruplo dei massimi stabiliti. 13. Per quanto concerne il capitolo III, l’art. 1, n. 3, della deliberazione del CNF sancisce che, nelle pratiche di particolare importanza, complessità e difficoltà, il limite massimo degli onorari può essere aumentato fino al doppio e quello degli onorari per le pratiche di straordinaria importanza fino al quadruplo, previo parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente. L’art. 9 di tale deliberazione precisa che, nell’ipotesi di manifesta sproporzione, per particolari circostanze del caso, tra la prestazione e gli onorari previsti dalla tabella, su parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente, i massimi possono essere maggiorati anche oltre quanto previsto dall’art. l, n. 3, della deliberazione in parola e i minimi possono essere diminuiti. 14. Il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (GURI n. 153, del 4 luglio 2006), convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248 (GURI n. 186, dell’11 agosto 2006; in prosieguo: il «decreto Bersani») è intervenuto sulle disposizioni in materia di onorari d’avvocato. L’art. 2 del predetto decreto, intitolato «Disposizioni urgenti per la tutela della concorrenza nel settore dei servizi professionali», ai suoi nn. 1 e 2, dispone quanto segue: «1. In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali: a) l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti; [...] 2. Sono fatte salve le disposizioni riguardanti [...] le eventuali tariffe massime prefissate in via generale a tutela degli utenti. Il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di liquidazione giudiziale e di gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale [...]». 15. A norma dell’art. 2233 del codice civile italiano, in generale, il compenso per un contratto di prestazione di servizi, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi in vigore, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene. In ogni caso, la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione. Ogni patto concluso dagli avvocati o i praticanti abilitati con i loro clienti che stabilisca i compensi professionali è nullo se non è redatto in forma scritta. 108 Rassegna Forense – 1/2011 Parte Seconda – Giurisprudenza La fase precontenziosa 16. Con lettera di diffida del 13 luglio 2005, la Commissione ha richiamato l’attenzione delle autorità italiane su una possibile incompatibilità di talune disposizioni nazionali, relative alle attività stragiudiziali degli avvocati, con l’art. 49 CE. Le autorità italiane hanno risposto con lettera del 19 settembre 2005. 17. In seguito, la Commissione ha completato due volte l’analisi effettuata nella lettera di diffida. In una prima lettera di diffida supplementare, datata 23 dicembre 2005, la Commissione ha considerato incompatibili con gli artt. 43 CE e 49 CE le disposizioni italiane che stabiliscono l’obbligo di rispettare tariffe imposte per le attività giudiziali e stragiudiziali degli avvocati. 18. La Repubblica italiana ha risposto con lettere del 9 marzo, del 10 luglio nonché del 17 ottobre 2006, informando la Commissione della nuova normativa italiana applicabile in materia di onorari degli avvocati, ossia il decreto Bersani. 19. Con una seconda lettera di diffida supplementare, datata 23 marzo 2007, la Commissione, tenendo conto di questa nuova normativa, ha integrato ulteriormente la sua posizione. La Repubblica italiana ha risposto con lettera datata 21 maggio 2007. 20. Con lettera del 3 agosto 2007, la Commissione ha poi chiesto alle autorità italiane informazioni in merito alle modalità di rimborso delle spese sostenute dagli avvocati. La Repubblica italiana ha risposto con lettera del 28 settembre 2007. 21. Non essendo rimasta soddisfatta da tale risposta, il 4 aprile 2008 la Commissione ha trasmesso un parere motivato alla Repubblica italiana, adducendo che le disposizioni nazionali che impongono l’obbligo per gli avvocati di rispettare tariffe massime sono incompatibili con gli artt. 43 CE e 49 CE. Tale obbligo risulterebbe, in particolare, dalle disposizioni di cui agli artt. 57 e 58 del regio decreto legge, dall’art. 24 della legge 13 giugno 1942, n. 794, dall’art. 13 della legge 9 febbraio 1982, n. 31, dalle pertinenti disposizioni dei decreti ministeriali 24 novembre 1990, n. 392, 5 ottobre 1994, n. 585, e 8 aprile 2004, n. 127, nonché dalle disposizioni del decreto Bersani (in prosieguo, complessivamente: le «disposizioni controverse»). Essa ha invitato tale Stato membro ad adottare, entro un termine di due mesi dal ricevimento di tale parere, le misure necessarie per adeguarvisi. La Repubblica italiana ha risposto con lettera del 9 ottobre 2008. 22. Ritenendo che la Repubblica italiana non avesse rimediato all’infrazione addebitatale, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso. Sul ricorso Argomenti delle parti 23. Con il suo ricorso la Commissione addebita alla Repubblica italiana di aver previsto, in violazione degli artt. 43 CE e 49 CE, disposizioni che impongono agli avvocati l’obbligo di rispettare tariffe massime per la determinazione dei propri onorari. Rassegna Forense – 1/2011 109 Giurisprudenza costituzionale ed europea Tariffe massime forensi 24. Ad avviso della Commissione, detto obbligo deriva dal decreto Bersani che, pur abrogando le tariffe fisse o minime applicabili agli onorari degli avvocati, ha esplicitamente mantenuto l’obbligo di rispettare tariffe massime in nome della protezione dei consumatori. Tale interpretazione sarebbe peraltro confermata dal CNF, dal consiglio dell’ordine degli avvocati di Torino nonché dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nei rispettivi documenti ufficiali. 25. Il fatto che questo stesso decreto abbia abolito il divieto di stabilire contrattualmente compensi dipendenti dal conseguimento degli obiettivi perseguiti, ossia il cosiddetto «patto del quota lite», non può inficiare la conclusione che il rispetto di tali tariffe massime è ancora obbligatorio in tutti i casi in cui un siffatto patto non sia stato concluso. D’altronde, durante la fase precontenziosa, le autorità italiane non avrebbero mai negato l’obbligatorietà delle tariffe massime di cui trattasi. 26. Del pari, la Commissione sottolinea che le eccezioni previste per le tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati non escludono, ma anzi confermano, che le tariffe massime degli onorari si applicano in via generale. 27. La Commissione sostiene che le disposizioni controverse producono l’effetto di disincentivare gli avvocati stabiliti in altri Stati membri a stabilirsi in Italia o a prestarvi temporaneamente i propri servizi e, di conseguenza, configurano restrizioni alla libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 43 CE nonché alla libera prestazione dei servizi ai sensi dell’art. 49 CE. 28. Infatti, essa considera che un tariffario massimo obbligatorio, che si applichi indipendentemente dalla qualità della prestazione, dal lavoro necessario per effettuarla e dai costi sostenuti per attuarla, possa rendere il mercato italiano delle prestazioni legali non attraente per i professionisti stabiliti in altri Stati membri. 29. A giudizio della Commissione, tali restrizioni derivano, in primo luogo, dall’obbligo imposto agli avvocati di calcolare i propri onorari in base ad un tariffario estremamente complesso che genera un costo aggiuntivo, in particolare per gli avvocati stabiliti fuori dell’Italia. Nel caso in cui questi avvocati avessero utilizzato fino ad allora un diverso sistema di calcolo dei loro onorari, essi sarebbero obbligati ad abbandonarlo per adeguarsi al sistema italiano. 30. In secondo luogo, l’esistenza di tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati impedirebbe che i servizi degli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana siano correttamente remunerati dissuadendo taluni avvocati, i quali chiedono onorari più elevati di quelli stabiliti dalle disposizioni controverse, dal prestare temporaneamente i propri servizi in Italia, ovvero dallo stabilirsi in tale Stato membro. Infatti, secondo la Commissione, il margine di guadagno massimo è fissato indipendentemente dalla qualità del servizio prestato, dall’esperienza dell’avvocato, dalla sua specializzazione, dal tempo da lui dedicato alla causa, dalla situazione economica del cliente, e, ancor più, dall’eventualità che l’avvocato sia tenuto a spostarsi per lunghi tragitti. 31. La Commissione considera, in terzo luogo, che il sistema di tariffazione italiano pregiudichi la libertà contrattuale dell’avvocato impedendogli di fare offerte ad hoc in determinate situazioni e/o a clienti particolari. Le disposizio- 110 Rassegna Forense – 1/2011 Parte Seconda – Giurisprudenza ni controverse potrebbero dunque comportare una perdita di competitività per gli avvocati stabiliti in altri Stati membri perché esse privano gli stessi di efficaci tecniche di penetrazione nel mercato legale italiano. Di conseguenza, la Commissione ritiene che le disposizioni controverse costituiscano un ostacolo all’accesso al mercato italiano dei servizi legali per gli avvocati stabiliti in altri Stati membri. 32. In via principale, la Repubblica italiana contesta non l’esistenza, nell’ordinamento giuridico italiano, di dette tariffe massime, bensì il carattere vincolante delle medesime, sostenendo che esistono numerose deroghe per superare tali limiti, o per volontà degli avvocati e dei loro clienti, o tramite l’intervento del giudice. 33. Secondo tale Stato membro, il criterio principale che consente di fissare gli onorari degli avvocati risiede, a norma dell’art. 2233 del codice civile italiano, nel contratto concluso tra l’avvocato e il suo cliente, mentre il ricorso alle tariffe applicabili agli onorari degli avvocati costituisce soltanto un criterio sussidiario, utilizzabile in mancanza di compenso liberamente fissato dalle parti contrattuali nell’esercizio della loro autonomia contrattuale. 34. Inoltre, gli onorari calcolati su base oraria sarebbero espressamente previsti al punto 10 del capitolo III della deliberazione del CNF come metodo alternativo di calcolo degli onorari in materia stragiudiziale. 35. Del pari, in seguito all’adozione del decreto Bersani, il divieto di concludere un accordo tra cliente ed avvocato, che preveda un compenso dipendente dall’esito della controversia, sarebbe stato definitivamente abolito dall’ordinamento giuridico italiano. 36. Per quanto riguarda le deroghe alle tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati, la Repubblica italiana sottolinea che, in tutte le cause di particolare importanza, complessità o difficoltà per le questioni giuridiche trattate, gli avvocati e i loro clienti possono convenire, senza che sia necessario alcun parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente, che gli onorari vengano aumentati fino al doppio dei massimi di tali tariffe o anche, in materia penale, fino al quadruplo di tali massimi. 37. Il previo parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente sarebbe invece richiesto, in materia sia civile che stragiudiziale, nei casi di straordinaria importanza delle controversie, per aumentare il compenso fino al quadruplo dei massimi previsti nonché, in caso di manifesta sproporzione tra la prestazione professionale e l’onorario previsto dalle tariffe applicabili a tali onorari, per aumentare del pari gli onorari di cui trattasi anche oltre tali massimi. 38. In subordine, la Repubblica italiana sostiene che le disposizioni controverse non contengono alcuna misura restrittiva della libertà di stabilimento o della libera prestazione dei servizi e che gli addebiti della Commissione non sono fondati. 39. Infatti, per quanto riguarda i costi aggiuntivi, l’esistenza di una duplice normativa, ossia quella dello Stato membro d’origine e quella dello Stato membro ospitante, non potrebbe, di per sé, costituire un motivo che consenta di sostenere che le disposizioni controverse sono restrittive poiché le norme professionali in vigore nello Stato membro ospitante sarebbero applicabili agli avvocati provenienti da altri Stati membri in forza delle direttive del Par- Rassegna Forense – 1/2011 111 Giurisprudenza costituzionale ed europea Tariffe massime forensi lamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 77/249 e 98/5/CE, volte a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica (GU L 77, pag. 36), indipendentemente dalle norme applicabili nello Stato membro d’origine. 40. Per quanto attiene all’asserita riduzione dei margini di guadagno, le disposizioni controverse prevederebbero in modo dettagliato il rimborso integrale di tutte le spese di missione in base a documenti giustificativi e concederebbero inoltre un’indennità di trasferta per le ore di lavoro perse durante quest’ultima. Tali spese si aggiungerebbero ai diritti, agli onorari e alle spese generali degli avvocati e sarebbero rimborsate, in applicazione del principio di non discriminazione, tanto agli avvocati stabiliti in Italia, che devono spostarsi sul territorio nazionale, quanto agli avvocati stabiliti in altri Stati membri che devono spostarsi in Italia. Giudizio della Corte 41. In via preliminare, va constatato come dall’insieme delle disposizioni controverse emerga che le tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati costituiscono norme giuridicamente vincolanti in quanto sono previste da un testo di legge. 42. Pur supponendo che gli avvocati e i loro clienti siano, in concreto, liberi di pattuire contrattualmente il compenso degli avvocati su base oraria o a seconda dell’esito della causa, come fatto valere dalla Repubblica italiana, resta nondimeno il fatto che le tariffe massime continuano ad essere obbligatorie nell’ipotesi in cui non esista un patto tra gli avvocati e i clienti. 43. Peraltro, la Commissione ha giustamente considerato che l’esistenza di deroghe che consentano di superare, in presenza di determinate condizioni, i limiti massimi dell’importo degli onorari portandoli al doppio o al quadruplo o addirittura oltre, conferma che le tariffe massime degli onorari si applicano in via generale. 44. Di conseguenza, non può essere accolto l’argomento della Repubblica italiana secondo cui, nel suo ordinamento giuridico, non esiste alcun obbligo per gli avvocati di osservare tariffe massime per la determinazione dei loro onorari. 45. Per quanto riguarda, poi, l’esistenza di restrizioni alla libertà di stabilimento nonché alla libera prestazione di servizi, di cui rispettivamente agli artt. 43 CE e 49 CE, da una giurisprudenza costante emerge che siffatte restrizioni sono costituite da misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio di tali libertà (v., in tal senso, sentenze 15 gennaio 2002, causa C439/99, Commissione/Italia, Racc. pag. I-305, punto 22; 5 ottobre 2004, causa C-442/02, CaixaBank France, Racc. pag. I-8961, punto 11; 30 marzo 2006, causa C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, Racc. pag. I2941, punto 31, e 4 dicembre 2008, causa C-330/07, Jobra, Racc. pag. I9099, punto 19). 46. In particolare, la nozione di restrizione comprende le misure adottate da uno Stato membro che, per quanto indistintamente applicabili, pregiudichino l’accesso al mercato per gli operatori economici di altri Stati membri 112 Rassegna Forense – 1/2011 Parte Seconda – Giurisprudenza (v., in particolare, sentenze CaixaBank France, cit., punto 12, e 28 aprile 2009, causa C-518/06, Commissione/Italia, Racc. pag. I-3491, punto 64). 47. Nella specie, è pacifico che le disposizioni controverse si applichino indistintamente a tutti gli avvocati che forniscono servizi sul territorio italiano. 48. La Commissione ritiene, tuttavia, che tali disposizioni costituiscano una restrizione ai sensi degli articoli summenzionati, in quanto possono infliggere agli avvocati, stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana e che forniscono servizi in quest’ultimo Stato, costi aggiuntivi generati dall’applicazione del sistema italiano degli onorari nonché una riduzione dei margini di guadagno e dunque una perdita di competitività. 49. A tal riguardo, giova ricordare anzitutto che una normativa di uno Stato membro non costituisce una restrizione ai sensi del Trattato CE per il solo fatto che altri Stati membri applichino regole meno severe o economicamente più vantaggiose ai prestatori di servizi simili stabiliti sul loro territorio (v. sentenza 28 aprile 2009, Commissione/Italia, cit., punto 63 e giurisprudenza ivi citata). 50. L’esistenza di una restrizione ai sensi del Trattato non può dunque essere desunta dalla mera circostanza che gli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana devono, per il calcolo dei loro onorari per prestazioni fornite in Italia, abituarsi alle norme applicabili in tale Stato membro. 51. Per contro, una restrizione del genere esiste, segnatamente, se detti avvocati sono privati della possibilità di penetrare nel mercato dello Stato membro ospitante in condizioni di concorrenza normali ed efficaci (v., in tal senso, sentenza CaixaBank France, cit., punti 13 e 14; 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-11421, punto 59, nonché 11 marzo 2010, causa C-384/08, Attanasio Group, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 45). 52. Orbene, è giocoforza constatare che la Commissione non ha dimostrato che le disposizioni controverse abbiano un tale scopo o effetto. 53. Infatti, essa non è riuscita a dimostrare che la normativa in discussione è concepita in modo da pregiudicare l’accesso, in condizioni di concorrenza normali ed efficaci, al mercato italiano dei servizi di cui trattasi. Va rilevato, al riguardo, che la normativa italiana sugli onorari è caratterizzata da una flessibilità che sembra permettere un corretto compenso per qualsiasi tipo di prestazione fornita dagli avvocati. Così, è possibile aumentare gli onorari fino al doppio delle tariffe massime altrimenti applicabili, per cause di particolare importanza, complessità o difficoltà, o fino al quadruplo di dette tariffe per quelle che rivestono una straordinaria importanza, o anche oltre in caso di sproporzione manifesta, alla luce delle circostanze nel caso di specie, tra le prestazioni dell’avvocato e le tariffe massime previste. In diverse situazioni, inoltre, è consentito agli avvocati concludere un accordo speciale con il loro cliente al fine di fissare l’importo degli onorari. 54. Pertanto, non avendo dimostrato che le disposizioni controverse ostacolano l’accesso degli avvocati provenienti dagli altri Stati membri al mercato italiano di cui trattasi, l’argomentazione della Commissione, diretta alla constatazione dell’esistenza di una restrizione ai sensi degli artt. 43 CE e 49 CE, non può essere accolta. Rassegna Forense – 1/2011 113 Giurisprudenza costituzionale ed europea Tariffe massime forensi 55. Ne consegue che il ricorso dev’essere respinto. Sulle spese 56. A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Repubblica italiana non ha chiesto la condanna della Commissione alle spese, si deve decidere che ciascuna parte sopporti le proprie spese. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara e statuisce: 1) Il ricorso è respinto. 2) La Commissione europea e la Repubblica italiana sopportano le proprie spese. 114 Rassegna Forense – 1/2011 64. Sulla promozione commerciale diretta ad personam dei propri servizi (démarchage) da parte dei professionisti iscritti ad albi o collegi. Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, 5 aprile 2011, causa C-119/09 (Société fiduciaire nationale d’expertise comptable c. Ministre du Budget, des Comptes publics et de la Fonction publique) Il divieto previsto dal codice deontologico degli expertise comptable francesi di effettuare qualsiasi atto di «démarchage», ossia di promozione commerciale diretta e ad personam dei propri servizi, può essere considerato un divieto assoluto in materia di comunicazioni commerciali, precluso dalla «direttiva servizi» (2006/123/CE) (Omissis) 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 24 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 12 dicembre 2006, 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno (GU L 376, pag. 36). 2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Société fiduciaire nationale d’expertise comptable (in prosieguo: la «Société fiduciaire») e il Ministre du Budget, des Comptes publics et de la Fonction publique (Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Funzione pubblica), in merito a un ricorso diretto all’annullamento del decreto 27 settembre 2007, n. 1387, recante un codice di deontologia della professione di dottore commercialista/esperto contabile (JORF del 28 settembre 2007, pag. 15847), nella parte in cui vieta gli atti di «démarchage», cioè di promozione commerciale diretta e ad personam dei propri servizi. Contesto normativo La normativa dell’Unione 3. Ai sensi del secondo, del quinto e del centesimo ‘considerando’ della direttiva 2006/123: «(2) Una maggiore competitività del mercato dei servizi è essenziale per promuovere la crescita economica e creare posti di lavoro nell’Unione europea. Attualmente un elevato numero di ostacoli nel mercato interno impedisce ai prestatori, in particolare alle piccole e medie imprese (PMI), di espandersi oltre i confini nazionali e di sfruttare appieno il mercato unico. Tale situazione indebolisce la competitività globale dei prestatori dell’Unione europea. Un libero mercato che induca gli Stati membri ad eliminare le restrizioni alla circolazione transfrontaliera dei servizi, incrementando al tempo stesso la trasparenza e l’informazione dei consumatori, consentirebbe agli stessi una più ampia facoltà di scelta e migliori servizi a prezzi inferiori. [...] (5) È necessario quindi eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento dei prestatori negli Stati membri e alla libera circolazione dei servizi tra Stati Rassegna Forense – 1/2011 115 Giurisprudenza costituzionale ed europea Promozione commerciale del professionista membri nonché garantire ai destinatari e ai prestatori la certezza giuridica necessaria all’effettivo esercizio di queste due libertà fondamentali del trattato. [...] [...] (100) Occorre sopprimere i divieti totali in materia di comunicazioni commerciali per le professioni regolamentate, revocando non i divieti relativi al contenuto di una comunicazione commerciale bensì quei divieti che, in generale e per una determinata professione, proibiscono una o più forme di comunicazione commerciale, ad esempio il divieto assoluto di pubblicità in un determinato o in determinati mezzi di comunicazione. Per quanto riguarda il contenuto e le modalità delle comunicazioni commerciali, occorre incoraggiare gli operatori del settore ad elaborare, nel rispetto del diritto comunitario, codici di condotta a livello comunitario». 4. L’art. 4, punto 12, della direttiva 2006/123 prevede che, ai fini della medesima, si debba intendere per: «“comunicazione commerciale”: qualsiasi forma di comunicazione destinata a promuovere, direttamente o indirettamente, beni, servizi, o l’immagine di un’impresa, di un’organizzazione o di una persona che svolge un’attività commerciale, industriale o artigianale o che esercita una professione regolamentata. Non costituiscono, di per sé, comunicazioni commerciali le informazioni seguenti: a) le informazioni che permettono l’accesso diretto all’attività dell’impresa, dell’organizzazione o della persona, in particolare un nome di dominio o un indirizzo di posta elettronica, b) le comunicazioni relative ai beni, ai servizi o all’immagine dell’impresa, dell’organizzazione o della persona elaborate in modo indipendente, in particolare se fornite in assenza di un corrispettivo economico». 5. L’art. 24 della direttiva 2006/123, intitolato «Comunicazioni commerciali emananti dalle professioni regolamentate», ha il seguente tenore: «1. Gli Stati membri sopprimono tutti i divieti totali in materia di comunicazioni commerciali per le professioni regolamentate. 2. Gli Stati membri provvedono affinché le comunicazioni commerciali che emanano dalle professioni regolamentate ottemperino alle regole professionali, in conformità del diritto comunitario, riguardanti, in particolare, l’indipendenza, la dignità e l’integrità della professione nonché il segreto professionale, nel rispetto della specificità di ciascuna professione. Le regole professionali in materia di comunicazioni commerciali sono non discriminatorie, giustificate da motivi imperativi di interesse generale e proporzionate». 6. A norma degli artt. 44 e 45 della direttiva 2006/123, quest’ultima è entrata in vigore il 28 dicembre 2006 e doveva essere recepita dagli Stati membri entro il 28 dicembre 2009. La normativa nazionale 7. L’istituzione dell’Ordine dei dottori commercialisti/esperti contabili nonché il titolo e la professione di dottore commercialista/esperto contabile sono disciplinati dalle disposizioni del decreto 19 settembre 1945, n. 2138 (JORF del 21 settembre 1945, pag. 5938). Ai sensi del predetto decreto, i dottori commercialisti/esperti contabili hanno il compito precipuo di tenere e di con- 116 Rassegna Forense – 1/2011 Parte Seconda – Giurisprudenza trollare la contabilità di imprese e di organismi ai quali non sono vincolati da un contratto di lavoro. Essi sono abilitati ad attestare la regolarità e la veridicità dei risultati di esercizio e possono altresì prestare assistenza nella creazione di imprese ed organismi per quanto riguarda tutti i relativi aspetti contabili, economici e finanziari. 8. Fino all’adozione del decreto 25 marzo 2004, n. 279, recante semplificazione e adeguamento delle condizioni di esercizio di talune attività professionali (JORF del 27 marzo 2004, pag. 5888), agli esercenti la professione di dottore commercialista/esperto contabile era vietata qualsiasi pubblicità personale. Il decreto 30 maggio 1997, n. 586, relativo al funzionamento degli organi di autogoverno professionale dei dottori commercialisti/esperti contabili (JORF del 31 maggio 1997, pag. 8510), che specifica a quali condizioni i dottori commercialisti/esperti contabili possono ora ricorrere ad azioni promozionali, stabilisce, all’art. 7, che tali condizioni formeranno oggetto di un codice dei doveri professionali, le cui disposizioni saranno emanate sotto forma di decreto preceduto dal parere del Conseil d’État. 9. Pertanto, l’art. 23 del decreto n. 2138/1945 nonché l’art. 7 del decreto n. 586/97 sono le norme sulla cui base è stato adottato il decreto n. 1387/2007. 10. Ai sensi dell’art. 1 di quest’ultimo decreto: «Le norme deontologiche applicabili alla professione di dottore commercialista/esperto contabile sono fissate dal codice di deontologia allegato al presente decreto». 11. L’art. 1 del codice di deontologia della professione di dottore commercialista/esperto contabile dispone quanto segue: «Le disposizioni del presente codice si applicano ai dottori commercialisti/esperti contabili, qualunque siano le modalità di esercizio della professione, e, se del caso, ai dottori commercialisti/esperti contabili tirocinanti nonché ai dipendenti menzionati rispettivamente agli artt. 83 ter e 83 quater del decreto 19 settembre 1945, n. 2138, recante istituzione dell’Ordine dei dottori commercialisti/esperti contabili e disciplinante il titolo e la professione di dottore commercialista/esperto contabile. Ad eccezione di quelle che possono riguardare unicamente le persone fisiche, le disposizioni suddette si applicano parimenti alle società di revisione contabile e alle associazioni di gestione e di contabilità». 12. A norma dell’art. 12 di tale codice: «I – Ai soggetti di cui all’art. 1 è fatto divieto di intraprendere qualsiasi atto non richiesto al fine di proporre i propri servizi a terzi. La loro partecipazione a dibattiti, seminari o altre manifestazioni universitarie o scientifiche è autorizzata nei limiti in cui tali soggetti non compiano, in tale occasione, atti equiparabili a un “démarchage”. II – Le azioni promozionali sono consentite ai soggetti di cui all’art. 1 nei limiti in cui forniscano al pubblico un’informazione utile. I mezzi impiegati a tale fine vengono applicati con discrezione, in modo da non ledere l’indipendenza, la dignità e l’onore della professione, nonché le regole del segreto professionale e la lealtà verso i clienti e i colleghi. Rassegna Forense – 1/2011 117 Giurisprudenza costituzionale ed europea Promozione commerciale del professionista Quando presentano la loro attività professionale a terzi, con qualsiasi mezzo, i soggetti di cui all’art. 1 non devono adottare alcuna forma di espressione idonea a compromettere la dignità della loro funzione o l’immagine della professione. Tali modalità di comunicazione, come qualsiasi altra, sono ammesse soltanto a condizione che l’espressione sia decorosa e improntata a ritegno, che il loro contenuto sia privo di inesattezze e non sia tale da indurre in errore il pubblico e che siano prive di ogni elemento comparativo». Causa principale e questione pregiudiziale 13. Con ricorso proposto il 28 novembre 2007, la Société fiduciaire ha chiesto al Conseil d’État di annullare il decreto n. 1387/2007 nella parte in cui vieta il «démarchage», cioè gli atti di promozione commerciale diretta e ad personam dei propri servizi. Tale società considera che il divieto generale e assoluto di qualsiasi attività di «démarchage», previsto dall’art. 12-I del codice di deontologia della professione di dottore commercialista/esperto contabile, sia contrario all’art. 24 della direttiva 2006/123 e metta in grave pericolo l’attuazione di quest’ultima. 14. Il giudice a quo ritiene che un rinvio pregiudiziale sia necessario nella controversia dinanzi ad esso pendente, in quanto il divieto di «démarchage» imposto dal decreto impugnato, qualora fosse considerato contrario all’art. 24 della direttiva 2006/123, comprometterebbe seriamente l’attuazione di quest’ultima. 15. Ciò premesso, il Conseil d’État ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se la direttiva [2006/123] abbia inteso abolire, per le professioni regolamentate da essa contemplate, ogni divieto generale, qualunque sia la forma di pratica commerciale di cui trattasi, oppure se abbia lasciato agli Stati membri la possibilità di mantenere dei divieti generali per talune pratiche commerciali, quali il “démarchage”». (Omissis) 22. Ne consegue che la domanda di pronuncia pregiudiziale è ricevibile. Sulla questione pregiudiziale 23. Con la sua questione il giudice del rinvio chiede, sostanzialmente, se l’art. 24 della direttiva 2006/123 debba essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale la quale vieti agli esercenti una professione regolamentata, come quella di dottore commercialista/esperto contabile, di effettuare atti di promozione commerciale diretta e ad personam dei propri servizi («démarchage»). 24. In via preliminare, va rilevato che l’art. 24 della direttiva 2006/123, intitolato «Comunicazioni commerciali emananti dalle professioni regolamentate», sancisce due obblighi a carico degli Stati membri. Da un lato, l’art. 24, n. 1, esige che gli Stati membri sopprimano tutti i divieti assoluti in materia di comunicazioni commerciali delle professioni regolamentate. Dall’altro, il n. 2 del medesimo articolo obbliga gli Stati membri a provvedere affinché le 118 Rassegna Forense – 1/2011 Parte Seconda – Giurisprudenza comunicazioni commerciali che promanano dalle professioni regolamentate ottemperino alle regole professionali, conformi al diritto dell’Unione, riguardanti, in particolare, l’indipendenza, la dignità e l’integrità della professione nonché il segreto professionale, nel rispetto della specificità di ciascuna professione. Le suddette regole professionali devono essere non discriminatorie, giustificate da un motivo imperativo di interesse generale e proporzionate. 25. Al fine di verificare se l’art. 24 della direttiva 2006/123, e segnatamente il n. 1 di tale articolo, costituisca una norma destinata a proibire l’introduzione di un divieto di «démarchage» quale quello previsto dalla normativa nazionale in esame nella causa principale, occorre interpretare tale disposizione riferendosi non soltanto al suo tenore letterale, bensì anche alla sua finalità e al suo contesto nonché all’obiettivo perseguito dalla normativa di cui trattasi. 26. A tal riguardo, dal secondo e dal quinto ‘considerando’ della direttiva in parola emerge che quest’ultima mira ad eliminare le restrizioni alla libertà di stabilimento dei prestatori negli Stati membri e alla libera circolazione dei servizi tra Stati membri, al fine di contribuire alla realizzazione del mercato interno libero e concorrenziale. 27. La finalità dell’art. 24 di detta direttiva viene precisata nel centesimo ‘considerando’ di quest’ultima, dove si afferma che occorre sopprimere i divieti assoluti in materia di comunicazioni commerciali per le professioni regolamentate che, in generale e per una determinata professione, proibiscono una o più forme di comunicazione commerciale, segnatamente qualsiasi pubblicità in un determinato o in determinati mezzi di comunicazione. 28. Per quanto riguarda il contesto in cui si inscrive l’art. 24 della direttiva 2006/123, va ricordato che esso è contenuto nel capo V della medesima, intitolato «Qualità dei servizi». Orbene, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 31 delle sue conclusioni, tale capo, in generale, e il citato art. 24, in particolare, mirano alla salvaguardia degli interessi dei consumatori migliorando la qualità dei servizi delle professioni regolamentate nell’ambito del mercato interno. 29. Di conseguenza, tanto dalla finalità del predetto art. 24 quanto dal contesto in cui questo si inserisce risulta che, come giustamente sostenuto dalla Commissione europea, l’intenzione del legislatore dell’Unione era non soltanto di porre fine ai divieti assoluti, per gli esercenti una professione regolamentata, di ricorrere alla comunicazione commerciale, in qualunque forma, ma anche di eliminare i divieti di ricorso a una o più forme di comunicazione commerciale ai sensi dell’art. 4, punto 12, della direttiva 2006/123, quali, in particolare, la pubblicità, il marketing diretto e le sponsorizzazioni. Alla luce degli esempi contenuti nel centesimo ‘considerando’ della direttiva in parola, devono considerarsi quali divieti assoluti, preclusi a norma dell’art. 24, n. 1, della medesima direttiva, anche le regole professionali che proibiscono di fornire, nell’ambito di uno o più mezzi di comunicazione, informazioni sul prestatore o sulla sua attività. 30. Tuttavia, in forza dell’art. 24, n. 2, della direttiva 2006/123, letto alla luce del secondo periodo del centesimo ‘considerando’ di quest’ultima, gli Stati membri rimangono liberi di prevedere divieti relativi al contenuto o alle Rassegna Forense – 1/2011 119 Giurisprudenza costituzionale ed europea Promozione commerciale del professionista modalità delle comunicazioni commerciali per quanto riguarda le professioni regolamentate, purché le regole previste siano giustificate e proporzionate al fine di garantire in particolare l’indipendenza, la dignità e l’integrità della professione, nonché il segreto professionale necessario in sede di esercizio di quest’ultima. 31. Al fine di stabilire se la normativa nazionale controversa rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 24 della direttiva in parola, occorre anzitutto stabilire se il «démarchage» configuri una comunicazione commerciale ai sensi di tale articolo. 32. La nozione di «comunicazione commerciale» è definita all’art. 4, punto 12, della direttiva 2006/123 come comprensiva di qualsiasi forma di comunicazione destinata a promuovere, direttamente o indirettamente, i beni, i servizi o l’immagine di un’impresa, di un’organizzazione o di una persona che svolge un’attività commerciale, industriale, artigianale o che esercita una professione regolamentata. Tuttavia, esulano da tale nozione, in primo luogo, le informazioni che consentono l’accesso diretto all’attività dell’impresa, dell’organizzazione o della persona, quali un nome di dominio o un indirizzo di posta elettronica, nonché, in secondo luogo, le comunicazioni relative ai beni, ai servizi o all’immagine dell’impresa, dell’organizzazione o della persona elaborate in modo indipendente, in particolare qualora esse siano fornite senza corrispettivo economico. 33. Di conseguenza, come sostenuto dal governo olandese, la comunicazione commerciale comprende non soltanto la pubblicità classica, ma anche altre forme di pubblicità e di comunicazione di informazioni destinate all’acquisizione di nuovi clienti. 34. Per quanto riguarda la nozione di «démarchage», va rilevato che né la direttiva 2006/123 né alcun altro atto normativo dell’Unione contengono una definizione di tale nozione. Inoltre, la sua portata può variare negli ordinamenti giuridici dei diversi Stati membri. 35. Ai sensi dell’art. 12-I del codice di deontologia in esame nella causa principale, deve considerarsi atto di «démarchage» quello con il quale un dottore commercialista/esperto contabile prende contatto con un terzo, che non l’abbia richiesto, al fine di proporgli i propri servizi. 36. A tal riguardo, va evidenziato che, sebbene la portata esatta della nozione di «démarchage», ai sensi della normativa nazionale, non risulti dall’ordinanza di rinvio, il Conseil d’État, nonché tutti gli interessati che hanno presentato osservazioni alla Corte, considerano che il «démarchage» rientri nella nozione di «comunicazione commerciale», di cui all’art. 4, punto 12, della direttiva 2006/123. 37. Secondo la Société fiduciaire, il «démarchage» si definisce come un’offerta personalizzata di beni o di servizi rivolta a una determinata persona giuridica o fisica che non l’abbia richiesta. Il governo francese aderisce a tale definizione, pur proponendo di distinguere due elementi, ossia, da un lato, un elemento di movimento, che risiede nel fatto di prendere contatto con un terzo che non lo ha richiesto, e, dall’altro, un elemento di contenuto consistente nella trasmissione di un messaggio a carattere commerciale. Secondo tale 120 Rassegna Forense – 1/2011 Parte Seconda – Giurisprudenza governo, è questo secondo elemento che costituisce, in particolare, una comunicazione commerciale ai sensi della direttiva 2006/123. 38. Da tali elementi si evince che il «démarchage» costituisce una forma di comunicazione di informazioni destinata alla ricerca di nuovi clienti. Orbene, come dedotto dalla Commissione, il «démarchage» implica un contatto personalizzato tra il prestatore e il potenziale cliente, al fine di presentare a quest’ultimo un’offerta di servizi. Per tale motivo, esso può essere qualificato come marketing diretto. Di conseguenza, il «démarchage» rientra nella nozione di «comunicazione commerciale», ai sensi degli artt. 4, punto 12, e 24 della direttiva 2006/123. 39. La questione che si pone quindi è se il divieto di «démarchage» possa essere considerato un divieto assoluto in materia di comunicazioni commerciali ai sensi dell’art. 24, n. 1, di tale direttiva. 40. Dalla formulazione dell’art. 12-I del codice di deontologia oggetto della causa principale, nonché dalla «Griglia indicativa degli strumenti di comunicazione» predisposta dal Conseil supérieur de l’ordre des experts-comptables [Consiglio superiore dell’Ordine dei dottori commercialisti/esperti contabili], allegata alle osservazioni scritte del governo francese, risulta che, in forza della norma suddetta, gli esercenti la professione di dottore commercialista/esperto contabile devono astenersi da qualsiasi contatto personale non richiesto che possa essere considerato come un reclutamento di clientela o una proposta concreta di servizi commerciali. 41. Va constatato che il divieto di «démarchage», quale previsto dal citato art. 12-I, è concepito in modo ampio, poiché vieta qualsiasi atto di promozione commerciale diretta e ad personam dei propri servizi, a prescindere dalla sua forma, dal suo contenuto o dai mezzi impiegati. Pertanto, tale divieto comprende la proibizione di tutti i mezzi di comunicazione che consentono l’attuazione di questa forma di comunicazione commerciale. 42. Ne consegue che un siffatto divieto deve essere considerato come un divieto assoluto in materia di comunicazioni commerciali, proibito dall’art. 24, n. 1, della direttiva 2006/123. 43. Tale conclusione è conforme all’obiettivo di detta direttiva, che consiste, come ricordato al punto 26 della presente sentenza, nell’eliminare gli ostacoli alla libera prestazione dei servizi tra gli Stati membri. Infatti, una normativa di uno Stato membro che vieti ai dottori commercialisti/esperti contabili di procedere a qualsiasi atto di «démarchage» può ledere maggiormente i professionisti provenienti da altri Stati membri, privandoli di un mezzo efficace di penetrazione del mercato nazionale di cui trattasi. Un siffatto divieto costituisce pertanto una restrizione alla libera prestazione dei servizi transfrontalieri (v., per analogia, sentenza 10 maggio 1995, causa C-384/93, Alpine Investments, Racc. pag. I-1141, punti 28 e 38). 44. Il governo francese sostiene che il «démarchage» lede l’indipendenza dei soggetti esercitanti tale professione. A suo avviso, essendo i dottori commercialisti/esperti contabili incaricati di controllare la contabilità di imprese e organismi ai quali essi non sono vincolati da un contratto di lavoro, nonché di attestare la regolarità e la veridicità dei risultati di esercizio di tali imprese od organismi, è indispensabile che i suddetti professionisti non siano sospettati Rassegna Forense – 1/2011 121 Giurisprudenza costituzionale ed europea Promozione commerciale del professionista di alcuna compiacenza nei confronti dei loro clienti. Orbene, mediante una presa di contatto con il dirigente dell’impresa o dell’organismo interessati, il dottore commercialista/esperto contabile rischierebbe di modificare la natura del rapporto che deve abitualmente intrattenere con il suo cliente, ciò che dunque nuocerebbe alla sua indipendenza. 45. Tuttavia, come constatato al punto 42 della presente sentenza, la normativa di cui trattasi nella causa principale vieta totalmente una forma di comunicazione commerciale e rientra pertanto nell’ambito di applicazione dell’art. 24, n. 1, della direttiva 2006/123. Tale normativa è dunque incompatibile con la direttiva 2006/123 e non può essere giustificata in forza dell’art. 24, n. 2, di quest’ultima, anche se essa è non discriminatoria, fondata su un motivo imperativo di interesse generale e proporzionata. 46. Alla luce di tutte queste considerazioni, la questione deferita va risolta dichiarando che l’art. 24, n. 1, della direttiva 2006/123 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale la quale vieti totalmente agli esercenti una professione regolamentata, come quella di dottore commercialista/esperto contabile, di effettuare atti di promozione commerciale diretta e ad personam dei propri servizi («démarchage»). (Omissis) 122 Rassegna Forense – 1/2011