Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Nato, si può dire, con una cinepresa in mano, Steven Spielberg è uno dei pilastri di Hollywood. Ma da regista di film avveniristici che hanno cambiato la storia del cinema, si è fatto a poco a poco il custode di una tradizione (sentimentale, narrativa, visiva, musicale): con War Horse sigla un film su coraggio e innocenza nel quale spettacolarità e grandiosità hollywoodiane si sposano con il vecchio buon mestiere di un vecchio buon cinema e di un regista ormai capace di 'sussurrare ai cavalli' la parte da recitare. scheda tecnica durata: 146 MINUTI nazionalità: USA anno: 2011 regia: STEVEN SPIELBERG soggetto: MICHAEL MORPURGO sceneggiatura: LEE HALL fotografia: JANUSZ KAMINSKI montaggio: MICHAEL KAHN colonna sonora: JOHN WILLIAMS scenografia: RICK CARTER costumi: JOANNA JOHNSTON distribuzione: WALT DISNEY ITALIA interpreti: EMILY WATSON (Rosie Narracott), DAVID THEWLIS (Lyons), PETER MULLAN (Ted Narracott), NIELS ARESTRUP (Il nonno), TOM HIDDLESTON (Il capItano Nichols), JEREMY IRVINE (Albert Narracott), BENEDICT CUMBERBATCH (Il maggiore Stewart), TOBY KEBBELL (Il soldato Geordie), CELINE BUCKENS (Emilie), RAINIER BOCK (Brandt), PATRICK KENNEDY (Il tenente Waverly), GEOFF BELL (Il sergente Sam Perkins), ROBERT EMMS (David Lyons), DAVID KROSS (Gunther), STEPHEN GRAHAM (Il sergente Sam Perkins), NICOLAS BRO (Friedrich), LEONARD CAROW (Michael), RAINER BOCK (Brandt). Steven Spielberg Nato a Cincinnati il 18 dicembre 1946, è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense. I suoi genitori odiano la tv e pare gli proibiscano di andare al cinema, al massimo qualche cartone animato di tanto in tanto. E allora Steven Spielberg bambino, con una piccola super8, inizia a realizzare per conto proprio quei film che non può andare a guardare nelle sale cinematografiche. Forse questa è solo leggenda, ma è un fatto che negli anni dell'adolescenza, Spielberg gira decine di filmetti, esplorando ogni genere, dal western alla fantascienza. E fa sul serio. Infatti, una sua pellicola viene proiettata di fronte a un pubblico pagante e il giovane Spielberg ci guadagna ben 500 dollari. Un altro breve film, che realizza a tredici anni, vince un concorso per cineamatori. Dai piccoli film artigianali ai grandi successi, fino ai premi Oscar, il suo destino pare davvero segnato. Nato a Cincinnati, nell'Ohio, il 18 dicembre 1946, Steven Spielberg trascorre qualche anno nel New Jersey, per poi trasferirsi con la famiglia in Arizona, a Scottsdale. Mentre maneggia la sua super8, sogna Hollywood e appena può si sposta a Los Angeles, con l'intenzione di frequentare i corsi di cinema della University of Southern California. Anche se non supera i test per l'ammissione è proprio durante una retrospettiva organizzata dall'università che conosce una persona della quale resterà amico e collaboratore fino ad oggi, George Lucas. In quel periodo, Spielberg passa tutto il suo tempo libero a gironzolare intorno agli studi della Universal e i custodi, che lo credono un impiegato, lo lasciano entrare regolarmente. Nonostante questi piccoli stratagemmi, il regista deve aspettare che un suo cortometraggio, Amblin, vinca numerosi premi ai festival di Venice e Atlanta per essere notato da qualcuno e per ottenere finalmente un contratto proprio con la Universal, nella sezione televisiva. Spielberg nel 1971 dirige, sempre per la tv, Duel, che è comunque considerato il suo primo film a tutti gli effetti e che indubbiamente rappresenta per il regista il vero trampolino di lancio. La storia dell'automobilista in fuga dall'enorme autocisterna che lo tallona ha in sé molti degli elementi ricorrenti nella filmografia di Spielberg. Ci sono già il senso dello spettacolo, la capacità di mantenere viva la tensione e soprattutto la rappresentazione della quotidianità nella quale s'inserisce improvvisamente un elemento di disturbo, l'autotreno in questo caso: ma più avanti compariranno squali, dinosauri e soprattutto alieni. Nel 1974, Spielberg realizza Sugarland Express, ispirato a un fatto di cronaca, che racconta la fuga di un evaso e di sua moglie attraverso il Texas e l'anno successivo dirige Lo squalo, il suo primo film a largo budget e con una vastissima campagna pubblicitaria. Nonostante i mille e più imprevisti che rendono difficile la lavorazione, dai problemi climatici ai 'capricci' dello squalo meccanico (che affonda e addirittura esplode durante le riprese) il film è un successo strepitoso, che permette al regista di sviluppare alcuni suoi progetti precedenti piuttosto ambiziosi, come Incontri ravvicinati del terzo tipo. Con questo film, Spielberg rivoluziona le regole del genere fantascientifico, dandoci una visione 'umanizzata' degli alieni. Dopo 1941: allarme a Hollywood, che riceve un'accoglienza piuttosto tiepida, Spielberg torna campione d'incassi nel 1980 con I predatori dell'arca perduta, interpretato da Harrison Ford nei panni dell'avventuroso archeologo che tornerà sugli schermi anche nel 1984 in Indiana Jones e il tempio maledetto e poi nel 1989 con Indiana Jones e l'ultima crociata. Sul set de I predatori dell'arca perduta, Spielberg conosce l'attrice Kate Capshaw, che nel 1991 diventa sua moglie. Dopo la realizzazione del primo capitolo della saga di Indiana Jones, Spielberg torna alla fantascienza e soprattutto alla sua idea di cinema come rappresentazione del fantastico, del sogno, della fantasia. Nasce la favola di E.T - L'extraterrestre e la storia del piccolo alieno abbandonato per caso sulla terra commuove il pubblico di tutto il mondo e polverizza ogni record d'incassi della storia del cinema. Nel 1986, Spielberg porta sullo schermo la versione cinematografica di un romanzo di Alice Walker, Il colore viola, con un cast interamente composto da attori di colore, tra cui spicca Whoopi Goldberg. L'anno successivo, con L'impero del sole racconta l'occupazione giapponese di Shangai e tutta la vicenda è narrata attraverso lo sguardo di un bambino, costretto in campo di prigionia. Dopo la parentesi romantica di Always - Per sempre, il regista dirige nel 1992 Hook - Capitan Uncino, con un Peter Pan ormai adulto che non rinuncia a sognare. Un anno dopo, Jurassic park fa scoppiare quasi ovunque la 'moda' dei dinosauri, ma Spielberg, prima ancora di terminare le fasi della post produzione, si lancia nell'avventura di Schindler's list. Così, il regista più fantasioso di Hollywood, abbandona il cinema ludico e sognatore per raccontarci la storia di Oskar Schindler e mostrarci, attraverso la sua vicenda, l'orrore dell'olocausto e dei campi di concentramento. Il film salda il conto aperto di Spielberg con l'Academy Award (più volte nominato non aveva mai vinto nulla) regalandogli le statuette per il miglior film e per il miglior regista. Un altro Oscar come miglior regista arriva nel 1998 per Salvate il soldato Ryan, realizzato dopo i meno fortunati Jurassic park - Il mondo perduto e Amistad. Nel 2001, Spielberg ottiene un nuovo strepitoso successo con A.I.-Intelligenza artificiale, progetto del genio Kubrick attraverso il quale il regista omaggia l'amico e maestro e ci regala ancora una volta una storia commovente e piena di dolcezza, con un bambino (un automa per la precisione, ma che importa, anche lui ha un sogno nel suo cuore meccanico) come protagonista. Dopo aver realizzato Minority report, poliziesco ambientato nella Washington del futuro, Steven Spielberg ha girato Prova a prendermi, tratto dall'autobiografia del più giovane ricercato dall'Fbi, con Leonardo Di Caprio nel ruolo principale, per tornare alla fantascienza con il remake del classico anni '50 La guerra dei mondi e alle proprie radici affrontando con Munich uno degli episodi più drammatici del popolo israeliano degli ultimi decenni, il sequestro e l'uccisione di alcuni atleti della Stella di David durante le Olmipiadi tedesche del 1972. Tra gli uomini più potenti di Hollywod, dalla metà degli anni Ottanta Spielberg è anche produttore di film di successo come Ritorno al futuro e di seguitissime serie tv, una tra tutte E.R. - Medici in prima linea. La parola ai protagonisti Intervista a Steven Spielberg Come mai un altro film di guerra? Anche se sembra un paradosso, per me War Horse non e’ un vero film di guerra. Di combattimenti ci sono sì e no 15 minuti. Volevo raccontare la storia in modo onesto. Ma a differenza di Salvate il soldato Ryan non volevo esplorare la guerra. E’ un film sulla profonda connessione che può esistere fra gli animali, creature semplici, genuine, istintive e senza sovrastrutture, e gli esseri umani. Il cavallo Joey porta con sé la speranza, anche in un periodo così buio. Non a caso nella sua odissea unisce soldati che combattono sotto diverse bandiere. Ammetto che c’è una certa mitologia, e non certo il realismo di altri miei lavori. Rappresenta la maniera in cui vorrei che andasse il mondo, non quella in cui veramente va. Cosa è successo allo Spielberg delle creature feroci e selvagge come squali e velociraptor? (ride) Si è imborghesito….ma non pensa che era ora che facessi dei film per famiglie, che possono vedere tutti senza fare salti sulla sedia? Com'è nato War Horse? Katkleen Kennedy che è la mia produttrice da sempre, e quindi mi conosce bene, mi ha consigliato di andare al New London Theatre nel West end a vedere questa commedia. Avevo un buon feeling perché molti anni fa a Londra avevo scoperto Sam Mendes, un regista di teatro che non sapeva di essere anche un potenziale regista di cinema, e gli avevo affidato la sceneggiatura di American Beauty che poi vinse l’oscar. Ma non divaghiamo: in un paio di punti di War horse sono scoppiato a piangere come un bambino. E incredibilmente i diritti erano liberi, e anche io… Ma non stava giaàgirando Tintin? Sì, ma avevo appena fatto le motion capture degli attori, per cui c’era da fare un lungo lavoro di postproduzione per trasformare le immagini in animazione, e se ne sarebbe occupato Peter Jackson con la sua Weta in Nuova Zelanda. Insomma, avevo una finestra di circa 9 mesi liberi. Mi è sembrato un segno del destino. Come mai un film con i cavalli? Sono animali bellissimi, e questo lo sapevo, ma anche molto sensibili. In qualche misterioso modo, captano l’energia di chi li circonda, e si adattano al loro umore. So che può apparire ridicolo quello che sto dicendo, ma hanno perfino improvvisato delle scene non previste, seguendo la recitazione dei loro partner umani. Come comunicava con loro? Attraverso il trainer Bobby Lovgrer, cioe’ “the horse whisperer” (come nel film ‘L’uomo che sussurrava ai cavall’i, n.d.a.), che ha un team eccezionale, assemblato in tutto il mondo, Spagna, Austalia, Inghilterra, Irlanda e America. Per essere sicuro ho fatto lo storyboard e le previsualizzzaioni di tutte le scene del film, in modo che lui mi dicesse cosa un cavallo poteva ragionevolmente fare e cosa no. Siamo riusciti a realizzare l’85% di quello che volevamo. Quanti cavalli ha usato? In tutto il film circa 300. Solo per la parte di Joey, 14 diversi. Ma il vero attore era uno, Finder, una star, era stato anche in Seabiscuit, Le avventure di Zorro e altri film. Avere invece scelto Jeremy Irvine, un esordiente come protagonista, non è stato rischioso? Ho fatto provini a centinaia di ragazzi fra i 17 e i 21 anni, e Jeremy ne ha superati ben 5. Era perfetto. Non ho paura degli esordienti: lo era anche Christian Bale quando l’ho scelto per L’impero del sole. E Drew Barrymore in E.T. Non hanno fatto una cattiva riuscita, no? Ci sono pochi effetti speciali, come c’è riuscito? E’ un film all’antica, come quelli che si facevano una volta, fra gli anni Quaranta e i Sessanta. E ci ho messo omaggi ai miei registi epici preferiti, John Ford, David Lean, Akira Kurosawa, Howard Hawks, Raoul Walsh, Victor Fleming. D’altronde non è un caso, né un segreto, il fatto che prima di girare ogni nuovo progetto io riveda, per ispirazione e sintonia, sempre gli stessi quattro capolavori: Lawrence d’Arabia, I sette samurai, La vita è meravigliosa, Sentieri selvaggi… Ricapitolando: 300 cavalli, 750 membri della troupe e 5800 comparse. Un vero kolossal. Di cosa è più fiero? Di averlo girato in 63 giorni, senza sforare nemmeno di uno. E di aver speso solo 65 milioni di dollari, tre meno del previsto. L’esperienza è l’unico vantaggio dell’invecchiare… La sua vocazione di storico non si è ancora placata. Ha gia’ girato un altro film, Lincoln, sul sedicesimo presidente degli Stati Uniti e sulla guerra civile, protagonista Daniel Day Lewis… Amo la storia. In questo mi sento molto europeo, perché so riconoscere e difendo le nostre radici. Sa chi è un altro grande appassionato? Peter Jackson. Mi ha messo a disposizione la sua collezione di armi, uniformi e souvenir della prima guerra mondiale. Ha perfino due biplani, tipo quelli del barone Rosso, che però non mi servivano. Ma mi ha spedito sei container dalla Nuova Zelanda a Londra, e a spese sue. Un vero amico. Quali sono i temi di War Horse? Il film parla dei sacrifici che si compiono per amore, i sacrifici di un ragazzo in tempo di guerra che cerca strenuamente di ritrovare il suo cavallo, e i sacrifici di un cavallo che lotta per la sopravvivenza in un periodo buio della storia. Nonostante la separazione, i loro destini restano sempre intrecciati. Penso che la storia sia affascinante, ne sono rimasto conquistato. Spero che il pubblico condivida questa esperienza emozionante, il cui messaggio d’amore potrà essere apprezzato in tutti i paesi del mondo. War Horse si basa proprio sul concetto di coraggio, sull’idea di agire non solo per se stessi ma per il bene di chi si ama. Questo tema emerge continuamente e in vari modi nella storia. Albert e Joey credono fermamente l’uno nell’altro. Tutto inizia quando insieme cercano di arare un campo sassoso e infertile nel Devon, prima della guerra. Questa impresa stabilisce una profonda sinergia ed una collaborazione empatica fra il cavallo e il ragazzo; anche quando vengono separati dalla guerra, il pubblico sa che prima o poi sono destinati a rivedersi. E quando questo accade, improvvisamente, dopo tante peripezie, sarà meraviglioso”. Qual è il significato della scelta di far ruotare una storia di questo tipo attorno a un animale? Il film non si schiera con nessuno, non discrimina i buoni dai cattivi. Il senso della storia è il modo in cui i personaggi si relazionano al cavallo. I cavalli non hanno idee politiche; si preoccupano principalmente di svolgere le loro mansioni. E questo è ciò che rende la storia tanto umana nonostante lo sfondo della guerra. Vivo con i cavalli da 15 anni e so quanto possano essere espressivi. Ma spesso i film non si soffermano ad esplorare i sentimenti dei cavalli. Nei film di ‘Indiana Jones’, ad esempio, il mio lavoro è stato quello di concentrarmi sul protagonista e non sul suo fido destriero. Ma durante la lavorazione di War Horse, sono rimasto stupefatto dalle reazioni emotive dei cavalli. Nella versione teatrale i pupazzi riuscivano a trasmettere le emozioni dei cavalli alla gente perché erano pupazzi, ma io volevo riuscire a farlo utilizzando animali veri nel film. Come si è svolto il lavoro con i cavalli? Bobby e la sua squadra hanno letteralmente fatto miracoli. Fin dall’inizio ho chiarito che la cosa che mi premeva di più era che gli animali godessero della massima sicurezza. Adoro i cavalli e non volevo che fossero maltrattati in nessun modo. Bobby è stato fantastico e Barbara Carr, che rappresenta la American Humane, ha supervisionato ogni singola ripresa. Le ho dato la totale facoltà di interrompere le scene in cui, a suo avviso, gli animali non erano in grado di svolgere i compiti assegnati o in cui potevano essere sottoposti a qualche rischio. Ha assistito a tutte le scene d’azione e alle acrobazie compiute dagli animali, e ha partecipato alle prove in cui abbiamo seguito in slow motion tutti le fasi dell’azione affinché lei avesse l’ultima parola su ciò che poteva o non poteva essere fatto. Quello che mi interessava era che per il pubblico fosse chiaro che anche i cavalli recitano, alla stregua di Emily Watson o di Peter Mullan. Sono rimasto colpito nel vedere le loro reazioni. Hanno dato tutto di sé, in ogni singola scena. Da un punto di vista organizzativo, per prevenire eccessive difficoltà sul set era importante che tutti, specialmente gli addestratori e i cavalieri, vedessero con i propri occhi cosa dovevano fare. Volevo che la Humane Association, gli stunt e gli addestratori si avvalessero della previsualizzazione per poter esprimere il loro giudizio sulla sicurezza e sulla fattibilità. Si trattava di preparare bene la scena e di renderla sicura per i cavalli. In una scena, abbiamo fatto correre i cavalli attraverso le tende. Abbiamo utilizzato lo sgancio e l’autoscatto per far cadere le tende al passaggio dei cavalli, senza intralciarli in alcun modo. Abbiamo usato anche tavoli con parti componibili, che si rompevano facilmente, nonché sedie di polistirolo, e con i giusti effetti sonori, sembrava che i cavalli vi passassero attraverso. Janus Kaminski: note sulla fotografia Il regista e direttore della fotografia polacco Janus Kaminski, vincitore di due Oscar (per Schindler's List e Salvate il soldato Ryan, più una nomination per Amistad) ha lavorato con Spielberg per ben quindici dei suoi film. Il loro ultimo film insieme, War Horse, li riporta a quelle collaborazioni epiche, da Oscar: si tratta di cinema magistrale, nel bene o nel male, le scene di battaglia sono straordinarie, e il sentimentalismo del film è meno una lacuna che un obiettivo esteticamente raggiunto – un obiettivo che la lente di Kaminski ha aiutato Spielberg a perfezionare film dopo film. Il direttore della fotografia ci parla dello sviluppo del loro linguaggio comune. Qual è stato il primo film di Steven Spielberg che ricorda di aver visto? So che era The Sugarland Express. Ero ancora in Polonia. E poi ha fatto Duel. Il primo mi era piaciuto perché rifletteva l'America che conoscevo dai film. Aveva questa qualità prima: la libertà, la stravaganza, un mondo pieno di gente strana. E la mia percezione dell'America si è costruita sui film americani. La censura in Polonia ha permesso ai grandi film realizzati negli Stati Uniti di essere visti dal pubblico polacco, perché a quel tempo l'America faceva autocritica attraverso il cinema. Così la censura polacca li ha accolti, perché si riteneva che mostrassero gli aspetti decadenti, immorali dell'America. Ma per noi, era solo la terra della libertà. Se si poteva mettere in discussione il governo, allora si era già liberi. Dopo 15 film con Spielberg, quali sfide restano? E come si evolve la vostra relazione? Si evolve perché ognuno di quei film è una storia diversa. E le sfide sono grandi, perché gli aspetti produttivi sono sempre difficili. E i film sono sempre più grandi in termini produttivi e più complicati da realizzare, in particolare quelli di intrattenimento. Quando ho fatto Minority Report, ho pensato che quello fosse il più film più grande cui avessi mai partecipato. E poi, invece, abbiamo girato La guerra dei mondi, che era ancora più grande. E poi Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, che era ancora più grande. Così, facendo un film come War Horse, che è complesso ma meno di azione e più di narrazione, è stato molto gratificante. E ora stiamo facendo Lincoln, che è praticamente privo di azione. Che tipo di comunicazione avete sviluppato per affrontare queste sfide ogni volta così diverse? Abbiamo una specie di preveggenza: sappiamo in anticipo che cosa succederà. Sappiamo in che direzione andare. Se qualcosa mi sembra davvero buono, so che sarà buono anche per Steven. In particolare gli angoli di ripresa: se entriamo in questa stanza, è logico girare da questa direzione. Certe cose si sanno. So come andare incontro ai desideri del regista, e come prevenire sprechi di tempo. Il tempo è sempre un grosso problema, ma ormai la nostra sintonia è ben rodata. In che modo la preponderanza della CG o il 3-D hanno influenzato e modificato il suo mestiere? Non lo hanno fatto, perché non ho mai girato un filmato in digitale, e non ho mai fatto film in 3-D. Noi lavoriamo sempre in pellicola. Penso che il 3-D si stia rivelando meno popolare di quel che sembrasse all'inizio. Il digitale invece sarà una realtà per noi molto presto, perché smetteranno di produrre la pellicola. Dovremo adattarci al digitale, che non sarà mai come la pellicola: è un linguaggio diverso, un'estetica diversa. Spielberg usa un tipo di ripresa che è come un marchio di fabbrica: la carrellata sul primo piano, che ha attraversato tutti i suoi film nel corso dei decenni. Un sacco di registi uso quel tipo di ripresa, ma c'è qualcosa di diverso quando a usarla è Spielberg. Che cos'è? Penso che siano le emozioni. Lo fa solo al momento giusto, quando vuole evocare quelle emozioni. È il motivo del suo successo: tutti possiamo identificarci con quelle emozioni, e possiamo davvero vedere chiaramente quelle emozioni sullo schermo attraverso quelle carrelllate. Ma non è solo una carrellata, è studiata posizione dopo posizione. Lui poi è speciale anche nei campi lunghi, nelle riprese particolarmente ampie, dove si hanno esplosioni o effetti speciali. Gli piace dare al pubblico quel che succede in una sola ripresa, proprio di fronte a voi, senza modifica. Perché in fondo, quando monti, stai barando. E il pubblico non si rende conto di quanto i modi della cinematografia influiscano sulla trasmissione dell'emozione, giusto? Beh, di solito gli spettatori non arrivano ad esserne consapevoli, ma sanno quando qualcosa li muove emotivamente. Non possono individuare l'esatto processo. Ma conoscono il potere d'impatto delle immagini. Da dove nasce la vostra sintonia, oltre che dalla consuetudine a lavorare insieme? Abbiamo una visione simile di come raccontare le storie. Lui lavora con gli attori e con il linguaggio verbale mentre io lavoro con le ombre e con il linguaggio non verbale. Non parliamo quasi mai di come sarà il film. Parliamo brevemente solo di alcuni effetti; in questo caso abbiamo fatto ricorso a un tipo di composizione che ricorda quella di John Ford e l’importanza che i personaggi siano parte della terra ma che le diano anche una forma. Questo si riflette nello stile. Che stile ha adottato in War Horse? In War Horse ho usato una luce potente perché volevo vedere il cielo azzurro, le nuvole vaporose e la gente che si staglia contro il paesaggio. Per via della costante imprevedibilità del tempo abbiamo dovuto adattare il nostro stile di ripresa per cercare di trarne un vantaggio, utilizzando la pioggia, le nuvole, il sole improvviso, per rendere il film migliore. Per me questo film è stato un’esperienza molto interessante perché ho potuto creare ambienti diversi. Alcune scene consentivano una bella fotografia, altre richiedevano il massimo realismo. Alla fine, quando il cavallo e il ragazzo ritrovano la famiglia, ho reso omaggio a Via col vento: il cielo era rosso cremisi, i colori quelli di un fumetto e si percepisce che il loro viaggio si sta avvicinando al glorioso momento del ritrovamento. Recensioni Mariuccia Ciotta. Il Manifesto «I miei primi ricordi sono immagini confuse di verdi colline e umide stalle buie, con i topi che correvano sopra la mia testa...» parla cavallo Joey, puledro inglese per metà purosangue, voce narrante del romanzo di Michael Morpurgo (1982) che ha ispirato Steven Spielberg per il suo kolossal candidato all'Oscar, dopo il successo sul palco del National Theatre di Londra. Non siamo nella favola né in un panteismo fantastico, il punto di vista è un riflesso umano, l'occhio specchiato in un sé che lievita fuori dal corpo, si alza sulle trincee della Grande guerra e ci dice l'innominabile paesaggio di dieci milioni di vittime. L'animale guarda l'uomo, è sentinella della sua moralità, attraverso quell'abisso che li separa, passando da Agamben a John Berger, sconfinando in The True Life Adventures, la disneyficazione della natura tanto temuta, fino allo sguardo assorto della capra di Michelangelo Frammartino. Spielberg si è tuffato nel vuoto con il cavallo Joey, restio a saltare una siepe e poi sacra ombra volante sulle rovine della battaglia, apparizione angelicata che attraversa le linee nemiche. War Horse è una follia, un'amazing story in controcorrente con i tempi del cinismo, il ritorno indietro nella storia per riscriverla come fanno Eastwood e Scorsese, alla ricerca del punto di rottura. E di Hugo Cabret c'è la spiritualità volteggiante nei fotogrammi di Méliès, l'energia di una passione disumana, tra esseri incompatibili, il cinema che genera creature del desiderio, oggetti e bestie parlanti. Disarmante racconto di un paradiso in terra nascosto sotto le divise, nel fango, tra le baionette, il film torna a misurare il diametro del mondo come sanno fare soltanto E.T., l'automa bambino di A.I. e il puledro color ebano con una stella bianca sulla fronte. Trasferire il cinema classico, l'epopea western nelle vallate spielberghiane sotto il «segno rosso del coraggio» di un cartoon è l'impresa di War Horse che evoca l'episodio di Twilight Zone quando l'aero materico sta per schiantarsi al suolo e due ruote disegnate per l'occasione spuntano all'improvviso. Il viaggio lungo i set, dalla campagna selvaggia del Devon ai dolci panorami francesi, dall'Inghilterra luminosa al buio nebbioso del Fronte occidentale, è un roller coaster a velocità alternata attraverso i generi, notte e giorno, delusione e promessa. Crudele quanto il proprietario terriero, e dolcemente poetico, War Horse racconta la prima guerra mondiale, la carneficina che fa da prequel allo sbarco in Normandia, e ci trascina come il fantasma dickensiano nel passato-presente, issati sul cavallo Joey innamorato del ragazzo Albert (l'esordiente Jeremy Irvine), che lo doma e l'addestra, dopo che il burbero padre contadino (Peter Mullan) in delirio alcolico (è reduce dai massacri di boeri in Sudafrica) lo ha acquistato a un'asta. Joey non è cavallo da traino, non sa dissodare un campo, è un dandy, ma Albert gli insegnerà a sfidare il terreno pietroso e i cannoni tedeschi. «Requisito» dalla cavalleria inglese, destriero amato da un radioso ufficiale (Tom Hiddleston, il Fitzgerald di Woody Allen), Joey, dopo una serie di durissime prove di resistenza, perderà uno a uno i suoi cavalieri, compreso una bimba francese malata, Emilie (l'esordiente Celine Buckens, suo nonno è il celebre attore francese Niels Arestrup), e due ragazzini tedeschi disertori in una sequenza da Schindler's List, straziante fucilazione dei due piccoli, che come Walt si arruolarono barando sull'età. L'odissea del cavallo che passa di mano in mano è fiancheggiata da quella di Albert, anche lui in guerra, e che assiste al passaggio dalla cavalleria con le sue cariche romantiche, spada in pugno, coreografie danzanti alla Kurosawa (riviste in stile Avatar da da Rick Carter), all'artiglieria automatica. La leggerezza del tratto, un prologo color pastello (direttore della fotografia Janusz Kaminski, storico collaboratore di Spielberg) si sciolgono nel piombo degli scenari bellici, nelle fosse affumicate di gas letale che rendono quasi cieco Albert, prima del grande, magico rendez-vous in una scena orchestrata secondo l'Atlanta in fiamme di Via col vento. La temperatura di questa sinfonia spericolata (musiche altisonanti di John Williams) dall'innocenza estrema si alza nel duetto tra due soldati nemici accorsi a «salvare il cavallo Joey» intrappolato nel filo spinato. Nell'incontro tra l'inglese e il tedesco in mezzo al fuoco incrociato, sagome nere nel bagliore notturno chine gioiosamente sull'animale ferito, e lo scambio malinconico di auguri - «stai con la testa giù» - c'è tutto Spielberg, il ricordo del più sanguinoso conflitto dell'umanità, il fraterno dolore dei sacrificati al macello, e una vita perduta in comune, accarezzata per un istante. Natalino Bruzzone. Il Secolo XIX War Horse di Steven Spielberg, dal 17 febbraio nelle sale, fa la sua scelta rigorosa e priva di equivoci: raccontare con l’epicità di una volta e nel segno di una leggendaria classicità hollywoodiana che ha il coraggio contemporaneo di trattare emozioni, situazioni e sentimenti per quelli che sono, senza il filtro di uno straniamento così caro ai chierici sciocchi della modernità a qualsiasi costo. Così War Horse divide, attira lapidazioni pseudo-estetiche, riceve feroci stroncature e paga pegno per la presenza produttiva della Walt Disney che per qualcuno sarebbe solo l’incontrollata garanzia di morale zuccherosa. È nutrito il gruppo di chi scaglia la prima pietra dimenticando il consumato peccato di scaldare pentoloni di brodo di giuggiole per promuovere le ambizioni sbagliate di autori presuntosi e tediosi, incapaci assolutamente di essere simili a Spielberg anche nell’atto di lavarsi i denti ogni santa mattina. Certo, War Horse è una favola, mica si presenta e si contrabbanda per un’opera d’avanguardia, proprio come “Hugo” di Martin Scorsese. Se “Hugo” ha il cinema dei pionieri come bussola e metronomo, War Horse metabolizza il magistero di John Ford e di David Lean, spazia nel paesaggio, usa albe e tramonti per narrare l’amicizia, fra il ragazzo Albert e il puledro Joey, nata nella campagna inglese del Devon e proseguita nella Francia delle trincee del massacro quando allo scoppio della guerra, nel 1914, il padre del giovane vende il quadrupede all’esercito per evitare di perdere la fattoria assediata dai debiti. Da quel momento e sino alle campane della pace Joey dovrà farcela da solo, senza chi lo ha allevato con l’amore e la fedeltà di un “fratello”. Va alla carica contro le mitragliatrici tedesche, finisce prigioniero degli Unni, fugge, incontra una dolce adolescente con nonno, ricade in mano ai soldati del Kaiser sino a che il miracolo non si compie sia per lui sia per Albert in divisa e alla sua ricerca tra un assalto alla baionetta e l’attacco dei gas. C’è un episodio indimenticabile in War Horse: Joey corre sul campo di battaglia tra i due schieramenti, sfida l’insidia di un carroarmato sino a restare impigliato nei reticolati, costringendo così un militare del re e uno del Kaiser a qualche minuto di spaesante e irreale tregua per liberare la povera bestia sanguinante. Una sequenza, resa da movimenti di macchina e da luci espressioniste, che ribadisce il pacifismo di Spielberg rivolto alle convulsioni di una mattanza assurda e di una missione da onorare come in “Salvate il soldato Ryan”. War Horse, cavato dalle pagine dell’omonimo best seller di Michael Morpurgo, è Spielberg nella sua essenza più vera per il fulgore turgido dei fotogrammi e della colonna sonora , più intima per qualità di ispirazione e vocazione , più ricamata nel rapporto tra “diversi” come in “E.T.”. E poi, per chi non se ne fosse accorto, la regia ha approntato un allestimento basato sul doppio, nella contrapposizione e nel confronto di caratteri e sviluppi narrativi: persino Joey ha il suo alter ego nel nero mantello di Topthorn, il purosangue per il quale sa anche sacrificarsi nel trascinare il peso dei cannoni. Joey non è antropomorfo come gli animali dei cartoni Disney, ma possiede un’anima, una volontà e uno spirito che lampeggiano dagli slanci e dagli occhi. In quasi 150 minuti di proiezione Spielberg non smarrisce un battito di ciglia del ritmo, non spreca una carrellata su uomini e ambienti, costruisce un poemetto simbolico che può incantare qualsiasi tipo di platea, ma non quella dell’intellettualismo sprezzante o del radicalismo chic che gli rimprovera persino un surplus di retorica patriottica legata all’insistenza con la quale compare il vecchio vessillo del reggimento del padre di Albert nella campagna d’Africa contro i Boeri. Schiettamente popolare e felicemente epico nella sua dimensione di cantastorie, Spielberg, comunque, dispensa anche riferimenti colti, ma insiste sul proprio modo di intendere, vivere, respirare, pensare e realizzare cinema. L’avventura e il melodramma sono i suoi avvincenti modelli d’intrattenimento e, perché no, di rispetto per un pubblico che sa sempre che cosa aspettarsi da Spielberg persino nella sincerità dell’imperfezione e nel sovradosaggio degli effetti. War Horse è il suo “Via col vento” in un’epoca in cui l’algida tecnologia rischia di soffocarci. Chapeau e un inchino di gratitudine. Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa È probabile che War Horse , candidato all’Oscar in sei categorie fra cui il miglior film, non passerà alla storia come uno Spielberg maggiore; e però, bisogna riconoscere che il bestseller per ragazzi di Michael Morpurgo (1982) cui si ispira arpeggia su temi - l’amore per gli animali, il rapporto difficile con il padre, la crudeltà della guerra assai congeniali al cineasta. Il problema è che nel romanzo, è un cavallo, Joey, a raccontare gli eventi che allo scoppio della I Guerra Mondiale, lo strappano all’affezionato padroncino, il giovane fattore inglese Albert, per condurlo in Francia a combattere nelle fila britanniche contro i crucchi. Invece sullo schermo, pur attraversando Joey l’intera vicenda da protagonista, il suo punto di vista viene a mancare; mentre gli esseri umani, incluso Albert che si arruola nella speranza di ritrovare il suo stallone, non riescono ad assumere vera statura. Potremmo aggiungere che la musica di John Williams è troppo invasiva, ma basta con le critiche: gli scenari possiedono un’innegabile suggestione e alcune sequenze, fra cui quella di Joey che corre in mezzo a rotoli di filo spinato nella terra di nessuno fra le trincee, rimarranno nelle antologie. Curzio Maltese. La Repubblica Stavolta Indiana Jones si chiama Joey ed è un cavallo. Un cavallo da guerra» WarHorse, coraggioso, bello, leale e avventuroso, più umano degli umani. Steven Spielberg non ha bisogno di trucchi digitali o di antropizzazioni artificiose per umanizzare il mezzo purosangue protagonista di questa nuovo film epico. Joey non è un cavallo parlante o un cartone animato alla Disney. E' un cavallo vero, ma nelle mani di un genio diventa sullo schermo un formidabile attore, capace di trasmettere ogni tipo di sentimento, ribellione, sdegno, passione, amicizia, amore, dolore e speranza. Dopo aver dimostrato con ET. di poter trasformare un pupazzo di Rambaldi in una delle più durature star di Hollywood, con War Horse Spielberg consegna alla storia del cinema un grandioso mito equino. Anche questo film di Spielberg come la gran parte del suo cinema, prevede un totale, infantile abbandono. Se si rimane coscienti e adulti, con le difese e magari il cinismo dell'età, le due ore e mezza di saga cavallina risultano improbabili e mielose. Ma se si torna bambini, che poi è il gran regalo del cinema americano, allora il godimento è assoluto. E' come l'ultima prova di Indiana Jones alla ricerca del Santo Graal, bisogna credere, avere fede, e di colpo dove cera il nulla si materializza un ponte verso un altro mondo. La storia di War Horse, tratta dal bel romanzo di Michael Morpurgo, è quella dell'amicizia fra un adolescente della campagna inglese, Albert Narracott e il suo cavallo. La sua è un'umile famiglia del Devon, ma il padre, Ted,un reduce di guerra ribelle e tormentato» spende una fortuna per portare a casa il cavallo più bello dell'asta di paese, sfidando l'odioso proprietario terriero. Un gesto di orgoglio che i Narracott pagheranno a caro prezzo. Con la prima guerra mondiale le strade di Albert e di Joey si separano, per ritrovarsi naturalmente nel finale, sul fronte occidentale. Per tutto il film si seguono le avventure di Joey, il suo passare di mano da un valente ufficiale di cavalleria a due fratelli tedeschi, da una ragazzina francese segnata dal destino a un sadico capitano prussiano. Di qua e di là dal fronte e a volte anche in mezzo, come in una delle più straordinarie e simboliche scene di War Horse, quando Joey, intrappolato nella terra di nessuno in mezzo alle trincee, evocala solidarietà fra nemici. Alcune scene di guerra sono di una terribile magnifìcenza, paragonabile ai primi venti minuti di Salvate il soldato Ryan. La carica della cavalleria inglese su un accampamento tedesco è cinema epico allo stato puro. Nel cast Spielberg mescola esordienti di sicuro avvenire, come il ventenne inglese Jeremy Irvine, nella parte di Albert, e Cecile Buckens, la piccola Emily, con mostri sacri della scena come il ricordato Peter Mullan, la straordinaria Emily Watson e il celebre attore francese Niels Arestrup, già ammirato ne // Profeta. Forse War Horse non è fra i capolavori di Spielberg, ma comunque è grande cinema. Dario Zonta. L’Unità A distanza di pochi mesi dall'uscita in sala de L'avventure di Tintin, troviamo con marchio Disney un altro film «per ragazzi» del colosso di Hollywood Steven Spielberg. War Horse è solo apparentemente un film per ragazzi, anche se l'ingresso della Disney e il suo veto per un cinema che non sia il massimo dell'edulcorazione dai tempi di Pinocchio ha reso insensatamente zuccherosa una storia pure ambientata tra le trincee della I Guerra Mondiale. Il tanto muscolare quanto umanista Spielberg, si sta dedicando da tempo, al genere favolistico, restituendo la realtà storica quanto quella fantascientifica nei termini di una morale scema e qualunquista, buona per tutti, grandi e piccini. Tutto il suo cinema lo si può leggere attraverso questa chiave di lettura, e se all'inizio, per la forza del suo giovane passo, alcune sfumature erano rabbiose (Duel), dopo poco, all'arrivo del successo (da Lo squalo in poi), questo velo si è squarciato mostrandoci, con qualche eccezione, la purezza di un mondo giusto e buono, quella specie di paradiso hollywoodiano dove vanno a finire quasi tutti i suoi protagonisti. Tra questi ora si aggiunge un altro tipo, non più essere umano, non più fumetto, non più alieno bensì animale. Dopo il trattamento riservato al povero «squalo», fatto saltare per aria con in bocca una bombola d'ossigeno, Spielberg si rifà con il più nobile cavallo, uno splendido bajo allevato da un ragazzo del Devon all'inizio dello scorso secolo. Se non fosse stata per la truce guerra incombente, abbiamo più volte pensato che War Horse fosse una versione live action di Spirit. E così è, ma solo per i primi 40 minuti, dal parto allo «svezzamento», fino a quando lo Spirit spielberghiano si trasforma nella versione equina del Richiamo della foresta, e il film si impenna veleggiando tra Jack London e John Ford, tra David Lean e Furia, cavallo del Devon! Della candidatura ai 6 premi Oscar (non ne beccherà secondo noi neanche uno), quella più insensata è per la miglior fotografia, invero la peggiore tra quelle spielberghiane. Roberto Escobar. L'Espresso Tutto si direbbe giusto in “WarHorse” (Usa, 2011, 146’). Giusti sembrerebbero i colori saturi della campagna del Devon, intensi come le facce dei contadini che ci vivono, poi quelli cupi e freddi delle trincee, e infine il tramonto infuocato sul cui sfondo il giovane Albert Narracott (Jeremy Irvine) e il suo cavallo Joey evocano il sapore nostalgico del mito western. E giusti sembrerebbero anche il montaggio, le musiche, le luci, tutti insieme orientati a far partecipare il pubblico all’epica tragica d’un racconto che attraversa l’Europa in-sanguinata dalla Grande Guerra. Eppure è un film sbagliato, e con l’aggravante d’essere astuto, questo che Steven Spielberg egli sceneggiatori Lee Hall e Richard Curtishan tratto da un racconto dell’inglese Michael Morpurgo. In un piccolo paese del Devon, Ted Narracott (Peter Mullan) compra Joey, un mezzo purosangue che non è certo adatto a lavorare i campi. Pressato dai debiti, l’uomo è deciso a rivenderlo, ma il figlio adolescente Albert riesce nel miracolo: aggio-gato all’aratro, Joey dissoda un terreno pietroso che Ted potrà coltivare. Il cavallo sarà egualmente venduto a un ufficiale della cavalleria britannica, in partenza verso la Francia invasa dai tedeschi. E là passerà di padrone in padrone, “combattendo” ora con una parte e ora con l’altra…Sono molte le terre che Joey attraversa,e altrettante le storie che Spielberg ha l’aria di raccontare. La prima è quella del rapporto speciale fra l’animale e Albert. Segue quella di eroici cavalieri che affrontano la mitraglia con la sciabola sguainata. Poi ce n’è un’altra, d’una ragazzina malata (e insopportabile) che s’innamora d’un cavallo trovato in un mulino. Via via,si arriva alla più tragica - e alla meglio girata - con Joey che corre terrorizzato per la terra di nessuno, alla fine soccorso da due nemici che smettono di odiarsi. Quelli che Spielberg mette in scena sono sempre ottimi sentimenti. D’altra parte, di ben altro dovrebbe vivere il cinema, soprattutto di un autore che, a suo tempo,lo ha saputo rinnovare e reinventare, ora con una tensione narrativa magistrale e ora con una altrettanto magistrale ironia. A War Horse servirebbe un’emozione, una sola, sincera. Ma tutto quello che ha è una astuzia di racconto ben consumata. E si farebbe meglio a dire usurata. P.S. Per motivi misteriosi, l’edizione italiana è funestata da un doppiaggio patetico, e spesso ridicolo [ma pare che anche nell'edizione originale l'accento tedesco e francese siano resi in modo patetico].