Il ragazzo con l`orecchino da pirla

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Il ragazzo con l`orecchino da pirla
IL RAGAZZO CON L’ORECCHINO DA PIRLA
(iniziato il 31 dicembre 2010)
All’inizio era solo un ragazzino dall’aria provocatoria e poco studiosa
particolarmente attirato dalla moda emo. Non sapevo cosa fossero gli emo, a
parte la banale battuta che faceva del termine l’aferesi di “scemo”. Gli emo
avevano un loro stile. Non so a chi si ispirassero.
Il primo segno per cui lo si “riconosceva” come emo era uno dei tratti più
peculiari del gruppo: i capelli affilati come spade e calati sugli occhi; i suoi in
particolare erano particolarmente neri, forse non li aveva nemmeno tinti;
mentre avevo avuto modo di riscontrare che altri della tribù tingevano
qualcuna delle spade pilifere in tonalità dal rosa al bianco, talvolta con inserti
blu, o verdi, o viola o gialli.
Il secondo elemento su cui cadeva l’occhio era il make-up: il ragazzo in
questione era pallido, forse naturalmente. Non ero sicuro che avesse del
rimmel e della matita nera attorno agli occhi, mi pareva di sì, ma non avevo
mai osato fissarlo con attenzione in faccia per non apparire impiccione. In
seguito appresi che caratteristico degli emo è avere un trucco pallido,
omogeneo su visi maschili o femminili: questo perché gli emo sono “creature
notturne”, così amano definirsi, e, come tutte le creature della notte, amano
apparire esangui, zombi, morti viventi. L’elemento principale del loro make-up
è quindi un pallore evidente, uniforme; nelle ragazzine è realizzato con cipria
bianca e spessi strati di rimmel e matita nera intorno agli occhi, che darebbero
un’aria aggressiva anche alla più tenera delle barboncine. Anche i maschi non
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disdegnano la cipria. Per le femmine c’è poi il rossetto, rosso scarlatto, bluviola o addirittura nero.
Il terzo segno identificativo degli emo è l’abbigliamento. Il ragazzino
indossava una grande felpa nera con pantaloni superaderenti a vita bassa,
tanto bassa che vi spuntava più che visibile la mutanda. Solo in seguito avrei
scoperto che la mutanda era in realtà parte del pantalone che nasceva dunque
a quel modo e per essere portato a quel modo, provocatorio e alternativo. «Tirati
su quei pantaloni!» veniva da urlargli dietro, e chissà quante volte se l’era
sentito dire da qualcuno più in confidenza con lui di quanto non fosse un
passante, qual ero io per lui; e c’è da immaginare con quale fierezza il
consiglio-ordine veniva puntualmente ignorato da chi andava orgogliosamente
soddisfatto di scatenare la reazione di qualche borghese.
Ai piedi indossava un paio di enormi scarpe da ginnastica bianche con
lacci di colori diversi ed ugualmente shocking: rosa e verde acido, rosso e
nero…
Nell’abbigliamento degli emo il nero la fa da padrone, anche se coinvolto
negli accostamenti più improbabili: pantaloni di latex, degni della più spietata
drag queen, sono abbinati a giacche di vecchie tute sportive di un innocente
azzurrino; pesanti scarponi chiodati si sposano a T-shirt dai colori pastello che
paiono uscite dal guardaroba di un timido collegiale; temibili calze a rete
spuntano sotto gonnelline a pieghe degne di Candy Candy.
A tutti i costi il ragazzino voleva sembrare “alternativo”. Alternativo a
che? In che cosa erano alternativi, o trasgressivi, gli emo? Me l’ero chiesto più
volte, e immaginavo che gli emo volessero esserlo come in generale amano
esserlo gli adolescenti che non sanno bene cosa vogliono. Forse solamente in
maniera più ostentata, ecco.
Era bene che mi informassi.
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Imparai su Internet che quello degli emo era in origine un fenomeno
musicale, divenuto in seguito un’ondata culturale tra gli adolescenti, in
Inghilterra e Stati Uniti all’inizio, e poi in tutto il mondo: ovviamente grazie a
Internet. Trovai anche la notizia che «con il termine emo si contraddistingue un
sottogenere della musica hardcore punk. Nella sua interpretazione originale, il
termine emo fu utilizzato per descrivere la musica di Washington DC della
metà degli anni ’80 e le band associate ad essa. Negli anni successivi, fu
coniato il termine “emocore”, abbreviazione di “emotional hardcore”, usato
per descrivere altre scene musicali influenzate da quella di Washington. Il
termine emo deriva dalla volontà della band di “emozionare” l’ascoltatore
durante le proprie esibizioni».
Non ne avevo capito una mazza. Emo aveva dunque a che fare con
“emo-zioni”. E pensare che io inizialmente avevo creduto che fosse ciò che
rimaneva di una parola che significava “senza più sangue”: si presentavano
così pallidi (di trucco) che pareva mancasse loro il sangue, quasi fossero stati
vampirizzati. Quanto all’“hardcore”, era difficile immaginarli protagonisti di
scene sessuali spinte, anche se un servizio delle “Iene” girato di nascosto in
una discoteca avrebbe in seguito mostrato che quello del sesso facile e gratuito
era uno dei tratti conturbanti e oscuri della comunità.
Soprattutto di musica di trattava dunque. Almeno così pareva. Ma
leggendo il «tentativo di inchiesta» di un tale Michele Kirsch (trovai la notizia
in Internet) imparai che la faccenda era un po’ più complessa («Nessuno mi
risponde mai quando chiedo che cos’è emo» scriveva Kirsch) e che il termine
indicava qualcosa probabilmente di più sfuggente, fatto di atteggiamenti,
convergenze virtuali, abbigliamento e, magari, antidepressivi.
Le caratteristiche che ovunque si esprimevano con il look emo erano in
effetti quelle tipiche della gioventù: fantasia, voglia di mettersi in mostra e di
sperimentare modi di apparire diversi da quelli ordinari, ritenuti del mondo
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degli adulti. Con in più un tocco di cupezza, anche questo tipico
dell’adolescenza. E con un richiamo al mondo dell’infanzia, popolato da orchi
e draghi, da cui i piccoli soldati emo erano appena usciti e a cui forse erano
ancora molto legati.
In effetti, chi sa esattamente cosa vuole un ragazzino di quell’età?
Generalmente lo sa solo l’adolescente subdolamente indottrinato dalla
famiglia (“farai l’avvocato!” “farai il dottore!”; se qualcuno è più sfortunato sa
che diventerà “un combattente per la libertà dell’esercito di Silvio”); ma più
spesso gli adolescenti non sanno cosa sono e cosa vogliono e badano a
rispettare il mondo degli adulti per vivere tranquilli, magari ottenendo le
comuni soddisfazioni che derivano dai complimenti che gli adulti sanno
regalare.
Nati forse nell’ambito del movimento punk-rock, espressione di una
rabbia universale, di un disagio che si manifesta in modo vistoso e rumoroso,
al tempo che io vidi sciamare per le piazze o per le scuole o per le stazioni i
primi ragazzini emo, il movimento aveva già perso molta della sua carica
trasgressiva: giravano conciati nel descritto modo perlopiù ragazzini di
famiglie tranquille, per i quali la trasgressione si riduceva ai capelli affilati,
spesso suggeriti dalla parrucchiera, e al rossetto viola del sabato sera.
Quanto c’era di moda e quanto, invece, ancora di significativo dietro la
scelta di unirsi alla piccola e comunque variegata tribù degli emo? Ai tempi che
lo notai io l’atteggiamento era certamente già stato derubricato a moda, una
moda peraltro poco seguita nelle cittadine di provincia.
Con i capelli rigorosamente stirati, il ciuffo anteriore tirato in avanti a
coprire un occhio e mezza faccia in diagonale, il ragazzo protagonista di
questa storia prendeva lo stesso treno che prendevo io tutte le mattine, lui per
andare a scuola, io per andare al lavoro. Mi colpiva e mi irritava il suo
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atteggiamento: la bellezza che egli credeva di accentuare in sé con quelle
conciature (i suoi atteggiamenti sicuri dimostravano che si sentiva bello)
avrebbe dovuto risultare dal contrasto tra il pallore della carnagione e il nero
dei capelli. Creatura giapponesoide, mi ricordava i protagonisti dei manga,
dove il bianco della pelle è quello della carta.
L’orecchino, sopra l’occhio, ad agganciare il sopracciglio lo inculturava in
qualche altra tendenza. Ma non è delle creature della notte non temere di
sottoporre a sevizie il proprio il corpo? E non è tipico degli emo esser capaci di
sottoporre a prove di dolore il proprio corpo? C’è di tutto nella “filosofia”
emo.
L’atteggiamento che il ragazzino teneva in treno nei confronti delle tre
ragazzine che gli si sedevano vicine era quello del seduttore. La vacuità delle
cose che diceva era allarmante.
Dov’era la famiglia? mi chiedevo. Non aveva anche lui un papà, una
mamma, qualcuno che ogni tanto gli desse quattro sberle e lo facesse rinsavire
un poco, e magari lo chiudesse in casa finché non fosse rinsavito del tutto?
Ecco: appartenevo al mondo degli adulti che egli intendeva appunto
sconfessare e rinnegare, negare e provocare. Ci stavo cascando.
Ma perché m’era venuto di pensare subito a una famiglia culturalmente
povera? Era emo anche Serafino Cromazzi, il figlio di una psicologa e di un
professionista che avevo conosciuto per ragioni di lavoro. Non vi era una
famiglia “mancante” in quel caso; o forse sì: quale combinazione più deleteria
per l’educazione di un figlio di quella formata da un professionista e una
psicologa. Ma fate conto che non abbia mai scritto quest’ultimo commento,
gratuito e non contestualizzato.
Torniamo al protagonista della nostra storia. Non si poteva dire che il
ragazzo fosse triste. Eppure teneva un atteggiamento ostentatamente non
allegro. Se con la parola emo si indicava, generalizzando, un nutrito gruppo di
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alternativi, avevo anche imparato che ad essere indicati con tale termine erano
soprattutto i ragazzi cupi o depressi che amavano coltivare una particolare
visione (cupa!) del mondo. Non puntava forse a quello l’uso di capi neri, con
cinture a quadretti colorate e un lungo ciuffo che copriva buona parte del viso
tenendolo in ombra? Non avevano forse quell’intenzione gli occhi truccati
con eye-liner e ombretto nero, le unghie laccate di smalto nero e i capelli
rigorosamente piastrati, tombali, liscissimi? Emulo di creature zombiesche, il
ragazzino rientrava nella descrizione.
Troppo giovane e incolto per avere una filosofia di comportamento,
aveva però assunto e adottato una serie di codici comportamentali che
rimandavano a una visione. Ancora una volta fu internet a dare delle risposte: i
sentimenti di un emo stanno “di fuori”, dato che la personalità di un emo ha
molto a che vedere con l’aspetto esteriore. Per esempio, risultare “spento” è
sinonimo della vita che intendono condurre. La vita è deprimente, senza
sentimento e carica di sofferenze, perciò se una persona desidera essere emo
deve risultare spenta, a qualunque prezzo, altrimenti sarà respinta dalla
comunità che disprezza i troppo “accesi”. E d’altro canto gli emo non hanno
una personalità strutturata per vivere soli.
Spenti sì, da un lato, ma come lampioni, perché, per far parte della
comunità emo è necessario essere alti. Se sei basso di statura dovrai usare delle
zeppe per alzarti. Sono le regole della comunità. Di una comunità antisociale,
mi si passi l’ossimoro: sociali dentro un gruppo di antisociali. I capelli sugli
occhi sono l’esibizione di questo desiderio di non essere guardati.
Il modo di vestire, a leggere un’altra inchiesta, poteva essere vagamente
evocativo della cultura punk, e «goth», e i gusti musicali e il «mood» dei ragazzi
emo trovavano il loro crocevia in comunità web, come quella ospitata da
Myspace, dove fioccavano testi, note, ma anche confessioni, segnate da
accenti wertheriani, con spazio alle emo-zioni, senza censura per quelle tristi e
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con riferimenti più o meno espliciti al suicidio, elemento che faceva degli emo il
bersaglio di feroce scherno da parte di altri adolescenti.
Emblematica, a questo proposito, è la storia di un ragazzo emo che,
sembra, “postò” su Myspace un messaggio in cui annunciava il suo suicidio. Il
fatto poi era stato ufficialmente confermato, e quindi seguito da ondate di
post di partecipazione e dolore da parte degli altri emo, ma anche di acidissimi
commenti dei non-emo della comunità virtuale, con toni del tipo: «Se gli
piaceva quella musica spazzatura si è dato quello che si meritava». Ma vi era il
dubbio che tutta la storia non fosse che uno scherzo per saggiare le reazioni
provocate (pare che il «suicida» si fosse connesso il giorno dopo la sua
“morte” per leggere i commenti al suo ipotetico gesto), gesto che comunque
contrasterebbe con la filosofia degli emo che non si curerebbero delle reazioni
del pubblico.
La depressione vissuta o esibita era/è una costante del mondo emo,
dovuta al fatto che, secondo gli adepti, il mondo è miserabile e denigrante. In
casa tengono poca luce, un letto singolo e duro e copriletti di un solo colore,
in modo che, al levarsi in piedi ogni mattina, ricordino la miseria della loro
esistenza e rimangano in uno stato di depressione tutto il giorno.
Gli emo non credono in religioni né in qualche dio. Se credessero in un
qualche dio il loro atteggiamento nei confronti del resto dell’umanità sarebbe
di apertura, di accettazione, di interesse, di sorpresa, di curiosità, di simpatia.
Nulla di questo, nessuno di questi sentimenti traspariva dagli occhi del
ragazzino. Era depresso? Sembrava piuttosto sciocco. Nutriva interesse per
qualcosa che non fosse il suo look? Pareva di no. C’era da chiedersi se aprisse
i libri che portava con sé. Ma ne portava? Aveva una tracolla che pareva così
leggera, sì e no che vi fossero dentro due quaderni.
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Notizie recuperate in seguito in Internet mi informarono che anche i
legami sentimentali di un emo devono essere emo: la fidanzata emo deve, ad
esempio, condividere il dolore del suo ometto in ogni momento: se l’emo
maschio piange anche la fidanzata emo deve piangere con lui, cercheranno di
far battere i loro cuori all’unisono, si taglieranno i capelli con gli spuntoni lo
stesso giorno, si vestiranno allo stesso modo al punto da non distinguere chi è
il maschio e chi la femmina.
La ragazzina che più spesso delle altre vedevo in treno seduta accanto al
ragazzino e condivideva con lui qualche sentimento di affetto ne adottava lo
stile, seppur con meno rigore, o forse con maggiore superficialità: appariva
ancora più sciocca di lui, se mai era possibile.
Guardandoli, era naturale condividere il giudizio del mondo giovanile
secondo il quale la (sotto)cultura emo è “cosa da sfigati”, o da “viziati che
hanno tutto e che si creano dal nulla problemi enormi per farsi commiserare”:
eppure, secondo uno studio dell’Università del Michigan, gli “emoboys”
sarebbero invece ragazzi gentili e fedeli, affidabili e comprensivi, di cui le
ragazze andrebbero pazze, altro che “sfigati”, insomma, casomai neo-maschi
antitetici al modello “macho tenebroso ed egocentrico”, capaci di scrivere
poesie e di inviarle per posta (non via internet) e di anticipare i desideri della
propria partner; appartenenti dunque a una nuova specie di neo-romantici,
finti trascurati, con look a base di t-shirt vintage, jeans invecchiati e capelli
spettinati.
Una mattina lo disse anche il Corriere della Sera: “Per le donne l’uomo
nuovo è übersexual”.
Eppure, tra le tante scemenze incongruenti legate al fenomeno, trovai
perfino l’etimologia colta. Fu ancora internet a rivelarmelo: per qualche
chiosatore delle nostre parti il termine emo deriverebbe addirittura da Andrea
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Emo, pensatore del XX secolo. Sulla pagina di tal Raffaele Iannuzzi scoprii
che Andrea Emo, nato nel 1901 a Battaglia Terme in provincia di Padova,
primogenito di un’antica e nobile famiglia di origine veneziano-patavina da
parte di padre, e calabro-napoletana per parte materna, fu allievo di Gentile e
costruì una sua figura di pensiero sulla libertà individuale, sganciandola
completamente da qualsiasi legame, anche religioso-sacrale. Fu un filosofo che
scelse la via della clausura e dell’auto-esclusione dal mondo civile sostenendo
che «l’uomo potrà essere finalmente libero solo uscendo da qualsiasi vincolo
di fede e da qualsiasi forma di obbedienza ad ogni autorità ecclesiastica. L’idea
filosofica della libertà personale vive e cresce solo nell’intimo della coscienza.
Ogni coartazione morale nei confronti della coscienza potrà soltanto essere,
nel tempo, l’anticamera del totalitarismo. Nella fede ciò che è irriducibile è
l’amore, poiché quest’ultimo si rivolge all’individualità personale».
Stentavo a vedere nello sciocchino che prebdeva il mi treno un seguace
del filosofo.
«L’individualità è sempre nuda e la nudità è scandalosa secondo la morale
sociale e religiosa. I vestiti sono l’uniforme della società. Invano l’uomo (e la
donna) credono di distinguersi con le vesti; e credono che la nudità sia
uniformità. In realtà le vesti sono il riconoscimento della società, del sociale.
Ma le vesti sarebbero nulla se non fossero animate dalla vita di una nudità. La
veste è orgogliosa della nudità che essa socializza».
E tutto questo aveva generato un esercito di soldatini pallidi dall’aria
sciocca e funebre?
Ci poteva stare perché Emo, teorizzando una “religione dell’individuo”,
portò una critica radicale alle religioni secolari fondate su una falsa mistica del
Collettivo, comunismo in testa; Emo propose una mistica del rovesciamento
del Sacro, da figura collettiva e socialmente stabilizzante, a sostanza della
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religione dell’individuo. Non esiste niente fuori di questa unicità soggettiva ed
individuale; l’unica realtà da difendere, contro le chimere collettivistiche (Emo
scagliò dardi acuminati anche contro lo Stato etico di Gentile), è il soggetto,
l’individuo, ultimamente la persona (termini che il filosofo spesso usa come
sinonimi). «L’individuo non può essere un dato; esso può essere solo un
soggetto cioè una resurrezione». «Ogni rinascita è spirituale», dunque l’età
moderna o sarà nuovamente religiosa, per parafrasare Malraux, o non sarà. Ci
vuole una fede, questo è certo, ma quale fede? Quale sarà la fede dei laici?
Non potrà essere quella collettivistico-sociale, fallimentare e violenta; ma
anche quella cristiana rischia di essere contraria alla libertà di coscienza, in
special modo nell’alveo cattolico. «I cristiani sono nati sotto il segno dello
scandalo; e oggi, nella Chiesa, che fine ha fatto questo scandalo originario?»
Compiendo uno scarto evidente, Emo introdusse il tema della libertà
individuale, sganciandola completamente da qualsiasi legame, anche religiososacrale. L’uomo potrà essere finalmente libero solo uscendo da qualsiasi
vincolo di fede e da qualsiasi forma di obbedienza ad ogni autorità
ecclesiastica. Altrimenti siamo ancora nel pieno del totalitarismo collettivista,
dal Leviatano comunista al Leviatano cattolico… L’idea filosofica della libertà
personale vive e cresce solo nell’intimo della coscienza. Ogni coartazione
morale nei confronti della coscienza potrà soltanto essere, nel tempo,
l’anticamera del totalitarismo. Nella fede ciò che è irriducibile è l’amore,
poiché quest’ultimo si rivolge all’individualità personale, al singolo.
«Perché in ogni fede vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché
vi è qualcosa di vergognoso nella verità e nella vita stessa? Forse l’elemento
vergognoso è l’individualità pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la
sua negazione; l’individualità è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti
sono l’uniforme della società. Invano l’uomo (e la donna) credono di
distinguersi con le vesti; e credono che la nudità sia uniformità. In realtà le
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vesti sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero
nulla se non fossero animate dalla vita di una nudità. La veste è orgogliosa
della nudità che essa socializza».
Qualcosa tornava e qualcosa no. Tornava che per il ragazzino sciocco
che saliva sul mio treno la negazione degli abiti della conformità passava
attraverso la negazione dei vestiti della quotidianità. Non mi tornava che fosse
in grado di comprendere il pensiero di Andrea Emo.
E tuttavia, ridotta alla cifra che le competeva la (impensabile) natura
speculativa degli aderenti del gruppo, qualcosa di non lontano dalla questione
dello “spogliarsi degli abiti della società”, cioè di scandaloso, avevano
dimostrato “Le iene” che si erano intrufolate in una festa emo: si trattava di un
raduno di ragazzini alternativi pubblicizzato su un social network (gestito da
adulti privi di scrupoli) cui i ragazzini si iscrivevano al costo di 12 euro per
quelli che avevano già compiuto i 16 anni, e di 10 euro per i non-sedicenni; il
tutto si svolgeva dalle 3 alle 6 di pomeriggio.
Dentro che accadeva? Il servizio delle “Iene” aveva mostrato che
“dentro” saltavano i freni inibitori che il mondo “sociale” “fuori” ancora
imponeva, brave ragazzine coccolate dai genitori si concedevano in rapporti
sequenziali a partner conosciuti al momento, ragazzini invisibili nella vita
quotidiana si denudavano alla ricerca di altre anime.
La questione della nudità teorizzata dal filosofo padovano tornava a
galla, non rilevata dalle “Iene”… Ma era veramente di questo che si trattava?
Con lo squarcio del servizio tv sugli eventi, molti genitori presero
finalmente coscienza di quel che facevano e pensavano i loro pargoli. Dal web
i richiami a quel genere di “feste” sparì…
E anche il ragazzo del treno sparì per un periodo.
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Lo rividi, sempre sul treno, qualche mese dopo: non spuntavano più le
lame pilifere sulla sua fronte a nascondere occhio e guancia, si era tagliato i
capelli corti corti, sparita era anche la sua amichetta. Rinsavito? Riportato alla
realtà da qualche riflessione più cogente? No, affatto: l’orecchino al
sopracciglio era stato sostituito da un ciondolo all’orecchio, un ciondolo non
appeso al lobo dell’orecchio ma inserito “dentro” il lobo, rotondo come un
piccolo cerchione di ruota, col lobo tutt’attorno a formare il copertone: dentro
il foro circolare al suo interno ci sarebbe passata una penna bic.
Dalla filosofia eravamo passati alla storia dell’Arte: lo sc-emo era
improvvisamente diventato “il ragazzo con l’orecchino da pirla”.
Racconto 178, composto il 31 dicembre 2010,
inserito nel volume “Strane storie e vacche beorie”.
Tutti i diritti riservati.
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