La Psicoanalisi 37_La pratica lacaniana II_Omaggio a Lewis

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La Psicoanalisi 37_La pratica lacaniana II_Omaggio a Lewis
La Psicoanalisi n° 37
La pratica lacaniana II : senza standard ma non senza principi
Nota editoriale : Il Lewis Carroll di Lacan
Lacan parla di Lewis Carroll alla radio francese il 31 dicembre 1966. E’ il breve testo che
abbiamo riservato ai lettori de La Psicoanalisi e che abbiamo tradotto dall’originale pubblicato da
Jacques-Alain Miller sulla rivista del Campo freudiano Ornicar? n. 50.
L’opera di Lewis Carroll, dice Lacan, è l’illustrazione e la prova di tante verità. Verità certe,
sebbene non evidenti.
Di queste verità solo la psicoanalisi, anzi, solo una certa psicoanalisi, è all’altezza di render
conto. Per esempio del valore di oggetto assoluto che può prendere la bambina quando incarna, non
tanto l’oggetto del desiderio, ma quell’oggetto mancante - entità negativa, dice Lacan - che causa il
desiderio, oppure quando la psicoanalisi rende conto di una teoria del soggetto, inteso come il
risultato della rete simbolica, distinta da ogni concezione immaginaria sebbene unitaria di ciò che
chiamiamo l’io.
Queste verità non possono emergere da quelle concezioni psicoanalitiche che analizzerebbero
l’opera di Lewis Carroll partendo dai suoi fantasmi o dai suoi disturbi psichici, veri o presunti,
oppure prendendo spunto dall’incidenza di quest’opera sulle giovani menti da educare. Incidenza
negativa, evidentemente.
No, Lacan procede diversamente. Come procede dunque?
In primo luogo l’opera d’arte e l’autore devono essere letti separatamente. Per esempio, è
penoso e ridicolo voler interpretare l’opera con i dati storici di Charles Lutwidge Dodgson. Alice
non è da leggersi come un sintomo della mente malata di un professore scisso fra l’amore per le
ragazzine e il suo studio della matematica. No, l’opera d’arte deve essere interrogata non tanto in
riferimento alla verità storica dell’autore quanto piuttosto in riferimento alla struttura che essa arriva
a dire. L’Edipo re, per esempio, e tutte le grandi opere parlano a tutti noi perché riescono a dire
elementi di struttura, di quella struttura che è l’ossatura di ciò che chiamiamo inconscio.
Ma qual è la dimensione strutturale che ci presenta l’opera di Lewis Carroll? Non è la
dimensione strutturale del mito, dimensione che, come dice Lacan in un suo seminario, solo Freud è
stato capace di inventare nel tempo moderno con il padre della orda di Totem e Tabù. Non è
neppure quella dimensione di struttura che ci rivelano il tormento di Amleto o la tragica fine di
Antigone. Alice ci rivela invece quella triade strutturale che è essenziale nella condizione umana:
l’immaginario, il simbolico e il reale.
E qui, secondo punto, Lacan illustra come leggere nell’opera di Lewis Carroll questa triade
strutturale. Certo, si parte dalle immagini. Ma non si rimane nel puro immaginario, poiché le
immagini si articolano in un gioco di combinazioni. Combinazioni che arrivano a costituire la
nostra rete simbolica. Combinazioni che non riguardano tanto o unicamente i rapporti, le relazioni,
le interferenze di tutto ciò che popola la nostra realtà che chiamiamo concreta, poiché riguardano
tante dimensioni virtuali, che sono proprio quelle in cui ci si trova a volte a penare e sempre a
vivere. Sono proprio esse a introdurre l’umano a una realtà che è veramente la più reale. A volte la
conosciamo sotto il nome di morte, a volte sotto il nome di castrazione, spesso sotto il nome di
sintomo. Lewis Carroll ce la presenta sotto forma dell’impossibile che diventa tutto d’un tratto
familiare.
Parallelamente, infine, come l’opera d’arte non si legge con sicurezza se non tramite ciò che
apporta come elemento tipico della struttura, così non si rende giustizia a un uomo, a Lewis Carroll
come a un altro, se non riconoscendo quella necessità verso la quale vanno le cosiddette
discordanze della sua personalità. In altre parole la genialità di Lewis Carroll non risiede nel suo
debole per le bambine, né nel suo insegnamento della matematica, divertente ma pedestre. La sua
genialità risiede nel fatto che le sue due posizioni, quella del sognatore e quella del matematico, si
annodano come in una congiura che è purtuttavia anche uno scongiuro. (Nella traduzione abbiamo
preferito l’arcaico termine congiurazione per tradurre il francese conjuration, termine che vuol dire
congiura, ma anche scongiuro). Da questa conjuration scaturisce quell’oggetto meraviglioso non
ancora decifrato e per sempre splendente, nota Lacan, che è la sua opera.
Alla realizzazione dell’opera Carroll, autore di Alice, e Dodgson, autore di Euclide e i suoi
rivali moderni, sono entrambi necessari. Ma è solo nell’après-coup che si rivela la necessità di
queste due posizioni che hanno il loro esordio nella più pura contingenza.
Eppure al quadro d’insieme manca ancora qualcosa, qualcosa che viene come un’aggiunta in
più, conferendo all’opera quell’equilibrio che gli accorda i colori di una sorta di felicità: è la sua
religiosità, una religiosità da povero di spirito.
L’opera è colta così come l’annodamento e la risultante di più posizioni soggettive. E si rivela
essere un luogo eletto per dimostrare la vera natura della sublimazione nell’opera d’arte.
L’opera di Lewis Carroll non è dunque da leggere come un sogno, come una formazione da
interpretare, come un sintomo ordito dal fantasma di una persona disturbata, ma come qualcosa che
funziona, e funziona bene. Funzionamento che gli è, a lui, a Lewis Carroll, del tutto singolare.
Capisco in questo modo la frase che fa da esordio all’intervento di Lacan: nell’opera di Lewis
Carroll “si scopre che senza uso di alcun disturbo si può produrre disagio, ma che da questo disagio
scaturisce una gioia singolare”. Non è necessario infatti ricorrere al disturbo psichico perché ci sia
quel disagio che comunemente chiamiamo sintomo. Poiché il sintomo è quel disfunzionamento che
è particolare a ogni essere che parla. E un disfuzionamento che si caratterizza come un caso,
particolare a ciascuno, di un disagio generalizzato: Disagio della civiltà, disse Freud. Ora, ciò che la
psicoanalisi insegna è che da questo sintomo, da questo disagio, particolare a ciascuno, può
scaturire qualcosa che non è più disfunzionante ma, al contrario, che è veramente ciò che funziona
per un soggetto, e che gli è talmente singolare che Lacan, in un altro testo, arriva a connotarlo con il
nome di destino. Il sintomo è elevato così a paradigma - a sinthome per usare una grafia cara a
Lacan molti anni dopo - con la proprietà di annodare in modo inedito l’immaginario, il simbolico e
il reale di un soggetto. Diversamente dal sintomo che è quel particolare che è disagio, il sinthome è
quel singolare che è gioia. Gioia per il soggetto, certo. Ma a causa del suo annodamento singolare,
esso produce un effetto di creazione, e acquista così un valore universale.
Quest’opera tocca tutti, dice Lacan. Tuttavia non ci tocca nell’universale del senso, ma ci
tocca tutti, uno per uno. Il singolare non si generalizza nel mondo indistinto del tutto, ma si
universalizza in un infinito aperto che è quello della creazione e dell’invenzione che è dell’ordine
del non-tutto.
Questo numero della rivista propone inoltre ai lettori la seconda e ultima parte dei lavori sulla
pratica lacaniana che il Comitato di Azione della Scuola Una aveva preparato per il Congresso
dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi, tenuto nel mese di agosto scorso in Brasile. Il testo di
Jacques-Alain Miller sull’erotica del tempo illustra in modo preciso ed esauriente uno degli aspetti
più importanti della pratica clinica nell’insegnamento di Lacan.
Antonio Di Ciaccia