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Le intercettazioni mediante virus informatici o agenti intrusori: le
sezioni unite sul punto
di Daniela MINELLI*
1. Inquadramento giuridico e fondamento costituzionale e sovranazionale
dell’istituto delle intercettazioni. 2. La pronuncia delle Sezioni Unite n.
26889/2016 in materia di intercettazioni effettuate mediante virus informatici
auto-installanti.
1. Inquadramento giuridico e fondamento costituzionale e
sovranazionale dell’istituto delle intercettazioni.
Il codice di procedura penale non fornisce una precisa definizione dell’istituto
delle intercettazioni.
Secondo una definizione giurisprudenziale, tuttavia, l’intercettazione “consiste
nell’apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o
di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti,
estranei al colloquio” 1.
La dottrina, infatti, colloca questo istituto tra “i mezzi di ricerca della prova” in
quanto mezzo idoneo all’espletamento di specifiche attività d’indagine. Tale
assunto, difatti, è confermato dalla sistematica del codice il quale inserisce la
disciplina delle intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni (artt. 266-271
c.p.p.) nel titolo dedicato ai “mezzi di ricerca della prova” 2 .
Mediante tale strumento, dunque, l’Autorità Giudiziaria procedente è in grado di
captare, mediante apposite apparecchiature, il flusso di conversazioni e
comunicazioni informatiche e/o telematiche tra più persone.
Nella specie, il legislatore ha distinto tre diverse tipologie di captazione:
I.
Intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre
forme di telecomunicazione (e, quindi, di comunicazioni non solo
telefoniche o telegrafiche, ma anche tutte le trasmissioni “a
distanza”) ai sensi dell’art. 266, comma 1, c.p.p.;
II.
Intercettazione di comunicazione tra presenti, c.d. intercettazione
ambientale (possibile anche nei luoghi di domicilio indicati dall’art.
Tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi.
Corte Cost., 11 marzo 1993, n. 81; Cass. pen., Sez. un., 23 marzo 2000, n. 6.
2 Cfr. P. TONINI, Manuale di procedura penale, XVII ed., Giuffrè, Milano, 2015, p. 395.
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614 c.p., da autorizzarsi, specificamente, purché risulti in corso di
svolgimento l’attività criminosa), ai sensi dell’art. 266, comma 2,
c.p.p.;
III.
Intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi
informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi (qualora
si proceda per uno dei reati indicati nell’art. 266 c.p.p., nonché per i
reati “commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o
telematiche”), ai sensi dell’art. 266 bis c.p.p..
Le intercettazioni vengono disposte dal Giudice per le indagini preliminari, su
richiesta del Pubblico Ministero procedente, mediante decreto motivato. Il
Giudice per le indagini preliminari, infatti, è chiamato a verificare la sussistenza
presupposti di ammissibilità del provvedimento (art. 267, comma 1, c.p.p.) 3 .
Tuttavia, nei casi di urgenza, ovvero, qualora dal ritardo possa derivare un grave
pregiudizio alle indagini, il Pubblico Ministero può procedere autonomamente
con decreto motivato, comunicandolo, entro 24 ore, al Giudice per le indagini
preliminari, il quale, a sua volta, dovrà eventualmente convalidare il
provvedimento entro quarantotto ore4 .
È evidente come tale strumento investigativo sia potenzialmente lesivo di una
serie di diritti costituzionalmente garantiti e che lo stesso idoneo a comprimere
una serie di libertà fondamentali dell’individuo.
Si pensi ad esempio, all’inviolabilità della libertà personale (art. 13 Cost.), alla
tutela della segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.), all’inviolabilità del
domicilio (art. 14 Cost.) e, inoltre, al diritto alla riservatezza che, quale diritto
della personalità, è più in generale tutelato dall’art. 2 Cost.
Analoghe disposizioni sono previste dall’art. 17 del Patto internazionale dei diritti
civili e politici e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 7 e
52).
Anche a livello comunitario, l’art. 8 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, intitolato “diritto
al rispetto della vita privata e familiare”, prevede, al comma 1, che “ogni persona
ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e
della propria corrispondenza”. Il 2 comma, invece, statuisce che non può esservi
ingerenza da parte di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto, a meno
che la limitazione non sia prevista dalla Legge o sia giustificata dalla necessità
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P. TONINI, op. cit., pp. 395 - 401.
P. TONINI, op. cit., pp. 395 - 401.
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di garantire “la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, la difesa dell’ordine e
alla prevenzione dei reati, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Questa disposizione tutela, quindi, il diritto di ogni persona al rispetto della vita
privata, familiare, del domicilio e della corrispondenza, contro ogni interferenza
esterna.
La Corte europea ritiene, infatti, che nella su citata disposizione rientri qualunque
forma di limitazione alla vita privata, a prescindere dalle modalità esecutive
impiegate5.
La stessa Corte, inoltre, ritiene che tali strumenti investigativi siano ammissibili
solo nella misura in cui gli Stati membri predeterminino i limiti di applicabilità
degli stessi: i giudici, infatti, dovranno essere guidati dai criteri di necessità e
proporzionalità 6 , ovvero, dovranno applicare la misura meno invasiva per
l’interessato bilanciandola con le esigenze di ordine pubblico7 e, dall’altra, tali
strumenti devono essere necessari e idonei ai fini dell’espletamento della
predetta attività investigativa.
2. La pronuncia delle Sezioni Unite n. 26889/2016 in materia di
intercettazioni effettuate mediante virus informatici auto-installanti.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 26889/2016,
depositata il primo luglio 2016, si sono pronunciate in merito alla legittimità, o
meno, delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni tra presenti (cd.
ambientali), effettuate mediante installazione di virus informatici su dispositivi
mobili (anche definiti agenti intrusori o agenti captatori, tra cui il cd. virus trojan
horse), nei luoghi di privata dimora ex art. 614 del c.p..
La Corte, infatti, ha dovuto valutare la compatibilità di tale innovativo strumento
di captazione (che rientra nella disciplina delle cd. intercettazioni ambientali),
con l’importante limite previsto dall’art. 266, comma II, del c.p.p., secondo cui,
qualora si debba procedere alla captazione di conversazioni nei luoghi di privata
dimora, è necessario, ai fini della legittimità del provvedimento, che ivi sia in atto
un’attività criminosa.
Ebbene, come si avrà modo di vedere in seguito, l’attivazione di tale strumento
di intercettazione non consente, a priori, di individuare i luoghi in cui potrà essere
realizzata la captazione essendo quest’ultima attivata su dispositivi mobili (e,
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Corte eur. dir. uomo, 15 maggio 2000, Khan c. Regno Unito, in www.echr.coe.int..
Corte eur. dir. uomo, 9 gennaio 2001, Natoli c. Italia, in www.echr.coe.int. .
7 Cfr. S. FURFARO, Un problema irrisolto: le intercettazioni telefoniche, in A. GAITO (a cura di),
Procedura penale e garanzie europee, UTET, Torino, 2006, 127.
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quindi, destinati ad essere condotti in luoghi diversi) in uso alle persone
sottoposte alle indagini preliminari.
La Corte ha dovuto quindi valutare se, e con quali limiti, è possibile
l’intercettazione di conversazioni nei luoghi di privata dimora, senza la possibilità
di verificare, a priori, se nei predetti luoghi sia in corso di svolgimento un’attività
criminosa.
Tanto ciò premesso, il giudizio a quo sottoposto al vaglio dei giudici ha riguardato
l’accusa di tentata estorsione aggravata realizzata da un soggetto appartenente
all’associazione mafiosa “Cosa Nostra”, per la quale è stata applicata la misura
della custodia cautelare in carcere fondata sui “gravi indizi di colpevolezza”
costituiti dall’esito delle intercettazioni realizzate mediante il sistema del
captatore informatico.
L’imputato ha di seguito proposto ricorso per Cassazione eccependo, in
particolare, l’illegittimità del decreto con cui il Gip, presso il Tribunale di Palermo,
aveva autorizzato le operazioni di intercettazione di tipo ambientale perché
sarebbero avvenute “nei luoghi in cui si sarebbe trovato il dispositivo elettronico
in uso all’imputato” e, quindi, in luoghi non predeterminati e non
predeterminabili all’interno del provvedimento autorizzativo.
Per il ricorrente, infatti, tale modalità di intercettazione contrastava con l’art.
266, comma 2, del c.p.p., nella parte in cui vieta le intercettazioni nei luoghi di
privata dimora a meno che, all’interno degli stessi, non si stia svolgendo
un’attività criminosa.
Sotto diverso profilo per il ricorrente sussisteva, inoltre, un’ulteriore
incompatibilità con l’art. 15 della Costituzione e l’art. 8 della CEDU, in quanto,
nel decreto di autorizzazione delle intercettazioni, non erano stati indicati con
precisione i luoghi in cui le medesime dovevano essere realizzate.
Invero, una questione molto simile era già stata sottoposta al vaglio dei giudici
della Corte Suprema che, nella sentenza “Musmeci” (Sez. 6, n. 27100 del
26/05/2015), aveva stabilito che le intercettazioni effettuate mediante “virus
auto-installante”, attivate su un apparecchio elettronico in uso alla persona
sottoposta ad indagini preliminari, aggiravano il limite posto dall’art. 266,
comma, del c.p.p., il quale non legittima forme di intrusione in grado di seguire
il soggetto ovunque egli si trovi. Queste ultime, infatti, secondo la Corte,
potevano ritenersi legittime solo se il relativo decreto autorizzativo avesse
individuato con precisione i luoghi in cui eseguire l’attività captativa.
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Pertanto, la Sesta Sezione Penale, ritenuta la prioritaria rilevanza della
questione, con decreto del 7 aprile 2016, ne ha rimesso la decisione alle Sezioni
Unite.
Prima di affrontare la questione dal punto di vista strettamente giuridico, la Corte
ha preliminarmente riposto l’attenzione sulle caratteristiche tecniche, strutturali
ed informatiche del mezzo investigativo in argomento.
Invero, tali intercettazioni vengono effettuate mediante un software, definito
anche da alcune sentenze “captatore informatico” o “agente intrusore” che viene
installato su un dispositivo (un computer, un tablet o uno smartphone) in modo
occulto, per mezzo del suo invio tramite una mail, un sms o un’applicazione di
aggiornamento.
Uno strumento di questo tipo consente lo svolgimento di una serie di attività, tra
cui:
La captazione di tutto il traffico dati, in arrivo o in partenza, dal
dispositivo infettato (navigazione e posta elettronica);
L’attivazione del microfono in qualunque momento e, dunque, la
possibilità di apprendere per tale via i colloqui che si svolgono nello
spazio che circonda il soggetto che ha la materiale disponibilità del
dispositivo, ovunque egli si trovi;
L’attivazione della fotocamera, con la possibilità di carpire immagini;
La perquisizione dell’hard disk con la possibilità di fare copia, totale o
parziale, dei dati ivi contenuti;
La possibilità di decifrare tutto ciò che viene digitato sulla tastiera.
È evidente l’incisività nella sfera giuridica soggettiva altrui di tale strumento. La
sorveglianza, infatti, si estende anche alle persone vicine alla persona
intercettata.
Inoltre, punto nodale di questa disciplina, è costituito dalla circostanza per cui le
intercettazioni possono avvenire ovunque: sia all’interno di un luogo di privata
dimora, sia in un luogo aperto al pubblico e, quindi, in luoghi non individuabili
ab origine nel provvedimento di autorizzazione.
Il mezzo in esame, dunque, pone un difficile bilanciamento tra le esigenze
investigative sottese alla necessità di reprimere determinati tipi di reati e la
necessità di non invadere la garanzia dei diritti individuali che, in tal senso, sono
suscettibili di forte lesione e compressione. Si pensi, ad esempio, alla libertà di
comunicazione ed al diritto alla riservatezza.
Secondo i Giudici, infatti, la questione va risolta ed esaminata muovendo da
un’approfondita e congiunta lettura sia delle disposizioni del codice di rito (artt.
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266, 267, 271 c.p.p.), sia della disciplina derogatoria prevista dall’art. 13, del
Decreto Legge 13 marzo 1991 n.152 (convertito con Legge 12 luglio 1991, n.
203), in materia di delitti di criminalità organizzata.
In prima istanza, occorre evidenziare che l’art. 266 del c.p.p. distingue due
diverse modalità di intercettazioni: una di carattere generale (“intercettazioni di
comunicazioni tra presenti”); ed un’altra speciale riguardante “le intercettazioni
di comunicazione tra presenti nei luoghi di privata dimora”.
La sostanziale differenza tra le due riguarda il regime autorizzativo che varia a
seconda del luogo in cui le intercettazioni devono essere effettuate e, in seconda
istanza, in base ai reati oggetto di investigazione.
Circa il luogo oggetto di investigazione, occorre tracciare il significato della
nozione giuridica di “privata dimora” ex art. 614 del c.p. Secondo una parte della
dottrina (Antolisei, Manzini), per quest’ultimo deve intendersi qualsiasi ambiente
adibito, in tutto o in parte, ad uso dei privati8.
Per giurisprudenza costante, invece, si ritiene che luogo di privata dimora sia
quello destinato all’esplicazione della vita professionale, culturale e politica,
ovvero, luogo nella quale si esplicano attività della vita privata. (Cfr. Cass., Sez.
II, sentenza 11 giugno 2015 n. 24763, Cass. Sez. V, sentenza 8 gennaio 2016
n. 428).
Ancora, con riferimento ai reati per cui si procede e, quindi, circa il diverso
regime autorizzativo che ne consegue, qualora si debba procedere per “reati
comuni”, il Gip può autorizzare le intercettazioni “ambientali” solo a patto che,
nel luogo in cui devono essere effettuate, si stia svolgendo l’attività criminosa.
E, quindi, lo svolgimento dell’attività criminosa all’interno di un luogo di privata
dimora diventa la conditio sine qua non per la legittimità del provvedimento
autorizzativo nei reati di minore allarme sociale.
Tale importante limite viene meno nei reati di criminalità organizzata. Sarà
dunque possibile collocare strumenti di captazione di conversazioni nei luoghi di
privata dimora, pur senza il fondato motivo di ritenere che ivi sia in atto l’attività
criminosa.
In quest’ottica, non essendo richiesto il requisito anzidetto, l’attività di
intercettazione eseguita mediante virus informatici appare pienamente
compatibile con il dettato costituzionale e con l’interpretazione fornita dai
giudici9.
In Codice penale commentato, a cura di Emilio Dolcini, Giorgio Marinucci e Gian Luigi Gatta, IV
ed., Wolters Kluwer, Milano, 2015, tomo III, p. 565.
9 In tal senso v. anche P. TONINI, op. cit., pp. 398 - 401.
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Così facendo il legislatore ha operato uno specifico bilanciamento di interessi
optando per una pregnante limitazione della segretezza delle comunicazioni e
della tutela del domicilio, giustificata, però, dalla eccezionale gravità e
pericolosità, per l’intera collettività, di particolari categorie di reati per il quale è
richiesta una peculiare ed incisiva attività investigativa.
Occorre a questo punto circoscrivere la categoria dei delitti di criminalità
organizzata per cui trova applicazione la disciplina in analisi.
Per la Corte Suprema va infatti considerata una nozione ampia ed estensiva di
“delitti di criminalità organizzata”. Sono difatti ricomprese in questa categoria
attività eterogenee, purché realizzate da una pluralità di soggetti, i quali, per la
commissione di tali reati, si avvalgono di una struttura organizzativa, che esula
dal mero concorso di persone.
Rientrano, dunque, in questa categoria, i delitti elencati nell’art. 51, commi 3 bis
e 3 quater, del c.p.p., e tutti i reati commessi mediante un’associazione a
delinquere ex art. 416 del c.p., per le attività criminose più diverse, con
esclusione del solo concorso di persone.
Per tali ragioni, per i giudici, non vi sarebbe alcun contrasto tra questa disciplina
e i principi costituzionali posti a tutela della segretezza delle comunicazioni, della
libertà di domicilio e della riservatezza.
Più volte, infatti, la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla
compatibilità dell’art. 266, comma 2, del c.p.p., con il dettato costituzionale e,
nella specie, con l’art. 14 della Costituzione.
Al riguardo va rammentata la sentenza della Corte Costituzionale n. 135 del
2002, nella quale il Giudice delle leggi ha affermato che il riferimento, nell’art.
14, comma 2, Cost., alle “ispezioni, perquisizioni e sequestri”, non è espressivo
dell’intento di tipizzare le deroghe all’inviolabilità del domicilio, essendo, queste
ultime, solo indicative delle ipotesi di limitazione della predetta libertà, in quanto
fattispecie storicamente radicate all’epoca della redazione della Carta
Costituzionale, che non poteva certo tener conto “delle forme di intrusione attuali
per effetto dei progressi tecnici successivi”.
Per la Corte Suprema, non risulta neppure essere lesa la dignità umana, in
quanto, in ossequio all’art. 2 della Costituzione, è possibile applicare la sanzione
della inutilizzabilità di talune intercettazioni, i quali, per le loro modalità di
attuazione o in ragione dei loro esiti, abbiano, in concreto, leso la persona nella
sua dignità.
Non vi sarebbe, altresì, contrasto con l’art. 8 della CEDU, poichè, come
costantemente affermato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, le
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intercettazioni effettuate mediante virus informatici nei delitti di criminalità
organizzata rispettano il principio di proporzionalità.
Per questi motivi, secondo la Corte, in attesa di un compiuto intervento del
legislatore in materia e, quindi, de iure condito, ribaltando il precedente
orientamento della sentenza “Musmeci”, non sono consentite le intercettazioni
nei luoghi indicati dall’art. 614 del c.p., con il mezzo del captatore informatico,
al di fuori della disciplina derogatoria di cui all’art. 13 della L. 203 del 1991.
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