la strage di via carini

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la strage di via carini
La mafia
Cosa nostra
Il delitto dalla Chiesa
LA STRAGE DI VIA CARINI
LA VICENDA GIUDIZIARIA
Alla base del processo per la strage di via Carini (l’uccisione del prefetto Carlo
Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e del loro agente di
scorta, Domenico Russo) c’è l’ordinanza di rinvio a giudizio firmata da Antonino
Caponnetto e dal pool antimafia dell'ufficio istruzione di Palermo che conteneva la
più dettagliata ed aggiornata mappa della mafia del dopoguerra e che dette origine al
primo maxi processo contro Cosa nostra che cominciò nell’aula bunker del carcere
dell’Ucciardone, a Palermo, il 10 febbraio del 1986. Ovviamente l’omicidio dalla
Chiesa non è l’unico dei delitti esaminati.
La sentenza viene pronunciata il 16 dicembre 1987: 19 gli ergastoli, 319 le condanne
a pene varianti tra i sei ed i 30 anni di reclusione, 114 le assoluzioni.
Sono due sostanzialmente i filoni portanti di quel dibattimento: il complesso dei
delitti compiuti contro esponenti dello Stato e delle sue istituzioni, con una valenza
definita dai giudici “terroristico mafiosa” e quello relativo alla lotta intestina (la
“guerra di mafia”) scatenata dalle cosche di Corleone (i “vincenti”) per il controllo
totale dell’organizzazione, delle sue strategie, dei suoi affari che aveva decimato, a
partire dall' uccisione di Stefano Boutade, tutti i boss emergenti degli anni Settanta (i
“perdenti'”). Per tutti i delitti, compreso quello di Dalla Chiesa, viene condannata
tutta la “cupola” di Cosa nostra.
Il processo d’appello si conclude il 10 dicembre 1990 e, ridefinendo i criteri della
“prova”, ridimensiona le condanne. La corte d’appello si allinea infatti ad alcuni
orientamenti che frattanto si erano manifestati in Cassazione. In secondo grado viene
così riaffermata la natura “personale” della responsabilità penale con un conseguente
affievolimento delle responsabilità “oggettive” dei componenti della “cupola”, visti
dai giudici di primo grado (ed era anche la tesi del “pentito” Buscetta) come supremo
organo decisionale di Cosa Nostra.
Le condanne vengono inflitte in questa fase dibattimentale solo allorché si ritiene
provata una manifesta affermazione di volontà dei singoli componenti della “cupola”
nella decisione di singoli fatti delittuosi. Gli ergastoli sono quindi 12, 86 le nuove
assoluzioni, 258 le condanne a pene varianti tra i 4 ed i 30 anni.
Rispetto al primo verdetto rimangono, per esempio, impuniti l'uccisione del vice
questore Boris Giuliano, del medico legale prof. Paolo Giaccone, dell’agente di
polizia Calogero Zucchetto. Ma sopratutto i giudici di appello prospettano l’ipotesi
che i grandi delitti siano stati compiuti dalle cosche “perdenti” per farne ricadere la
responsabilità su quelle “vincenti”.
Il 30 gennaio 1992 la Cassazione ribalta la sentenza d’Appello, stabilendo che per i
vertici di Cosa nostra il processo vada rifatto in relazione agli omicidi eccellenti, cioè
dall’uccisione di Dalla Chiesa alla morte del commissario Boris Giuliano, fino
all’eliminazione dei boss Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo.
Torna così a riaffermarsi il “teorema Buscetta”: le colpe sono collettive. A discapito
della “responsabilità individuale”.
La prima sezione penale della Suprema Corte, in 1.525 pagine, afferma che Cosa
nostra è costituita da un’organizzazione piramidale governata dalla cosiddetta
“cupola”, tesi questa sostenuta sin dall’inizio da Falcone. I giudici considerano poi
sullo stesso piano l’appartenenza e la partecipazione all’associazione per delinquere
di stampo mafioso. Non occorre, si legge nella motivazione della sentenza, “che ogni
partecipe si renda protagonista di ogni singolo atto di esercizio della condotta
mafiosa. E' l’associazione nel suo insieme che deve concretare gli estremi della
fattispecie penale, bastando per il partecipe l’appartenenza, con la consapevolezza
che l' associazione agisce grazie anche al suo apporto”.
Per imputati come Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo
Brusca, Pippo Calò, Francesco Madonna e Benedetto Santapaola il processo deve
essere ricelebrato.
E così il 17 marzo 1995 arriva la sentenza del secondo processo d’Appello. Dieci
sono le condanne all’ergastolo inflitte dalla seconda sezione della corte d’assise
d’appello di Palermo: Totò Riina, Bernardo Provenzano, all’epoca latitante; Michele
Greco, il ''papa''; Francesco Madonia; Pippo Calò, Bernardo Brusca, boss di San
Giuseppe Jato; Antonino Geraci detto ''Nené'' capo del mandamento di Partinico;
Francesco Spadaro; Pietro Senapa e Francesco Bruno. Assolto il boss catanese Nitto
Santapaola per il caso Dalla Chiesa.
Degli altri imputati Salvatore Maniscalco viene condannato a 24 anni e 6 mesi,
Giuseppe Guttadauro a cinque anni e Antonino La Rosa a 10 mesi in aggiunta ad una
precedente condanna per associazione mafiosa. Assolto da tutti i capi di imputazione
Vincenzo Randazzo.
La sentenza riconosce a Riina e alla “cupola” la responsabilità non solo per la strage
Dalla Chiesa, ma anche per l’uccisione, il 21 luglio 1979, del vice questore Boris
Giuliano e per l' agguato dell’11 agosto 1982 al medico legale Paolo Giaccone.
Il 10 giugno 1996 questa sentenza viene pienamente confermata dalla corte di
Cassazione.
Processati e condannati i mandanti della strage di via Carini resta da colpire ora gli
esecutori materiali, mentre sfuggirà, con ogni probabilità per sempre, chi in effetti
ordinò alla mafia di eliminare il generale.
Il 20 ottobre del 2000 i giudici della seconda sezione della corte d’assise di Palermo
accolgono la richiesta di rito alternativo (rito abbreviato) avanzata dai difensori degli
imputati Antonino Madonia, Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese e Vincenzo
Galatolo, accusati di aver fatto parte del commando che aprì il fuoco sulle auto del
generale, di sua moglie e dell’uomo di scorta. Con loro vengono processati anche i
due “pentiti” che li accusano e che hanno confessato la propria partecipazione al
delitto: Calogero Ganci, figlio di Raffaele, e Francesco Paolo Anzelmo, suo cugino.
Nell’udienza del 31 maggio 2001 l’agguato di via Carini viene ricostruito al
computer dai tecnici dell’Unità di analisi del crimine violento della Polizia
scientifica.
Dalla simulazione virtuale dell’attentato emerge che l’A112, su cui si trovavano il
prefetto e la moglie, venne affiancata e superata da una Bmw 518 su cui viaggiavano
Antonino Madonia e Calogero Ganci. A fare fuoco con un kalashnikov fu Madonia
che sparò dando le spalle al parabrezza. Una seconda vettura, guidata da Anzelmo,
seguiva il prefetto, pronta ad intervenire per bloccare l’eventuale reazione dell’agente
di scorta. Russo fu assassinato da Pino Greco “Scarpuzzedda” che seguiva i suoi
complici a bordo di una moto. La A112, dopo essere stata investita dal fuoco del
kalashnikov, sbandò, costringendo l’auto dei killer a sterzare bruscamente a destra.
L’attrito tra le due macchine sarebbe provato da un profondo solco sulla fiancata
dell’automobile di Dalla Chiesa.
La ricostruzione conferma che “Scarpuzzedda” giunse sul luogo del delitto quando i
suoi complici avevano già fatto fuoco sul prefetto. Il particolare era stato raccontato
agli investigatori dai pentiti Ganci e Anzelmo, secondo i quali Pino Greco avrebbe
protestato per non essere riuscito a sparare per primo. “Me li avete fatti trovare
morti”, avrebbe detto il killer.
Il 22 marzo 2002, a quasi vent’anni di distanza, si chiude il cerchio. Dopo i boss della
“cupola”, già condannati all’ergastolo come mandanti dell’agguato, è la volta dei
componenti del commando mafioso.
Il carcere a vita viene inflitto ad Antonino Madonia e Vincenzo Galatolo. Francesco
Paolo Anzelmo e Calogero Ganci, vengono invece condannati a 14 anni di carcere,
grazie alle attenuanti previste per i “collaboratori di giustizia”.
Ma la sensazione prevalente è che non tutti i retroscena del delitto, a cominciare dai
rapporti tra mafia e servizi segreti, sono stati chiariti.