Democrazia, Transitologia ed Orientalismo: Alcune riflessioni sulla
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Democrazia, Transitologia ed Orientalismo: Alcune riflessioni sulla
Democrazia, Transitologia ed Orientalismo: Alcune riflessioni sulla democratizzazione in Medio Oriente Andrea Teti† Plymouth International Studies Centre University of Plymouth 8 Portland Villas, Plymouth PL4 8AA Regno Unito Tel.: +44 (0)1752 233204 Fax: +44 (0)1752 233206 Web: www.plymouth.ac.uk/staff/ateti Abstract Questo articolo si propone di fornire un quadro sia intellettuale che politico all’interno del quale si possa riflettere sul significato sia delle elezioni in Medio Oriente durante il 2005 e più in generale sugli sforzi verso la democratizzazione in quei Paesi, sia sui risvolti politici del dibattito stesso su questi temi. Vengono quindi proposte nella prima parte un’analisi del dibattito sulla democratizzazione ed i suoi ostacoli in questa regione, mentre la seconda parte dell’articolo propone una riflessione sulla natura del dibattito stesso e sul rapporto tra le fondamenta intellettuali Orientaliste di questo dibattito e la produzione sia della letteratura scientifica sull’argomento sia delle politiche estere occidentali verso l’Oriente, inteso sia geograficamente che tematicamente/moralmente. † Desidero ringraziare Gennaro Gervasio per gli utilissimi commenti. Tutte le citazioni in italiano da testi in altre lingue sono traduzioni dell’autore. Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo Introduzione Coincidenza ha voluto che il 2005 sia stato anno di elezioni in molte parti del Medio Oriente. Già scottante tema sia della politica sia del dibattito scientifico per via dell’intervento statunitense in Iraq e del più ampio progetto di democratizzazione del ‘Greater Middle East’ favorito da Washington, il ‘problema’ della democrazia e della democratizzazione in questa regione si sono elevati ancora una volta all’attenzione internazionale. Questo numero speciale di Meridione cerca di fornire uno spunto tempestivo ma rigoroso per una riflessione complessiva sugli eventi del 2005 e del primo 2006. In questo contesto, la maggior parte degli articoli presenti in questo volume offre sia dati informativi sulle elezioni ed i contesti storico-politici all’interno dei quali le elezioni si sono svolte, sia spunti analitici per cercare di valutare da un lato quanto ci si possa attendere dal processo di democratizzazione in questa regione, e dall’altro quanto siano utili gli strumenti analitici sui quali contano non soltanto gli ambienti accademici ma in ultima analisi anche le leadership politiche. Il presente articolo si propone di fornire un quadro sia intellettuale che politico all’interno del quale si possa riflettere sul significato sia delle elezioni in Medio Oriente e più in generale sugli sforzi verso la democratizzazione in quei paesi, sia sui risvolti politici del dibattito stesso su questi temi. Vengono quindi proposte nella prima parte un’analisi del dibattito sulla democratizzazione ed i suoi ostacoli in questa regione; nella seconda parte si riflette su alcuni delle rappresentazioni dell’Islam che rendono possibili certe impostazioni analitiche; mentre la terza parte propone una riflessione sulla natura del dibattito stesso e sul rapporto tra le fondamenta intellettuali Orientaliste di questo dibattito e la produzione sia della letteratura scientifica sull’argomento sia delle politiche estere occidentali verso l’Oriente, inteso sia geograficamente che tematicamente/moralmente. Democrazia e Transitologia tra stato e societá civile La politica mediorientale, nonostante obiezioni saidiane, è stata da sempre compresa dagli studiosi Occidentali in termini di differenza o deviazione dai modelli idealizzati dei sistemi politici evolutisi in Europa e poi negli USA. Questa impostazione di base ha portato a puntare l’attenzione di analisti nonché delle classi politiche e delle opinioni pubbliche su fattori quali le culture Arabe ed Islamiche, le divisioni etnicoreligiose della regione, le difficili condizioni della partecipazione ad una politica 2 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo dominata dal patrimonialismo, la spesso difficile condizione delle donne, ed in maniera minore altri fattori ‘esterni’ quali l’impatto di condizioni strutturali a livello internazionale come l’importanza delle risorse naturali (petrolio, acqua), le strutture dell’economia politica globale, o il bipolarismo della guerra fredda. L’evoluzione del dibattito sia pubblico che accademico sulla questione della democrazia in Medio Oriente è articolata dall’evoluzione del pensiero su tre questioni principali: il rapporto tra stato e società civile, la natura ed il ruolo della ‘cultura’, e la natura dello stato stesso. Partendo da tentativi di analizzare la natura del rapporto tra stato e società civile in una democrazia ‘consolidata’ ed economicamente ‘sviluppata’, si cercava di determinarne l’equilibrio ideale per favorire una transizione democratica in sudamerica, nei Paesi dell-ex blocco sovietico, in Asia, ed in medio oriente. In questo senso, si possono distinguere gli studi intrapresi all’interno delle cosiddette ‘area studies’ da quelli delle ‘scienze politiche’ propriamente dette. Gli studi medio-orientali classicamente intesi hanno puntato sul rapporto regionale tra stato e società civile, ed il dibattito in questo senso è stato dominato a sua volta – e continua largamente ad esserlo – da dispute sulla natura e sull’impatto della cultura Arab e/o Islamica. Le scienze politiche, a partire dagli anni 80, si sono invece preoccupate non soltanto dell’equilibrio tra stato e società civile, ma, sulla scorta dei problemi di questa concezione dicotomica, hanno anche cominciato a riformulare la concezione stessa dello stato. In entrambi i casi, tuttavia, a differenza dei sistemi Occidentali nei quali la norma dell’attività politica viene presunta essere egalitaria, e quindi dove i cittadini possono senza distinzione di classe sociale o rango economico, religione, o genere partecipare attivamente alla vita politica del Paese, il Medio Oriente viene caratterizzato quale regione ove la cultura Arabo-Islamica e/o uno stato autoritario danno vita a sistemi politici dominati da rapporti patrimoniali e fortemente gerarchici. A differenza dell’Occidente, l’influenza politica si dice garantita dalla combinazione delle reti di lealtà tradizionali, e dell’abilità di ‘comprare’ la lealtà delle proprie constituencies tramite remunerazioni materiali. Una prima generazione di mediorientalisti, i Vatikiotis, Kedourie, Wittfogel, e Lewis dell’Orientalismo classico, afferma che la solidità di queste strutture patrimoniali, lo strapotere storico dello stato ‘Arabo’ o ‘Islamico’, e l’altrettanto tradizionale passività della ‘società civile’ (dettata dalla natura intrinseca dell’Islam, e 3 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo malcelata sotto la patina di nuove strutture partitiche e sindacali) spiegherebbero la lentezza della trasformazione in senso democratico del Medio Oriente.1 In uno sviluppo di cui Sadowski giustamente nota l’ironia, sulla scorta di Gellner, una seconda generazione di Orientalisti inverte questa spiegazione: la rivoluzione iraniana e poi la caduta dei prezzi del petrolio, nonchè l’emergenza dei gruppi ‘Islamisti’ dai Fratelli Musulmani egiziani a Hizballah e Hamas, portano Gellner ed una seconda generazione di ‘Neo-Orientalisti’ a rivalutare il rapporto storico tra stato ed una qauasi-società civile composta da tribù, clan, ulema, mamelucchi, nonchè odierni mullah,2 asserendo questa volta che gli ostacoli alla democratizzazione provengono dallo strapotere di questi gruppi nei confronti di un debole stato ‘khalduniano.’3 Tuttavia, queste analisi hanno in comune con l’Orientalismo classico la convinzione che per ragioni materiali o culturali che siano, le condizioni che impediscono al medio oriente di ‘modernizzare’ e di 1 Springborg, Robert “Patterns of Association in the Egyptian Political Elite” in George Lanczowski (ed.) Political Elites in the Middle East, Washington, D.C.: American Enterprise Institute Press, 1975; Mardin, erif “Power, Civil Society and Culture in the Ottoman Empire” Comparative Studies in Society and History, giugno 1969, vol. 2, pp. 258-82. Lewis afferma che l’Islam sia alla radice di questa debolezza della società civile, negando che l’Islam abbia mai conosciuto “corporate or legal persons; Islamic history shows no councils or communes no synods or parliaments, nor any other kind of elective or representative assembly” Lewis, Bernard The Middle East and the West, Harper Torchbooks, New York, 1964, p. 48. Sulla stessa scorta, si vedano Lewis, Bernard The Political Language of Islam, University of Chicago Press, Chicago, 1988; Kedourie, Elie Democracy and Arab Political Culture, Washington Institute for Near East Policy, Washington, D.C., 1992, p. 4; e Vatikiotis, P.J. Islam and the State, Croom Helm, Londra, 1987. Sul ruolo delle reti patrimoniali si veda Moore, Clement Henry “Authoritarian politics in unincorporated societies: The case of Nasser’s Egypt,” Comparative Politics, 1974, vol. 6, p. 207ff. Classicamente, Wittfogel difende la tesi secondo la quale la staticità e l’assolutismo ‘orientale’ hanno radice nella natura dell’irrigazione nelle economie agrarie di queste società. Wittfogel, Karl Oriental Despotism: A Comparative study in Total Power, Yale University Press, New Haven, 1957. 2 Moore e Waterbury poi abbandonarono le loro posizioni sulla debolezza della società civile ‘islamica’ – si vedano Moore, Henry Clement “Clientelist Ideology and Political Change: Fictitious Networks in Egypt and Tunisia” in Gellner, E. e Waterbury, J. (a cura di) Patrons and Clients in Mediterranean Societies, Duckworth, Londra, 1977; Waterbury, J. The Egypt of Nasser and Sadat: The political economy of two regimes, Princeton University Press, Princeton, 1983; nonchè Sivan, Emmanuel “The Islamic Resurgence: Civil Society Strikes Back” Jounral of Contemporary History, 25:355-64, 1990; il testo classico in questo senso rimane Norton, Augustus Richard (a cura di) Civil Society in the Middle East, vol. 1 (E.J. Brill, Leiden, 1994) e vol. 2 (E.J. Brill, Leiden, 1996). 3 Secondo John Hall, per esempio, “government has very slim roots in society, and stability came to depend upon such solidarity as rulers […] could achieve.” Hall, John Powers and Liberties: The causes and consequences of the rise of the West, Penguin, Harmondsworth, 1985, p. 89. In una paradossale inversione delle argomentazioni del primo Orientalismo, tuttavia, la forza dell’opposizione allo stato, causando una destabilizzazione politica più ampia, non si tradusse in forza della società civile e quindi anzichè favorire, impedì la democratizzazione. Questa posizione salva chiaramente l’essenzialismo culturalista dell’Orientalismo classico – si spiega proprio con la natura dell’Islam, difatti, perchè società civili vigorose sia in Europa che nel Medio Oriente abbiano prodotto risultati così diversi. 4 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo ‘democratizzare’ siano strutturali, insite nella natura stessa della regione e della sua popolazione.4 Dal canto loro, evitando per formazione l’esplicito culturalismo essenzialista dell’Orientalismo classico, le scienze politiche hanno tradizionalmente sottolineato l’importanza di fattori materiali e dinamiche patrimoniali, spiegando la mancanza di democratizzazione in funzione dello strapotere autoritario dello stato e dell’assenza od impotenza della società civile. Tuttavia, proprio questo tentativo ‘scientifico’ di evitare il ricorso a spiegazioni ‘culturaliste’ limita questo tipo di approccio dato che i regimi in questione chiaramente usano una serie di dispositivi non-materiali nel tentativo di legittimizzare il loro potere.5 Una seconda generazione di autori cerca di generalizzare quest’analisi incorporando il largo uso fatto da parte dei ‘regimi’ del Medio Oriente di simbolismi religiosi, etnici e culturali, argomentando che una parte non trascurabile della stabilità di questi regimi dipende appunto dal fatto che essi riescono a manipolare a proprio favore queste serie di dimensioni simboliche, sviluppando una serie di ‘strategie di legittimazione non-repressive.’6 In effetti, la necessità di ripensare l’idea di stato, nonché il suo rapporto con le forze sociali veniva sottolineata da certa parte degli studiosi del Medio Oriente a partire dalla metà degli anni 80. Per esempio, studiosi delle relazioni internazionali del Medio Oriente come delle sue politiche interne quali Halliday, Ayubi e Zubaida hanno indicato la necessità di riconcettualizzare lo Stato in generale date le particolarità degli stati Medio Orientali e le lezioni che da essi si possono trarre circa 4 Si veda soprattutto il lavoro (nonchè l’attivismo politico) di Daniel Pipes –p.es. Pipes, Daniel Slave Soldiers and Islam: The genesis of a military system, Yale University Press, New Haven, 1981; cf. Gerber, Haim. The Social Origins of the Modern Middle East, Boulder, Lynne Rienner, Colorado, 1987; Pipes, D. In the Path of God: Islam and Political Power, New York: Basic Books, 1983; e Pipes, D. In the Path of God: Islam and Political Power, New York: Basic Books, 1983; cfr. Said, Edward “Orientalism reconsidered” in Barker, Francis et al. (a cura di) Literature, Politics and Theory, Londra, Methuen, 1986. Pipes ha scritto spesso per il Wall Street Journal, oltre che essere editore di Middle East Quarterly, rivista che “promotes American interests in the Middle East”, essere stato consulente per il Dipartimento di Stato USA, e vicino agli ambienti neo-conservatori. 5 Pawelka, P. 1985. Herrschaft und Entwicklung im Nahen Osten: Ägypten [Potere Politico e Sviluppo nel Vicino Oriente: Egitto], C.F. Müller, Heidelberg, p. 24. 6 Si vedano per esempio Brooker, P. Non-Democratic Regimes – Theory, Government and Politics, St. Martin’s Press, New York, 2000, pp. 100ff; Murphy, E.C. “Legitimacy and Economic Reform,” Journal of North African Studies, vol. 3, 1998, pp. 71-92; Bank, André “New Authoritarian Practices in the Arab Middle East: Evidence from Jordan, Morocco and Syria” Journal of Mediterranean Studies, vol. XIV, 1/2, 2004, pp. 155-179; e Brumberg, Daniel “Authoritarian Legacies and Reform Strategies in the Arab World,” in R. Brynen, B. Korany e P. Noble (a cura di) Political Liberalization and Democratization in the Arab World, Vol. 1: Theoretical Perspectives, Lynne Rienner, Boulder: CO, 1995, pp. 229-259. 5 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo la natura ‘in se’ dello stato.7 Owen, a sua volta, ha sottolineato la modernità dello stato Medio-Orientale nel senso che è imbricato in una serie di rapporti economici del moderno/tardo capitalismo.8 Questi dibattiti, poi, si inseriscono in un’analisi all’interno delle scienze politiche sulla questione di quale tra stato e ‘società civile’ sia la dimensione ontologicamente e causalmente fondante del politico.9 In questo contesto, Hobson suggerisce che si può mantenere l’attenzione sullo stato sempre che se ne amplii la concezione, spostando l’enfasi sulla reciproca interpenetrazione e quindi sulla questione della relativa autonomia delle due variabili.10 Migdal, infine, cerca di proporre un’analisi di stato e società civile che ne riconoscano la reciproca integrazione, spostando l’enfasi sullo ‘state-in-society’ anziché la limitante dicotomia di ‘state vs. society’,11 a sua volta reminiscente del concetto di ‘patto’ tra forze autoritarie e democratizzanti, tra stato ed opposizione, che può facilitare la democratizzazione nell’analisi di O’Donnell, Schmitter e Whitehead.12 Si è cercato di riflettere anche sulla concezione di stato, che, partendo da una semplicistico modello ‘westphaliano’ basato sull’esperienza europea, cominci a proporre una gamma più ampia e più realistica di ‘forme’ statali. Come molta altra parte di questa letteratura, queste riflessioni sono di ispirazione neo-weberiana, ed in questo caso prendono spunto da un tentativo di recuperare la sottigliezza del pensiero di Weber nel suo uso del ‘tipo ideale’ come concetto limite/limitante, laddove troppa letteratura successiva ha presunto una coincidenza tra tipo ideale e tipo normale od ordinario che è semplicemente ingiustificata empiricamente.13 Di conseguenza, le 7 Halliday, Fred. “State and Society in International Relations: A Second Agenda,” Millennium, vol. 16, n. 2, 1987, pp. 215-227; Ayubi, Nazih Over-stating the Arab State, I.B. Tauris, Londra, 1996, Zubaida, Sami Islam, the People and the State: Essays on Political Ideas and Movements in the Middle East, Routledge, Londra, 1989. 8 Owen, Roger. State, Power and Politics in the Making of the Modern Middle East, Routledge, Londra, 2° edizione, 2000, p. 5. 9 P.es. Skocpol, T. “Bringing the State Back In: Strategies of Analysis in Current Research.” In Brining the State Back In, P.B. Evans, D. Rueschemeyer, e T. Skocpol (a cura di), Camridge University Press, Cambridge, 1985. 10 Hobson, J.M. The State and International Relations, Cambridge University Press, Cambridge, 2000. 11 Migdal, Joel. State in Society: Studying how states and societies transform and constitute one another. Cambridge University Press, Cambridge, 2001. 12 O’Donnell, G., Schmitter, Philippe C. e Whitehead, Laurence “Tentative conclusione about Uncertain democracies” in G. O’Donnell, P.C. Schmitter, e L. Whitehead (a cura di) Transition from Authoritarian Rule: Prospects for Democracy, Baltimore, 1986. Sul Medio Oriente, si vedano i contributi di Waterbury, Leca e Salamé in Salamé, G. (a cura di) Democracy without Democrats: The Renewal of Politics in the Muslim World, I.B. Tauris, Londra,1994. 13 Schwarz, R. “The Invention of the Arab State: Changing patterns of legitimacy in the 1990s” Journal of Mediterranean Studies, vol. XIV, 1/2, 2004, pp. 181-212, p. 184). 6 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo analisi scientifiche del rapporto tra stato e società civile troppo spesso erroneamente hanno finito per misurare i ‘difetti’ dei casi reali in base al tipo ideale piuttosto che dal complesso dei tipi ‘normali.’14 Midgal, quindi, propone che “lo stato [venga considerato] un campo di potere demarcato dall’uso e dalla minaccia/possibilità dell’uso della violenza e caratterizzato da (1) l’immagine di un’organizzazione coerente e controllante all’interno di un certo territorio, che è rappresentativo della popolazione delimitata da quel territorio, e (2) le effettive pratiche delle sue molteplici parti.”15 Sulla scorta di Migdal, Schwarz propone quindi una distinzione tra ‘core Westphalian state’ e ‘stato Westphaliano periferico’ che riconosca le particolari circostanze che si trovano a fronteggiare gli stati ‘non-consolidati’ al di fuori della sfera ‘westphaliana’ occidentale, come per esempio la maggior precarietà sia materiale che ideologica dell’apparato statale. Per quanto riguarda la ‘civil society’ stessa, la letteratura scientifica cominciò con grande slancio a ‘contare’ il numero delle Ong nei Paesi in via di transizione democratica,16 per poi produrre una seconda generazione di letteratura più sofisticata (e scettica) circa l’univocità del rapporto tra Ong e democrazia, che ne scinde la proporzionalità semplice e diretta presunta dalla prima generazione, e che riconosce l’ambiguità culturale dell’adozione di questo ‘strumento’ occidentale, oltre che la natura non-neutrale ma squisitamente politica dell’azione di queste organizzazioni.17 Tutto ciò è di particolare importanza per l’analisi della questione della democratizzazione in Medio Oriente, poiché contribuisce a generare i canoni stessi in base ai quali viene portata avanti quell’analisi, creando i termini entro i quali vengono fatte le raccomandazione per la crescita della civil society così popolare durante gli anni 90. Questi dubbi ‘storici’ della comunità scientifica, oltre che una critica saidiana di cui ancor’oggi v’è innegabile bisogno, spostano poi l’attenzione su due questioni: in primo luogo, sulla necessità di sviluppare categorie analitiche ‘indigene’; ed in 14 Migdal op.cit. p. 15. Ibid. 15-16). 16 Kandil, A. Civil Society in the Arab World, CIVICUS, Washington D.C., 1995a; e Kandil, A. Dawr al-munathmat ghayr al-hukumiya fi misr, Rasa’il al-Nida’ al-Jadid, il Cairo, 1995b; Fisher, J. Nongovernments: NGOs and the Political Development of the Third World, Kumarian Press, West Hartford 1998; ed un volume dell’Ibn Khaldun Centre for Development AA.VV. Civil Society in the Arab World Project, Dar al-Ameen, il Cairo, 1995. 17 AA.VV. “Critiquing NGOs: Assessing the Last Decade,” Middle East Report, www.merip.org/mer/mer214/mer214.html, 2000; Hearn, J. “The Uses and Abuses of Civil Society in Africa,” Review of African Political Economy, n. 87, 2001, pp. 43-53; al-Masri, S. Tatbia‘ wa tamwil: qissa al-gama‘iyat ghayr al-hukumiya, Markaz al-Nadim li-l-Ibhath wa-l-ma‘lumat, il Cairo, Vol. 1 e 2, 1998 & 1999. 15 7 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo secondo luogo di sviluppare più coerentemente il paragone con i sistemi ‘occidentali’, portando lo stesso scetticismo critico nei confronti della politica interna Paesi occidentali che c’è in abbondanza nello studio dei Paesi ‘Islamici’. Oltre alle questioni circa la natura dello stato in Medio Oriente, esistono una serie di argomentazioni che si potrebbero dire più esplicitamente ‘culturaliste’ nella letteratura che analizza la particolarità dello stato Medio Orientale rispetto al ‘modello’ basato sull’esperienza Occidentale. Mentre l’Occidente viene visto come una realtà nella quale la fondamentale eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge garantisce una certa fluidità delle lealtà politiche trasgredendo le proprie origini etnico-religiose, molti studiosi implicitamente od esplicitamente sostengono che in Medio Oriente queste matrici etniche e religiose dell’identità, per loro natura, non possono essere trascese, e che quindi, di nuovo per ragioni culturali, il Medio Oriente sia una regione ove le divisioni esistenti tra Arabi e non-Arabi, tra Sunniti e Sciiti, tra Musulmani, Cristiani ed Ebrei, sono parte intrinseca ed imprescindibile della natura stessa del tessuto politico. Queste divisioni rappresentano un particolare ostacolo nel tentativo di sviluppare sistemi e pratiche politiche pluraliste e democratiche in questa regione. Le posizioni di cui sopra contengono pesanti implicazioni per quanto concerne le possibilità di un progetto democratico. Nella fattispecie, spesso queste posizioni portano a sostenere la presunta “incompatibilità tra ideologie Musulmane e idee di libertà, pluralismo, partecipazione, eguaglianza di opportunità, giustizia ed un ordine economico globale basato sull’economia di libero mercato.”18 Alcuni, per esempio, si soffermano sulla supposta maggiore ed inerente propensità a giustificare se non adottare la violenza da parte dell’Islam.19 La corrente ‘culturalista’ dell’analisi delle società Medio-Orientali si estende anche alla questione del ruolo e dai diritti delle donne. Il Medio Oriente è una regione ove i diritti umani in generale ed i diritti delle donne in particolare hanno una travagliata storia di obiettivi mancati o solo parzialmente raggiunti. 18 Milton-Edwards, Beverly. Islam and Politics in the Contemporary World, Polity Press, Cambridge, 2004, p. 89. 19 Per un’introduzione all’analisi di questo mito si veda Heristchi, C. e Teti, A. “Islam and Politics” in Haynes, J. (ed.) Religion and Politics, Londra: Europa Routledge, 2006, pp. 25-36; ed in particolare sulla questione del jihad si veda Vercellin, Giorgio. Jihad: L’Islam e la guerra, Firenze: Gruppo Editoriale Giunti, Firenze, 1997. 8 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo Nell’interpretazione delle radici di questi insuccessi, la rappresentazione delle culture Mediorientali (nonché dell’islam) quali fondamentalmente tradizionaliste e patriarcali, ha giocato un ruolo chiave. Contrariamente, l’Occidente viene visto quale sistema nel quale, sebbene perfettibile, la traiettoria verso la completa uguaglianza è più avanzata e in ogni modo destinata per natura dei sistemi Occidentali ad un eventuale successo. Vi sono infine una serie di meccanismi a livello della politica internazionale e globale che contribuiscono a creare in Medio Oriente difficili condizioni per lo sviluppo economico e/o democratico. Autori diversi individuano cause diverse in questo senso, dalle conseguenze della dipendenza economica strutturale (p.es. nel creare e sostenere il ‘rentier state’), all’impatto dell’egemonia politico-militare delle superpotenze durante la Guerra Fredda, all’odierna ‘iperegemonia’ statunitense.20 Sebbene in disaccordo tra loro sul rapporto tra queste cause, e distaccandosi dall’analisi puramente interna delle prime generazioni, sicuramente v’è ormai consenso sul fatto che il problema della democratizzazione – come la gran parte delle tensioni che affliggono la regione – non può essere analizzato senza tener conto dell’impatto di altre realtà che non solo vi sono legate direttamente o indirettamente, ma che sono di grande importanza per i cittadini in medio Oriente quali la questione Palestinese, il rapporto tra secolarismo e religione, e le condizioni economiche generali, e che queste fanno a loro volta parte di uno specifico contesto politicoeconomico globale. La presunzione negli anni 90 che la transizione verso la democrazia a livello globale fosse inevitabile è stata presto rimpiazzata da rinnovato scetticismo, soprattutto, riguardo al Medio Oriente, dopo gli eventi dell’11 settembre 2001. A fronte di queste difficoltà, attori politici ed intellettuali hanno preteso o incoraggiato una vasta gamma di risposte. Queste si possono dividere tra ‘top-down’ o ‘bottom-up’. Nella prima categoria si trovano la pressione per riforme istituzionali, per cercare di garantire una reale natura partecipatoria per i sistemi politici in questione; l’incoraggiamento alla lotta alla corruzione ed all’illegalità, per cercare di minare la ferrea presa del 20 P.es. Brown, L. Carl International Politics and the Middle East. Old Rules, Dangerous Game, Princeton University Press, Princeton, 1984; Pawelka, P. “Der Vordere Orient in der Weltpolitik: Sozialwissenschaftliche Modelle und Forschungsperspektiven [Il Medio Oriente nella Politica Globale: Modelli di scienze sociali e Prospettive sulla Ricerca]” Orient, vol. 41, n. 4, 2000, pp. 571-591; e Bromley, Simon, Rethinking Middle East Politics, Polity Press, Cambridge, 1994 sottolineano le varie dimensioni della dipendenza strutturale del Medio Oriente all’interno del sistema politico globale. 9 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo patrimonialismo sulla politica medio-orientale; ed infine il tentativo di garantire elezioni realmente libere, di modo che la reale ‘volontà popolare’ possa manifestarsi e quindi indurre cambiamenti, si presume in senso democratico, nei regimi in questione. Tra le risposte ‘bottom-up’ spiccano i tentativi di incoraggiare la crescita della ‘società civile’ e di garantire la difesa dei diritti umani – in senso sociale, economico e politico più o meno ampio – riforme che entrambe dovrebbero garantire, nelle intenzioni dei riformatori sia Medio-Orientali che Occidentali, una pressione in senso democratico sulle vecchie elite. A livello internazionale, ai regimi Medio Orientali sono stati offerti vari accordi la cui funzione sperata sarebbe stata di fornire incentivi economici per intraprendere riforme politiche graduali, oltre che misure per incoraggiare gli scambi culturali. Infine, v’è stata anche un’azione diplomatica per esercitare pressione sui governi Arabi affinché liberalizzino ulteriormente i loro sistemi politici (nonché economici), ampliando la sfera dei diritti umani, civili e politici riconosciuti ai loro cittadini. In queste ultime due categorie si trovano iniziative più o meno riuscite quali il c.d. Millenium Challenge e l’iniziativa di Pace in Medio Oriente statunitensi, e il quadro d’azioni previste dal c.d. ‘processo di Barcellona’ dell’Ue. Queste soluzioni al ‘problema’ della mancata democratizzazione vengono raccomandate singolarmente o congiuntamente ad altre, riflettendo una gamma di posizioni, da quella ‘minimalista’ sia politicamente che economicamente (neo)liberale ispirata al modello statunitense e riflesse nel c.d. Washington Consensus che verte sulla libertà del processo elettorale, sull’assetto istituzionale e sulla congiunzione di questi con la liberalizzazione economica, a quelle ‘massimaliste’ più riconoscibilmente social-democratiche nella tradizione Europea che integrano libertà socio-economiche con i diritti umani e politici. Il successo del modello anglo-americano di democrazia a livello internazionale è dovuto in parte alla più diretta misurarabilità del successo o fallimento di un tale progetto, ma soprattutto all’egemonia politica statunitense. Esplicitamente o implicitamente, per esempio, è ormai praticamente onnipresente sia nei media che nelle posizioni governative occidentali l’equazione di democratizzazione e liberalizzazione economica secondo il modello statunitense. L’egemonia politica globale americana, quindi, prim’ancora che nell’abilità coercitiva che deriva dallo strapotere finanziario e militare USA, si manifesta nell’influenza 10 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo indiretta intellettuale sui termini stessi del dibattito sulla democrazia in Medio Oriente. Difensori del modello alternativo (variamente interpretato) erano, almeno fino alla fine degli anni 90, molti Paesi Europei, nonché alcuni ‘in via di sviluppo’ come l’India o la Cina. Ma, come dimostrano i dibattiti sulla riforma dell’Onu, queste voci vengono spesso marginalizzate o, come nel caso del tentativo Cinese di costruire on Beijing Consensus, le enfasi alternative vengono usate a scopo politico per negare proprio i pieni diritti politici. In pratica, l’effetto di queste pressioni sia interne che internazionali a portato a delle strategie da parte dei regimi medio-orientali che se da un lato presentano certe concessioni a livello della partecipazione alle elezioni e/o a livello istituzionale (p.es. nella creazione di majlis, assemblee), in pratica adottano misure restrittive che garantiscono alle autorità il controllo sui candidati e quindi su una parte sostanziale del processo elettorale e politico in generale.21 Vi sono sicuramente altre esperienze dalle quali trarre buoni auspici, ma sulle quali ci si sofferma straordinariamente poco in Occidente. Redaelli, per esempio, nota che “[p]er quanto in Occidente l’elezione di Ahmadinejad possa essere vissuta con fastidio o preoccupazione, non si è sottolineato abbastanza come queste elezioni siano state elezioni assolutamente incerte: nessuno ne conosceva in anticipo i risultati. Un’incertezza ancora straordinariamente rara per le elezioni in Medio oriente.”22 Tali esperienze rimangono, tuttavia, una minoranza. Questo ha portato molti a commentare sulla ‘democrazia di facciata’ (Kassem) o sulla ‘pseudo-democrazia’ (Volpi) nella regione.23 Come si evince da tutti i contributi in questo volume, una tipica strategia adottata dai regimi per limitare la portata democratica del processo elettorale, è di vagliare le candidature a parlamenti e presidenze, o la formazione stessa dei partiti. 21 Paesi come il Marocco, l’Egitto, la Giordania e l’Iran dispongono di metodi ‘istituzinoali’ – p.es. criteri di ammissibilità dei candidati – per controllare le candidature alle elezioni e per limitare l’efficacia e l’indipendenza del legislativo. Su questa letteratura, si vedano per esempio Bank, op.cit., e Schwarz, op.cit., oltre che i contributi su ‘deliberalizzazione’ e ‘depoliticizzazione in vari numeri recenti del Journal of Democracy. 22 Redaelli presente volume. 23 Volpi, Frederic “Pseudo-democracy in the Muslim World,” Third World Quarterly, vol. 25, n. 6, 2004, pp. 1061-1078; Kassem, Maye. In the Guise of Democracy: governance in contemporary Egypt, Ithaca Press, 1999. 11 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo Questo quadro viene ulteriormente complicato da due fattori. Innanzitutto, tradendo ancora una volta una visione sostanzialmente Orientalista, spesso le spinte riformiste vengono giudicate sostanzialmente inutili o necessariamente superficiali, come del resto è accaduto nel caso iraniano. In secondo luogo, la stessa politica estera interventista USA, particolarmente quella ‘attivista’ delle Amministrazioni Bush Jr., radicalizza le opinioni pubbliche locali, rendendo quindi più difficile il compito di riformatori e moderati. Elezioni (libere) sono quindi necessarie ma non sufficienti perché vi sia una vera democrazia. Le elezioni ed il multipartitismo rimangono spesso sotto stretto scrutinio statale, ed in pratica vengono usate per legitimizzare le credenziali ‘democratiche’ per un Paese agli occhi di audience sia interne che, soprattutto, internazionali. V’è poi la questione della conseguenza di elezioni realmente libere all’interno di sistemi politici pluralisti nella regione: come evidenziato dalle famigerate elezioni algerine del 1991/92, nonché dall’esperienza turca, la reale possibilità di una vittoria ‘Islamista’ tramite metodi democratici viene spesso mal digerita sia dai regimi locali che dalle loro controparti Occidentali che, se anche intervengono a difesa retorica della democrazia, mal celano la poco Voltairiana indisponibilità a tollerare un regime ‘Islamico’. L’impatto di una ‘democratizzazione’ siffatta è discutibile e problematica in molti sensi: tra gli ottimisti queste riforme, sebbene imperfette, vengono viste come il primo di una serie di passi verso una transizione democratica; i pessimisti temono che la mancanza di una democrazia in senso sostanziale radicalizzi settori sempre più ampi di una società già scettica riguardo al concetto di democrazia grazie alla dimostrata mancanza di una reale volontà politica da parte sia di regimi locali che di egemoni internazionali. Questo supporto incompleto e selettivo dei processi di democratizzazione in Medio Oriente, palesato con tale chiarezza nel caso algerino, ha portato molti sulle frange radicali ed estreme della politica Medio Orientale in genere, ed Islamista in particolare, a respingere il concetto stesso di democrazia, nonché a tacciare – comprensibilmente – i governi occidentali di ipocrisia. Tutto questo ha portato molti studiosi, da O’Donnell e Schmitter a Diamond, da Lipset e Linz a Volpi e Kassem, dalla seconda metà degli anni 90, a suggerire che la natura autoritaria di questi regimi è stata rafforzata, non minata, dalla facciata democratica di cui è stata ricoperta la vita politica del Paese, e che queste nuove configurazioni, lungi 12 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo dall’essere forme di transizione tra autoritarismo e democrazia, rappresentano entità a se stanti e stabili. Il fatto che gli sforzi da parte di governi Occidentali nel promuovere la ‘democratizzazione’ in Medio Oriente siano quanto meno incompleti ed interessati viene ammesso più che esplicitamente da vari commentatori ed attori politici, sopratutto della destra europea e statunitense. Per esempio, Robert Haass, sottosegretario alla Difesa USA, ha dichiarato che “[a] volte, gli USA hanno evitato di scrutinare la politica interna di certi Paesi nell’interesse di assicurarsi uno stabile flusso di petrolio, di contenere l’espansionismo Sovietico, Iracheno ed Iraniano, di intervenire nel conflitto Arabo-Israeliano, di resistere al comunismo in Asia Orientale, o di assicurarsi i diritti a [mantenere] basi militari USA.” Tuttavia, dice Haass “I Musulmani [sic] non possono incolpare gli Stati Uniti per la loro mancanza di democrazia. Sebbene gli Stati Uniti giochino un ruolo importante sulla scena globale, ed i nostri sforzi nel promuovere la democrazia nel mondo islamico sono stati a volte tentativi ed incompleti.”24 Spesso, inoltre, come sottolinea Redaelli, gioca anche un cinismo da parte delle classi politico-diplomatiche occidentali che sovente preferiscono un singolo interlocutore, a prescindere dalla sua identità politica, piuttosto che avere a che fare con un’apparato istituzionale profondamente diviso che del resto è caratteristico sia di istituzioni democratiche, sia, necessariamente, di transizioni vero la democrazia. Altrove, altri come Robert Cooper, diplomatico di carriera britannico, membro del Foreign Policy Centre, e vicino a Tony Blair, hanno addirittura apertamente difeso una riscoperta dell’imperialismo come strumento di stabilizzazione e sviluppo per regioni quali il Medio Oriente.25 Questo genere di posizioni, bisogna tristemente riconoscere, tradiscono in pieno quei pregiudizi Orientalisti che Said smantellò nel suo celeberrimo Orientalismo.26 Nel rappresentare il Medio Oriente come una regione fuori dagli schemi, incapace per sua natura di diventare un ‘sistema di stati’ ‘normale’ – ove per ‘normale’ s’intende Occidentale – fondato sull’accoppiata di pluralismo politico e (neo)liberismo economico, questo tipo di analisi creano le condizioni per una politica 24 Haass, R. “The Goal Becomes Democray,” International Herald Tribune, 11 dicembre 2002. Cooper, Robert “Why we still need empires,” The Observer, 7 aprile 2002. 26 Said, Edward. Orientalismo: L’immagine Europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 2001[1978]. 25 13 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo estera altrettanto al di fuori dei canoni etici e legali della politica internazionale ‘normale’, precisamente lungo le linee candidamente ammesse da Haass. In effetti, appare incontrovertibile che l’intervento occidentale, per esempio in difesa dei regimi locali, sia mirato alla difesa dei propri interessi politico-economici a discapito dello sviluppo democratico locale. E bisogna naturalmente ricordare che, quali che siano le ‘reali’ motivazioni di certe scelte politiche occidentali, gli obiettivi ed i metodi della politica estera occidentale in generale e statunitense in particolare vengono giudicati dalle opinioni pubbliche mondiali in base alla discrepanza percepita tra retorica (democratica) e pratica (autoritaria) alla quale allude lo stesso Haass, nonché in base alle politiche interne anch’esse spesso di dubbie credenziali egalitarie. È quindi difficile non concludere che il problema della democratizzazione in Medio Oriente (come altrove), sebbene complicato, in un certo senso non sia poi particolarmente complesso. Gli ostacoli più immediati e sostanziali alla democratizzazione sono assolutamente palesi, e legati in maggior parte alla riluttanza Occidentale e dei regimi al potere di abbandonare logiche di difesa dei propri interessi che a lungo andare si sono dimostrate miopi e controproducenti. Sicuramente rimane il problema degli elementi anti-democratici delle varie opposizioni, ma rimane difficile non concludere che la matrice di questi elementi è da cercare nel legame tra le suddette politiche ufficiali e l’evoluzione in senso radicale delle ideologie e delle pratiche politiche di questi elementi. Da questo punto di vista, ha innegabilmente ragione Foucault nel dire che la democrazia per sua natura non può essere difesa dalle istituzioni create per proteggerla, ma può esistere solo laddove vi siano pratiche politiche personali democratiche. Democrazia ed Orientalismo: I Miti sull’Islam I dibattiti ai quali accenna la sezione precedente sono sicuramente importanti e proficui sia intellettualmente che politicamente. Tuttavia, si può aggiungere a queste prospettive un’ulteriore dimensione, vale a dire un’analisi delle radici intellettuali dei parametri stessi dei suddetti dibattiti. Un’operazione del genere significa in ultima analisi tracciare la genealogia e l’archeologia delle varie posizioni Orientaliste di cui sopra per cominciare a comprenderne le conseguenze politiche, ma anche e soprattutto le conseguenza degli assunti di base sui quali queste posizioni vengono 14 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo rese possibili. In altre parole, si tratta di recuperare il modo in cui le particolari modalità secondo le quali il sapere sul Medio Oriente viene organizzato e validato creano uno spazio, una ‘geografia’ epistemologica ed etica, all’interno della quale questi dibattiti si svolgono, una ‘cartografia morale’. È poi questa cartografia morale che incanala i dibattiti intellettuali e le scelte politiche verso certe foci e non altre, che a problemi da essa stessa creati ci consente di scorgere chiaramente certi tipi di ‘soluzioni’, offuscandone altre dietro passi invalicabili. Come fece notare Said, la radice di questo genere di cartografia deriva proprio dalla ‘mitologia’ costitutiva dell’identità Occidentale, ed in particolare dall’impostazione di base del rapporto tra Occidente e non-Occidente che costituisce uno degli elementi chiave di quest’identità. La traiettoria dei rapporti tra Europa e resto del mondo è una di quasi ininterrotta ascesa dal secolo XV in poi, e sicuramente a partire dal secolo XVIII. In seguito agli incontri/scontri tra culture europee e non che fecero per secoli parte integrante dell’espansione imperiale, vi furono vari tentativi europei di comprendere quale fosse la natura delle società che essi incontravano, e quale dovesse essere la natura dei rapporti con queste società. Queste domande trovarono risposte che quasi sempre legittimavano il dominio europeo e la scelta che proponevano le cosiddette ‘missioni civilizzatrici’ tra assoggettamento, assimilazione od annientamento per le società indigene. Quest’immagine di sé che l’Europa ha sviluppato nei secoli scorsi si basa sulla mitologizzazione della classicità greco-romana oltre che del Rinascimento, sulla celebrazione del progresso tecnico, nonché sulla celebrazione del soppiantamento delle credenze ‘popolari’ e dell’oscurantismo religioso Scolastico ad opera della ‘razionalità’ e della scientificità, e sulla conquista dell’egalitarismo socio-politico contro l’elitismo delle tradizionali aristocrazie europee. Chiaramente, queste conquiste erano parziali allora e lo rimangono a tutt’oggi, ma ciò non ha impedito che questa auto-rappresentazione, questo mito di sé permeasse l’immagine di tutto ciò che occidente non è (o per meglio dire, ciò che non rientra in quest’autorappresentazione). Ciò che rimane al di fuori di questa cima nella geografia morale oltre che politica europea, diventa quasi per definizione demarcato dalle caratteristiche opposte a quelle ‘occidentali’ – e quindi arretratezza sia tecnologica che sociale e morale, dominio dell’oscurantismo religioso anziché razionalismo ‘scientifico’ e secolare, e propensità alla barbarie e dalla violenta legge del più forte. 15 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo Dato quindi che tutto ciò che non è Occidente viene compreso in termini di opposizione e di deviazione da un modello tratto dall’esperienza occidentale e poi universalizzato presumendo fosse valido ed applicabile ovunque, è inevitabile che le analisi basate su questi assunti concludano che il Medio Oriente sia caratterizzato proprio da quella deviazione ed inferiorità irrecuperabili implicitamente ma imprescindibilmente legate agli assunti di base necessari alla storia, alla mitologia dell’identità occidentale. Tuttavia, è chiaro che l’esperienza occidentale è sia difficilmente generalizzabile, sia lungi dall’ideale preso a metro di paragone per il resto del mondo, e che quindi le funzioni di questa struttura rappresentativa sono altre che un semplice ‘riflesso’ della realtà. L’immagine dell’Altro riflessa dall’auto-rappresentazione Europea è strutturata secondo una serie interrelata di ‘miti’, uno dei quali è che l’Islam è per sua natura una religione più politica delle altre. Da questo scaturisce l’idea che l’Islam è per sua natura, e diversamente dal Cristianesimo, per esempio, una religione incompatibile con il secolarismo e quindi con la democrazia, ed in particolare che l’Islam è per sua natura una religione che incoraggia la violenza. Questa struttura narrativa, quindi, è di rilevanza diretta per il dibattito sulla democratizzazione in Medio Oriente, e servirà a spianare la strada per un approccio analitico diverso su questi dibattiti. L’Islam come religione inerentemente più politica delle altre Sebbene, a differenza del cristianesimo, l’Islam sia stato associato con la protezione dello ‘stato’ praticamente dalla sua nascita, dal periodo Medinese, ciò non significa che la questione del rapporto tra religione e stato non sia stata per questo motivo affrontata nella teologia e giurisprudenza islamiche, semplicemente che essa è stata posta in tempi e modalità diverse da quelle della sua controparte cristiana. Benedict Anderson chiamò le nazioni ‘comunità immaginarie’ poiché la loro esistenza si predica su atti di ‘fede’ collettivi , atti che prendono certi elementi dal passato di un gruppo di persone – elementi quali appunto lingua, storia e religione – ed in base a questi elementi compongono una narrativa che diventa storia, ‘credo’ ed atto fondatore di una comunità. A sua volta, Eric Hobsbawm dimostrò che la costruzione di queste identità comunitarie il processo grazie al quale queste comunità possono essere immaginate, dipende da una “formalizzazione e ritualizzazione, caratterizzate 16 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo dal riferimento al passato.”27 Questa lettura del passato, se non completamente arbitraria, è sicuramente selettiva, e nella storia dell’islam, come in quella di altre religioni, questa lettura è frutto dei legami tra religione e politica. Le manifestazioni storiche di questi legami, paradossalmente, spesso minano gli assunti occidentali riguardo il rapporto tra secolarismo e modernità, nonché tra Islam e politica. Islamisti contemporanei spesso difendono l’idea che l’Islam sia din wa-dawla, fede e stato. Le prime riflessioni sul rapporto tra religione e stato nell’Islam furono il risultato di tentativi da parte dei Kharajiti, Shi’iti, Mu’taziliti ed altri di sfidare la leadership Sunnita durante la prima espansione dell’impero. In questo periodo di formazione degli equilibri interni del nuovo impero, il ruolo dei giuristi a dei teologi co-optati nel tentativo di legittimare le rispettive leadership è cruciale. Queste pressioni politiche risultarono in una considerevole letteratura su doveri e privilegi del monarca, ma l’impeto era il bisogno di dimostrare la legittimità dell’autorità del monarca contro i suoi detrattori, non una putativa ‘essenza’ dell’Islam. Questo dibattito aveva dunque ben poco a che fare con il rapporto tra Islam e politica di per se. Durante queste prime fasi dell’impero era dunque il potere temporale che cercò più stretti legami con quello spirituale, consolidando il proprio primato co-optando le istituzioni religiose. Al contrario, gli Islamisti odierni tentano di usare la loro interpretazione politicizzata di questo rapporto tra poteri temporale e spirituale per cooptare lo stato. In realtà, inoltre, l’idea che l’Islam sia din wa-dawla non è per nulla antica, ed anzi affonda le proprie radici tutt’al più negli anni 30. La popolarità di quest’idea è, secondo Ayubi, testamento ‘della straordinaria influenza intellettuale della tesi fondamentalista’.28 Quest’evoluzione ed il suo successo, a loro volta, dovrebbe essere letto come il risultato dei particolari connotati del contesto politico contemporaneo. Il rapporto tra religione e stato nell’Islam, quindi, è mutato nel tempo, e mentre oggi è spesso più esplicitamente articolato rispetto al caso ‘secolare’ occidentale contemporaneo, non si può non concludere che lungi dall’essere fissato per natura dell’Islam stesso, questo rapporto è sicuramente mutevole. Né si può presumere che i ruoli sicuramente diversi tra loro ma centrali che l’Islam indubbiamente ricopre nella immaginario politico delle società medioorientali contemporanee sia necessariamente uno stimolo verso forme di intolleranza 27 28 4. Hobsbawm, Eric The Invention of Tradition, Cambridge Univeristy Press, Cambridge, 1983, pp. 4-5. Ayubi, Nazih. Political Islam: Religion and Politics in the Arab World, Londra: Routledge, 1991, p. 17 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo religiosa o culturale. Un secondo frequente pregiudizio riguarda il rapporto tra le ‘terre dell’Islam’ (dar al-islam) e stati non-Islamici. Il fatto che la letteratura tradizionale riferisca a questi ultimi quali dar al-harb, ‘terre della guerra’, è stato preso a significare – da Islamisti quanto in certi quartieri della destra occidentale – che vi possa solo essere uno stato conflittuale tra ‘Islam’ e ‘resto del mondo’. La frase dar al-harb, tuttavia, emerse durante una fase storica molto particolare – i primi 150 anni di rapida espansione iniziale dell’impero Arabo-Islamico – che vide quindi un costante stato di conflitto ai suoi confini. Questa prima fase portò sotto il controllo dell’impero numerosi gruppi originariamente non-Musulmani che si convertirono poi all’Islam. In fasi susseguenti di rapporti più stabili tra l’impero Arabo-Islamico ed i suoi vicini più potenti, il Corano ed i hadith vennero poi usati per elaborare modelli molto diversi di rapporti tra comunità di fede diversa. Vari strumenti teologicogiurisprudenziali quali il concetto di ahl al-kitab (Genti del Libro, ovvero coloro che secondo il Corano hanno ricevuto rivelazioni precedenti a quella Islamica, come Cristiani, Ebrei, e Zoroastriani) e di dhimma (persone o comunità protette), permisero una coesistenza pacifica tra comunità Islamiche e non-Islamiche sia all’interno dell’impero, che al suo esterno. In un periodo durante il quale l’Europa Cristiana fu incapace di concepire la tolleranza religiosa, tanto meno praticarla, questa caratteristica divenne uno degli elementi centrali che permise il fiorire intellettuale e culturale di società quali la Spagna Moresca e la Sicilia.29 In contesti contemporanei, l’Islam ha assunto forme esplicitamente politicizzate sia con la rivoluzione Iraniana del 1979 che con il fiorire di gruppi e partiti Islamici attraverso il mondo Islamico fin dai primi del 900. Sarebbe, tuttavia, un errore confondere l’ ‘islam politico’ contemporaneo con letteralismo scritturale, poiché si tratta di una lettura altamente innovativa sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista delle prassi politiche, e dev’essere inquadrato nell’ottica di una ‘ripoliticizzazione del sacro’ a sua volta dovuta a precisi elementi politici sia locali che internazionali.30 Il principale artefice dei cambiamenti post-rivoluzionari in Iran – e si ricordi qui che la rivoluzione non fu ‘islamica’ ma si basò su una larga alleanza di forze sociali –, l’Ayatollah Khomeini, concepì un sistema politico radicalmente innovativo basato sulla sua elaborazione del concetto di vilayat-e-faqih (governo del giurisperito). Tuttavia l’Iran non è una semplice teocrazia: la sua più alta carica è una 29 30 Ali, T. The Clash of Fundamentalisms: Crusades, Jihads and Modernity, Verso, Londra, 2002. Tibi, B. Islam: Between Culture and Politics, Palgrave, Houndmills, 2001, p. 118. 18 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo figura religiosa, e l’establishment religioso è in grado di controllare chi ha accesso alle candidature politiche, ma elezioni libere si tengono regolarmente. Analogamente, molta teoria dei gruppi radicali fa leva sull’idea della hakimiyya (governo dell’Altissimo/di Dio). Questa dottrina venne elaborata inizialmente da Mawlana alMawdudi e poi da Sayyid Qutb in Egitto all’inizio del sec. XX. Secondo la hakimiyya, dato che la sovranità può essere solo di Dio, le leggi fatte al di fuori della shari’a rappresentano una violazione di fatto del volere di Dio. Sebbene una tale interpretazione possa sembrare molto conservatrice, essa costituisce in effetti una sfida alle interpretazioni tradizionali. In realtà, il fatto che “la presente rinascita […] propone le idee di semplicità, purezza, e devozione in tempi difficili e confusi”31 ed i costanti riferimenti a cosiddette interpretazioni ‘tradizionali’ sono semplicemente tentativi di legittimare punti di vista teologico-giurisprudenziali altrimenti altamente innovativi e spesso idiosincratici.32 È quindi chiaro che l’Islam sia una religione che, come tutti i credi religiosi e le ideologie politiche, è stata usata per costruire una gamma molto vasta di narrative politiche, di sistemi, di identità e di prassi politiche, e che quindi ascrivere ad esso una natura fissa e trascendentale che si traduca inevitabilmente in certe identità, in certi valori, ed in certe pratiche è semplicemente storicamente, teologicamente, e giurisprudenzialmente errato. Islam e democrazia Un elemento centrale dell’immagine dell’islam quale forza politica negativa è il mito del dispotismo Islamico/Orientale. Nel mondo Islamico, si asserisce, non essendovi stato l’equivalente del Secolo dei Lumi, non vi sono quindi state le transizioni verso la democrazia che si sono verificate in Europa ed in America settentrionale, né fino alla sua scomparsa vi sono stati segni di una tale transizione nell’impero Ottomano, né nei suoi stati successori dopo la loro indipendenza dagli imperi coloniali. Tutto ciò nonostante le crescenti pressioni sia interne che esterne degli anni 90.33 Anche nei Paesi come il Marocco, l’Iran o l’Algeria, che hanno visto riforme politiche, rimangono attive limitazioni importanti del diritto alla partecipazione politica grazie 31 Husayn, M.Z. Global Islamic Politics, HarperCollins, New York, 1995, p. 12. Eickelman, D.F., e Piscatori, J. Muslim Politics, Princeton University Press, Princeton (N.J.), 1996, p. 28. 33 Esposito, John and Voll, John. Islam and Democracy, Oxford University Press, Oxford, 1996. 32 19 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo all’intervento di varie forze, dal monarca, alle forze armate, alle ulema.34 Che si sia pessimisti od ottimisti circa le possibilità di future transizioni democratiche in Medio Oriente (od in altri stati a maggioranza Musulmana), è importante misurarsi con la questione del rapporto tra Islam e democrazia, ed in particolare con il postulato della loro cosiddetta incompatibilità. L’idea, giustamente tacciata da Sadowski di ‘neoOrientalismo’, secondo la quale l’islam in se favorisce sviluppi anti-democratici continua ad essere presente.35 Tuttavia, la rappresentazione dell’islam quale maldisposto verso democrazia, pluralismo e partecipazione politica si basano su interpretazioni a dir poco problematiche circa la compatibilità di certi elementi della teologia e della giurisprudenza Islamiche – p.es. jihad e din wa-dawla – con il pluralismo ideologico e politico necessario alla democrazia. In realtà, credenziali ‘islamiche’ sono state e sono a tutt’oggi elaborate per un gran numero di sistemi politici diversi. Un elemento chiave di questa rappresentazione del rapporto tra islam e politica è un’interpretazione dell’islam secondo la quale questo sarebbe necessariamente compatibile soltanto con sistemi politici autoritari. Esempi vengono tratti dall’attuale deficit democratico in Medio Oriente ed Africa Settentrionale, rafforzati con l’uso di autori radicali come Sayyid Qutb, mentre la lotta armata di gruppi quali Jihad al-Islamiyya, Hizballah, Hamas, o al-Qa’eda stesso, dimostrerebbero il modo in cui queste ideologie si traducono necessariamente in pratiche politiche violente. La realtà della vita politica nei paesi musulmani, tuttavia, è ben più complessa. Gruppi Islamisti difendono posizioni spesso molto diverse circa il rapporto da mantenere con i canali ‘normali’ della vita politica locale, come anche posizioni diverse riguardo il concetto di ‘democrazia’ e la sua compatibilità con le loro posizioni in materia religioso-giurisprudenziale. Mentre aspiranti piccoli gruppi rivoluzionari hanno apertamente dichiarato la loro ostilità alla democrazia in quanto violazione della hakimiyya e/o in quanto strumento del neo-imperialismo occidentale, le leadership di gruppi più consistenti e più moderati sono molto più cauti a riguardo. Durante le abortite elezioni algerine del 1991-92, neanche Ali Belhadj, il leader più radicale del 34 Salamé (a cura di) op.cit.. Sadowski, Yahya “The New Orientalism and the Democracy Debate,” in J. Beinin and J. Stork (eds.) Political Islam: Essays from Middle East Report, I.B. Tauris, Londra, 1997. 35 20 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo FIS, condannò di per se ed apertamente il concetto di democrazia. Dagli anni 80, l’Ikhwan egiziano, nonostante gli impedimenti legali alla sua costituzione quale partito politico, partecipa alle elezioni tramite ‘alleanze’ ufficiose con partiti ufficiali. In Turchia, paese dalla politica secolarizzata per eccellenza (sebbene forzatamente) da Atatürk, nonostante i numerosi interventi delle forze armate a difesa del secolarismo del sistema politico, l’attuale partito al governo, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, è Islamista, come Islamisti sono stati i difensori più agguerriti dell’entrata nell’Ue della Turchia proprio in virtù delle riforme in senso democratico e di tutela dei diritti umani in particolare che questo processo richiede. Inoltre, di per se l’assenza della religione dall’arena politica e costituzionale chiaramente non è garanzia di democrazia, come del resto dimostra l’esperienza del confronto tra stato turco ‘secolare’ e i movimenti sia Islamisti che kurdi. Infine, partecipazione democratica o meno, va ricordato che i gruppi Islamisti di più grande successo quali Hizballah, Hamas o i Fratelli Musulmani egiziani derivano una buona parte della loro popolarità sia dall’abilità di fornire servizi sociali laddove lo stato non ne è capace, sia dal fatto che costituiscono la sola efficace opposizione ‘di massa’ a regimi nominalmente democratici ma troppo spesso corrotti ed autoritari. Né tantomeno rimane confinato alle opposizioni l’uso della simbologia religiosa: dopo l’apogeo nazionalista e secolare degli anni 50 e 60, l’inabilità da parte dei regimi post-coloniali di rispettare gli impegni politici ed economici presi con le rispettive opinioni pubbliche ha permesso alle opposizioni islamiste di far breccia nel consenso nazionalista. Questa difficoltà ha portato molti regimi – primo fra i quali proprio l’Egitto – a cercare di assorbire la simbologia religiosa per meglio consolidare il proprio potere. Nelle monarchie, questo fenomeno è ancor più chiaro. Paesi e progetti politici talmente diversi quali l’Iran, l’Egitto, l’Arabia Saudita, il Marocco o la Giordania dimostrano altrettanto chiaramente la diversità dei sistemi politici – basati più o meno sulla partecipazione popolare – e delle politiche sociali ed economiche che questa ufficialità islamica legitimizza. L’immagine comunemente accettata dai media e dalle classi politiche, poi, circa la democrazia e liberalità di certi paesi ma non di altri, è decisamente problematica: nell’Iran rivoluzionario, per esempio, le donne possono essere elette in parlamento, mentre in Arabia Saudita il parlamento non esiste, per non parlare di diritti per le donne equiparabili a quelli iraniani, e persino in Egitto esistono ostacoli 21 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo almeno altrettanto grandi alla partecipazione politica quanto quelli iraniani. In Marocco e Giordania, poi, il parlamento è in parte nominato dal monarca. La questione del rapporto tra opposizioni Islamiste e democrazia, infine, è più complessa di quanto non facciano trasparire le posizioni ‘ufficiali’ da tutti i lati. Il dibattito sul rapporto tra Islam e democrazia in Medio Oriente è presente durante tutto il secolo XX, particolarmente in apertura e chiusura, se non al secolo precedente. Queste riflessioni vertono sul concetto di modernità e di secolarismo, ed hanno generato una vasta gamma di posizioni e progetti politici, dal primo riformismo di Tahtawi e ’Abduh fino alle recenti elaborazioni di Turabi e Gannoushi, passando per gli Islam rivoluzionari Qutb e Khomeini. L’Islam, quindi, viene chiaramente usato per giustificare progetti politici molto diversi tra loro, e non esistono di certo idee od istituzioni che si possano dire univocamente ‘islamiche’. Questo conferma l’assoluta inattendibilità di argomentazioni circa il ‘necessario’ rapporto tra Islam e politica, tra religione e democrazia, ed ancora una volta ci ricorda che se si vuole rispondere al perché sono sorti e persistono certi fenomeni autoritari od estremisti, bisogna porsi domande circa gli specifici contesti politici e storici all’interno dei quali questi fenomeni sono sorti. Il leit-motiv della tensione inconciliabile tra Islam e democrazia, di cui è intrisa la gran parte del dibattito politico e del reportage mediatico occidentale, a sua volta conta su una serie di elementi narrativi, di cui quello di maggior spicco ed al quale è stata prestata più attenzione sia scientifica che politico-mediatica è la supposta maggior predisposizione dell’Islam a giustificare la violenza come metodo di lotta politica. L’Islam incoraggia una politica della violenza Per alcuni, come Bernard Lewis, l’Islam è legato ad una tradizione aggressiva e violenza.36 Dopo l’11 settembre 2001, si è fatto spesso un legame ulteriore specificamente tra Islam e terrorismo. Tale confusione in un pubblico generale è comprensibile – sebbene solo fino ad un certo punto – se si tiene conto delle recenti attività di gruppi quali Al-Qa’eda e Hamas, che commettono atti di terrorismo nel nome dell’Islam. Tuttavia, questa ‘confusione’ è meno accettabile, e sicuramente 36 Lewis, Bernard. “The Roots of Muslim Rage,” The Atlantic Monthly 266, September 1990; Lewis, Bernard. Islam and the West, Oxford University Press, Oxford, 1992. 22 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo meno responsabile, quando viene propinata da ambienti politici o accademici quali Lewis stesso. In questo contesto specifico, diventa importante la questione del jihad. La dottrina del jihad viene interpretata da gruppi estremisti nel senso di un dovere (individuale) di imbracciare la lotta armata contro supposti oppressori e per favorire l’espansione del dar al-islam. Quest’interpretazione radicale, fondata per lo più sull’opera di Qutb, in pratica propone l’idea che il jihad sia il ‘sesto pilastro’, il ‘dovere negletto’, dell’Islam.37 Quest’interpretazione non è rappresentativa delle più ampie comunità Musulmane, e riscontra molteplici problemi. Innanztitutto, contravviene ai codici morali contenuti nel Corano (tant’è che Islam deriva dalla radice slm – ‘pace’ o ‘sottomissione’).38 In secondo luogo, tale interpretazione del jihad rafforza stereotipi negativi riguardo l’Islam tra giornalisti, classi politiche, e studiosi soprattutto in Europa ed in America settentrionale. Confusioni più o meno oneste tra l’Islam e le sue interpretazioni radicali rafforzano errate interpretazioni di questa religione quale intollerante, espansionista e violenta. Terzo, nel Corano la radice jhd “non è mai direttamente od esclusivamente associata né con la guerra né con il conflitto armato, ma è sempre connessa con [...] lo sforzo individuale.”39 Il troppo comune uso di jihad nel senso di ‘guerra santa’, quindi, è errato: jihad indica lo ‘sforzarsi’ fi sabil allah (sul sentiero di Dio). Il jihad prende varie forme nelle interpretazioni classiche: la prima e più importante è il jihad akbar, lo sforzo personale per compiere buone azioni e per vivere una vita moralmente retta. Impegnarsi nel jihad, quindi, è uno sforzo contro se stessi per seguire la ‘diritta via’. La seconda forma del jihad è quella dell’impegno non-violento per la giustizia all’interno della comunità dei credenti. La terza forma del jihad, o jihad ashgar (‘jihad minore’) indica la difesa dell’Islam contro eventuali aggressori. Essa presenta, in extremis, il dovere delle armi (collettivo per la comunità, non richiesto da ciascun individuo) contro coloro che intendano impedire ai Musulmani di praticare la loro fede, oppure che intendano opprimerli per ragione della loro fede. Le condizioni poste per la legittimità di questa forma del jihad sono restrittive, e proibiscono, per 37 Milton-Edwards op.cit., p.166, e 167ff. La questione dell’atteggiamento del Corano verso la violenza, e se si possa leggervi una giustificazione circa l’uso della forza per espandere (piuttosto che difendere) il dar al-islam è sicuramente complessa e sicuramente non può essere risolta questa sede. Alcuni versetti più concilianti rislagono al periodo Meccano durante il quale la comunità musulmana era piccola e debole (p.es. II:190; IV:75; e XXII:39), mentre alcuni versetti del successivo periodo Medinese invece presentano un tono più aggressivo (p.es. IV:71). 39 Vercellin op.cit. p. 21 fa notare inoltre che guerra e conflitto armato sono associate a termini con radici qtl e hrb. 38 23 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo esempio, l’uso della violenza contro i non-combattenti.40 Il jihad, quindi, non è un’ingiunzione religiosa a commettere atti violenti, né di legittimare la violenza: analogamente alla jus ad bello della tradizione cristiana, è un meccanismo etico che sottolinea la responsabilità individuale per la propria condotta morale nei confronti di Dio, della comunità, e di possibili nemici esterni, rendendo la violenza illegittima se non nel più estremo dei casi.41 Comprendere il rapporto tra Islam e violenza politica, come tra Islam e democrazia quindi, richiede che ci si sottragga al pregiudizio secondo il quale l’Islam per sua natura incoraggi o scoraggi l’uso della violenza, o sia predisposto in questo o quel modo, più o meno delle altre fedi. L’atto stesso di porgere la questione in tali termini accetta i presupposti di un dualismo che non può che risultare in una separazione analitica ingiustificata sia dell’Islam da altre religioni, sia del mondo ‘Islamico’ da quello Occidentale, sia anche della ‘democrazia’ come entità per sua natura separata dall’ ‘autoritarismo’ comunque concepito. Ancora una volta, quindi appare chiaro che l’uso contemporaneo dell’Islam per formulare una vasta gamma di progetti intellettuali e di prassi politiche, quindi, dev’essere compreso in termini non di una supposta natura intrinseca dell’Islam, ma piuttosto come risultato del desiderio di articolare il dissenso politico nei confronti dei regimi locali e nei confronti delle ingiustizie a livello globale. Queste traiettorie, in altre parole, devono essere comprese quali frutti del rapporto dialettico tra potere e resistenza. Se quindi le rappresentazioni dell’Islam e delle sue supposte dimensioni politiche non hanno nulla a che fare con la ‘natura’ di questa religione, bisogna chiedersi quali siano le radici di tali rappresentazioni e quali le conseguenze analitiche, morali e politiche. Transitologia ed Orientalismo Studi sulla politica Medio-Orientale durante gli anni 90, come già accennato, sono stati dominati dalla cosiddetta ‘transitologia’, lo studio di quelle che si supponevano fossero più o meno inevitabili transizioni verso la democrazia. Quanto queste transizioni fossero reali e quanto invece frutto di pregiudizi sia intellettuali sia politici 40 Husayn op.cit. p. 36ff. Secondo alcuni, l’unica autorità che possa dichiarare il jihad è il Califfo, guida spirituale di tutti I musulmani. Questo renderebbe difficile dichiarare un jihad, dato che il califfato non è stato riformato dopo il suo scioglimento alla scomparsa dell’impero ottomano nel 1920. 41 24 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo rimane da vedere, ma fatto sta che quando gli studiosi si rivolgono verso il Medio Oriente parve ancor meno probabile che altrove che queste transizioni si stessero verificando. Rafforzati da ottimistiche visioni Fukuyamiane riguardo il trionfo finale del liberal-capitalismo occidentale, questi pregiudizi portarono ad osservare in Medio Oriente un ‘autoritarismo recalcitrante,’ spiegato a sua volta in funzione di una serie di variabili e meccanismi, dalla presunta incompatibilità hutingtoniana tra Islam e/o cultura Araba da un lato e democrazia dall’altro, alla prospettiva neopatrimonialista di Pawelka, dall’importanza di meccanismi di legittimazione simbolici, agli effetti delle trasformazioni nelle forme del potere politico conseguenti al neo-imperialismo legato alla (iper)globalizzazione degli anni 90.42 I limiti di questi approcci sono numerosi, alcuni dei quali sono stati accennati precedentemente, ed il dibattito proprio su questi limiti ha portato a spostare l’attenzione degli analisti sui meccanismi non-repressivi che consentono a sistemi autoritari e/o solo limitatamente aperti alla partecipazione popolare. L’analisi di questi limiti è sicuramente importante sia intellettualmente che per i suoi risvolti politici, ma soffermarsi a dibattere i vantaggi e gli svantaggi di questo repertorio concettuale significa ignorare dei limiti più profondi e più fondamentali alla radice della natura stessa di queste prospettive. Questi limiti derivano dalla matrice in ultima analisi Orientalista del quadro intellettuale all’interno del quale vengono considerate le questioni pertinenti, in questo caso, alle possibilità democratiche in Medio Oriente. Che si tratti di analisi storiografiche classiche o politico-scientifiche più recenti, di interventi dai risvolti più o meno consciamente politici da un lato o dall’altro, resta il fatto che ad eccezione di un’ancor magra produzione scientifica post-orientalista da parte del postcolonialismo dei c.d. Subaltern Studies che ha sicuramente ancor minore impatto politico nonchè largamente ignorata dai c.d. ‘Area Studies’, questa produzione intellettuale non mette in discussione la sua matrice Orientalista. Questa matrice è insita nell’assunzione ad archetipo e metro universale di un’idealizzato occidente nella sua traiettoria storica nonchè nella sua realtà contemporanea che trovano magro riscontro fattuale. La tensione alla base di questo tipo di letteratura che risulta da questo momento fondante, quindi, resta la divisione tra sistemi cosiddetti democratici e quelli non-democratici. Said vi riconoscerebbe chiaramente l’operazione di una distinzione 42 [references Bank 2004: 156+; Chris/Sami] 25 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo qualitativa tra sistemi occidentali e non-occidentali basata sia sull’universalizzazione dell’esperienza Occidentale, sia sul presupposto – peraltro discutibile – che queste società abbiano implementato e continuino ad implementare sistemi democratici. Una volta accettata una tale divisione qualitativa, risulta ‘naturale’ cercare di capire perché alcune società imboccano traiettorie democratiche mentre altre ‘rimangono’ non-democratiche. Tuttavia, anche volendo ignorare questioni di fondo quali la caduta della partecipazione al voto occidentale nel dopoguerra o le dimensioni semi-autoritarie di certi sistemi elettorali come il maggioritario britannico, uno sguardo anche casuale all’evoluzione del clima politico e legislativo in Europa e negli USA dall’11 settembre 2001 in poi rivela tendenze se non sconcertanti, sicuramente preoccupanti per quanto riguarda la salvaguardia dei diritti umani, civili e politici. In Europa ed in america settentrionale si sono verificate non solo tendenze legislative preoccupanti quali i Patriot Act statunitensi, il Terrorism Act britannico, e misure legislative altrettanto draconiane nell’occidente non-Anglosassone ma, e questo è forse ancor più indicativo e preoccupante, anche un’evoluzione nell’uso di questa legislazione, dai supposti obiettivi in sede legislativa (i ‘terroristi’) ad un sempre più frequente uso da parte della polizia per controllare manifestazioni di dissenso. Tutto questo si colloca all’interno di un contesto globale nel quale l’evoluzione delle tecnologie della governamentalità si muove verso posizioni autoritarie ed illiberali. Caratteristica dell’evoluzione recente di sistemi politici sia nel ricco ‘nord’ globale che nel confinante ‘sud’ in via di sviluppo è l’emergenza di strategie di de-politicizzazione dell’arena politica, strategie basate, per esempio, sulla tecnocratizzazione e sulla ‘securitisation’ del politico i cui effetti sono di limitare la portata dell’impatto della partecipazione popolare alla politica attiva. Questi sviluppi si istallano, poi, su un impianto per la produzione della politica estera verso il Medio Oriente (come verso altre regioni del Sud globale) notoriamente Orientalista, quindi aiutando a (ri)produrre questi impianti ideologici e politici. Ciò non vuol dire che non vi siano effettive differenze riguardo libertà di partecipazione politica tra sistemi politici Occidentali ed altri, significa semplicemente che dal punto di vista analitico (oltre che politico) bisognerebbe considerare queste differenze sia quantitative piuttosto che qualitative, sia storicamente fluide, in costante necessità di (ri)produzione, e quindi non legate a questa o quella religione o cultura per loro natura. Vi sono, infatti, fenomeni presenti 26 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo nei sistemi politici Occidentali che presentano sostanziali similitudini qualitative con processi operanti altrove. Ad esempio, forme di potere politico che sembrano sempre più contare sulla depoliticizzazione della tradizionale arena politica tramite una simultanea tecnocratizzazione del processo decisionale evidente dalla devoluzione di competenze legislative a comitati specializzati (p.es. le Banche Centrali o comitati parlamentari). Altre caratteristiche che accomunano l’evoluzione recente di sistemi politici Occidentali e non, sono la ‘securitisation’ e l’ ‘economizzazione’ ed in generale la ‘tecnocratizzazione’ del contesto discorsivo del dibattito politico, ovvero la normalizzazione dell’egemonia discorsiva del neoliberismo economico, nonché dell’intransigenza verso soluzioni politiche al problema della lotta armata (tattica peraltro già rivelatasi ampiamente problematica durante gli ‘anni di piombo’). Facendo riferimento alla discussione riportata sopra attorno alla natura dello stato e del suo rapporto con la società civile sia in generale che nel particolare caso Medio Orientale, bisogna anche notare che esistono interessanti ‘cecità’ nelle letterature scientifiche, anch’esse riportabili in ultima analisi all’operazione di canoni Orientalisti nella produzione del sapere a riguardo del Medio Oriente. Queste ‘cecità’ si palesano sia a livello dell’Orientalismo ‘strisciante’ di tanta analisi della politica Medio Orientale, sia quando si tratta di tradizioni intellettuali occidentali. Per quanto riguarda la prima forma di questa ‘cecità’, la produzione scientifica sembra, per esempio, non essere stata ancora capace di superare un’impostazione dicotomica di base tra realtà occidentale e non all’interno della quale “l’Oriente” viene conosciuto e spiegato per analogia e differenza, piuttosto che generalizzare e problematizzare entrambe queste realtà. La rappresentazione del rapporto tra ‘core’ e ‘periphery’, ad esempio, rimane quello tra modello archetipico (occidentale) e realtà perfettibile (non-occidentale). Inoltre, quest’analisi individua nella mancanza di legittimità popolare, nella fusione di interessi del regime al potere con quelli dello stato, e nella vulnerabilità dello stato ad opera di influenze esterne le caratteristiche chiave dello stato Westphaliano periferico, mentre è chiaro che questi fenomeni sono qualitativamente – se non quantitativamente – presenti nei ‘Core Westphalian States.’ È grazie a questa cecità che quando si tratta di identificare le vulnerabilità di questi stati ‘di periferia’ si indicano punti di tensione quali la particolare instabilità propria dei Paesi post-coloniali, o la crisi del ‘rentier 27 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo state’; o che si associa la carismaticità della leadership unicamente alla periferia in questo caso Medio Orientale, mentre si riesce in qualche modo ad ignorare completamente l’altrimenti riconosciutissimo ruolo della ‘carismaticità’ delle leadership in sistemi politici Occidentali quali quelli anglo-sassoni basati sul sistema elettorale maggioritario, o sui sistemi semi-presidenziali alla francese. Alla base di questa articolazione dicotomica tra occidente e ciò che occidentale non è rimane quindi un’impostazione analitica di base squisitamente Orientalista che verte su una visione più o meno esplicitata circa la natura in se qualitativamente eccezionale della religione islamica e/o della cultura araba. Che questo genere di concezione domini ancor’oggi la produzione scientifica – Anglosassone e non – nonchè i parametri del dibattito politico pubblico sul Medio Oriente è francamente sconcertante, e rafforza la triste impressione che, a distanza di oltre un quarto di secolo, la lezione di Said non sia stata acquisita. Ma soprattutto, una tale constatazione porta naturalmente a chiedersi come e perchè sia la produzione scientifica che il dibattito politico abbiano potuto ignorare così efficacemente l’impatto per altro fortissimo di un testo – e di un movimento intellettuale e politico ad esso connesso – come Orientalismo.43 Il secondo tipo di ‘cecità’ è casomai ancor più interessante. La pur utile discussione portata avanti da Pawelka, Migdal ed altri, ad esempio, sembra ignorare le pur ben note analisi Marxiste, Gramsciane e della Scuola di Francoforte riguardanti l’organicità – piuttosto che la distinzione – del rapporto tra stato e società.44 Inoltre, le impostazioni analitiche della ‘seconda generazione’ di autori sulla democratizzazione in Medio Oriente distingue tra immagine e prassi, nonché tra strategie e tecniche materiali e simboliche, sottolineando il rapporto dialettico tra ideologia/identità – in sostanza, una ‘cartografia’ politica/morale, anche se non viene descritta in questi termini – e concrete pratiche a livello individuale il cui effetto è di rafforzare, (ri)produrre o minare una certa configurazione di rapporti (in essenza, una forma di potere od una sua gerarchia). Questa letteratura cerca, poi, di riconciliare queste prospettive – con operazioni alquanto problematicamente – con un’epistemologia e soprattutto un’ ‘ontologia’ positiviste. In quanto tali, vengono 43 Per iniziali riflessioni a questo proposito, si veda Teti, Andrea “Bridging the Gap: International Relations, Middle East Studies and the disciplinary politics of the Area Studies Controverso,” European Journal of International Relations, vol. 13, 2007. 44 Pratt, Nicola “Understanding Political Transformation in Egypt: Advocacy NGOs, Civil Society, and the State,” Journal of Mediterranean Studies, vol. 14, n. 1/2, 2004, pp. 237-238. 28 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo articolate in opposizione a posizioni basate su ontologie post-strutturalisti, postmoderne o generalmente post-positiviste, quali quelle di Foucault, Deleuze, ecc., sebbene sia chiaro che vi siano vari punti in comune tra di esse.45 Il fatto che queste letterature scientifiche rimangano separate e/o ‘cieche’ in modi parziali quanto cruciali, che non convergano su punti focali comuni altrimenti piuttosto ovvi attesta alla capacità di auto-conservazione di queste forme di organizzazione del sapere Orientaliste, una capacità di sostenere autopoiesi che sono centrali non solo all’analisi di Said ma anche ed in forma più generale al rapporto tra potere e sapere – o meglio potere/sapere – individuato da Foucault. È in presenza di nodi paradossali nell’organizzazione e nella produzione del sapere come questi che si palesa chiaramente il ruolo che ricopre la ricerca scientifica nel (ri)produrre strutture che sono inscindibilmente sia di sapere che di potere. Questa divisione tra sistemi democratici e non, operata tramite l’assolutizzazione dell’esperienza occidentale nonché la sua ‘normalizzazione’ in un modello ideale che trova poco riscontro nella realtà della vita politica occidentale stessa, è di fondamentale importanza sia nella produzione del sapere ‘scientifico’ in materia di sistemi politici occidentali e non, sia nella produzione di politiche verso l’Oriente – quello interno delle comunità islamiche o cinesi e cos via, come quello esterno della Palestina, ecc. Questa produzione avviene a vari livelli: un livello puramente educativo al quale le future generazioni di leadership politiche – ivi incluse le elite non-governative, attive p.es. nel creare lobby o nel sostenerne finanziariamente le attività – vengono socializzate a questo dualismo. Oltre ad espliciti interessi politici (ed economici) bisogna, in questo contesto, non sottovalutare la portata dell’ignoranza di queste classi: Paul Wolfowitz stesso, Professore di Relazioni Internazionali presso la Johns Hopkins prima di diventare Vice-Segretario alla Difesa, prima dell’invasione statunitense dichiarò che per quanto riguardava la possibilità di riforme democratiche a suo parere l’Iraq presentava una minore complessità politica rispetto all’Arabia Saudita poiché in Iraq non esistono, secondo lui, città sacre, dimostrando palese ignoranza del fatto che Kerbala e Najaf, per esempio, sono estremamente importanti per la Shi’a.46 Quest’ignoranza è in se un riflesso dei canoni Orientalisti che 45 Teti op.cit.. Vice-Segretario alla Difesa statunitense Paul Wolfowitz, intervista con Melissa Block alla National Public Radio, 19 febbraio 2003, http://www.dod.mil/transcripts/2003/t02202003_t0219npr.html. Wolfowitz si è laureato a Cornell (dove fu studente di Allan Bloom, amico dell’ideologo di Leo Strauss) ed ha ricevuto il dottorato dall’Università di Chicago nel 1972 (il suo relatore fu Albert 46 29 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo permeano il sistema educativo. Negli USA in particolare, poi, bisogna tener conto dell’efficace operazione di influenza portata avanti da lobby quali l’AIPAC, nonché la confluenza di interessi politici ed ideologici tra questi interessi e quelli della destra neo-conservatrice nonché cristiana statunitense. L’economia politica della produzione del sapere – collocata per la maggior parte tra università, ‘think tanks’, e media – ha avuto un ruolo importante nel generare e difendere questi immaginari politici, geografie morali, contenute nelle rappresentazioni dell’alterità Medio-Orientale (in questo caso) che hanno portato alla produzione iniziale e poi alla difesa a lungo-termine di politiche estere occidentali difficilmente difendibili in base ai parametri morali banditi con tanto zelo in ambito interno o in relazioni tra Paesi occidentali. Un secondo livello è quello della simile formazione delle professioni mediatiche, ove operano gli stessi meccanismi di interessi politico-economici congiunti a cecità derivanti dalla configurazione del sistema educativo. Infine, la formazione delle opinioni pubbliche avviene sia tramite la loro educazione, sia tramite l’azione delle prime due categorie professionali, chiudendo cerchi che tendono ad aiutare l’uno la riproduzione dell’altro. Una siffatta produzione di sapere, poi, da luogo alla produzione di specifici tipi di linee politiche verso l’oggetto di quel sapere – in questo caso l’Oriente. Queste politiche, ondate su specifiche ‘forme di conoscienza’ in termini foucauldiani, trasformano le differenziazioni qualitative alla base delle distinzioni tra occidente e le sue controparti in precisi tipi di azioni verso ciò che rimane al di fuori dell’occidente, precise categorie di tecniche materiali e simboliche. Queste tecniche, queste forme di conoscenza, prendono spunto dal modello occidentale assolutizzato di cui si è detto per offrire una diagnosi dei ‘sintomi’ dai quali è afflitto quest’oggetto, ed offrire quindi una serie di possibili ‘terapie’, con allegata una specifica prognosi. L’obiettivo di queste ‘cure’ – che mirino alla democratizzazione od alla riforma economica – è sempre quello di tentare di uniformare, di ‘normalizzare’ l’oggetto, il ‘paziente’ in questione, al modello. Le varie politiche estere occidentali nei confronti del Medio Oriente illustrano chiaramente questo tipo di dinamiche, forse nessuna più chiaramente del recente tentativo statunitense di adoperarsi per la democratizzazione di questa regione nel modo altamente ambiguo e problematico articolato dal Greater Wohlstetter). Woflwowitz poi insegnò politica internazionale alla prestigiosa Johns Hopkins School of Advanced International Studies (SAIS), dopo un triennio a Yale (1970-73). 30 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo Middle East Project. Altro caso altrettanto eclatante è il tentativo da parte dei Paesi occidentali di imporre, tramite organizzazioni quali la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale, specifici modelli di ‘sviluppo’ (industriale prima, (neo)liberale poi) sui Paesi ‘in via di sviluppo’.47 Ma gli esempi più chiari li fornisce proprio il repertorio di commenti mediatici e reazioni politiche alle elezioni in Medio Oriente. Come fa notare Redaelli in questo volume, la spigolosità di un personaggio come Ahmadinejad non può inficiare la genuina incertezza delle elezioni presidenziali Iraniane. Né tantomeno l’intransigenza di Hamas può essere usata per minare l’innegabile mandato popolare di cui è portatore. Le posizioni occidentali ed Israeliana che, ad oggi, pongono a condizione di qualunque trattativa e persino interazione il riconoscimento di Israele e l’abbandono al diritto alla lotta armata – peraltro riconosciuto a popolazioni occupate dagli stessi trattati di Ginevra – e che usano questa stessa motivazione per giustificare la sospensione persino delle tasse dovute all’Autorità palestinese sono davvero difficili da sostenere, dato il mandato democratico di cui gode Hamas. A questo si è obiettato che lo statuto di Hamas, come quello dell’OLP prima del 1989, non riconoscono il diritto dello stato israeliano ad esistere. Ma è altrettanto vero che lo statuto del Likud, partito di governo da decenni, prevede esattamente la stessa intransigenza nei confronti dei palestinesi. Il fatto che questo dato non sia stato degnato di commento né dai governi né da gran parte dei media occidentali può essere spiegato solo in funzione o di una poco plausibile ‘congiura’ per tacere la verità, o semplicemente dal fatto che lo stato d’Israele venga effettivamente considerato nell’immaginario collettivo delle opinioni pubbliche occidentali uno stato ‘occidentale’. Questa ‘normalizzazione’ garantisce alla narrativa politica dominante in Israele, nonché alle pratiche politiche dei suoi organi statali, la stessa ‘copertura discorsiva’ che consente all’occidente di ignorare le contraddizioni tra le proprie retoriche democratiche e delle pratiche politiche che storicamente di democratico hanno ben poco. Ecco quindi le radici Orientaliste di quella che fuori dall’occidente viene spesso percepita come ipocrisia. Conclusione 47 P.es. Tétreault, M.A. “Pleasant Dreams: The WTO as Kuwait’s Holy Grail,” Critique, vol. 12, n. 1, primavera 2003, pp. 75-93. 31 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo Questo articolo ha (ri)proposto la necessità di un’enfasi diversa sul dibattito sul processo di democratizzazione in Medio Oriente, che tenga presente del rapporto tra tali dibattiti e quei meccanismi, quelle economie politiche dell’organizzazione e della produzione del sapere che generano ‘geografie morali,’ ‘gerarchie della sofferenza’ all’interno delle quali si situano i processi decisionali governativi ed i dibattiti dell’opinione pubblica. Fondamentale in questo senso è il fatto che queste forme organizzative e le geografie morali che ne conseguono tendono a favorire certe categorie di comportamenti verso l’oggetto del sapere piuttosto che altre. La letteratura sui processi di democratizzazione si è certamente andata raffinando negli ultimi vent’anni, fornendo un’armamentario sempre più sofisticato di strumenti analitici che consentono di capire più a fondo certi processi. In particolare, si è arrivati oggi ad un punto in cui si riconosce la complessa interazione tra dimensioni materiali e simboliche dei meccanismi che radicano l’impervietà dei regimi Medio-Orientali alle pressioni liberalizzanti sui loro sistemi politici (se non economici). Tuttavia, la natura di questi strumenti, nonché il modo in cui essi vengono branditi in dibattiti pubblici e nella formulazione di politiche estere è fondamentalmente radicata in una narrativa altamente problematica che lega identità europea/occidentale e non-occidentale. Nel caso del rapporto tra Europa/Occidente e “l’Oriente”, l’idea di modernità elaborato in Europa a partire dal Secolo dei Lumi, che contiene in se i miti del secolarismo, del razionalismo, e della natura inerentemente egalitaria e progressista della ‘civiltà’ europee, porta ad immaginare il politico tramite geografie morali ben particolari, al centro delle quali vi sono gerarchie morali che privilegiano l’Europa e l’Occidente sopra ogni altra regione/cultura, stabiliscono l’eccezionalismo analitico e quindi etico di realtà che non si possano confrontare con il mito auto-rappresentativo Europeo, e quindi agiscono nei confronti di queste realtà in modi storicamente contraddittori e paradossali. Sviscerare non soltanto i miti associati all’Islam ed al mondo Arabo-Islamico, ma anche le fondamenta dei meccanismi che legano l’organizzazione e la produzione del sapere significa assolvere una funzione che in ultima analisi è emancipatoria non soltanto a livello intellettuale, ma anche e soprattutto a livello politico. Ed è importante notare che questa emancipazione è a vantaggio sia del mondo AraboIslamico che di quell’Occidente stesso intrappolato in una alquanto dubbia rappresentazione di se stesso. 32 Andrea Teti Democrazia, Transitologia ed Orientalismo Michel Foucault affermò che le istituzioni create per difendere la democrazia non saranno mai sufficenti a difenderla, poiché la democrazia, afferma Foucault, non è che un certo tipo di pratiche politiche, ed è quindi da trovarsi soltanto laddove e fino a quando esistano pratiche democratiche. Se la democrazia dipende dalla possibilità per ogni cittadino di partecipare nel processo decisionale collettivo in maniera significativa, se democrazia significa che i desideri dei cittadini vengono in qualsivoglia modo rispettati dalle classi politiche, allora diventa chiaro quali siano i limiti dei Paesi Medio-Orientali (Arabi e non), come diventano chiari i limiti delle politiche estere occidentali, nonché di quegli stati Occidentali la cui natura democratica viene troppo spesso data per scontata. 33