5 IL PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE.

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5 IL PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE.
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IL PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE.
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IL PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE. PARMENIDE E ARISTOTELE.
Nella storia del pensiero filosofico il «principio di non contraddizione» viene
accostato a due grandi figure dell'antica Grecia: esattamente a Parmenide per ciò
che riguarda la tematizzazione della nozione di «essere», e ad Aristotele per ciò che
invece riguarda la sua formalizzazione. Nel secolo scorso il principio di non
contraddizione è stato inoltre oggetto di studio di alcuni logici e matematici, i quali
mediante l'applicazione del simbolismo tipico della logica matematica ne hanno
potuto dare una formalizzazione ancora più dettagliata di quella offerta dallo
stesso Aristotele. Ma vediamo ora gli sviluppi e l'importanza che siffatto principio
viene a rivestire in ogni processo inferenziale.
Parmenide fu il padre fondatore della scuola eleatica. Pochi sono i suoi
frammenti a noi giunti (esattamente diciannove), ed altrettante poche sono le
informazioni sulla sua vita. Probabilmente di origine aristocratica fu discepolo di
Senofane, e viene ricordato maggiormente per la tematizzazione – seppur ancora
rudimentale – della nozione di «essere» che per le sue altre ricerche. Nella sua
opera – l'unica a dire il vero – intitolata “Poema sulla natura” il filosofo di Elea
esemplifica che «l'essere è e non può non essere», e che «il non-essere non è e non
può essere».
Questa conclusione giunta dall'inarrestabile ricerca dell'arché che ha
caratterizzato tutta la filosofia antica, voleva ribadire l'impossibilità da parte di
qualsiasi cosa di poter scaturire dal nulla, che detto in maniera esplicativa significa
che l'essere non può avere origine dal non-essere. Ecco riportati alcuni frammenti
del Poema sulla natura:
«Orbene, io ti dirò – e tu ascolta e ricevi la mia parola – quali sono le vie di ricerca che si
possono pensare: l'una che “è” e che non è possibile che non sia – è il sentiero della
persuasione – […] l'altra che “non è” e che è necessario che non sia. E io ti dico che questo è
un sentiero su cui nulla si apprende. Infatti non potresti conoscere ciò che non è, perché
non è cosa fattibile. Né potresti esprimerlo. […] Infatti lo stesso è pensare ed essere. […] È
necessario dire e pensare che l'essere sia: infatti l'essere è, il nulla non è: queste cose ti
esorto a considerare. […] Questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono» 1.
Siffatta conclusione fu tanto rivoluzionaria nel pensiero della filosofia greca
non solo per ciò che effettivamente provava, ma anche per il fatto che per la prima
volta si dava concreta risposta alla domanda sull'originario senza la chiamata in
1 Cfr. PARMENIDE, Poema sulla natura, frammenti 2,3,6,7.
1
causa di figure straordinarie che spiegassero, attraverso novelle mitologiche, la
costituzione del cosmo. Parmenide infatti si appellò alla sola ragione per la
risoluzione di questo problema mettendo in luce quel principio onto-logico, tanto
importante quanto necessario sia per la logica formale che per la metafisica
generale, che è il più propriamente detto «principio di non contraddizione».
Applicando la logica del «principio di non contraddizione» nella ricerca
dell'arché del cosmo Parmenide andava così a confutare direttamente le tesi del
suo contemporaneo Eraclito, e dei futuri Protagora e Gorgia, dai quali nacquero
rispettivamente le posizioni relativiste e nichiliste del filosofare. Di fatto, il
discepolo di Senofane grazie alla tematizzazione della nozione di «essere» poté
affermare razionalmente che codesto (l'essere) doveva essere necessariamente
uno, immobile, eterno, ingenerato e indivisibile; conclusione questa dettata,
appunto, dalla sola applicazione del principio onto-logico della non contraddizione.
Un secolo e mezzo più tardi Aristotele riprese la teoria parmenidea dandole
una consistenza ancora più pregnante ed una prima formalizzazione. Esattamente
nel libro quarto della “Metafisica”, dopo aver esposto una chiara definizione della
metafisica (o filosofia prima) quale scienza che studia l'ente in quanto ente, pose le
sue attenzioni sugli assiomi, annoverandone oltremodo le caratteristiche che per
natura gli devono appartenere. Lo Stagirita concentrò le sue attenzioni sugli
assiomi non solo perché li riteneva giustamente evidenti e indimostrabili per
natura, ma anche per il carattere apodittico che possedevano. Infatti, a differenza
dei principi delle singole scienze, che come tali erano giustamente definiti postulati
dal discepolo di Platone, gli assiomi di cui Aristotele fa riferimento non erano
principi modellati appositamente per qualche teoria precisa e ben determinata
entro la quale dovevano essere costruiti modelli e/o ulteriori teorie scientifiche,
ma in un certo qual modo erano le stesse leggi logiche della natura. Essendo poi gli
assiomi dei principi applicabili all'intera sfera degli enti (e non solo ad una
specifica cerchia ristretta di essi), il filosofo di Stagira ritenne opportuno avanzarne
una dettagliata esposizione nella Metafisica, in quanto aventi un'intrinseca
correlazione e irriducibilità con tutto ciò che concerne il campo dell'ontologia
fondamentale. Scrive appunto Aristotele:
«Essi valgono per tutti quanti gli enti, e non sono proprietà peculiari di qualche genere
particolare di ente, ad esclusione degli altri. E tutti quanti si servono di questi assiomi,
perché essi sono proprio dell'ente in quanto ente. […] Di conseguenza, poiché è evidente
che gli assiomi appartengono a tutte le cose in quanto tutte sono enti […] comporterà a
colui che studia l'ente in quanto ente anche lo studio di questi assiomi» 2.
Nella sua opera Aristotele si riferiva direttamente a due principi assiomatici:
«il principio di non contraddizione» ed «il principio del terzo escluso». Nel nostro
lavoro non tratteremo il secondo di questi principi giacché riteniamo che sia in un
certo qual modo già contenuto implicitamente nel principio di non contraddizione.
2 ARISTOTELE, Metafisica, IV, 3, 1005a, 23-29.
2
Codesto, poi, è – come disse anche lo Stagirita – il più evidente di tutti gli assiomi
onto-logici, e quindi è in un certo senso il più sicuro. E data la sua propria evidenza
il principio di non contraddizione oltre ad essere classificabile come “nonconfutabile”, è oltremodo il principio più noto. Dice Aristotele:
«Il principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore:
questo errore deve essere il principio più noto (infatti, tutti cadono in errore circa le cose
che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico. Infatti, quel principio che di
necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa non può essere una
pura ipotesi, e ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia conoscere qualsivoglia
cosa deve già essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. È evidente, dunque,
che questo principio è il più sicuro di tutti»3.
Prima di continuare a parlare del «principio di non contraddizione» però, è
doveroso dire che nei scritti di Aristotele non compare mai la dizione «principio di
non contraddizione», e che solo nei suoi commentatori, in particolare in
Alessandro di Afrodisia (II – III secolo d.C.) suddetto principio viene catalogato
sotto il titolo «assioma della contraddizione». Inoltre il filosofo di Stagira intendeva
il «principio di non contraddizione» come la congiunzione di due principi: quello
più propriamente detto «principio di non contraddizione», appunto, e il già
poc'anzi accennato «principio del terzo escluso». Oltremodo è curioso notare che
per Aristotele il «principio di non contraddizione» è tale anzitutto quando è in
riferimento ad una coppia di enunciati contraddittori, a differenza dell'utilizzo che,
in genere, se ne è soliti fare: ossia quello di applicarlo ad una singola asserzione. Su
questo punto riprendo un passo di Walter Cavini che esplicita:
«In Aristotele non compare mai l'espressione “principio di non contraddizione” o “di
contraddizione”, ma è Aristotele colui che introduce nel greco antico e nella tradizione
filosofia il termine “contraddizione” (antìphasis). Solo che per “contraddizione” Aristotele
[…] intende due cose ben distinte. Una contraddizione è per Aristotele anzitutto una
coppia di asserzioni contraddittorie: { “A”, “¬A”} cioè una coppia formata da
un'affermazione e dalla sua negazione logica. Invece noi normalmente intendiamo per
“contraddizione” non una coppia di asserzioni contraddittorie, ma una singola asserzione,
vale a dire la congiunzione “A ∧ ¬ A”. Dunque da un lato abbiamo una coppia di asserzioni:
{ “A”, “¬A”}, dall'altro una singola asserzione, l'enunciato congiuntivo: “A ∧ ¬A”»4.
Detto ciò, è importante mettere in risalto il fatto che Aristotele quando parla
del principio di non contraddizione lo fa sotto un duplice aspetto: quello
prettamente ontologico e quello inerente il campo dell'epistemologia. Difatti, è
possibile notare da alcuni estratti della Metafisica che a volte parla del principio di
non contraddizione in riferimento all'essere dell'ente, e quindi – per dirla in
termini cari a tanta epistemologia moderna – dal lato dell'oggetto, come quando
scrive che «è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non
3 Ivi, IV, 3, 12-18.
4 Walter CAVINI, “Il principio di non contraddizione in Aristotele”, in: Il problema dei fondamenti.
Da Aristotele, a Tommaso d'Aquino all'ontologia formale, Alberto Strumia (ed.), Cantagalli, Siena,
2007, 12.
3
appartenga ad una medesima cosa» 5; altre, invece, ne parla in riferimento al modo
di essere conosciuto dell'ente, ossia dal lato del soggetto, come quando proferisce
che «è impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia» 6.
A prescindere se il principio di non contraddizione è in diretto riferimento
al campo dell'ontologia o dell'epistemologia è impossibile a qualunque cosa nello
stesso spazio-tempo di «essere» e «non-essere» la stessa medesima cosa. Non solo
non può presentarsi una simile assurdità nella realtà, ma è allo stesso tempo
impossibile immaginare e/o pensare per un solo istante una cosa soggetta alla
contraddizione. Per questo motivo è anche estremamente difficile – proprio perché
inimmaginabile – esemplificare tale problematicità attraverso proferimenti
linguistici. Sarebbe infatti immaginare (ed immaginare, ripeto, è già esso stesso un
termine errato se preso in questa circostanza giacché l'immaginare implica sempre
una certa azione di pensiero) qualcosa di “potenzialmente in atto”; sarebbe
immaginare un qualcosa che nell'attimo diviene. A riguardo possono tornare utili i
classici esempio del “cerchio quadrato” o del “legno ferrato” per mostrare la piena
assurdità, che in quanto tale è contraddittorietà, circa l'impossibilità di una data
cosa di essere hic et nunc un'altra cosa.
Proprio per suddetto motivo è impossibile da parte di chicchessia sostenere
una teoria che promuova di fatto la tesi della contraddittorietà; che detto in altre
parole sta a significare che nessuna teoria della conoscenza di matrice relativista
può concretamente avere la pretesa di essere consistente e coerente.
Sull'impossibilità da parte di costoro di avanzare qualche inferenza razionale scrive
appunto Aristotele che:
«A colui che sostiene questa tesi non sarà possibile aprire bocca né parlare; infatti, nel
medesimo tempo egli dice determinate cose e le disdice […]. Da ciò deriva, con la massima
evidenza, che nessuno si trova in questa condizione: né coloro che sostengono questa
dottrina né altri»7.
Così, il filosofo di Stagira conclude che il principio di non contraddizione
può essere dimostrato esclusivamente per via di confutazione, ossia dimostrando
l'assurdità di quelle tesi che, al contrario, sostengono la possibilità da parte di una
cosa di «essere» e «non-essere» allo stesso spazio-tempo. Invero, è tramite la
confutazione di siffatte e presunte proposizioni che è possibile dimostrarne
l'intrinseca paradossalità che portano in grembo. Continua Aristotele:
«Anche per questo principio, si può dimostrare l'impossibilità in parola, per via di
confutazione: a patto, però, che l'avversario dica qualcosa. Se, invece, l'avversario non dice
nulla, allora è ridicolo cercare un'argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in
quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale sarebbe simile ad una pianta. E la
differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione vera e propria
5 ARISTOTELE, cit., IV, 3, 1005b, 19-20.
6 Ivi, IV, 3, 1005b, 24-25.
7 Ivi, IV, 4, 1008b, 9-14.
4
consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in una petizione
di principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di confutazione e
non di dimostrazione. Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell'esigere che
l'avversario dica che qualcosa o è, oppure che non è (egli, infatti, potrebbe subito obiettare
che questo è già ammettere che ciò che si vuol provare), ma che dica qualcosa che abbia un
significato per lui e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se
non facesse questo, costui non potrebbe in nessun modo discorrere, né con sé medesimo
né con altri; se, invece, l'avversario concede questo, allora sarà possibile una
dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà qualcosa di determinato. E responsabile della
petizione di principio non sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione:
e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, quegli si avvale di un ragionamento.
Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c'è qualcosa di vero anche
indipendentemente dalla dimostrazione»8.
La dimostrazione per via di confutazione del principio di non
contraddizione è analizzata da Aristotele nella Metafisica mediante otto sezioni.
Per questioni di spazio e tempo metteremo in luce solamente due di queste otto
esposizioni, ovvero quelle che riteniamo più importanti. La prima di queste è
estremamente radicalizzata dallo Stagirita che asserisce che una qualsivoglia cosa
non può (hic et nunc) essere e non-essere la medesima cosa. Scrive:
«In primo luogo è evidente che questo almeno è vero: che i termini essere e non-essere
hanno un significato determinato; di conseguenza, non ogni cosa può essere in questo
modo e, insieme, non in questo modo»9.
Tale osservazione può concretamente confutare ogni tesi che fa della
contraddizione un punto cardine della propria teoria, ma la brillante mente di
Aristotele va oltre. Egli infatti continua scrivendo che tale principio è valido non
solo per quel che riguarda in senso lato la sfera dell'essere, ma anche per ciò che
concerne la sfera degli enti individuali. Così come l'essere non può essere ridotto al
non-essere, anche un singolo ente non può essere ridotto al suo opposto
(contraddittorio).
Quando il principio di non contraddizione viene applicato alla sfera degli
enti la questione si fa più complicata poiché questi, nonostante condividono con la
nozione di essere la proprietà di avere un significato essenziale ben determinato,
possono però avere dei significati semantici differenti. Ma la possibilità di avere
innumerevoli definizioni (linguistiche) da parte degli enti individuali non è un
problema – come ribadiva Aristotele – purché non collassino tra di loro. Il
discepolo di Platone così scrive:
«Supponiamo che «uomo» abbia un solo significato, e stabiliamo che questo sia «animale
bipede». E, affermando che ha un solo significato, intendo dire quanto segue: se il termine
«uomo» significa questo che s'è detto, ogni volta che ci sia qualcosa che è uomo, questo
dovrà essere ciò che s'è detto essere l'essenza dell'uomo. (E se l'avversario obietta che una
8 Ivi, IV, 4, 1006a, 12-29.
9 Ivi, IV, 1006a, 29-32.
5
parola ha molti significati, questo non importa nulla, purché, però, i significati siano in
numero limitato; infatti, basterà designare ognuno dei significati con una parola differente.
Faccio un esempio: se l'avversario non ammettesse che «uomo» abbia un solo significato, e
sostenesse, invece, che ne ha molti, e che la definizione «animale bipede» non rappresenta
che uno soltanto di questi significati: ebbene, si conceda pure che di «uomo» ci siano molte
altre definizioni, purché siano limitate di numero; infatti a ciascuna di queste definizioni si
potrà porre un nome proprio. E se l'obiettore non volesse far questo, ma dicesse che le
parole hanno infiniti significati, è evidente che non sarebbe più possibile alcun discorso:
infatti, il non avere un determinato significato, equivale a non avere alcun significato; e, se
le parole non hanno alcun significato, allora non ha luogo neppure la possibilità di discorso
e di comunicazione reciproca e, in verità, non ha luogo neppure la possibilità di un
discorso con se stessi. Infatti, non si può pensare nulla se non si pensa una determinata
cosa; ma se si può pensare, allora si può anche dare un preciso nome a questo determinato
oggetto che è pensato)»10.
Che infatti si utilizzi il termine «uomo» piuttosto che «animale bipede» o
«animale razionale» poco importa ai fini dalla natura del singolo ente a cui queste
“etichette” linguistiche vengono di volta in volta, di contesto in contesto, attribuite.
La cosa che è significativa invece è quella di non confondere il piano essenziale da
quello linguistico, che come ha fatto notare già Aristotele più di duemila anni fa è
solo una convenzione terminologica condivisa socialmente.
Oltre a ciò, il significato che l'agente epistemico attribuisce all'ente – che
come tale è sempre inteso nella sua irriducibile ontologia fondamentale – deve
essere sempre in riferimento alla sua quidditas o natura. Infatti, il significato di un
qualsiasi referente intenzionale, non sarà mai in riferimento ai caratteri accidentali
che lo vanno a determinare come singolo individuo (sostanza prima), ma piuttosto
sarà in riferimento alla sua essenza (sostanza seconda), ossia ciò che di comune
hanno tutti gli individui di un determinato genere naturale. Con questo Aristotele
sosteneva proprio la possibilità di un plurimo significato semantico per la
definizione di un singolo ente, purché questa non risulti contraddittoria alla natura
dell'ente stesso, e che sia appresa esclusivamente mediante un processo di
astrazione dei caratteri essenziali e giammai accidentali dell'ente medesimo.
Incappare in un simile errore infatti conduce necessariamente a sostenere la non
esistenza di sostanza alcuna, riducendo oltremodo tutto ad accidente. Chiarifica
Aristotele:
«In generale, poi, coloro che ragionano in questo modo, sopprimo la sostanza e l'essenza
delle cose. Infatti, essi devono, di necessità, affermare che tutto è accidente e che non esiste
l'essenza dell'uomo e l'essenza dell'animale. Infatti se ci fosse un'essenza dell'uomo, essa
non potrebbe essere né l'essenza di non-uomo né l'essenza di uomo (anche se queste sono
le negazioni dell'essenza di uomo); infatti, si era stabilito che uno solo doveva essere il
significato e che questo doveva esprimere la sostanza della cosa. E la sostanza di una cosa
significa che l'essenza di essa non può essere nient'altro. Se, invece, l'essenza di uomo
potesse essere anche l'essenza di non-uomo o la non-essenza di uomo, allora sarebbe
anche altro da ciò che s'era stabilito e, di conseguenza, coloro che sostengono questo,
10 Ivi, IV, 4, 1006a, 33 – 1006b, 11.
6
dovrebbero sostenere, necessariamente, che non è possibile l'essenza di alcunché e che
tutto esiste a guisa di accidente. Infatti, in questo si distinguono la sostanza e l'accidente: il
«bianco» è accidente dell'uomo, in quanto l'uomo è, sì, bianco, ma non lo è per sua natura.
Ma se tutte le cose si dicono come accidente, non potrà esserci nulla che funga da soggetto
primo degli accidenti, mentre l'accidente esprime sempre un predicato di qualche
soggetto. Allora, necessariamente, si andrà all'infinito. Ma questo è impossibile, perché si
possono predicare l'uno dell'altro non più di due accidenti» 11.
In epilogo possiamo ribadire che il principio di non contraddizione è in un
certo senso il più originario dei principi onto-logici. È il più noto, ed è impossibile
avanzare alcun tipo di ragionamento che abbia la pretesa o anche solo la presunta
ma quanto mai fallace convinzione di poterne fare a meno. Evadere il principio di
non contraddizione è letteralmente impossibile.
Questa breve delucidazione tornerà utile nei paragrafi a seguire al fine di
mostrare l'inconsistenza di tutti quei movimenti antifondazionisti che dalla
antichità ad oggi hanno creduto invano di avere trovato teorie della conoscenza che
in un certo qual modo trascendono il principio di non contraddizione. Conclude
Aristotele:
«Se relativamente ad un medesimo soggetto sono vere, ad un tempo, tutte le affermazioni
contraddittorie, è evidente che tutte quante le cose si ridurranno a una sola. Infatti,
saranno la medesima cosa e una «trireme» e una «parete» e un «uomo», se di tutte le cose
un determinato predicato si può tanto affermare quanto negare, come sono costretti ad
ammettere i sostenitori della dottrina di Protagora. Infatti, se a qualcuno sembra che un
«uomo» non sia un «trireme», è evidente che non è un trireme; tuttavia sarà anche un
trireme dal momento in cui il contraddittorio è vero. Allora tutte le cose saranno confuse
insieme, […] e di conseguenza, non potrà veramente esistere alcuna realtà [determinata].
Pertanto sembra che questi filosofi [i relativisti] parlino dell'indeterminato; e, mentre essi
credono di parlare dell'essere, in realtà, parlano del non-essere, perché l'indeterminato è
essere in potenza e non in atto»12.
Alessandro Belli
11 Ivi, IV, 4, 1007a, 21 – 1007b, 2.
12 Ivi, IV, 4, 1007b, 18-29.
7