La gallina volante - 759175

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La gallina volante - 759175
LIBRO
IN
ASSAGGIO
LA GALLINA
VOLANTE
DI PAOLA MASTROCOLA
LA GALLINA VOLANTE
1
«Beccata!»
Dicono i compagni perfidi alla vittima designata, Mariagrazia Gualtieri, un metro e
cinquanta esatti. T-shirt e collanina. Non mi fa pena. E qui da sette minuti e ha detto tre frasi e
mezza, poco più che monosillabiche.
Io interrogo con l’orologio in mano, faccio la domanda anzi, per la verità, dico
l’argomento e poi ordino: «Adesso hai dieci minuti per parlare ». i più bravi riescono a
riempire dai quattro ai cinque minuti, ma ce ne sono uno o due per classe così. Gli altri
riempiono in media dall’uno ai due minuti. Dieci minuti è per tutti loro un tempo interminabile
da imbottire di parole. Forse lo spazio siderale o l’infinito di Leopardi hanno per loro le stesse
dimensioni.
Resto con lo sguardo crudelmente fisso alle lancette dell’orologio, e scandisco ad alta voce
i minuti e anche i mezzi minuti, fino allo scadere dei dieci. Implacabile, lo so.
«Senti Gualtieri, se tu sapessi parlare sarebbe meglio. Par-la-re, sai cosa vuol dire? Vuoi dire
mettere tante parole insieme — ma dico proprio tante — in modo che abbiano anche senso,
capisci?»
(Carla, non infierire, i giovani non capiscono l’ironia)
«È inutile che mi ripeti per la terza volta che Federigo degli Alberighi, siccome amava
molto quella dama, sacrificò il suo falcone e glielo diede, ben cucinato, per pranzo; ho capito,
ma andiamo avanti»
Quando dico «andiamo avanti», sbaglio. Perché allora lo studente va avanti, cioè
racconta che cosa succede subito dopo quel che ha già detto. Infatti la Gualtieri qui mi dice,
tormentandosi la collanina: «Dopo succede che la dama mangia il falcone».
Quando dico «andiamo avanti» io vorrei dire «approfondiamo », cioè vorrei indicare un
andare avanti in verticale, in profondità, una specie di scavo, diametro prossimo a zero, ma
altezza vertiginosa: come se la parola fosse una trivella filiforme che arriva al centro della terra
e ne tira fuori zampilli incandescenti, fuoco puro. Niente, lo studente in generale è una talpa,
due centimetri sotto la superficie, chilometri in orizzontale, anzi, fossero chilometri! sono metri,
a volte centimetri.
Il problema è che non so bene cosa chiedere a Gualtieri. Di fronte a una novella come
Federigo degli Alberighi, che è il prototipo della perfezione letteraria, l’idea del bello,
l’essenza di tutto il Medioevo — Cavalleria, Dolce Stil Novo e Comuni, tutto compreso — un
insegnante cosa vuoi che chieda?
L’insegnante non deve chiedere mai, dovrebbe soltanto ascoltare.
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Ma qui nulla parla.
Dovrei dire: «Fammi il commento della novella».
Il commento! Quale parola più sconosciuta? Più ostica, più assolutamente insignificante?
Commento non significa più nulla. Ogni anno la classe mi chiede: «Scusi, ma cos’è il
commento?» Oppure: «Scusi, ma lei esattamente cosa vuole?»
Voglio una cosa che non si può dire, né definire, né chiedere, una cosa che dovrebbe
venire da loro, non da me. Sono gli studenti che dovrebbero saperlo che cos’è il commento,
non io!
«Scusi, ma ce lo può insegnare, per favore?» Sono anche gentili gli studenti, sono cari.
Chiedono che venga loro insegnato, il commento.
INSEGNARE IL COMMENTO!
Allora, oggi ci provo.
«Ragazzi, oggi vi insegno a commentare una poesia. «Premessa: voi di fronte a un testo
per prima cosa dovete leggerlo e capirlo, cioè chiedervi che cosa significano le parole. Dopo
che l’avete capito, potete cominciarea chiedervi che cosa il testo vi dice.»
«E questo il commento?» chiede il biondo Giaula.
« Sì...»
«Cioè è quel che sento io...»
«No!»
Aiuto. Mi sento accerchiata. E adesso? Come glielo dico che le viscere non c’entrano,
puzzano e io non ne voglio sapere nulla delle loro viscere?
«Dunque ragazzi, cominciamo da zero: un testo, ad esempio una poesia, è prima di tutto
un fatto tecnico. Non ci vogliono i sentimenti, il cuore, l’amore eccetera per fare una poesia...»
«Eh già, ma se i grandi poeti parlano tutti d’amore! E poi, dicono quello che sentono, no?»
Ginepraio. Panico.
«Dante non amava Beatrice? E Leopardi non scrive perché è triste, ed è triste perché è
solo...?»
«Ed è solo perché è brutto!»
Siamo alla gobba di Leopardi. Ho avuto decine di classi, ormai; ho fatto Leopardi almeno
quattordici volte. ho dato due volte l’esame di semiologia e tutte e due le volte trenta e lode,
eppure alla gobba di Leopardi ci arriviamo sempre.
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«Calma, ragazzi, adesso vi spiego.»
E qui volgo lo sguardo alla sparata di finestre che danno sui cortile: il viale alberato
ombreggia il cemento. le foglie si muovono all’arietta, la donna del chiosco vende un gelato,
mi pare un cornetto, passa uno in bici, uno in camion, uno a piedi... Passano tutti, passeremo
anche noi.
Vorrei dirgli questo, ai miei allievi. Vorrei dirgli che una poesia comincia di qui e va a
finire qui, ma che non è questo, non è l’arietta, il gelato, le fronde!
Santo cielo, cos’è?
E passato un minuto. Aspettano.
Gli studenti sono buoni, aspettano sempre. E basta.
«Basta così per oggi. Facciamo latino.»
Esco e Canaria è nel suo angolo, sempre lo stesso, quello tra la fila di finestre e i cassetti
dei professori: lì c’è una specie di nicchia nel muro, per la canna fumaria o qualcosa di simile;
credo sia per via della nicchia che Canaria l’ha scelto. Barba bassa, occhiali penzoli.
Scartabella tra i suoi registri pieni di fogliacci e scuote il capo: «Tutte bestie! » dice, credo, a
se stesso.
«Chi?» gli domando più per cortesia che per sapere, mi fa pena così nell’angolo.
«Gli insegnanti, no? Non mi dirai che hai mai visto degli insegnanti non bestie?»
«Grazie Canaria!»
«Ci sono delle eccezioni, naturalmente.»
Naturalmente siamo lui e io le eccezioni, almeno.
Arrivano a grappolo quattro colleghe, a dirmi come per salvarmi: «Ce l’ha col mondo, lui,
non lo sai ancora?»
E passano oltre.
Comunque Canaria è forse l’insegnante più amato dai ragazzi, lo sanno tutti.
«Sai Carla, quegli aperitivi sul prato col salame e le noccioline?»
«Semi di pistacchio» correggo. Possibile che li chiami noccioline?
Mario si siede, aspetta. Serata di settembre tersa, le mattonelle del patio sono ancora
calde, lo sento col piede che tolgo per un attimo dal mocassino amaranto. Nessuna voglia di
preparargli l’aperitivo col salame e le «noccioline »: troppo anno scolastico davanti, è solo il
quattordicesimo giorno di scuola, neanche mezzo mese, figuriamoci se mi alzo.
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«Perché mi devi sempre correggere?» seccato prende e va in cucina, stappa un Crodino
che versa mezzo in un bicchiere e mezzo in un altro, apre un sacchetto di semi di pistacchio
confezione famiglia, li scarica in una ciotola, mette tutto su un vassoio e ricompare, felpato
come un gatto.
Domani è il quindicesimo giorno di scuola: niente male, siamo già a metà mese.
Fa quasi buio, Isidoro è ancora nei campi. Rastrella l’ultimo fieno, lo carica a forconate sul
trattore, ha un vecchio trattore di quarant’anni fa, arancio e turchese, con i cingoli: un trattore
«da salita» lo chiama, perché qui i prati sono tutti in salita (o in discesa, dipende).
Poi parte con gran fumo verso il fienile e lì ammucchia il suo fieno sino al tetto. Deve
durare tutto l’inverno, per le sue quattro mucche.
Isidoro è l’ultimo qui ad avere le mucche. Sono tutto il suo orgoglio, e anche il nostro, devo
dire, in quanto vicini di casa.
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Stasera ho la suocera a cena.
Risotto ai funghi, gamberetti e rucola, Viennetta Algida.
«Proprio una buona cena, Carla! Ti ringrazio tanto.»
Suocera gentile, cena raffazzonata tra le 19.30 e le 1955.
Tutto quasi perfetto. Peccato che all’ultimo Sapone viene fuori da dietro il gas con un
gamberetto tra i denti e le piume intrise di quella polvere unta che, appunto, c’è normalmente
dietro al gas. Sapone è fatta così: non cammina come le altre galline, scivola; viscida,
invisibile.
«Scusa Carla, per carità, fai come ti pare, ma perché tieni i polli in casa? Sai, anche per i
bambini...» Ha ragione. E veramente indecoroso che uno tenga i polli in casa, soprattutto sua
nuora. Adesso che fare? E darle due fette di Viennetta Algida?
Sapone esce spontaneamente, con un’andatura marziale, come di chi, in ogni caso, non
ha perso nulla della sua dignità. Anzi.
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«Sono la mamma di Banaro.»
«Ah... buongiorno, si accomodi.»
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«Venivo a sentire un po’…»
«Eh...»
(intanto apro i registri, come dirglielo? Lo saprà?)
«So che i voti non sono tanto belli...»
(sospiro, lo sa. Sicuramente lavora, non sta mai in casa ed è sempre di corsa. Ha la
permanente vecchia, una spilla d’oro a forma di insetto, il colletto con le punte lunghe e un
golfino striminzito, ma soprattutto le mani rosse e nervose)
«Sa, Maurizio ha avuto poco tempo quest’anno... Sa, io ho avuto una bambina, adesso
ha cinque mesi, e sa, Maurizio mi aiuta tanto...»
(bravo ragazzo, però Maurizio non fa un accidenti di niente, signora)
«In effetti, ho notato che l’impegno non è certamente... come dire, ecco signora io ho un
po’ l’impressione che suo figlio lavori pochino pochino...»
(che pochino pochino. non ha mai aperto un libro! Però quella spilla a insetto, ce ne aveva
una così anche mia madre, forse era una libellula, no. una farfalla...)
«Sa, io non so bene, io lavoro tutto il giorno, vado via alle otto e sa, torno la sera.,. Lui mi
dice che ha studiato...»
(e la bambina di cinque mesi?)
«Sa, la bambina la porto ai nido, così non lo disturba... La sera lui mi aiuta tanto...»
(sì, ma signora suo figlio sta tutto il giorno solo si rende conto? Torna a casa all’una, si fa
la pasta o apre il frigo, guarda la tivù, dorme sui sofà, telefona due ore, fa un giro, si fa una
birra, cos’altro vuole che faccia?)
«Sì, ma la scuola non va mica tanto bene... Ha la media del 4.»
«Eh lo so, lo so.»
Eh lo so, lo so... Noi tornavamo a casa all’una, ci apriva la mamma che ci diceva «Sto
finendo il sugo, lavati le mani ». Arrivava il papà dall’ufficio, si toglieva la giacca, ci dava una
pacca sulla testa e ci sedevamo tutti a tavola con la pasta fumante e la bistecca perché fa
sangue, e lì ci chiedeva «Vuoi mezzo bicchiere di vino che ti tira su?» o «Com’è andata
oggi?»
Chi gli chiede com’è andata oggi, a Banaro Maurizio?
Mi concedo almeno mezz’ora nel pollaio, e conto un po’ le mie galline.
Le galline guardano molto. Usano molto gli occhi, voglio dire, uno di qua uno di là.
Quando stanno ferme con una zampa su e quell’aria non proprio intelligente, è perché
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osservano. Riescono a tenere l’occhio fisso su qualcosa anche per tre minuti di seguito, sempre
con la zampa su, ma non si capisce che cosa stiano guardando.
Forse, a loro modo, mi vogliono bene. Quando entro con il mangime mi corrono tutte e
ventiquattro incontro. E non credo sia solo per il mangime.
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Credo sia solo per il mangime che le galline mi vengono incontro. Oggi sono entrata così,
«gli faccio un’improvvisata» ho pensato. Erano tutte a passeggio lungo il rigagnolo, nessuna si
è mossa di un palmo, dico nes suna.
Isidoro non l’ho mai visto seduto, ma ha un suo modo di riposarsi: chiacchiera,
chiacchiera con me ad esempio; io seduta nel prato e lui in piedi, o risciacqua un secchio alla
pompa o rastrella le pietruzze nella corte o intreccia i vimini o toglie qualche chiodo a certe
sue assi di vecchio legno tarlato o non so.
Oggi taglia i rami a una pianta secca; è morta così, non si sa perché, e adesso bisogna
toglierla, occupa posto e lì si potrebbero piantare patate.
Isidoro vuol sempre piantare patate, ovunque.
«La pianta quando muore in piedi non ha nessun valore, madama.»
Non so cosa vuol dire e mi spiega: che non si può far la legna con una pianta morta in
piedi, non vale niente per bruciare. Chissà perché, glielo chiedo ma non mi risponde. E io
penso a una pianta che non muoia in piedi... Cioè, se ho ben capito, per la legna da bruciare
bisogna abbattere piante in salute e poi si fa seccare il loro legno e quello sì che va bene per
bruciare, Non lo sapevo.
Isidoro sta tagliando una pianta che non so cosa sia, io non distinguo le piante, so che
quelle lunghe o sono pioppi o cipressi, poi conosco il salice piangente, il pino e la betulla.
Poco altro.
«Il pioppo non vale niente per bruciare, è legno dolce. La gaggia invece...»
La gaggia mi dice che è l’acacia. Io credevo il faggio, il faggio è nome noto, lo
studiavamo anche in certe poesie a scuola. L’acacia non so, non mi dice niente, mi vengono in
mente i fiori d’arancio, ma mi guardo bene dal dirlo: se sono d’arancio, non sono d’acacia.
D’a, d’a... da da. Gaggia = acacia. Dovrei fare un compito di sinonimi.
«Una bella pianta d’acacia, venuta sul magro, le dura tutta la vita» mi spiega Isidoro.
Isidoro sa tutto.
Ma «venuta sul magro» vorrà dire che dev’essere bella magra?
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Scoppia a ridere: «No, che viene su un terreno magro!»
E adesso come faccio a chiedergli anche che cos’è un terreno magro? Penso allo yogurt,
naturalmente. Ma per fortuna mi legge nei pensiero: «Magro, argilloso...»
Dunque la magrezza di un terreno si misura dalla sua argillosità. Magro = argilloso.
Dovrei fare anche un compito di equivalenze.
Pomeriggio di pace con sole. Lavoriamo sul prato, ognuno con i suoi libri.
«L’importante è arrivare a una eleganza» se ne esce Mario a un tratto, così.
«Mia?» penso. Ma poi guardo come sono vestita e mi rispondo: «No»
Ovviamente no, Mario allude alle sue formule: quando è seduto al sole, le gambe sul
tavolo, una calcolatrice nella mano sinistra e una penna nella destra che scrive su un
quadernone a quadretti formato protocollo, è ovvio che: primo sta parlando a se stesso,
secondo sta parlando di formule.
E mi spiega: «Vedi Carla, una formula può essere giusta, utile, funzionale, azzeccata,
risolutiva; ma se è anche elegante allora abbiamo raggiunto il top delle performance
matematiche, capisci?»
Credo che voglia dire «snel1a», senza tanta ciccia di troppo, o fronzoli: una bellezza
greca delle formule, credo.
Mario da qualche giorno ha Windows.
Cioè ha installato il sistema operativo Windows sui computer e di lì si allontana raramente:
pranzo, cena e qualche telefonata.
Dice che è interessante, molto interessante.
Ma io da qualche giorno lo vedo farsi cupo, direi che una certa tristezza lo sta
progressivamente prendendo.
«Problemi?»
«Figurati» risponde. Cupo.
© 2005, Ugo Guanda Editore S.p.A.
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
su licenza Ugo Guanda Editore S.p.A.
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