Imparerò il tuo nome

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Imparerò il tuo nome
Presentazione
Non sa e non capisce dell’amore, la protagonista di questo romanzo. Perduta la madre e abbandonata adolescente dal padre,
sola nel suo deserto affettivo, cresce forte e determinata. Alla
sua casa silenziosa di ricordi, fa da contrappunto l’acida frivolezza dell’ambiente di lavoro, una prestigiosa e patinata rivista
milanese. La incontriamo nel momento in cui ha inizio la sua
prima vera educazione sentimentale: un viaggio senza pregiudizi attraverso gli altri alla scoperta di se stessa, dei misteri del
desiderio e dei legami tra le persone. Un viaggio travolgente
che sembra aprire in lei – questa volta davvero – lo spazio per
l’amore e per una vita nuova. Con una scrittura asciutta, lucida
e appassionata Elda Lanza racconta una storia in cui perdersi
e riconoscersi. Scandalosa e esemplare allo stesso tempo. Sino
all’ultima scelta che conclude il romanzo, quando le aride certezze sono spazzate via dalla pienezza delle emozioni.
Elda Lanza è nota al grande pubblico come prima presentatrice della televisione italiana. Giornalista, scrittrice ed esperta di
comunicazione, è docente di Storia del costume. È stata ed è
tuttora ospite di numerose e importanti trasmissioni televisive.
I suoi romanzi gialli che hanno per protagonista Max Gilardi
(Niente lacrime per la signorina Olga, Il matto affogato, Il venditore di cappelli, La cliente sconosciuta, La bambina che non
sapeva piangere e Uno stupido errore) hanno raggiunto decine
di migliaia di lettori grazie a un passaparola travolgente. Per i
tipi di Vallardi è uscito anche Il tovagliolo va a sinistra, agile
trattato sull’arte della convivenza.
ELDA LANZA
IMPARERÒ
IL TUO NOME
Romanzo
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Art direction: Camille Barrios / ushadesign
Ponte alle Grazie è un marchio
di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
© 2017 Adriano Salani Editore s.u.r.l. – Milano
ISBN 978-88-6833-688-2
Prima edizione digitale: 2017
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Amore, amore,
lieto disonore.
Sandro Penna
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«Sono qui» dico. Senza alzare gli occhi dalle mie mani che stringono la borsa di tela verde. «Che cosa vuole che le racconti?»
«Puoi darmi del tu».
Alzo appena gli occhi, sino alla sua gonna. Che è di tessuto
di cotone, marrone e nera. Un tessuto etnico. Dall’orlo spunta
il suo piede. Nudo. «Va bene» dico. E torno a fissare le mie
mani. «Devo cominciare da quando ero piccola? Che cosa ho
sognato questa notte?»
«Dimmi quello che vuoi. Qualunque cosa che hai voglia di
dirmi». Parla senza muoversi, anche se io non la guardo.
Quando sono entrata nella stanza lei era già seduta sui cuscini, in terra, sopra un tappeto, con le spalle al muro. La finestra,
con le tende tirate, dietro di lei. Non si è alzata, mi ha salutato
con un cenno della mano. Forse ha sorriso. La stanza è completamente in ombra. Venendo dalla luce, non sono riuscita a
vederla.
Non l’ho neppure guardata.
Con un solo gesto della mano mi ha salutata e mi ha indicato
dove sedermi: accanto a lei, un po’ scostata. Le spalle contro
il muro. Le gambe allungate sul tappeto, scomode. Le mani
aggrappate alla borsa. Mi sono slacciata il giubbotto di pelle,
mi sono tolta il berretto e ho scosso i capelli. Umidi, perché
fuori piove.
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Mi ero preparata, avevo letto qualcosa sulle sedute psicoterapeutiche. Ma se non fosse stato per le insistenze di Luciana, che mi ha preso anche l’appuntamento, non ci sarei
venuta. Non mi piace raccontare la mia vita. Non mi piace
la mia vita.
Ho attraversato la città, dalla redazione che è in periferia
sino al centro storico: una palazzina Liberty rosso corallo con i
cornicioni bianco avorio.
È un qualsiasi giorno di pioggia, uggioso. Con le solite code
ai semafori, la stessa impazienza. Il tergicristallo che si sposta
sul vetro con un rumore di gomma dura che gratta, perché la
pioggia non è sufficiente ad ammorbidire il movimento e io
non ho più detergente nel serbatoio.
Mentre guido, sbirciando ogni tanto l’orologio del cruscotto perché non voglio arrivare in ritardo, non la prima volta
almeno, penso a quello che le avrei detto. Avrei cominciato
da quando ero bambina. No, da quando mia madre ci aveva
lasciati, me e mio padre, per un altro uomo. Le avrei parlato
di nonna, che è morta dopo che mio padre se ne era andato e
ci aveva piantato da sole, a sbrigarcela con me che crescevo e
volevo studiare. Poi, Lorenzo.
Lorenzo, maledizione. Lorenzo che mi ha lasciata, due settimane fa. Dopo cinque anni.
«Lui mi ha lasciata. Cinque anni insieme. Poi è arrivato a
casa e mi ha detto che la cosa non funzionava più, doveva pensarci. Mentre faceva la valigia. Cinque anni, gli dico. Che cosa
non funziona più? Lui alza le spalle e chiude la valigia. Mi dispiace, dice. Non me la sento più. Mi dispiace».
Faccio una pausa, aspetto una reazione che non arriva. Sbuffo. «Ho finalmente voglia di dirgli che niente ha mai funzionato. Lui che non paga niente, vivendo in casa mia. A letto,
lui che non si ferma neppure a chiedermi se va bene. Con gli
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amici, che sono soltanto suoi e io li conosco appena. Ho voglia
di dirgli, adesso glielo dico…»
«Glielo hai detto?»
Scuoto appena la testa. E lei sorride. Non la guardo, ma so
che sorride. «C’è poco da ridere» dico. Scontenta.
«Non sto ridendo. Supponevo che non gli avresti detto quello che pensavi. Scusa. Perché non l’hai fatto?»
Alzo una spalla. «Aveva chiuso la porta, clic… e se era andato. Come tutti».
«Tutti?»
«Sì, a cominciare da mia madre… Se ne vanno tutti e mi
piantano. Perché, domando io. Avevo sei anni. Mi ha baciata
con le lacrime agli occhi e se ne è andata. Con un altro uomo.
Mi ha lasciata a mio padre e a mia nonna». Parlo in fretta, a
testa bassa, quasi temendo di dover smettere a un suo segno.
Non voglio dire le cose che sto dicendo, ma non riesco a trattenermi. Non le ho mai raccontate a nessuno. «Mio padre se ne è
andato, quando avevo quattordici anni. Volevo fare l’università e lui mi ha pagato la scuola, sino in fondo… All’uscita dall’università, quando ho preso la laurea, c’era lui che mi aspettava.
Adesso sei grande, devi pensare a te, io ho chiuso. Non l’ho più
rivisto. Nonna era morta e vivevo da sola. La casa è mia, me
l’ha regalata mio padre. Avevo intanto conosciuto Lorenzo…»
«Quanti anni hai?»
«Trentuno, quasi». Mi fermo un attimo per riprendere fiato.
Ha chiesto la mia età, o quanti anni avevo quando ho conosciuto Lorenzo? Alzo una spalla: perché non mi sta a sentire?
«Lorenzo è venuto subito a vivere da me, ma ogni tanto tornava a casa da sua madre. A me non sembrava giusto; ma quando
glielo dicevo sbuffava e se ne andava per un paio di giorni. Poi
tornava. Promesse, grandi servizi da concludere, anche lui è
giornalista, esperto in economia… mai visto niente». Perché le
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racconto queste cose? Con questo astio, come se mi importassero davvero. Non me ne importa niente che Lorenzo se ne sia
andato, voglio soltanto sapere perché tutti mi lasciano. Sono
venuta da lei per capire: che cosa ho che non va?
Muove il piede da sotto la gonna. È un bel piede, curato. So
che ora sta per dirmi qualcosa. Anche la sua voce è bella, scura,
morbida. «Perché sei venuta da me?»
«È stata Luciana. Sono andata in studio, io lavoro nella redazione di un mensile, e le ho detto che Lorenzo se ne era
andato. Finalmente, ha detto lei. Finalmente un corno, dico io.
Ora sono sola: perché tutti mi piantano? E allora? Mi chiede
Luciana. Perché lo dici a me? Vallo a raccontare alla dottoressa D’Urso…» E finalmente la guardo in faccia. È più grande
di me, deve avere circa quarant’anni. Ha una ciocca bianca
a destra, sulla fronte, e i capelli tirati indietro. Neri e lucidi,
come se fossero laccati. Gli occhi scuri, il viso in penombra,
non vedo altro.
«Noi abbiamo pubblicato una tua intervista, il mese scorso.
Sette pagine sulla tua casa, l’hai visto?»
Mi risponde con un lieve cenno del capo, e sorride. Quando
sorride è bellissima, come nelle foto. «Se l’è ricordato Luciana,
che tu eri una psicoterapeuta… è così che si dice? Ha telefonato… ecco, è così. Io forse non ci avrei mai pensato».
«Credi che tornerai?»
Alzo una spalla. «Perché no? Ho raccontato più cose a te in
mezz’ora che a Lorenzo in tutta la nostra vita insieme. Perché
no? Quando?» Mi sento improvvisamente meglio.
«Va bene alla stessa ora di oggi?» Sono quasi le otto e sono
arrivata alle sette. Dico di sì. «Allora, martedì e venerdì alle
sette. Ora il tuo tempo è scaduto». Si alza. È più alta di me.
La gonna marrone e nera è invece un caftano che la copre dal
collo alle caviglie. Deve essere magra, e ha un bel viso. Serio,
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interessante. Al collo due grosse collane di ambra. La mano
che allunga verso di me è sottile e magra, morbidissima mentre
la stringo. «Verrai?» mi chiede ancora.
«Sì, verrò».
«Allora paga qualcosa. Se paghi, so che tornerai».
«Quanto?»
«Quello che vuoi, anche dieci euro. È un pegno». Mi sorride
appoggiandosi alla porta che tiene aperta per lasciarmi passare.
«Per farti tornare».
«A te?» Ho in mano il portafogli e mi sembra di offenderla.
«No, sul tavolino».
«Così?» Ho appoggiato sul piano del tavolino che è accanto
alla porta una banconota da 50 euro. «Va bene?»
«Sì, va bene. Tornerai?»
«Sì, certo… Venerdì alle sette».
Quando esco in strada è buio. Cammino verso la macchina, la città mi assorbe, sono nuovamente una qualunque in
mezzo a tanti. Penso che se mi volto a guardare, la palazzina
rossa in stile Liberty dalla quale sono appena uscita non c’è
più. Sparita, come se fosse appartenuta a una vita diversa,
a un mondo che non è questo. Io ero in quel mondo, e ora
sono qui, davanti alla mia macchina parcheggiata male vicino
al marciapiede. Mi volto. La palazzina rossa è ancora lì, una
finestra al primo piano è illuminata. Sembra un segnale, qualcosa che mi ricorda quello che ho appena superato. Non ci
tornerò più, penso. Sto troppo male. Non capisco che sollievo provi la gente a raccontare le proprie umiliazioni. Mi sento
distrutta. Più infelice di prima. Infelice dei miei ricordi che
mentre li ho vissuti non mi hanno causato altrettanto male.
Non ci tornerò più.
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Sono tornata. Martedì e venerdì di ogni settimana. Sono passati quattro mesi. Parliamo. Lei non vuole che io le racconti i miei
guai. Parlami dei tuoi progetti, mi dice. I tuoi guai lasciateli alle
spalle. Guarda avanti.
È quello che ho davanti che mi fa paura. Dietro di me, il mio
passato, proprio perché l’ho superato, mi sembra rassicurante.
L’ho superato e non sono morta: morirò soltanto nel mio futuro. Sono spaventata e lei lo capisce.
Ogni volta indossa un caftano diverso, alcuni sono preziosi.
Ha avuto una madre indiana e un padre italiano, Genova. Mi
dice queste cose con voce leggera, rispondendo alle mie domande. Con impazienza, non vuole parlare di sé.
Mentre lavoro in redazione o a casa, penso a lei, seduta con
le ginocchia incrociate sotto il suo caftano, con una qualunque
donna di fronte che le racconta la propria vita. Mi accorgo di
essere gelosa di quelle sconosciute. Voglio che sia soltanto mia.
Una sera, dopo la nostra seduta, mi invita a restare. «Mangiamo qualcosa insieme, ti va?»
Arrossisco di gioia. «Sì, naturalmente. Devo andare a prendere qualcosa?»
«Ma no. Riso al vapore con verdure e un dolce. È tutto pronto di là. Siediti e stai tranquilla». Preme alcuni bottoni su una
radio e subito una musica che non conosco mi graffia la pelle,
facendomi venire i brividi. «Ti piace?»
«Sì… Chi è?»
«Erik Satie… Aspettami, vado a fare una doccia».
Chiudo gli occhi. Non riesco a essere felice per quell’invito,
mi dico che lo fa con tutti per non mangiare da sola. Ora è toccato a me, dopo quattro mesi. Non ha un uomo?
Quando riapro gli occhi la vedo passare nel corridoio, i passi
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attutiti dal tappeto. È completamente nuda. Richiudo gli occhi,
come se l’avessi sorpresa. Mi manca il respiro. Una strana sensazione in mezzo allo stomaco.
«Sono pronta» dice, affacciandosi alla porta. Il caftano bianco, di cotone a più strati, cade leggermente da un lato, alla scollatura, lasciandole libera una spalla. La pelle è bianchissima,
tesa sulle ossa fragili. I capezzoli segnano il tessuto. Quando
cammina verso la luce, in trasparenza scorgo le gambe. È nuda.
La stanza, che non ho mai visto, è piccola, tinteggiata di rosa
salmone, con pochi mobili graziosi. Molte candele accese, sul
davanzale della finestra, sui mobili, in terra. Profumo di incenso e di cannella. In mezzo alla stanza un tavolo quadrato, apparecchiato per due, e due sgabelli senza spalliera. Cuscini, anche
contro il muro. Un mézzere indiano sul tavolo, due ciotole di
porcellana blu e verde, bicchieri dallo stelo lungo e sottile.
«Ti piace?»
«Sì, è tutto molto… esotico». E rido, come una stupida. Conosco la sua casa: un fotografo della rivista dove lavoro l’ha fotografata per il servizio, io l’ho impaginato e Luciana ha scritto
le didascalie. Glielo dico e lei sorride. «È molto particolare»
aggiungo.
Si siede su un cuscino. «Preferisci lo sgabello?» No, ormai
mi siedo come lei, anche durante i nostri incontri. Lei non usa
il lettino, ma soltanto grandi cuscini contro la parete. Si siede
voltando le spalle alla finestra, per essere in ombra, e io di fianco, per non guardarla in faccia.
Ora mi siedo sul cuscino, come lei. «Così» dico. I jeans mi
tirano in mezzo alle gambe e mi muovo sui fianchi per mettermi comoda.
«Toglili, non vedi che ti stringono?»
«No, non importa». Sotto indosso un paio di mutandine elastiche e i calzerotti al ginocchio, mi sentirei ridicola.
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Mangiamo chiacchierando. Lei parla, ma non dice niente di
sé. Vuole sapere del mio lavoro, di che cosa mi occupo.
«Arredamento, soprattutto. Ville e giardini… Le case di quelli che contano. Mi piace, perché spesso mi tocca viaggiare…»
«Moda?» domanda.
Scuoto la testa, Luciana si occupa di moda. Ma spesso lavoriamo insieme. Non voglio parlare del mio lavoro, ho fretta di
sapere di lei.
«Sei sposata?» domando. È una domanda indiscreta, ma
non mi importa, voglio saperlo.
Scuote il capo. Mi guarda come se mi rimproverasse. «No.
Sono sola da quando è morta mia madre, otto anni fa. Mio
padre ci aveva lasciate da molto tempo. Gli uomini…» E sospira. Alza il bicchiere verso di me: il vino bianco è profumato,
leggermente frizzante.
Quando mi alzo per andarmene è quasi mezzanotte. Mi gira
la testa, ma è soltanto una sensazione.
«Grazie» dico. Mi sento goffa. Capisco che dovrei fare qualcosa, ma non so che cosa. «È stato bello, davvero».
«Sono contenta. Lo rifaremo, se vuoi». Non si è alzata. Appoggiandosi a un gomito si è allungata sul cuscino rosso rubino. Una macchia bianca, stupenda, su quel rosso vivo. Deglutisco impacciata. «Ciao, chiudi tu la porta». Mi fa un cenno con
la mano e si lascia cadere all’indietro.
Non voglio andare via. «Devo aiutarti?» domando. La cosa
più stupida che mi è venuta in mente.
«No, vai… vai, ora».
Fuori dall’uscio mi appoggio al muro delle scale. Cerco di
non pensare alle mie sensazioni. Non voglio capire che avrei
voglia di tornare indietro. Da lei.
A casa cerco la rivista, riguardo il servizio, le stanze della casa
che non conosco. Il bagno con la vasca a livello del pavimento
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e il tatami in terra per il relax. La serra, un corridoio a vetrate
che unisce la camera da letto al salotto, con piante esotiche,
alcune gigantesche. Il letto: un materasso in terra con trapunte
e cuscini di seta colorata in diversi toni di rosso e arancio, e il
baldacchino, tra ferri dorati che si intrecciano a tessuti leggeri
di seta. Tutto è bianco o rosso arancio, rosso rosa, rosa cupo.
Giallo, giallo arancio. Non esistono altri colori, anche sulle pareti, nei quadri: l’unica variante è il verde cupo e minaccioso
delle piante, dovunque, a gruppi invadenti.
Il salotto dove siamo state, dove abbiamo cenato. Nel servizio sembra più grande, più impersonale. I cuscini di seta rossa,
su quei cuscini c’è lei; anche nella fotografia indossa un caftano
bianco, lo stesso. Sorride.
Un languore in mezzo allo stomaco che non voglio definire.
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Il venerdì seguente sono impacciata. Parlo con una certa fatica,
guardando continuamente l’orologio.
«Hai un impegno?» mi chiede.
«No, nessuno… non so perché lo faccio. Oggi non quaglio…»
«Perché usi così spesso un vocabolario tanto squallido?
Quaglio» ripete con una smorfia. «Possibile che tu sia felice
di parlare come una ragazzina di terza media? Sei laureata, sei
giornalista… perché lo fai?»
È questo che deve fare un’analista? Sgridarti perché non
riesci a respirare normalmente davanti a lei? Glielo chiedo arrabbiata.
«Non ti è mai successo?»
«No. Ma ora sì».
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«Sai perché?» Scuoto la testa. «Ti è successo altre volte, con
altre persone?» Scuoto nuovamente la testa. Se alzo gli occhi e
la guardo mi sentirò male, penso. «Prova a ricordare… quando
eri bambina o ragazzina… non ti è mai successo?»
Sto per rispondere di no un’altra volta, poi mi ricordo di
Carla. «Sì, una volta, forse. Una mia compagna alle medie. Lei
aveva un anno più di me. Mi ha messo le mani sul seno, al
gabinetto. Mi ha strizzato i capezzoli. Ci siamo baciate. Ogni
tanto ci trovavamo al gabinetto e facevamo questa cosa… Lei
mi metteva una mano tra le gambe. Mi vergognavo, ma non
riuscivo a pensare che a questo: lei con la sua mano tra le mie
gambe. Io che la baciavo. Da ragazzine, avevo dodici o tredici
anni. È così che ho cominciato a masturbarmi…»
«Non me ne avevi mai parlato».
«Non mi è mai venuto in mente. Mi è sempre piaciuto più
di tutto il resto…»
«Vuoi parlarne?»
Scuoto la testa con violenza perché capisca che il discorso mi
imbarazza. «No, non ho più niente da dire».
«Sei sicura? Quando è stata la prima volta?»
«La prima volta è stato con un amico di mio padre, era venuto a casa e io ero sola, avevo diciassette anni. Non mi ha violentata, se è questo che pensi. Sono stata io. Volevo vedere come
era fatto un uomo. Gli ho messo una mano tra le gambe, gli ho
quasi tolto i pantaloni. Lui è stato bravo. Dopo qualche volta
che lo facevamo in quel modo, si è fermato da me a dormire.
È successo. Al mattino mi ha regalato un paio di scarpe con il
tacco e mi ha detto che gli avevo dato qualcosa che non avrei
più potuto dare a nessun altro. Mi ha ringraziata e non l’ho più
rivisto. Dopo di lui… vediamo: due ragazzi della mia età. Con
uno andavo al cinema di giorno, ci sbaciucchiavamo. Con l’altro, studiavamo insieme e dopo si fermava da me, a letto, sino
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all’una di notte. Non sentivo niente, era inesperto ma gentile.
Non mi faceva male…» La guardo, sono furiosa con lei perché
mi ha fatto dire queste cose. «È questo che volevi sapere?» le
chiedo sgarbatamente.
«Le hai dette. Significa che avevi voglia di raccontarle. E
dopo? Questo Lorenzo mi pare che sia arrivato dopo, eri già
all’università».
Mi chiedo come fa a ricordarsi tutto quello che le dico. Non
prende appunti, non ha neppure un registratore. «Sì, ero già
al terzo anno. Davvero, non mi ricordo. Qualche ragazzo, una
volta al mare… Sono stata tanto tempo senza pensarci, non mi
importava. Non ho mai avuto una relazione seria. Penso di non
esserci portata».
«Sciocchezze…» Lo dice sottovoce, tra le labbra.
«Fare l’amore, avere un rapporto completo non mi piace un
gran che…»
«Questo è più comprensibile».
Si alza. Ora è in piedi davanti a me. Guardo l’orologio, non
è ancora scaduto il mio tempo. Sorpresa, mi alzo anch’io. Lo
spazio che mi lascia tra sé e il cuscino è poco, devo sfiorarla con
il corpo. Trattengo il fiato.
«È ora?» chiedo. Sapendo che non è vero.
«È così?» Mi appoggia le mani sul seno, le muove appena
e ho i brividi. «Così?» Scende con la mano tra le mie gambe.
Sento le sue dita sotto la stoffa dei pantaloni. «Così?» Prende
una delle mie mani e l’appoggia sul suo seno: è nuda. Sotto
il caftano viola è nuda. Sento il calore della sua pelle, il suo
capezzolo appuntito che si irrigidisce. Allunga verso di me
il viso, è poco più alta di me, e la sua bocca è sopra la mia.
«Così?»
Ci baciamo. Dapprima con dolcezza, poi sempre più furiosamente. Mi sembra di non aver mai baciato nessuno in quel
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modo. La sua bocca è fresca, sa di menta. La stringo tra le
braccia, la tocco, le passo le mani sulla schiena, sulle natiche,
tra le gambe. Lei è avvinghiata a me e geme, come se le facessi
male. Sento le sue mani sul mio corpo, vorrei dirigerle sui punti
in cui sto bruciando, ma aspetto.
A un tratto mi stacco, quasi perdo l’equilibrio. «È una lezione, fa parte dell’analisi?» domando con rabbia.
Mi guarda e sorride. «Sei sicura?» Torna a baciarmi sul collo. «Io ti amo, sciocchina, non capisci? Sei come me, neppure
a te piacciono gli uomini. Ti voglio, non senti? E tu vuoi me…
Mi hai voluta dal primo giorno. Io ci ho messo più tempo, volevo essere sicura di amarti. Baciami… ti prego, baciami». Solleva con le mani il caftano, è nuda. Nuda davanti a me, in jeans
e maglietta. Si sdraia sui cuscini. «Che cosa aspetti? È quello
che ti piace… ti prego».
Non ho più i jeans e la maglietta, soltanto le mutandine di
cotone. Mi toglie anche quelle. Imparo da lei a fare l’amore
come piace a me.
Quella notte dormiamo insieme.
«Lo fai sempre con le tue pazienti?»
«Mai fatto».
«Come posso crederti, se con me è stato così facile?»
«Non così facile come credi. Comunque tu mi piaci, con te
ho provato una sensazione molto forte. Mi piaci e ti amo».
«Quando te ne sei accorta?»
«Di essere così? Da ragazzina. Da subito, non ho mai provato con un uomo. I ragazzi mi facevano schifo. Ne ho visto uno
nudo, che si masturbava davanti a me, e ho vomitato. Mi piacevano le ragazzine. Anch’io, come la tua compagna di scuola,
ne ho istruite parecchie. Alcune di loro mi si appiccicavano addosso perché non avevano il coraggio di farlo con i ragazzi. Ma
non mi piacevano. Volevo ragazze che fossero come me, non
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è così facile. Ho avuto una sola relazione seria, anni fa, subito
dopo la morte di mia madre. È durata quasi sei anni».
«L’amavi?»
«Sì. L’ho amata e le ho dedicato la parte migliore di me per
tutto quel tempo. Non riuscivo a lavorare per starle addosso.
Ero gelosa. Lei andava anche con gli uomini, oltre che con me.
Mi faceva impazzire. Negava, la spudorata. Le piacevano gli
uomini, ma le piacevo anch’io. Quando l’ho scoperta, l’ho buttata fuori di casa. Ho sofferto la sua mancanza, almeno per due
anni. Due anni di astinenza quasi completa. Poi… poi sei arrivata tu. Per questo sono stata prudente con te. Volevo essere
sicura».
«Pensi ancora a lei?» Scuote il capo, girandosi mi bacia sulla
spalla. «Com’era?»
«Piccola, minuta. Carina. Una gatta spaventata, quando è
venuta da me la prima volta. Dopo, è diventata una iena. Mi
ha rubato cose che le avrei regalato, se me le avesse chieste.
Mentiva. Bugie, sei anni di bugie. E di dolore».
«Soffri ancora?»
Ride. Le si formano piccole rughe intorno agli occhi. «Non
sarei qui con te, se ne soffrissi ancora. L’ho cercata tante volte,
quando mi sembrava di non poter resistere senza di lei. Poi a
poco a poco è finita. Sepolta, davvero. Ti prego, non essere
gelosa di una cosa che non esiste più. Tu, amore, l’hai cancellata».
«Facevi l’amore con lei come lo fai con me?»
Ride ancora e mi passa una mano tra le gambe. «Meglio,
tesoro. Meglio di così. Quando ci conosceremo sarà bellissimo
e mai sarà stato più bello. Ora dobbiamo cominciare a conoscerci… a te piace?»
«Sì… sì. Non sono mai stata così felice. Sei stupenda. Non
smetterei mai di far l’amore con te. Ti prego, aiutami. Voglio
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che tu sia felice, che tu non abbia rimpianti. Aiutami a farti
felice come lo sono io. E anche di più».
Si è stretta contro di me. Mi circonda il corpo con le gambe
e con le braccia. «Avanti, allora… che cosa aspetti?»
Facciamo l’amore un’altra volta prima di addormentarci.
Due volte la settimana vado da lei. Facciamo l’amore, mangiamo, dormiamo insieme. Al mattino me ne vado e per due
giorni sto male, senza vederla. Non risponde al telefono. Divento pazza.
«Si può sapere perché non rispondi al telefono? Ti lascio
messaggi in segreteria, perché non mi richiami?»
«Perché sto lavorando…»
«Tutto il giorno? Anche di sera? Anche di notte?»
«Di sera sono stanca e di notte dormo». Ha l’aria annoiata. Si
allunga sui cuscini e sembra davvero stanca. «Perché discuti?»
«Perché ti amo e sono gelosa».
«Ho te, che cosa posso volere di più… Avanti, non fare capricci. Amami, invece, non ne posso più, ti desidero… ti prego». Si passa le mani sul corpo e mi si annebbia la vista.
La spoglio, delicatamente, come piace a lei. Una cosa per volta. Passandole le mani sulle spalle, sul seno, sul ventre, sulle cosce. Poi la bocca, la lingua. Geme, asseconda con il corpo le mie
carezze. Mi strappa la camicia, mi allarga il tessuto sulle spalle e
vuole il mio seno in bocca. Mi morde. Poi reclama la sua parte.
Quando la stringo tra le braccia e la sento gridare, perdo la
testa. «Sì, amore… amore mio. Ti amo, ti amo… sei mia». Si
dice così anche tra donne? La possedevo, accarezzandola soltanto? La possedevo, perché l’amavo? O il possesso è un’altra
cosa, virile, carnale? Io volevo che fosse mia.
Forse non godo con la stessa intensità, non sono capace di
dirle quello che voglio. Mi accontento. A volte non riesco ad
arrivare sino in fondo.
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«Non mentirmi, hai capito? Io posso stare su di te anche
un’ora, ma non mentirmi».
Non mento, mi è soltanto difficile lasciarmi andare completamente alle sue carezze. Ho sempre il timore che lei si affatichi, di non piacerle abbastanza. Quando mi capita di essere
completamente felice, allora sorride. Sa che è vero.
«Hai visto? Sei una sciocca a farti dei problemi, perché non
godi sempre in questo modo? Mi fai felice».
Una volta, mentre mi rivesto per tornare a casa, mi chiede se
voglio andare a vivere con lei. «Vuoi?»
«No, preferisco di no».
«Perché? La mia casa non ti piace?»
«Certo. È sicuramente migliore della mia. Ma preferisco
non staccarmi dalle mie cose, qui non potrei portarle. Ho quasi duemila libri, dove li metteresti? La camera di nonna, la mia.
Ho anche uno studio, con il computer e altri strumenti che mi
servono per il lavoro. Non sempre vado in redazione; a volte
lavoro a casa sino a tardi. Correggo testi, ne scrivo, impagino…
Non ti piacerebbe».
«Mi piacerebbe avere qui te. Sapere che non mi tradisci».
«Con il computer». E rido. La bacio per riconoscenza: sono
felice che mi abbia chiesto di vivere con lei, anche se non ne
sarei capace. Non saprei dividere la mia vita, i miei gesti quotidiani, con un’altra persona. Neppure con lei, con i suoi vizi,
le sue manie. La sua presenza straordinaria. Neppure con lei,
anche se l’amo da morire.
Qual è il mio ruolo, nella nostra coppia? Lei è più grande
di me, è anche più alta e magra. Più mascolina fisicamente, se
dovessi usare un’immagine consueta per descriverla. Eppure
mi tratta come se lei fosse una ragazzina innamorata e io il suo
uomo. Più giovane. Forse addirittura più femminile di lei. Ho
un gran seno, mentre il suo è piccolo, mi sta in una mano. Ho
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