Commedia dell`arte - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo

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Commedia dell`arte - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo
da: Antonio Attisani , Enciclopedia
Milano, Feltrinelli 1980
pp. 393-400
del teatro del ‘900
Commedia dell’arte (Influenza della)
di FERDINANDO TAVIANI
È stranissimo come la Commedia dell’arte viva ancora. É un buon esempio di ciò che propriamente
si può intendere quando, nella storia del teatro, si parla di “eredità” o di “influenze”:
apparentemente un’esperienza che trova dei continuatori; in realtà un fenomeno che ha a che fare
con quelle filiazioni a rovescio per cui è stato detto, ad esempio, che sono i capolavori a creare i
propri precursori, e non questi a precorrere quelli.
Per la sua origine, il termine influenza è legato all’astrologia. Le costellazioni sembravano
suddividere il tempo e strutturare i temperamenti degli uomini, mentre in realtà furono gli uomini,
nel suddividere il tempo e nell’individuare caratteri e temperamenti, a collegare mentalmente
diversi astri, dispersi nel cielo, in figure e costellazioni unitarie. Da questo punto di vista la
Commedia dell’arte è una costellazione. E in questo senso - come costellazione - influisce.
Il 1860 è generalmente indicato come l’anno di inizio di tale influenza: Maurice Sand pubblica a
Parigi Masques et bouffons, due volumi in cui si rievoca brevemente la fortuna della Commedia
dell’arte per poi passare alle diverse maschere, ad ognuna delle quali viene dedicato un capitolo e
una preziosa incisione acquarellata. Il sottotitolo dei volumi — La Comédie italienne — è il nome
che la Commedia dell’arte riceve ancor oggi all’estero: sia perché i comici italiani divennero presto
famosi nei diversi paesi d’Europa fin dalla fine del Cinquecento; sia per antonomasia, perché per
una di quelle generalizzazioni che caratterizzano il trasmettersi dei fenomeni culturali, la Commedia
dell’arte venne vista - ed è spesso ancor oggi vista - come un tipico esempio del “genio del popolo”
e del folclore italiano.
Indicativo è anche il modo in cui Maurice Sand arrivò a Masques et bouffons: i due volumi sono la
conclusione elegante ed erudita di un gioco teatrale privato. In campagna, nell’inverno tra il 1846 e
il ‘47, Maurice Sand e un gruppo di amici facevano il solito gioco di società delle sciarade animate.
Dai travestimenti nascevano dei tipi, e – insistendo - dai tipi nascevano delle situazioni, dalle
situazioni dei dialoghi. Si accorsero di far teatro non pensando al teatro. Però non recitavano nessun
testo scritto: improvvisavano. Parve a loro - e soprattutto a Maurice — che in quel gioco si
riassumesse la storia del teatro, il suo sviluppo a cominciare dalle origini più primitive e remote.
Maurice credette, inoltre, di rintracciare nel meccanismo del gioco suo e dei suoi amici lo stesso
meccanismo da cui nacque la Commedia dell’arte.
Perché si possa parlare di Commedia dell’arte sembra che sia sufficiente la presenza delle maschere
e dell’improvvisazione, non importa poi che si tratti di burattini o di teatro della pantomima, di
attori dilettanti o di professionisti. E in base a quelle invarianti e indipendentemente da queste
variazioni che la Commedia dell’arte si caratterizza nei volumi di Maurice Sand.
Su queste basi inizia la cosiddetta “rivalutazione” della Commedia dell’arte nel teatro e nella cultura
di fine Ottocento e del Novecento.
Malgrado i molti libri e i molti studi, è ancor oggi difficile definire in maniera storicamente
appropriata ciò che la Commedia dell’arte fu nel suo tempo. Alcuni punti fissi potrebbero essere
questi: fu innanzi tutto un modo di produrre spettacoli adattabili alle esigenze di un mercato ampio,
costituito da pubblici di differenti livelli sociali e culturali, e spesso anche di paesi e lingue stranieri
agli attori. Professionisti, associati in compagnie, gli attori erano in grado di offrire commedie e
tragedie e non più soltanto brevi spettacoli comici, acrobatici, satirici da saltimbanchi o ciarlatani
nelle piazze e buffoni nelle corti. Così facendo, passavano da un’economia di sussistenza a livelli di
vita più agiati e ad una certa indipendenza economica. Promuovevano e nobilitavano, inoltre, la
propria figura sociale. Anche se il loro mestiere continuava a subire attacchi (tanto più ora che
infrangeva i confini di un’ordinata e passiva emarginazione) essi, però, erano in posizione di
contrattaccare, di pretendere pubblicamente un rispetto e una considerazione che non sarebbero stati
neppure pensabili per i saltimbanchi, i ciarlatani, i buffoni. Alcuni degli attori dell’arte erano capaci
di combattere i preconcetti delle élites religiose ed accademiche scendendo sul loro stesso terreno:
scrivendo libri, pronunciando discorsi, organizzando precise strategie culturali. Ovviamente, tutto
ciò — che costituiva le fondamenta concrete di quel fenomeno che chiamiamo Commedia dell’arte
— rimase inosservato: le cause rimasero nascoste dagli effetti.
I primi documenti sull’esistenza di una Commedia dell’arte sono della metà del Cinquecento.
Poiché gli attori italiani avevano messo a punto un sistema di produzione teatrale che permetteva
loro di rappresentare commedie e tragedie senza aver bisogno di un testo scritto, composto a parte e
imparato a memoria, poiché cioè, potevano creare uno spettacolo — compreso il suo testo letterario
— in brevissimo tempo, quasi all’improvviso, improvvisando il montaggio di materiali scenici ben
posseduti da ciascun attore in base alle diverse specializzazioni, ciò che noi oggi chiamiamo
Commedia dell’arte fu all’inizio chiamata Commedia all’improvviso.
Ricevette anche il nome di “commedia delle maschere” perché in essa agivano tipi fissi (necessari,
innanzi tutto, all’ improvvisazione del montaggio) individuati attraverso le immagini di tipi buffi
popolarmente noti nei carnevali delle diverse città italiane o anche — come forse Arlecchino —
inventati partendo da immagini popolari d’altri paesi, successivamente italianizzate dagli attori.
E poiché le commedie e le tragedie degli attori professionisti non venivano allestite — come fino ad
allora si era visto — in case private, in corti o accademie, gratuitamente, per un pubblico di invitati
e di amici, ma erano spettacoli offerti a pagamento, anche in stanze prese in affitto e in cui chiunque
poteva entrare purché pagasse un tanto stabilito, la commedia degli attori professionisti venne anche detta —
con sottinteso disprezzo — “mercenaria”.
La Commedia dell’arte cominciò ad apparire
come uno stile artistico o addirittura come una
poetica teatrale quando il modo di far teatro dei
professionisti venne imitato e riprodotto dai
dilettanti nelle accademie, quando cioè l’effetto
cominciò a vivere autonomamente e lontano
dalla sua causa. Da ciò deriva tutta una serie di
fraintendimenti che costituiscono altrettanti punti
di forza per la vitalità della Commedia dell’arte
nel teatro moderno.
La “rivalutazione” della Commedia dell’arte
arrivò in Italia dall’estero. E — cosa ancor più
importante — in Italia tardò molto a collegarsi
con la ricerca teatrale attiva. Anche quando ciò
avvenne, fu quasi per un fenomeno di riporto,
che non ebbe l’importanza, l’incidenza,
l’originalità che ebbe in altri paesi.
I primi studi storici sulla Commedia dell’arte, in
Italia, negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei
primi anni del Novecento, non nascono da
interessi teatrali, ma nell’ambito degli studi
positivisti sulla letteratura popolare o intorno alle
“fonti” di scrittori come Goldoni o Molière.
Fra il 1872 e il 1910 fanno ricerche e pubblicano
scritti sulla Commedia dell’arte il Camerini,
Adolfo Bartoli, Vincenzo De Amicis, lo
Scherillo, il D’Ancona, il giovane Benedetto
Croce, il Toldo. Spesso i loro scritti — e quelli di altri, più improvvisati e generici — vengono pubblicati
nelle sezioni dei giornali e delle riviste dedicate alle “curiosità letterarie”.
L’unica eccezione di rilievo a questo interesse per la Commedia dell’arte unito ad un sostanziale disinteresse
per il teatro è costituita da Luigi Rasi, che fra il 1897 e il 1905 pubblica I comici italiani. Luigi Rasi è attore
e maestro di attori. Come già aveva fatto Francesco Bartoli alla fine del Settecento, il Rasi vuole tramandare
— attraverso un dizionario biografico — il ricordo di artisti di cui si perde la traccia. Fra le vite che egli
ricostruisce compaiono così, dettagliate e vivaci, quelle degli uomini che crearono e resero celebre la
Commedia dell’arte. Saranno le pagine del Rasi, più che erudite, a ravvivare l’interesse di Gordon Craig per
la Commedia dell’arte..
In genere, sia per gli attori che per gli appassionati e i critici di teatro italiani, l’esperienza dei comici
dell’arte sembrava trasmettersi in età moderna negli aspetti più degradati — o ritenuti tali — del costume e
della pratica teatrale: nella guitteria, nel pressapochismo culturale, nella ricerca dell’effetto, nella mancanza
di fedeltà al testo rappresentato, nella volgarità e nell’indecenza della comicità a buon mercato, nell’ “andare
a braccio” quando l’attore non sa la parte.
Nel resto d’Europa, invece, la Commedia dell’arte evocava immagini più affascinanti. Per esempio : i comici
italiani suscitano l’entusiasmo della Parigi del re Sole; il re Sole li manda poi in esilio e Watteau li immortala
in alcuni suoi dipinti famosi; sono i “maestri” di Molière; sono gli “ispiratori” di Marivaux.
O ancora: le Fiabe teatrali del Gozzi ; le pantomime.
Attraverso il Gozzi tradotto , il mito della Commedia dell’arte e delle sue maschere si traduce in gran parte
del teatro europeo, fino a diventare particolarmente fecondo nella grande stagione del teatro-russo all’inizio
del secolo.
Attraverso le sue maschere, la Commedia dell’arte sembrava sopravvivere anche nella pantomima, un genere
teatrale che ha particolare fortuna, sia pure con caratteri diversi, in Francia ed in Inghilterra, e che da lì si
trasmette in altri paesi europei. Si tratta di un tipo di spettacolo senza parole, con attori specializzati a
rappresentare una storia solo attraverso i gesti e le espressioni. In queste storie fiabesche e grottesche
compaiono Arlecchino, Colombina, Pantalone insieme ad altre maschere che appartengono alle tradizioni dei
paesi in cui il genere della pantomima si afferma.
Ciò serve a rafforzare un’altra specificazione della Commedia dell’arte: non solo maschere e
improvvisazione, ma anche gesto e non testo. È soprattutto questa l’immagine della Commedia dell’arte di
cui si serve Gordon Craig per sostenere la sua rivoluzionaria visione di un teatro libero dalla tirannia della
parola e del realismo. La Commedia dell’arte che Craig porta ad esempio è l’immagine di un teatro dove si
andava a vedere uno spettacolo e non a sentire un testo. Non era un teatro basato sulla psicologia dei
personaggi, le maschere non erano realistiche, né realistico, illusionistico, era lo spazio scenico in cui
agivano. Eppure fu un teatro che conquistò i pubblici di tutta Europa, fu poetico, fu arte e fu popolare.
Questo modo di riutilizzare il ricordo della Commedia dell’arte nell’ambito della polemica contro il teatro di
sole parole fissò quasi in luogo comune un errore ottico tipico degli storici di teatro che — vedendo il prima
alla luce del poi — confrontano la Commedia dell’arte con la moderna “norma” di far teatro mettendo
esclusivamente in scena testi scritti da letterati: gli “autori”.
Da questo punto di vista rovesciato, la Commedia dell’arte appare ancora oggi, anacronisticamente, come il
teatro degli attori che si opposero al teatro degli autori, Storicamente accade, invece, il contrario: furono gli
“autori” che tolsero agli attori l’iniziativa nel sistema e nel commercio teatrale. Uno scontro che, in Italia, si
sviluppò lungo tutto il Settecento e che, per i mutamenti avvenuti nel pubblico, portò alla fine di quel modo
di far teatro che per due secoli aveva caratterizzato le compagnie degli attori italiani.
Di quegli attori Craig esaltava le capacità sintetiche, l’elevato professionismo che permetteva loro di
costruire una scena o uno spettacolo operando variazioni, articolando la propria presenza, sorprendendo e
interessando gli spettatori, senza bisogno di seguire, come unica traccia, la cosiddetta imitazione della realtà.
Nei primi anni del Novecento, Craig è già un maestro riconosciuto del nuovo teatro europeo. Dal
1907 ha deciso di rompere i ponti con il sistema teatrale, di isolarsi per sviluppare in maniera
organica il suo progetto senza dover sottostare ai compromessi che si impongono a chi vuoi
collaborare con la produzione teatrale corrente. Ha appena finito di lavorare per Eleonora Duse e ha
dovuto constatare che perfino l’arte della Duse è immersa in troppa routine teatrale e in troppo
commercio perché da una collaborazione possa sorgere l’immagine di un nuovo teatro. L’Arena
Goldoni — che Craig ha affittato a Firenze, dove si è stabilito — diventa uno dei centri da cui
partono, per intrecciarsi alla storia del teatro nel Novecento, le vie percorse dai fantasmi della
Commedia dell’arte.
All’Arena Goldoni nascono alcuni degli scritti più importanti di Craig, il cui isolamento si traduce
nel periodo di più efficace influenza: nasce l’utopia dell’attore “Ubermarionette”, nasce il progetto
degli “screens”, la scena mobile che — dicono alcuni — può fare a meno dell’attore e ne incorpora
e ne sostituisce la mimica. Ma dall’Arena Goldoni, Craig diffonde anche un’immagine della
Commedia dell’arte capace di affascinare, per la sua “attualità”, coloro che fanno del teatro una
ricerca. Dal 1908 al ‘29, Craig pubblica la rivista The Mask in cui scrive e fa scrivere più volte
sull’uno o l’altro aspetto del teatro “all’improvviso” (ma quasi tutti gli articoli, con più di sessanta
pseudonimi diversi, sono scritti da lui).
All’Arena Goldoni si reca a far visita a Craig, nell’autunno del 1915, Jacques Copeau. Copeau
consulta i documenti che Craig ha raccolto sull’antico teatro italiano: tornato a Parigi, progetta di
far rivivere la Commedia dell’arte. Ne discute con Gide, ne scrive al giovane Jouvet, che in quel
momento è sotto le armi. La guerra ha interrotto l’attività del Vieux Colombier, il piccolo teatro che
Copeau ha fondato tre anni prima e in cui si formeranno le nuove generazioni degli attori e dei
registi francesi. Il Vieux Colombier è e sarà anche qualcosa di più: il centro propulsore di una nuova
cultura del teatro, il punto di vista concreto da cui — più o meno consapevolmente — critici e storici
guarderanno al teatro del passato.
Il modo in cui Copeau riutilizza il riferimento alla Commedia dell’arte è diverso da quello di Craig:
a Copeau interessa come forma di teatro che permette di svolgere un discorso sull’attualità in
maniera comunicativa, giocosa, e nello stesso tempo non realistica, ma stilizzata e poetica. Più
ancora dell’improvvisazione, sono per lui importanti i tipi fissi. È un’idea che sembra percorrere il
teatro francese dall’Ottocento ai nostri giorni.
Due immagini di questa continuità: quasi un secolo prima di Copeau, Théophile Gautier aveva
scritto che le maschere del teatro della pantomima basterebbero da sole a rappresentare l’intera
Comédie humaine. Sono solo quattro o cinque, ma riuscirebbero bene a sostituire i duemila
personaggi che popolano i romanzi di Balzac: tutte le situazioni umane e tutti i rapporti sociali
potrebbero essere delineati e schizzati attraverso il gioco degli incontri e degli scontri di pochi tipi
sintetici.
Nel 1975, Ariane Mnouchkine mette in scena L’âge d’or, non una ricostruzione, ma una sorta di
Commedia dell’arte fatta rivivere nel bel mezzo dei nostro tempo, per parlare dei problemi sociali
del nostro tempo, e in cui Abdallah, proletario algerino immigrato in Francia, ha la maschera nera e
i panni di Arlecchino. La Mnouchkine dichiara di voler mettere in pratica ciò che Copeau (con Gide
e Jouvet) aveva progettato una sessantina d’anni prima: riutilizzare i procedimenti drammaturgici
della Commedia dell’arte per fare un teatro satirico, impegnato, comico, poetico e popolare.
Gide sintetizzava cosi nel gennaio del ‘16 i suoi colloqui con Copeau intorno alla Commedia
dell’arte: “Abbiamo parlato della possibilità di formare una piccola troupe di attori capaci di
improvvisare su uno scenario prestabilito e di ravvivare la Commedia dell’arte, alla maniera
italiana, ma con dei tipi nuovi: il borghese, il nobile, il mercante, la suffragetta .”
A Jouvet, qualche settimana dopo, Copeau scrive: “Bisognerebbe inventare una dozzina di
personaggi moderni, sintetici, aperti a molte possibilità, che rappresentino caratteri, vicende,
passioni, aspetti ridicoli della morale, della società, della vita individuale del nostro tempo.” Questa,
aggiunge Copeau, “sarebbe la grande scoperta (così semplice!) la grande rivoluzione o meglio il
grande maestoso ritorno alla più antica tradizione”.
La lettera che Copeau spedisce al fronte a Jouvet, nell’inverno del ‘16, incontra, malgrado la guerra,
una situazione favorevole. Oltre a Jouvet, è al fronte anche Dullin, un altro degli attori e
collaboratori di Copeau, che negli anni seguenti “faranno” il teatro francese moderno. Dullin s’era
anch’egli distaccato dal realismo per sperimentare il convenzionalismo scenico del teatro popolare,
il “teatro della fiera”. Fra i commilitoni di Dullin c’è un autentico rappresentante del teatro
popolare, Levinçon (o Levinson), un falegname che meraviglia i compagni improvvisando scene
comiche. Con lui, Dullin mette in piedi una piccola troupe che recita per i soldati farse
—
—
improvvisate. Collabora anche Pierre-Louis Duchartre, anch’egli militare, anch’egli legato al
mondo del teatro, e che negli anni seguenti sarà l’autore di alcuni dei libri più influenti, in Francia
ed in Europa, sulla Commedia dell’arte, fonte di ispirazione per molti uomini di teatro.
È uno di quei casi in cui tutto il teatro sembra riunirsi: dalla creatività “spontanea” e popolare alle
più elaborate ricerche dei professionisti; dall’esigenza di adempiere ad un compito umile, limitato e
concreto, alle più “alte” ricerche storiche ed estetiche. Casi rari, e che forse vivono solo sulla carta.
Il soldato-attore-falegname Levinçon muore — lo ricorda Duchartre — per una palla in fronte. Nel
‘17 Dullin, Jouvet e Copeau sono già in tournée negli Stati Uniti.
Nella troupe c’è un attore che proviene da una piccola compagnia che, nel sud della Francia,
recitava farse in dialetto basandosi più sulla recitazione a braccio che sui testi scritti. Così Marcel
Millet sa recitare tipi comici improvvisando. Le doti da guitto del Millet ricordano i vecchi tempi a
Dullin e Jouvet : hanno anch’essi esperienza di teatro mezzo improvvisato, e hanno recitato
vaudevilles e melodrammi nei teatri della banlieue parigina. Ancora una volta dal gioco
all’esperimento teatrale: in una tappa della non lieta tournée americana, a Moristown, Millet, Jouvet
e Dullin recitano privatamente a Copeau, per divertirlo, una farsa improvvisata basata sui lazzi del
medico e del malato. Un tema che avrà fortuna, e che riemergerà al riemergere dei tentativi di far
rivivere la Commedia dell’arte. Eccitato dalla farsa improvvisata dai suoi tre attori, Copeau si
propone di allestire al Vieux Colombier una commedia in cinque atti interamente improvvisata e
basata su maschere moderne. Tornati a Parigi, Copeau e i suoi collaboratori insistono perché
Duchartre fornisca loro una documentazione, soprattutto iconografica, sul teatro delle maschere.
Discutono con Chancerel della necessità di correlare ricerca storica e sperimentazione pratica.
Conoscono uno studioso russo, Konstantin Miklašveskij, che nel ‘14 ha pubblicato, nel suo paese,
un libro sulla Commedia dell’arte. Nella scuola che Copeau apre all’interno del Vieux Colombier
nel 1920 viene praticata l’improvvisazione e lo studio dell’espressione delle maschere. Nel ‘23
viene finalmente rappresentata in pubblico una farsa improvvisata: ed è la farsa di un medico che
convince un uomo sanissimo a farsi curare, illudendolo d’essere gravemente malato. Copeau recita
nella parte del medico. Un critico scrive che in quell’improvvisazione c’è il nocciolo di una “grande
commedia”. Da quel nocciolo — annota trent’anni dopo Chancerel — qualcuno svilupperà davvero
una grande commedia: Knock, ou le Triomphe de la médicine, la più bella pièce di Jules Romains.
Louis Jouvet ne fornirà ammiratissime interpretazioni sul palcoscenico e sullo schermo.
Mentre una delle guide della riforma teatrale, Max Reinhardt, “rievoca” e celebra la Commedia
dell’arte mettendo in scena a Vienna Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, Copeau
chiude, nel ‘24, il Vieux Colombier, e si appresta ad abbandonare il teatro o a sradicarlo dai luoghi
teatrali tradizionali: per i suoi compagni la Commedia dell’arte è sul punto di trasformarsi in
qualcosa di più di un puro riferimento artistico, e di divenire lo specchio di una mutata condizione
dell’attore.
Ma il carattere radicale che contraddistingue l’esperienza che si svolge intorno a Copeau, e che la
rende particolarmente significativa da un punto di vista storico, è insieme ciò che spinge
quell’esperienza a rotolare verso i propri limiti.
Da una parte il lavoro intorno alla Commedia dell’arte, che pure si sviluppa in maniera originale, si
trasforma nell’individuazione di nuovi generi. Dall’altra, dà luogo a una ricerca che si illanguidisce
per il fatto stesso d’essersi allontanata dal sistema teatrale vigente, che si snerva proprio per la sua
alterità, per non aver più nulla contro cui opporsi.
Così, in maniera apparentemente contraddittoria, per l’una e l’altra via le esperienze radicali messe
in moto da Copeau sono pronte a rifluire negli alvei dei sistemi teatrali. Magari salvando l’anima di
una diversa “poesia” del teatro, i tentativi di rivoluzione sfociano in piccole riforme.
La riforma del mimo: sono gli anni in cui gli ultimi grandi interpreti della tradizione della
pantomima francese — Thalès e Séverin — cessano la loro attività, e dalla scuola di Copeau l’arte
del mimo risorge trasformata e influenza il teatro moderno attraverso le ricerche rigorose di
Decroux, i primi esperimenti di Barrault e gli spettacoli di Marcel Marceau, creatore della moderna
maschera di Bip, che più d’ogni altro diffonde -- con il suo successo — il genere teatrale del mimo
solista.
In questa linea di maggior comunicativa e di maggior commerciabilità — la linea iniziata da
Marceau — le originarie influenze della Commedia dell’arte si intrecciano con quelle, forse meno
sottolineate ma più sostanziali, dei comici del cinema muto, Chaplin soprattutto. Nelle diverse
scuole di mimo che sorgono un po’ dappertutto — nella famosa scuola di Lecoq, per esempio — i
riferimenti alla Commedia dell’arte sono tanto più labili quanto più pubblicizzati: spesso vengono
individuati particolari cliché gestuali indicati come propri della maschera di Arlecchino, del
Capitano o di Pantalone. Si riferiscono, in realtà, ad una stereotipia scolastica dedotta dalla
tradizione della pantomima, da alcuni principi-base individuati da teorici come Delsarte e
ricercatori come Decroux, e dall’iconografia delle maschere, soprattutto i troppo famosi Balli di
Sfessania di Callot (troppo famosi, perché attinenti alle danze e alle fantasie di carnevale e non —
come generalmente si crede — al teatro dei comici dell’arte).
La riforma del “teatralismo”: alla fine del percorso, i bambini sembrano diventare il surrogato del
popolo, e il teatro per i bambini la realizzazione in miniatura del sogno di un teatro fantasioso,
popolare, elementare, capace di colloquiare senza mediazioni con i suoi spettatori e di divertire
secondo le antiche tradizioni.
Dopo la chiusura del Vieux Colombier, i giovani attori di Copeau creano un nucleo di ricerca che
tenta di ricollegare un’arte raffinata e rigorosa ad un uso popolare del teatro. Vengono chiamati “i
Copiaus”, e ad essi si unisce presto il maestro. L’esperienza dura dal ‘25 al 29, fra gravi difficoltà
materiali, tensioni e lacerazioni interne, sperimentazioni ardite. È un’eccezione di pochi anni, ma
che si trasforma presto in un mito: i Copiaus fanno spettacoli nei piccoli centri della Francia
meridionale, spesso in occasione delle feste di paese, quasi sempre per un pubblico che non ha
cultura letteraria né esperienza del teatro “normale”. Sono, a volte, spettacoli improvvisati, ma che
comunque vogliono sempre conservare — nel gioco scenico, nei costumi, nell’organizzazione dello
spazio e del rapporto con il pubblico — il sapore dell’immediatezza e dell’improvvisazione. Vi
predomina la recitazione allusiva, l’uso del grottesco e della parola poetica, la tecnica del mimo e
della maschera. Il vecchio progetto sembra prendere corpo, dopo dieci anni: vengono creati dei tipi
fissi, delle maschere moderne capaci di improvvisare su canovacci farseschi e su temi d’attualità.
Chancerel crea la maschera di un pedante archivista: Jean-Sébastien Congre; Michel Saint-Denis
quella di un moderno avventuriero: Knie.
Nel ‘29, Chancerel fonda il gruppo dei Comédiens routiers, che lavora secondo i principi della
Commedia dell’arte (maschere e improvvisazione), e che suscita un interesse sempre crescente e
imitazioni più e più numerose presso gruppi teatrali di dilettanti e di associazioni giovanili.
L’attività di Chancerel si indirizza verso il teatro per l’infanzia (fra il ‘30 e il ‘40 il suo Théàtre de
l’oncle Sébastien dà spettacoli improvvisati per i bambini) e verso l’attività teatral-pedagogica. “Gli
educatori — scriverà Chancerel — vedono nell’improvvisazione un ausilio prezioso a quel che è
stato chiamato ‘metodo attivo’ e ‘gioco
drammatico’.” Anche l’attività di Catherine Dasté (nipote di Copeau e moglie di uno dei suoi
allievi) deduce dal teatro improvvisato l’improvvisazione della teatralità con i bambini. In Italia, un
attore schivo, “fine”, che lavora con le grandi compagnie, ma non appartiene alla cultura dei “figli
d’arte” — Sergio Tofano — svolge, negli anni Trenta, un’attività collaterale mettendo in scena, in un
teatrino, fiabe drammatiche in versi in cui compaiono delle nuove maschere. La più famosa è quella
del Signor Bonaventura, che Tofano stesso interpreta, e che disegna in storie che avranno una lunga
fortuna nei giornalini per l’infanzia.
Intanto, le nuove maschere moderne nascono, ma ben lontane dalle ricerche intorno alla Commedia
dell’arte: nascono nel cinema comico (per il quale il riferimento alla Commedia dell’arte è ormai
una peregrina similitudine ad uso delle visioni degli studiosi).
Le onde che, dal movimento iniziato da Copeau, giungono fino a noi, non sono l’immagine di quel
movimento, ne costituiscono la banalizzazione.
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Nel ‘24 e nel ‘26 compaiono i primi libri di Duchartre sulla Commedia dell’arte. L’ultima versione
è del ‘55: è dedicata a Dullin e Jouvet, ha la prefazione di Barrault. Ricche di illustrazioni, di
superficialità, di travisamenti storici, le pagine di Duchartre stemperano in un’atmosfera vagamente
copoiana un discorso apparentemente erudito: tramandano un’immagine infantilizzata del teatro,
mascherata da teatro popolare. Ma quasi contemporaneamente, viene pubblicato a Parigi, nel ‘27, il
libro sulla Commedia dell’arte di Konstantin Miklaševskij.
Il Mic (è così che Konstantin Miklaševskij semplifica per gli occidentali il suo cognome) fornisce la
prima vera e propria interpretazione storica della Commedia dell’arte. Essa appare come l’episodio
fondamentale di una storia del teatro concepita come autonoma dalla storia della letteratura
drammatica e come storia di un’arte popolare.
Nella linea Maurice Sand-Duchartre e negli scritti degli eruditi italiani il carattere popolare della
Commedia dell’arte significava: “ingenuità”, “fantasia”, “primitivismo”, a volte — come abbiamo
visto “infantilismo”, altre volte specialmente per i severi eruditi — caratteri moralmente
riprovevoli e ignoranza delle regole estetiche.
“Popolare” acquista, nel libro di Mic, tutt’altro senso: egli vede la Commedia dell’arte come un
fenomeno di opposizione alla cultura delle classi egemoni, un’ “arte democratica” che non può
essere compresa ed apprezzata da coloro che difendono la Cultura come privilegio, come
distinzione di classe. Alla biforcazione delle classi corrisponde, dice il Mic, una biforcazione delle
arti e del teatro. La Commedia dell’arte non è “primitiva” o “ingenua” o “semplice”: solo non è
borghese, e perciò appare ingenua al borghese. Un atteggiamento simile a questo del Mic avevano
tenuto — specialmente in Russia — i protagonisti delle avanguardie artistiche nei confronti di
fenomeni d’arte di massa come il cinematografo, il music-hall, il circo.
Anton Giulio Bragaglia, che al Teatro degli Indipendenti di Roma sperimenta — fra il Venti e il
Trenta — tutte le linee delle avanguardie storiche, collega, in una serie di articoli e di libri, la
Commedia dell’arte al moderno teatro dialettale italiano, alle tradizioni dei figli d’arte e degli attoriautori popolari.
Nel dopoguerra, Vito Pandolfì — la vittima forse più amara delle speranze deluse degli uomini di
teatro usciti dalla Resistenza — propone sempre più stancamente un’immagine della Commedia
dell’arte come teatro di “contestazione”, come risposta popolare, appena appena velata,
all’assolutismo, al potere spagnolo, alla Controriforma. In maniera apparentemente più scientifica,
il carattere popolare della Commedia dell’arte veniva ribaltato dal Toschi in un volume del ‘55
dedicato alle Origini del teatro italiano. Qui “popolare” significava un collegamento alle antiche
tradizioni magiche e rituali delle popolazioni mediterranee.
Con un ragionamento altrettanto diffuso quanto irrazionale — e che è rimasto a lungo “normale”
presso gli storici delle tradizioni popolari — il Toschi faceva coincidere il significato di un tratto
culturale di un determinato contesto con la sua “origine”, o comunque con il significato dello stesso
tratto culturale riscontrabile in contesti sociali e culturali diversi. Come dire che una parola significa
una determinata cosa perché tale è il suo significato etimologico, o perché in uno dei suoi possibili
contesti ha assunto quel significato. Così, per esempio, le maschere della Commedia dell’arte — che
è assai probabile abbiano avuto un’ origine diabolica — venivano impercettibilmente fatte passare
per qualcosa di completamente diverso: maschere che conservavano un significato diabolico.
L’immagine di maniera di una Commedia dell’arte popolare era già stata distrutta una volta per
tutte da un libro di Mario Apollonio pubblicato nel 1930, ma dal quale si traggono tutte le
conseguenze solo negli anni Cinquanta e Sessanta. L’Apollonio aveva dimostrato che il teatro dei
comici italiani non era né un aspetto delle tradizioni popolari, né un fenomeno di arte ingenua, né
una contestazione della cultura e del teatro colto. Era piuttosto una cosciente sintesi, operata da
comici di professione, di forme sceniche tratte sia dagli spettacoli di piazza che da quelli eruditi,
estrapolati dai loro contesti differenti e riassunti in una produzione teatrale, in uno sperimentalismo
che ricorda i procedimenti della poesia, della pittura o dell’architettura barocca. A voler, quindi,
rispondere alla domanda sul valore contestativo della Commedia dell’arte si sarebbe dovuto
rispondere in maniera negativa: essa rendeva innocue, in un accademismo e produttivismo teatrale
—
—
esercitato dai professionisti, quelle forme che nei loro contesti originari — di piazza o d’élite —
potevano aver carattere di satira e protesta o di innovazione culturale.
La discussione sul carattere popolare o meno della Commedia dell’arte si collegava, negli anni del
secondo dopoguerra, ad analoghe discussioni più operative che attraversavano il teatro e la cultura
in genere: la possibilità o l’impossibilità di individuare forme d’arte progressiva al di fuori ed in
alternativa alla cultura egemone.
La maggior precisione di studi storici sulla Commedia dell’arte non dette, apparentemente, grandi
frutti nel teatro del Novecento, se si eccettuano, forse, certi esperimenti troppo facilmente
dimenticati condotti sulla tradizione degli zanni da Giovanni Poli, fondatore del teatro di Ca’
Foscari a Venezia, e — nel teatro universitario di Padova — dal futuro regista De Bosio, dal futuro
studioso Zorzi e da altri che coinvolsero nelle loro ricerche filologiche- spettacolari sulle maschere
lo scultore Amleto Sartori, che divenne, in pochi anni, un celebre artista creatore e ricostruttore di
maschere al cui nome sono legati — direttamente o indirettamente, tramite i suoi allièvi e
continuatori — tutti i recenti spettacoli in cui la Commedia dell’arte viene rievocata, nei più diversi
paesi del mondo.
Per questi spettacoli di rievocazione o — come spesso si dice — di “ricostruzione”, non si può certo
parlare di “influenze” della Commedia dell’arte, ma solo di una sua presenza in repertorio.
La Commedia dell’arte fu in repertorio al Piccolo teatro di Milano con Il corvo di Gozzi e le diverse
fortunatissime versioni di Arlecchino servitore di due padroni che, prima degli spettacoli brechtiani,
resero celebre Strehler e il Piccolo all’estero.
Ma per comprendere, al di là delle sue più o meno significative presenze in repertorio, l’influenza
della Commedia dell’arte sul teatro del Novecento, occorre tornare indietro.
Il libro di Miklaševskij era il libro di uno storico che si era chinato a studiare i documenti originali,
ma che aveva scritto per rispondere alla sete di informazioni degli attori e dei registi che vissero la
grande stagione del teatro russo, legata al nome di Mejerchol’d.
Si è già visto come le ricerche di Copeau sulla commedia dell’arte fossero molto più complesse e
aperte a diverse possibilità di quanto non lo fossero gli studi che da quelle ricerche si irradiarono:
quelli di Duchartre, ma anche quelli di Chancerel (che, oltre alle sue attività teatrali, fondò una
società per lo studio della storia del teatro).
Lo stesso può dirsi per Miklaševskij, malgrado la maturità e l’accuratezza dei suoi studi. Il modo in
cui la Commedia dell’arte “influì”sul teatro russo fu certamente legato al suo carattere “popolare”
contrapposto — anche ideologicamente — al teatro borghese, ma con una sfumatura difficile da
recepire da parte degli storici e degli studiosi: la “popolarità” della Commedia dell’arte non
contraddiceva la raffinatezza e una forma di aristocrazia estetica: non era “popolare”perché “non
raffinata”, ma perché “raffinata a partire dal popolare”. Nelle forme classiche del teatro antico o del
teatro orientale un’estrema raffinatezza o un’estrema complessità e codificazione formale non
significava e non significa una spaccatura fra due diversi rami teatrali e artistici, né significa una
soluzione di continuità rispetto alle forme dello spettacolo in senso stretto popolare.
In Occidente, nell’età moderna, non sembrano esservi esempi di questo tipo: o l’arte popolare è
“diversa” rispetto a quella colta, esteticamente più consapevole, oppure è popolare un’arte che
diventa popolare, come il melodramma, il cinema, il romanzo. La Commedia dell’arte sembra cosi
l’immagine di un modo d’essere arte di cui non si hanno altri esempi nella nostra società e nella
nostra cultura (per questo, forse, e non soltanto per il suo carattere di diversità rispetto al teatro
vigente, si occupano di Commedia dell’arte quasi tutti quegli uomini di teatro che si occupano
anche di teatro orientale). Il carattere popolare della Commedia dell’arte è, allora, pronto a colorarsi
in maniera particolare. Popolare come: non univoco, ambiguo, vitale, dialettico, non meccanico e
geometrico ma organico, obbediente alla logica del vivente piuttosto che a quella delle architetture
razionali. È questo l’aspetto della popolarità della Commedia dell’arte che alcuni grandi uomini di
teatro colgono, andando forse — più degli storici — vicino alla realtà storica.
Per la tradizione russa — scrive Lo Gatto — le maschere sono figlie del popolo. Alle maschere si
rivolgono, nei primi anni del secolo, Evreinov e Mejerchol’d quando, sia pure lungo linee diverse e
spesso in contrasto, sostengono la necessità di un teatro “convenzionale”, che si esprima per segni e
principi propri (un “teatro teatrale” o “riteatralizzato”) senza tentare di riprodurre continuamente la
così detta “realtà”.
È per il Teatro antico di Evreinov che Miklaševskij scrive il suo libro sulla Commedia dell’arte e
pubblica, tre anni dopo (nel ‘17), una raccolta di canovacci.
Mejerchol’d afferma che se le maschere sono figlie del popolo esse non devono, per ciò, rinunciare
ad essere anche sofisticate. Sono l’incarnazione di quel teatro di “convenzione cosciente” di cui
scrive nel 1907: teatro degli opposti e delle contraddizioni, in cui le emozioni vulcaniche possono
rivelarsi perché celate da un’apparente calma esteriore, e in cui “il tragico si esprime col sorriso
sulle labbra”.
Nel 1906, Mejerchol’d aveva fatto il Pierrot in uno spettacolo di cui era lui stesso regista:
Balagančik (La baracca dei saltimbanchi) di Blok. Era stato l’avvenimento (e lo scandalo) che
aveva segnato la seconda grande svolta del teatro russo, dopo quella del Teatro d’arte e di
Stanislavskij. Il dramma lirico di Blok traeva il titolo dalla baracca teatrale, il “balagan”, in cui le
maschere della Commedia dell’arte sopravvivono nelle tradizioni popolari slave. Fra gli attori di
Balagančik c’è il giovane Tairov, che più tardi farà della Commedia dell’arte uno dei punti di
riferimento delle sue regie.
Era l’inizio di un periodo in cui tutto il nuovo teatro russo sarà percorso da quella che Ripellino
chiama la “demonia della Commedia dell’arte”. Anche nel campo del balletto e del teatro musicale:
Petruška, di Stravinskij (rappresentato da Djaghilev e Nižinskij nel 1911) sembra riprodurre la
struttura drammatica di Balagančik; Prokofiev, dietro suggerimento di Mejerchol’d, inizia a
comporre, negli anni della Rivoluzione, L’Amore delle tre melarance, che sarà terminato solo più
tardi, e rappresentato negli Usa nel ‘21.
L’Amore delle tre melarance, che è una delle fiabe del Gozzi, era stato anche il titolo di una rivista
che Mejerchol’d aveva cominciato a pubblicare nel ‘14, e in cui scritti teorici sul teatro si
alternavano a studi sulla storia e le tecniche della Commedia dell’arte. Sempre a partire dalla
Commedia dell’arte, Mejerchol’d aveva sperimentato, nel 1910, i principi del teatro grottesco,
mettendo in scena La sciarpa di Colombina, un adattamento della pantomima di Schnitzler. Per
Mejerchol’d il grottesco è l’arte di scomporre il reale nei suoi aspetti contrastanti e contraddittori, di
ricostruirlo in maniera artificiale, sintetizzando i poli che determinano la vita dialettica della realtà.
L’arte del grottesco — sostiene Mejerchol’d — è basata sulla lotta fra la forma e la realtà nascosta,
obbliga lo spettatore a mantenere sempre un atteggiamento duplice di fronte a ciò che vede sulla
scena. Contemporaneamente alla Sciarpa di Colombina, Mejerchol’d mette in scena, al Teatro
Aleksandrinskij di Pietroburgo, il Don Giovanni di Molière. Secondo alcuni autorevoli uomini di
teatro (critici, registi) non si tratta di uno spettacolo teatrale, ma di un balletto! L’arte dell’attore,
cosi come Mejerchol’d la sta sperimentando e rinnovando nelle messe in scena ai Teatri imperiali, e
in maniera più estrema nei piccoli spettacoli che firma con lo pseudonimo di Dottor Dappertutto, si
risolve in qualcosa di irriconoscibile per chiunque giudichi alla luce del teatro corrente.
Il punto di arrivo delle ricerche di Mejerchol’d sulla Commedia dell’arte è costituito da ciò che lui
stesso chiamerà la “biomeccanica”, la composizione del movimento dell’organismo vivente. Nella
biomeccanica si incontrano le “influenze” di tutte le solide tradizioni dell’attore: da quelle degli
attori orientali a quelle dei comici italiani, dei clowns e dei saltimbanchi.
Le ricerche di Mejerchol’d trasformano la Commedia dell’arte in una inesauribile fonte di
ispirazione e di ricerca. Nel ‘14 aveva pubblicato, nella rivista L’Amore delle tre melarance, un
programma per gli allievi del suo Studio: la classe tenuta da Solov’ëv era interamente dedicata alle
tecniche della Commedia dell’arte e alla fine del programma Mejerchol’d dichiarava che lo studio
di quelle tecniche, come di quelle del teatro giapponese, era preferibile ad ogni altro (o l’attore
svolge un suo proprio disegno o decifra un disegno altrui, come il pianista decifra una partitura).
Qualche anno dopo, Mcedelov organizza, presso il Teatro d’arte di Mosca, un “Teatro delle
maschere”, e Radlov apre, nel ‘20, sempre a Mosca, un “Teatro della commedia popolare” o “della
nuova commedia” che si richiama all’esperienza della Commedia dell’arte.
Negli anni della Rivoluzione, l’inquadramento ideologico della Commedia dell’arte tracciato da
Miklaševskij diveniva quasi un luogo comune: nel febbraio del ‘18 un articolo di Boguševskij sulla
Pravda ribadiva i legami fra teatro della Rivoluzione, Commedia dell’arte e attività di Mejerchol’d.
Quasi contemporaneamente, uno studioso di letteratura italiana, Mokulskij, scrive un saggio su
Mejerchol’d dal titolo Rivalutazione delle tradizioni. Il saggio è forse ispirato da Mejerchol’d
stesso, e sostiene che la sua ricerca era indirizzata verso un teatro popolare già prima della
Rivoluzione: ne fanno fede l’interesse costante per la Commedia dell’arte, l’affermazione
dell’indipendenza dell’attore dal testo, il gesto preponderante sulla parola.
Nel ‘17, Boris Ferdinandov mette in scena Re Arlecchino. L’anno prima, Tairov aveva
rappresentato La sciarpa di Colombina, sostituendo, nel titolo, la sciarpa con “il velo”. Qualche
anno dopo, nel ‘22, Ejzentejn e Jutkevič penseranno ad un cambiamento più profondo modificando
lo scenario ne La giarrettiera di Colombina: l’azione è ambientata nella Parigi contemporanea, il
conflitto fra Arlecchino e Pierrot è quello fra un moderno banchiere ed un bohèmien. Arlecchino (il
banchiere) sarebbe dovuto arrivare in scena camminando in equilibrio su una corda tesa al di sopra
delle teste degli spettatori. Lo spettacolo non fu realizzato, e Ejzenštejn e Jutkevič dedicano lo
scenario a Mejerchol’d con le parole: “al maestro della sciarpa, gli apprendisti della giarrettiera”.
All’inizio del 1922, Vachtangov mette in scena la Turandot di Gozzi: un avvenimento che presto si
colora come un simbolo. La “prima” avviene di fronte a Stanislavskij e a tutti i grandi del Teatro
d’arte di Mosca; negli intervalli Stanislavskij si reca personalmente ad informare Vachtangov del
successo del suo spettacolo: Vachtangov è infatti costretto a letto, già prossimo alla fine. Nello
spettacolo gli insegnamenti di Stanislavskij e quelli di Mejerchol’d sembrano conciliarsi, rivelare
un’unità fondamentale, sotto le troppo reclamizzate divergenze.
Durante le prove, Vachtangov aveva detto ai suoi attori che nel teatro normale — dove lo spettacolo
inizia con l’alzarsi del sipario, e il pubblico tace (e gli attori si schiariscono la voce prima di entrare
in scena) — “ci si lascia scappare il momento più importante, il più solenne, quello dell’incontro
dello spettatore con l’opera d’arte”. Nella Commedia dell’arte, aveva proseguito Vachtangov,
accadeva il contrario: “Tutto lì è subordinato al contatto dello spettatore con l’attore: già nella
strada, si invitano i passanti a venire a teatro . Sono altre leggi e tradizioni, non dilettantismo, non
una concezione volgare dell’arte, non guitteria.”
Se le immagini o i fantasmi della Commedia dell’arte sono così presenti nel teatro del Novecento —
in maniera più radicale di qualsiasi altra immagine del teatro del passato, paragonabile solo ai
“fantasmi” dei teatri orientali — ciò è dovuto al fatto che il teatro dei comici italiani costituisce non
un esempio drammaturgico o stilistico, ma un universo teatrale completo, un modo d’essere del
teatro che caratterizza il modo in cui esso si pone di fronte al pubblico, l’arte degli attori, ma anche
la loro condizione e la loro coscienza umana e sociale, le storie da recitare, ma anche le ragioni per
cui recitarle.
Anche per questo la Turandot di Vachtangov è un punto di arrivo: le buffonerie si alternavano ai
momenti tragici, i momenti sentimentali e le intermittenze del cuore si intrecciavano ai lazzi degli zanni; la
reviviscenza, il convenzionalismo scenico, il “Tipaz”, il pre-gioco e tutte le diverse “tecniche” che nelle
scuole si dividono, nello spettacolo erano i fili variati di un solo tessuto. Per un momento il sogno di far
rivivere la Commedia dell’arte sembrò realizzarsi realizzando il sogno di un nuovo attore e di un nuovo
spettatore.
Nel ‘34, a Roma, si tenne uno dei più grossi convegni del teatro del Novecento: da Marinetti a Pirandello, da
Tairov a Maeterlinck, da Craig a Yeats, da Hauptmann a Walter Gropius tutti i grandi erano presenti. Copeau
mandò una relazione scritta sull’avvenire del teatro che resta ancor oggi famosa. Mejerchol’d inviò un
telegramma di adesione, ma in quel tempo era già in disgrazia. Il Convegno di Roma si teneva in ottobre, e
nell’agosto precedente il I Congresso degli scrittori dell’Unione Sovietica aveva proclamato, sotto la guida di
Gorkij e di Ždanov, l’imperio del “realismo socialista”.
Al Convegno di Roma, il più grande critico italiano, Renato Simoni, rimproverò agli stranieri, e soprattutto a
Tairov , di mitizzare la Commedia dell’arte, che fu, si, grande per gli attori, ma i cui contenuti erano “rozzi,
plebei, inverecondi”. Ma Tairov non raccoglie la lezione e insiste: quando si alza ancora a parlare, affronta il
tema delle grandi conquiste compiute dal teatro sovietico e spiega il perché del “realismo socialista”:
“Realismo perché siamo persone reali, che costruiscono una vita reale in un mondo reale. E socialista
perché concepiamo la vita non nella sua forma statica, ma nella sua forma dinamica, nel processo del suo
sviluppo dialettico.” Per questo, aggiunge Tairov, “risuscitiamo in maniera nuova l’eredità culturale
dell’intera umanità” : cita Gozzi in compagnia di Shakespeare, Molière, Racine e Goldoni (e già così dovette
far sorridere i colti italiani) e conclude: “È per questo che abbiamo reso obbligatorio, in tutte le scuole
teatrali, un corso sulla Commedia dell’arte”. Quello di Tairov — legare in un unico discorso “realismo
socialista” e Commedia dell’arte — era un gioco diplomatico che né Simoni, né gli altri presenti potevano,
forse, comprendere. La fine della grande stagione della ricerca teatrale russa implica la fine del mito della
Commedia dell’arte, o meglio: implica la mitizzazione del suo negativo. Nel ‘32 c’era stata la condanna del
teatro “convenzionale”, “formalistico”, “costruttivistico.”, cioè soprattutto di Mejerchol’d, che era stato
attaccato anche da alcuni dei suoi ex allievi, da alcuni di coloro che avevano costruito la propria fortuna
creando la moda culturale del mejercholdismo. Mokulskij, lo studioso di letteratura italiana che ormai molti
anni prima aveva sostenuto il carattere popolare, democratico, progressista della Commedia dell’arte e,
parallelamente, il carattere rivoluzionario del teatro di Mejerchol’d, ora scrive un nuovo saggio che dal punto
di vista storico e filologico appare tanto più equilibrato e meno acriticamente entusiasta, quanto più è
vigliacco: sostiene che la Commedia dell’arte è un tipico prodotto di una società dai valori in disfacimento,
che Goldoni è un progressista, ed è Gozzi ad essere reazionario, e che i registi che si sono ispirati alla
Commedia dell’arte sono esteti come Craig e Reinhardt, o sono formalisti e malati di sinistrismo. Di
Mejerchol’d non si parla e si capisce.
L’aspirazione verso nuovi settori e nuovi spettatori nasconde, con una congiunzione, una frattura. La realtà è
diversa: nuovi attori o nuovi spettatori.
Il dibattito teatrale del secondo dopoguerra è segnato dalle lunghe, ripetute, spesso dogmatiche teorizzazioni
sul “teatro servizio pubblico”, sul teatro degli spettatori, armonicamente inserito nella città: stabile.
Il “mito” della Commedia dell’arte svanisce dietro le immagini di una mitica capitale del teatro — Atene —
che racconta le origini di un teatro omogeneo alla società che in esso si rispecchia, si conosce, impara ad
accettarsi o a criticarsi. È l’immagine-guida che regola tutti i progetti globali di teatro, tanto le utopie dei
teorici, che i regolamenti dei funzionari e le censure. Naturalmente, al confronto dell’abbagliante candore dei
marmi di Atene (frutto di un’illusione tutta moderna) il concreto teatro senza città dei comici appare a lungo
con i colori andanti e slavati di un’altra capitale “mitica” (ma un mito minore presente solo nel gergo dei
“figli d’arte” o nel disprezzo dei critici): il paese viaggiante di Guittalemme.
E naturalmente, il bisogno di nuovi spettatori rende del tutto superflua la ricerca di nuovi attori.
Quando, negli anni Sessanta, si comincia a parlare nuovamente di attori che si allenano, di piccolissimi
gruppi di attori che — negli Usa, in Polonia, in Danimarca — “fanno esercizi”, sembra che si parli di
ascetiche eccezioni laboratoriali, di un teatro fine a se stesso, “formalistico”, dicono (ancora una volta!)
alcuni; “sadomasochistico”, dicono altri più aggiornati sulle grullerie alla moda.
Negli anni Settanta, c’è L’âge d’or della Mnouchkine, c’è l’ultima versione dell’Arlecchino servitore di
due padroni (regia di Strehler, Arlecchino di Ferruccio Soleri) che gira l’Italia come un monumento
sorprendentemente vivo, e che di nuovo trionfa all’estero.
Eugenio Barba parla, in un numero di Teatret Teori og Teknikk del 1970, dei due “padroni” di Arlecchino:
da una parte le belle immagini della Commedia dell’arte, le apparizioni fantasiose e colorate; dall’altra il
duro lavoro dell’attore per ampliare continuamente le sue possibilità.
L’articolo di Barba è parallelo a un seminario organizzato dall’Odin Teatret sulle “tradizioni viventi della
Commedia dell’arte”. È evidente che bisogna cercare nella linea che idealmente si collega alla grande
esperienza del teatro russo, se, nei nostri anni, si cercano esempi concreti sui quali si possa dire che la
Commedia dell’arte — al di là delle “rievocazioni” e delle vaghe “ispirazioni” — influisca. O —
reciprocamente — esempi dai quali la nostra immagine della Commedia dell’arte rimanga profondamente
influenzata.
L’esperienza interrotta del teatro russo ha costituito l’unico momento, nella storia del teatro occidentale, in
cui l’arte e la tecnica dell’attore sono state sottoposte da più parti a ricerche metodiche e approfondite. Ma le
conseguenze di tali ricerche conducono al di là dell’ “arte” dell’attore. Il sapere tecnico dell’attore si
trasforma presto in ciò che gli permette di non essere specializzato ad un determinato pubblico: garantisce,
cioè, la sua indipendenza. È il segno e la premessa di un mutamento radicale della sua condizione sociale e
culturale: egli può porsi in maniera autonoma e paritetica, attraverso il proprio teatro, di fronte agli
spettatori, infrange, cioè, quel tacito “contratto teatrale” che ha lungamente regolato i rapporti tra compagnie
di attori e società civile, e per cui il costume e il mestiere del comico (il suo guadagno e la sua differenza)
divenne accettabile in cambio della sua disponibilità ad incarnare il “teatro degli spettatori” (che deduce il
suo valore dal valore di ciò che rappresenta, e che istituzionalizza il lavoro dell’attore come
interpretazione di personaggi di opere letterarie drammatiche).
Malgrado i piani degli ideologi, la realtà storica si è dimostrata diversa: negli anni Settanta, emerge la
presenza di un teatro a gruppi, non piccoli teatri per le città, ma teatri di refrattari, espressione di una
separatezza (e a volte di una devianza) che non vuole (o non può) vivere emarginata. Non sono attori che
imitano gli attori dell’arte, non tentano di rievocarne il modo di atteggiarsi, di mascherarsi, di recitare. Ma
poiché sono al di là di quel “contratto teatrale” di cui la Commedia dell’arte è al di qua, in essa specchiano la
propria condizione: simile e rovesciata, come in uno specchio, appunto.
Il fenomeno dei teatri di gruppo compare con caratteri simili in paesi lontani fra loro, specialmente in Europa
ed in America Latina: teatro che sembra proteggere una forma di aggregazione, che sembra offrire i mezzi
per resistere (sul piano personale e collettivo) nei propri valori di vita; gruppi di “professionisti” che non
godono di nessuno dei riconoscimenti e dei privilegi di cui gode l’establishment del professionismo teatrale.
È solo perché manca la forza dell’abitudine, che sembra che in questi casi il riferimento alla Commedia
dell’arte sia meno pertinente di quanto non lo fosse, poniamo, nel caso della stilizzazione copoiana o della
biomeccanica. Ancora una volta, l’immagine della Commedia dell’arte, influendo, si trasforma. Diventa, per
antonomasia, non più il teatro degli italiani, ma il teatro degli attori. La riflessione su di essa dà profondità
teorica e respiro storico alle analisi dei problemi dell’attuale sociologia del teatro. Negli scritti di Barba, il
tema della Commedia dell’arte come attore padrone del proprio mestiere passa nel tema del professionismo
teatrale dei comici come mezzo per difendere bisogni altrimenti impossibili da soddisfare. I tratti più
interessanti della Commedia dell’arte appaiono, ora, i tratti culturali che rendevano deviante e insieme
resistente il “corpo separato” degli attori.
Il contesto in cui situare la Commedia dell’arte si trasforma anch’esso: non più quello dei teatri popolari,
delle maschere (anche se di burattini o della pantomima) e delle “improvvisazioni” (anche se
anacronisticamente intese come “spontaneità”, “creatività” nei giochi drammatici o nel teatro dei bambini),
ma il contesto delle forme di organizzazione, di produzione, di socializzazione interna e di trasmissione delle
esperienze dei gruppi di attori.
Questo provvisorio punto di arrivo è assai lontano dal punto di partenza, il teatro come cultura di gruppo
sembra non aver nulla a che vedere con le maschere e il gioco di fantasia rievocato da Maurice Sand.
Forse il simbolo di una presenza ancora viva della Commedia dell’arte non è tanto la maschera di
Arlecchino, quanto il volto serio e dignitoso dell’attore, che quella maschera nasconde e protegge. Ciò
significa che le diverse incarnazioni della Commedia dell’arte, incontrandosi, non si riconoscerebbero.
Cfr. anche: Italia I e Il; Bragaglia, Copeau, Craig, Dullin, Jouvet, Mejerchol ‘d, Mnouchkine, Odin
Teatret, Reinhardt, Strehler, Vachtangov; Mimo.