il sacro fuoco della regina

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il sacro fuoco della regina
Leggenda e racconti, ricordi e fantasia, storia e tradizione si
fondono per generare nuove emozioni. Storie di vite spezzate da
raccontare e ricordare.
“Se questo è il volere degli dei”.
Ercole De Angelis
Il sacro fuoco della regina
Racconto liberamente ispirato alle gesta di Camilla, Regina dei Volsci
narrate da Virgilio nell'Eneide
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“Stat sua cuique dies, breve et inreparabile tempus omnibus est vitae.”
Eneide X, 467-468
(Trad.: A ciascuno è dato il suo giorno, il tempo della vita è breve e
irreparabile per tutti.)
A mio padre e alle mie figlie.
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I Prologo
Intorno al 1100 a.C., tra la fine dell’età del bronzo e
l’inizio di quella del ferro, in un'ampia area del Lazio,
vivevano i Volsci. Un popolo di pastori, orgoglioso e fiero,
sempre pronto alla battaglia; indomito, tanto da riuscire a
resistere per molto tempo alla furia dei Romani, prima di
essere inghiottito dalla storia.
Proprio in quegli anni, quando in terre lontane si
compiva il destino di Troia, nella valle del Sacco, in pieno
territorio Volsco, lì dove gli Ausoni declinano a nord
verso la pianura1, inizia la storia di una principessa di
nome Camilla. Una storia fatta di coraggio, sacrificio e
amore.
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Attuale, Castro dei Volsci.
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II Antonio il latino
Si chiamava Antonio, detto “il latino”. Barba e radi capelli
bianchi adornavano il suo viso. Era piuttosto singolare
che un latino si fosse stabilito in pieno territorio volsco,
ma Antonio, che doveva il nome al suo sangue etrusco,
dopo una gioventù passata tra avventure e battaglie,
sentiva quel posto come la sua casa. Era là che
venticinque anni prima aveva conosciuto la sua
compagna e trovato la pace dell’animo che aveva a lungo
cercato durante la sua vita turbolenta.
Chiamato con affetto “il saggio” dalla sua figlioccia
Camilla, era diventato ormai un tranquillo agricoltore e
pastore. Non era più un giovanotto, ma le sue braccia
avevano ancora forza e vigore, i suoi occhi vedevano bene
e non erano sazi ancora di bellezza. La sua mente, poi, era
rimasta agile e rapida come un tempo, come se gli anni
non fossero passati.
Tutto quello che Antonio aveva era una modesta
abitazione, poco più che un pagliaio. Le mura erano in
pietra, il tetto in paglia. All’interno, con paglia, canne e
argilla, aveva ricavato due stanze confortevoli. Qualche
armento, un piccolo orto e la macina di pietra vulcanica,
comperata al mercato annuale e trasportata a casa con il
suo vecchio carretto di legno, provvedevano al suo
sostentamento.
Lì, ai piedi della collina che si stacca dall’ultimo dei
monti Ausoni verso nord, scendendo come un bel seno
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dal collo di una giovane donna, Antonio aveva tutto
quello di cui aveva bisogno, e non desiderava altro. Da
quando sua moglie Arisia se ne era andata per sempre
nelle braccia di Plutone, portata via nel regno dei morti
dalla febbre maligna, aveva imparato ad apprezzare la
pace dei sensi e dell’animo che solo la solitudine può
dare. Solo qualche volta, la sera, il ricordo di una donna,
delle sue dolci braccia, dei suoi seni caldi e morbidi, del
suo grembo accogliente, riaccendeva in lui il fuoco
ardente nelle vene e risvegliava forte il desiderio. Ma
Antonio sapeva bene che se la tristezza fosse stata restia a
fuggire, la sua scorta di vino sarebbe bastata per
riscaldare l’animo.
C’era vicino la casa una ricca sorgente. La terra era
rossa, grassa, fertile. Il “piccolo pozzo2” era una
meraviglia, specialmente in primavera. In questa
stagione, il profumo dei fiori era inebriante e il sole che
faceva capolino tra le querce diffondeva una luce speciale,
quasi divina; quando i suoi raggi incontravano gli spruzzi
dell’acqua sorgiva, si animavano di mille meravigliosi e
lucenti colori. Allora Antonio ringraziava gli dei dal
profondo del cuore per la loro generosità verso il genere
umano.
Viveva in pace, dividendo quel poco che aveva con
chiunque passasse di là. Non possedeva armi, tranne un
coltellaccio di bronzo che usava malvolentieri al
momento della tosatura, oppure quando doveva
macellare le sue pecore. Non aveva alcun timore, e
sentiva di aver vissuto abbastanza; aveva visto spargere
troppo sangue in gioventù e si era ormai convinto che il
destino dell’uomo era esclusivamente in mano al
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Luogo denominato attualmente “Pozzotello”
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capriccio degli dei. Erano loro a scegliere chi dovesse
vivere o morire.
Il “piccolo pozzo”, comunque, era un luogo sicuro a
sufficienza, lontano come era dalla pista principale. Non
molto distante un paio di leghe verso sud, inoltre, nei
pressi del tempio di Diana sul Montenero, c’era una
piccola guarnigione con un punto di avvistamento che
dominava il sud della valle. La sua presenza toglieva a
predoni, Bruzi e Sanniti la voglia di aggirarsi nei paraggi.
I Volsci sapevano essere guerrieri impavidi. Era un
popolo orgoglioso al quale era meglio non pestare i piedi.
Da quando poi la sua figlioccia Camilla aveva addestrato
il suo gruppo di giovani cacciatrici e guerriere in collina,
per grazia di Diana, nemmeno i cinghiali e le fiere davano
più fastidio, e nella valle si dormivano sonni tranquilli.
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III Metabo
La nostra storia inizia una notte di venti anni prima.
Pioveva a dirotto. A intermittenza i lampi illuminavano di
una luce sinistra la piccola valle e Scurtus, il cane di
Antonio, iniziò ad agitarsi e abbaiare insistentemente.
«Antonio..! Sveglia! Il cane sta abbaiando troppo, c’è
qualche cosa che non va!»
Arisia, immersa tra paglia e pelli di montone, svegliò
bruscamente Antonio che, alquanto infastidito, rispose:
«Che c’è!?.. Dormi, moglie!»
«Antonio! – insistette la moglie, alzando il tono - Il cane è
troppo agitato, vai a controllare. Magari è qualche volpe,
o addirittura qualche lupo che vuole insidiare le nostre
pecore, o peggio: i predoni…»
Aggiunse poi in tono supplichevole:
«Ho paura, vai a controllare, ti prego»
Quest’ultima frase di Arisia risvegliò il senso di
responsabilità del pastore e lo spinse, acceso il lume, a
indossare i calzari, agguantare malvolentieri le pelli di
montone da usare per riparasi dalla pioggia e a uscire
brontolando in piena notte.
Uscito, alla luce intermittente del lampi, parve ad
Antonio di scorgere una figura umana. Gridò allora a
squarciagola, per sovrastare il frastuono della pioggia e
dei tuoni:
«Chi è la? Vieni fuori!»
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Fu allora, tra la luce di un lampo e il propagarsi del suo
tuono, che udì un vagito di bimbo e vide stagliarsi nitida,
non lontano da lui, la figura di un uomo.
«Aiuto! Soccorso! - gridava con voce rauca. - Aiuto, non
per me, ma per la mia creatura, mia figlia!»
Tutti inzuppati e infreddoliti, finirono in casa, sul tronco
spianato e levigato che fungeva da panca, davanti al fuoco
attizzato in fretta da Arisia. Poco dopo, rinvigorito dal
calore del focolare, lo stremato straniero iniziò il suo
racconto.
Metabo, questo era il suo nome. Era un volsco di
mezza età, spalle larghe, braccia tozze e muscolose, un
piglio guerriero, barba scura e fluente. I suoi profondi
occhi neri ardevano come fuoco; nonostante le evidenti
privazioni, il suo sguardo altero emanava lampi
d’orgoglio e superbia smisurati. Stretti alla luce del
focolare raccontò brevemente come era giunto fin lì.
Era re di Privernum3, fiorente cittadina volsca
sulla strada del mare. A dir suo, cacciato senza ragione
dai suoi concittadini, ora braccato, fuggiva. Solo e reietto,
era chiaro che le ragioni della sua fuga fossero meno
limpide di quanto volesse far credere. Unica compagna
del superbo tiranno era una dolcissima e piccola creatura.
Quel fagottino spaventato e piangente era una tenera
bimba di nome Camilla, figlia sua e di Casmilla. Della
madre, abbandonata al suo destino, Metabo ormai non
sapeva più nulla, ma era quasi certo della sua morte
durante l’incendio della reggia, nel giorno della rivolta.
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Attuale Priverno
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Davanti al fuoco, con voce rauca e concitata, l’uomo
continuò il suo racconto:
«Questa sera stessa ho attraversato a nuoto il
fiume Amaseno, ingrossato a dismisura dai tanti giorni di
pioggia. Sentivo ormai vicine le grida dei mie inseguitori,
disperato ho invocato l’aiuto di Diana “Oh Diana, mia dea! Non ti prego per me, ma per
mia figlia! Guida la mia mente e le mie braccia verso la
salvezza e ti giuro sul mio onore che mia figlia sarà per
sempre tua.”
- Senza indugio ho avvolto in una corteccia di
albero, legato stretto e ben bilanciato alla mia lancia,
questo cucciolo piangente e l’ho scagliato con tutte le
forze sull’altra sponda. La Dea ha ascoltato le mie
preghiere, e per ora ci siamo salvati. I miei inseguitori
non hanno avuto il coraggio di affrontare il fiume in quel
punto. Avranno cercato più in là qualche guado e questo
mi ha dato qualche ora di vantaggio. Ma adesso sono
sfinito e ho bisogno di riposo. Per questo ti prego:
indicami un luogo sicuro dove possa nascondermi e
riposare alcuni giorni, te ne sarò grato per sempre. Ti
prometto che, Giove Pluvio mi sia testimone e garante,
quando avrò ripreso la mia città e fatto pagar cara la
rivolta, saprò ricompensarti adeguatamente per il tuo
aiuto.»
Seguì un momento di silenzio. La piccola aveva
finalmente smesso di piangere e tra le braccia di Arisia, al
calore del fuoco succhiava avida da un panno imbevuto
un po’ di latte di capra munto in fretta dalla donna. Bastò
incrociare per un attimo lo sguardo implorante di sua
moglie affinché Antonio comprendesse: quella bimba era
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l'agognato dono di Cerere4, in cui avevano smesso da
tempo di sperare. Parve all’uomo di cogliere in un lampo
il volere degli Dei. Esordì quindi con fare lento e solenne:
«Metabo (questo, se non sbaglio, è il tuo nome),
noi non saremo tuoi giudici. Che tu sia un re illuminato o
un truce tiranno, a noi non importa. Gli dei ti hanno
guidato fin qui, per una ragione che adesso ci è
sconosciuta. Chi siamo noi per opporci? Avrai perciò
tutto l’aiuto che la mia modesta famiglia può dare.
Lassù, in cima alla collina, a cinque o sei stadi da
qui, c’è un’ampia grotta, lontana da tutti i sentieri battuti,
che uso quando il maltempo mi coglie mentre pascolo il
mio gregge. E' nascosta agli sguardi della valle; è
provvista di legna secca e asciutta, di un orcio d’acqua, di
pelli di capra e di un po’ di cacio nascosto. Potrai
mangiare e riscaldarti, riposando finché vorrai. Posso
accompagnarti là fin da ora, se vorrai. – e, addolcendo il
tono, soggiunse - Ma permettimi Metabo: la bimba che tu
porti con te, tua figlia, di quali colpe si è macchiata per
dover soffrire con te la fame e il freddo? In queste
condizioni la piccola potrebbe non sopravvivere a lungo.
Non può, così piccina, condividere con te la fuga e la
vendetta! Non vedi? E’ stremata, ha ancora bisogno di
latte. Per adesso lasciala a noi, la custodiremo come un
prezioso e sacro dono degli dei. Per lei saremo un padre e
una madre, questa per lei sarà una casa e avrà tutto
secondo il suo bisogno. Non appena le acque si
calmeranno e tu avrai seminato i tuoi inseguitori, tornerai
a riprenderla. Ma se gli dei ti saranno avversi, la fanciulla
sarà al riparo dalla loro vendetta.»
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Dea della fertilità
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L’orgoglioso volsco, spossato dalla lunga fuga, più re e
guerriero che padre, con il desiderio di vendetta che
aveva ormai preso il sopravvento su ogni altro
sentimento, giudicò la proposta di Antonio come l'unica
soluzione. La bambina sarebbe rimasta con loro.
Le guance della piccola Camilla ormai colorite dal
caldo focolare e gli occhi raggianti di Arisia furono per
Antonio la più grande consolazione. Indossate di nuovo le
pelli, stavolta di buon grado, il pastore prese il lume e
condusse Metabo sulla collina, alla “sua” grotta. La stessa
che, nel futuro, sarebbe diventata la grotta di Camilla, la
Regina.
Sotto un'enorme formazione rocciosa che
caratterizzava la sommità della collina si apriva l'ingresso
della grotta. Il tempo e le intemperie avevano consumato
il massiccio in maniera tale da generare una spianata
lunga quasi uno stadio e altrettanto larga. L’imboccatura
dell’antro era abbastanza grande da permettere l’ingresso
di un cavallo, ma era celato alla valle da alberi e arbusti.
L’interno era ampio, in grado di ospitare comodamente
una famiglia. Sul fondo, si aprivano due stretti cunicoli
che si spingevano verso il basso; Antonio non aveva mai
avuto interesse e coraggio di esplorarli, per la forte
sensazione
di
oppressione
che
si
percepiva
addentrandovi. La grotta doveva in ogni caso sfogare
verso l’esterno, dal momento che il fumo del focolare che
il pastore aveva attrezzato al centro di essa non
ristagnava mai.
Accesero il fuoco, e Antonio mostrò a Metabo i
piccoli segreti del rifugio. Rimasero d’accordo che, per
prudenza, avrebbe fatto trascorrere due giorni prima di
tornare alla grotta. Poco dopo i due si salutarono con una
forte stretta di mano.
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Antonio tornò a casa correndo per la collina, con il
rischio di terminare prima del tempo la sua corsa con una
caduta rovinosa. Correre al buio, in discesa, col sentiero
intriso di fango e le rocce inumidite era da folli, ma
ancora più folle era il desiderio di stringere finalmente
quel cucciolo sul suo petto, e la strada verso casa
sembrava non finire mai. Arrivò che la piccola dormiva
accanto al fuoco, su un minuscolo improvvisato giaciglio
di pelli e tela. Arisia la fissava estasiata in ginocchio,
appoggiata sui talloni. Al vederla in quella posa, Antonio
l’abbracciò teneramente in silenzio, pensando al sacrificio
da offrire agli dei il giorno seguente, affinché non
cambiassero idea. Rimasero così addormentati fino al
canto del gallo.
Già al tramonto del giorno dopo il povero pastore
si rese conto che nemmeno un terremoto o un invasione
Sannita sarebbero stati capaci di sconvolgere così
improvvisamente la sua vita. Nulla sarebbe stato più
come prima.
Come d’accordo, Antonio tornò alla grotta due
giorni dopo, ma Metabo era scomparso. Rassettò le poche
cose sparse e salì fino alla cima del colle a riflettere. Era
sua abitudine andare a meditare nel punto più alto della
collina, su una roccia a strapiombo verso est. Nulla gli
schiariva il pensiero come la vista della valle che si
stendeva fino alle lontane montagne innevate. La mente
lasciata libera, sospesa tra cielo e terra, si acchetava.
Tutto diventava più chiaro, ogni preoccupazione si
attenuava. Una serie di domande senza risposta, però, lo
assillavano.
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“Metabo è fuggito? E' in cerca d’aiuto? E' stato forse
catturato dai suoi nemici? Oppure è stato ucciso?”
Tutto era nelle mani degli dei. Ad Antonio restava
soltanto una piccola bocca in più da sfamare a rallegrare
la sua casa.
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IV L'infanzia di Camilla
Passarono così tre anni, come un soffio. La piccola
Camilla era ormai diventata il centro stabile della
famiglia. Una sera, Arisia arrivò a invocare di nascosto in
preghiera la morte del volsco. Antonio non avrebbe mai
potuto fare altrettanto, ma certamente, se fosse accaduto,
non ne avrebbe pianto la scomparsa.
Un giorno il pastore andò al mercato a Fregellae5
per scambiare un montone con della tela per Arisia,
quando fu afferrato e quasi scaraventato a terra. In un
angolo ombroso, avvolto dal mantello e incappucciato,
riconobbe Metabo.
Sentì come un colpo allo stomaco.
«Antonio, ricordati della parola data. Come un dono
degli dei.. come sta mia figlia?»
«Cresce sana e forte! – rispose Antonio, riprendendosi
immediatamente dalla sorpresa - È agile come un
cerbiatto, furba come una volpe e bella... bella come... »
«Come la dea Diana! - lo interruppe il volsco - Già!
Bellissima come la dea delle selve. Ricorda, Antonio! E’ a
Diana che Camilla è consacrata! Un giorno dovrò onorare
l’impegno preso con la dea. – e, abbassando la voce,
soggiunse con tono furtivo - Mio amico e salvatore, ti
chiedo di pazientare ancora un poco. Sto organizzando
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Attuale Ceprano
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una nuova rivolta; la ricompensa per te sarà ancor più
grande, ma i mie nemici sono ancora forti e tramano
nell’ombra. Devo fuggire e nascondermi di continuo. Le
loro spie sono dappertutto.»
I suoi occhi spiritati si muovevano a scatti, scrutando
rapidamente e incessantemente intorno a sé. Concluse
dicendo:
«Dai un bacio a mia figlia e dille che il grande Re Metabo,
suo padre, tornerà presto con un regno per lei.»
Cosi detto, scomparve come un fantasma, nel nulla da
dove era venuto. Antonio non raccontò nulla di quello che
era successo a sua moglie, pensando che la donna
avrebbe sofferto inutilmente. Lasciò quindi scivolare
ancora una volta Metabo nell’oblio, tra le fuggevoli e
impalpabili nebbie del passato.
All’età di sette anni, Camilla correva già come il
vento; svelta di mente, sapeva contare e aveva imparato
qualche parola d’etrusco e di greco. Gli dei più importanti
non avevano segreti per lei. Ricordava persino a memoria
le storie dei viaggi di Antonio e delle sue avventure
giovanili e, come il più severo degli istruttori, con voce
squillante e argentina, era là a inchiodarlo ogni qualvolta
il padre adottivo romanzava troppo i suoi racconti:
«Ti sbagli padre, non l’hai raccontata così l’altra volta!»
Con la bella stagione, Camilla e Antonio a volte
lasciavano gli armenti da soli e andavano
all’insediamento che si era sviluppato non molto distante
da “piccolo pozzo”, vicino al fiume, sul piccolo colle poco
più a nord che scende lentamente fino al ponte di legno.
Era chiamato “villaggio”, ma era esagerato definirlo così,
composto com'era da quindici o venti capanne di pietra,
fango e canne, affondate nella melma, tra maiali, pecore e
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puzza di escrementi. Le acque fresche e cristalline del
fiume, correndo verso sud, formavano un ampia e lenta
curva accanto ad esso. Poco più a valle, c'era una piccola
insenatura dove le donne lavavano i panni, nei giorni di
calura. Quella piccola baia era inoltre frequentata da tutti
fanciulli del villaggio, cosicché Antonio, di solito, restava
a pescare un po' più su, sul ponte, mentre Camilla giocava
in compagnia degli altri ragazzi.
«Buongiorno Antonio! Anche oggi a pescare? Arisia è
davvero una donna molto paziente.»
«Buondì a te, Xeni. Anche oggi al fiume con una
montagna di panni da lavare?»
«Destino crudele! Beata tua moglie, con solamente una
figlia e un marito da accudire! Povera me, con sette
maschi! Tutti buoni a nulla, anzi, buoni solo a sporcare.
Invece la tua Camilla..! Ah! Che bella e che forte è
diventata. Sei un uomo fortunato. E’ un fulmine quella
benedetta ragazza! Sfida e batte tutti i suoi coetanei,
maschi e femmine, senza distinzione, anche quelli più
grandi di lei. La osservo spesso, quando giocano a guerra.
Li comanda a bacchetta. Mai visto e sentito! »
Il tono di voce della donna si inasprì:
«Una femmina! Invece di aiutare sua madre in casa! Che
roba! Ne ho viste davvero tante, ma lei ha qualcosa di
molto speciale. Tu ne sai qualcosa, vero, Antonio?
Vecchia volpe di un latino, fosse figlia di Zeus? O tra te e
Venere... Oppure è figlia di qualche altro sporcaccione di
un dio. Si divertono sempre, quelli lassù, con noi poveri
umani.»
Scoppiarono entrambi in una grassa risata.
La donna proseguì per la sua strada, e Antonio rimase a
osservarla.
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Che donna è, Xeni, col suo tunicone di tela grezza,
sempre lo stesso da parecchie stagioni, sempre più
logoro, sempre più spento. L’ho vista spesso quando al
fiume se lo tira via zuppo d’acqua e, nonostante i sei figli
che l’ammazzano di fatica, non è certo da buttare. In
ogni caso, è tanto infaticabile e gioviale, quanto sciocca
e chiacchierona. Però, ha di certo ragione su Camilla.
Ha sangue di re, ed è promessa a Diana. Questo mi
spaventa enormemente. Ho paura che sia come un vaso
di bronzo in mezzo a otri di coccio. Quanti ne romperà?
Ho molte domande senza risposta. Metabo tornerà?
Sarò io a presentarla al tempio di Diana? Quale destino
gli dei hanno in serbo per lei?
Quando Antonio andava in cima alla collina e si sedeva
con le gambe penzoloni sulla roccia a strapiombo tra cielo
e terra, aveva l’impressione di essere più vicino agli dei e
di percepire nel silenzio i loro progetti. In quei momenti,
sentiva che Camilla era destinata a gloria immortale ed
era grato ad essi di farne parte in qualche modo. C’era
però qualche cosa che gli sfuggiva: qualche cosa di oscuro
incombeva sulla sua figlioccia, come un'ombra che non
riusciva ad afferrare.
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V Il cinghiale
«Padre! Padre!»
Camilla, urlando, scendeva di corsa la collina.
«Padre!»
Continuò, gridando ancor più forte, riempiendo di eco la
valle.
Antonio contrariato, smise di tosare le pecore, buttò il
coltellaccio a terra e le corse incontro.
«Cosa è successo?»
Camilla si calmò all’improvviso e disse con voce seria:
«Padre, ho ucciso un cinghiale...»
Antonio trattenne a stento un sorriso.
«Ne sei proprio sicura? Non era magari un topaccio
gigante?»
«Dai ta’6, ti ho mai preso in giro? Per le cose serie
intendo! Ho ucciso davvero un cinghiale!»
«Allora spiegami come hai fatto, o grande cacciatrice!»
Il tono era ironico, ma lei si imbronciò solo un attimo e
iniziò a raccontare.
«Lo sai, ta', che mi piace giocare a guerra e andare a
caccia di topi e conigli selvatici. Allora, quando mi mandi
a pascolare il gregge su in collina, mentre sorveglio gli
armenti, mi costruisco delle armi e quando posso mi
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Abbreviazione di tata. In dialetto Castrese = papà
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esercito al loro uso. Sono diventata molto brava, sai? Ho
costruito anche un arco e delle lance.»
Antonio la interruppe.
«Mentre mi racconti l’accaduto, portami a vedere
quest'animale.»
Si incamminarono di fretta tra le querce, su per la collina.
Camilla riprese il suo racconto.
«Mi trovavo davanti alla grotta, aguzzando una lancia
indurendola con il fuoco, quando sento alle spalle un
grugnito. Mi giro e lo vedo, brutto, nero, con le sue
orecchie a punta, e le sue zanne! Padre, era davvero un
cinghiale! Gli strillo per farlo scappare, ma lui invece di
andare via resta immobile, mi fissa per un attimo, e poi
mi carica. Io sono scappata via correndo come un
fulmine, ma lui mi ha inseguita fino al roccione. Non
avevo più scampo, ma a quel punto è sparita la paura: mi
sono girata e ho puntato la lancia verso di lui. Quando è
arrivato ho chiuso gli occhi e pregato gli dei. La bestia ha
emesso un fortissimo urlo e quando ho riaperto gli occhi
l'ho visto a terra, infilzato sulla lancia. Ha grugnito
affannosamente ancora un poco e poi ha smesso di
respirare. Padre, l’ho ucciso io. Ho ucciso un cinghiale!
Giù al villaggio non mi crederanno mai.»
Arrivati sul luogo, Antonio si rese subito conto che sua
figlia aveva detto la verità. Un giovane cinghiale, nella
sua ottusa carica, si era infilzato e spaccato il cuore sulla
lancia di Camilla. La lancia s'era spezzata: metà era
rimasta nel corpo dell'animale, l'altra si era incastrata
dalla parte dell'impugnatura in una fessura della roccia.
Questo aveva permesso alla fanciulla di resistere alla
carica dell'animale.
Per quanto incredibile, Camilla, con appena tredici
primavere sulle spalle, armata di una lancia rudimentale,
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aveva compiuto un’impresa da Ercole. Antonio rimase
senza parole. L’accaduto lo aveva profondamente turbato.
Non c'era alcun dubbio: era un altro segno degli dei.
Decise allora che non poteva più nascondere a Camilla le
sue origini. La sera ne parlò con sua moglie. Insieme
decisero che l'indomani Antonio avrebbe rivelato la verità
alla loro giovane figlia adottiva.
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VI La rivelazione
All'alba del giorno dopo, al canto del gallo, Antonio si
alzò. Soffiando delicatamente sul fuoco che, stanco,
dormiva sotto la cenere, lo ravvivò. Aggiunse poi dei
ramoscelli secchi, che si infiammarono rapidamente.
Dopo aver macinato una manciata di grano, lo impastò
con dell'acqua presa da un orcio di coccio posto vicino al
fuoco. Divise l'impasto su un tavolaccio in piccoli panetti,
che stese poi a cuocere su una pietra infuocata dalla
fiamma. Il delizioso profumo si diffuse nella stanza e
Camilla si svegliò:
«Ta', sei tu?»
«Figlia, preparati. Dobbiamo andare.»
«Dove? Che succede, padre? »
«Non preoccuparti. Andiamo e lo vedrai.»
Consumate assieme a della frutta due delle focacce calde,
misero da parte le altre nel sacco. E si incamminarono di
buona lena verso sud, tra le querce, accompagnati dal
cinguettare degli uccelli. Camminavano in silenzio
costeggiando il lato est dell'ultimo dei monti Ausoni.
Camilla era una buona camminatrice e precedeva suo
padre. Era alta per la sua età, longilinea, capelli neri
lunghi sulle spalle, indossava la sua tunica che ormai
cominciava a starle corta. Stava davvero crescendo.
Grazie alla vita all'aperto, ai lavori che Antonio e Arisia
non avevano mai lesinato di assegnarle, ai giochi e alla
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sua predilezione per la corsa mostrava dei muscoli ben
delineati, braccia forti e polso fermo.
Dopo aver percorso un paio di miglia, deviarono
verso est. Giunti ai piedi del monte, si dissetarono alle
acque sorgive di un ruscello. Dopo una breve sosta,
iniziarono a salire. Montenero non era molto alto e, dopo
un altro miglio circa, la salita incominciò a scemare.
Quindi si inoltrarono in un bosco di alte querce. La selva
era fitta e stranamente silenziosa. Ogni tanto qualche
roccia sbucava dal terreno umido e ricco di humus.
Camminarono ancora verso sud per circa un stadio,
oltrepassarono con molta attenzione un tratto privo di
vegetazione, simile a una pietraia. Le pietre uscivano dal
terreno come se fossero state piantate di taglio, spigolose,
affilate e taglienti, e non cedevano al passaggio. Facevano
parte di un unico massiccio roccioso che le intemperie
avevano eroso in quel modo bizzarro. Alla fine della
formazione rocciosa si trovarono in una strana radura.
Gli alberi intorno erano posti in cerchio e a distanza
regolare. Al centro della radura c'era una grossa roccia
squadrata lunga circa otto piedi, altrettanto larga e alta
un piede. L’enorme tavola di calcare poggiava su un'altra
roccia che sbucava direttamente dal terreno, squadrata
anch’essa. Sulla grande pietra c'era una carcassa di
animale sgozzato con le viscere tirate fuori dal ventre. Più
in là c'erano tracce di un grande falò, e per terra, sotto
l'altare, perché di un altare si trattava, delle statuine di
terracotta che rappresentavano la dea Artume. Questo era
il nome che i numerosi commercianti etruschi stanziati
nella vicinissima Fregellae attribuivano ad Artemide, la
dea cacciatrice, dai latini chiamata Diana. Altre statuine
giacevano sparse in terra. Rappresentavano cervi, cani, e
altre figure votive.
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A questa vista Camilla esclamò:
«Padre, dove siamo? E' questa la nostra destinazione?»
Antonio annuì.
«Questo è il tempio della dea Diana. È giunto il momento
che tu sappia cose molto importanti riguardanti la tua
infanzia.»
Le raccontò tutta la verità sulle sue origini, quindi
soggiunse:
«Vedi quell'altare di pietra? È dedicato a Diana, dea delle
selve e tua protettrice, alla quale il tuo vero padre ti ha
consacrato. Sono sicuro che è stata lei a proteggerti e ad
aiutarti nello scontro con il cinghiale. Bada bene, ciò non
sminuisce i tuoi meriti, ma ti carica di responsabilità.
Dovrai sempre rendere onore alla dea ed esserle
riconoscente.»
Ma l'attenzione di Camilla non era certo rivolta ad
Artemide.
«Padre, io questo re Metabo non lo conosco e non lo
voglio conoscere. Tu sei mio padre e insieme a mia madre
siete la mia famiglia, e io non ne voglio un'altra!»
Seduti sulle pietre poste intorno all'altare,
parlarono a lungo. Con molta dolcezza e pazienza,
Antonio convinse Camilla che ogni persona ha un destino
da compiere e che ribellarsi ad esso non porta mai a nulla
di buono. Se fosse stato necessario che lei divenisse
regina lontano dal “piccolo pozzo”, tutti avrebbero dovuto
accettarlo. In particolare, i membri della famiglia
avrebbero dovuto con impegno cooperare con gli dei
affinché il destino della giovanetta si coprisse di onore e
gloria. Camilla, del resto, era consapevole delle proprie
attitudini al comando e alla lotta. Quest'ultima
argomentazione aprì una breccia nella ostinazione della
27
giovane nel non volere incontrare il suo vero padre.
Insistendo sull'argomento, Antonio la convinse che
Metabo, essendo un nobile guerriero, poteva insegnarle
molte cose sull'arte delle armi e della caccia, piuttosto che
un umile pastore come lui. Fece questo discorso con la
morte nel cuore, nascondendo la propria tristezza, ma
sentiva ormai avvicinarsi il giorno del distacco e non
voleva che quel giorno cogliesse Camilla impreparata,
facendola soffrire più di quanto fosse inevitabile.
28
VII Il Ritorno di Metabo
Trascorsero due lune. Sembrava ormai che Camilla
avesse accettato i suoi nuovi orizzonti. Anzi, la sua
giovane età, unita alla sua indole guerriera, la portavano a
fantasticare e a immaginare grandi cacce e battaglie.
Scimmiottava scene di lotta persino nello spiazzo davanti
casa in presenza di Arisia che ogni volta esprimeva la sua
perplessità con un ironico mezzo sorriso.
Una mattina, Arisia si presentò al marito, mani sui
fianchi, in tono trionfante:
«Camilla è donna! Incomincia a trovarle marito!»
Povera Arisia, pensò Antonio. La donna ancora non
voleva rendersi conto che la sua figlioccia non era come le
altre. Il destino di Camilla era già scritto, e non era di
certo quello che Arisia aveva immaginato per lei. Le
strade che la bella Camilla doveva percorrere l’avrebbero
portata per sempre lontano da loro.
Passò ancora un’altra luna, quando un giorno, con
il sole già alto nel cielo, nella piccola valle si udì come
un’eco di tuono. Il rombo si faceva sempre più forte,
come se una mandria di buoi impazzita si indirizzasse
verso di loro. Era il rombo di cavalli lanciati al galoppo.
Preoccupato, Antonio tornò di corsa a casa e intimò alle
donne di rientrare in fretta. Il rumore degli zoccoli che
percuotevano la terra si faceva sempre più forte. Poco
29
dopo, apparve Metabo al galoppo su un bel cavallo nero,
con legati dietro a sé altri due cavalli.
Era armato fino ai denti. La lancia tra la coscia e il
cavallo, una corta spada al suo fianco; legato dietro la
schiena, uno scudo di legno. Sulla corta tunica, anche
essa nera, un pettorale di cuoio scuro, lucido di grasso, e
un mantello scuro svolazzante sulle spalle, ornato da una
pelle di lupo. Capelli neri e lunghi, impastati di sudore e
polvere, gli scendevano sciolti sul collo e si intrecciavano
in parte con la sua lunga barba. Da un cavallo di scorta
pendevano due elmi, scudi, spade, lance, due archi e le
relative faretre. Era davvero una vista impressionante.
Si fermò davanti casa e, mentre la polvere che lo
inseguiva si acchetava, parlò con tono secco e con
ritrovato fare altero.
«Salve Antonio! Finalmente ci rivediamo. Dov’è mia
figlia? E’ ormai giunto il momento! »
Camilla non aspettava altro. Uscì di corsa, eccitata e
affascinata dalla vista dei cavalli.
«Camilla, quello bianco è tuo, sali in groppa! »
Gridò Metabo dall’alto del suo scalpitante destriero.
Beata gioventù!, pensò Antonio. Al re volsco bastava solo
una frase per conquistare in un attimo la fiducia di sua
figlia.
Come se fosse stata addestrata fin dalla nascita a
tale compito, con un balzo Camilla fu in groppa al cavallo,
prese le redini, strinse i talloni sui fianchi della bestia e
via come il vento al galoppo. Tornarono insieme molto
tempo dopo, con il sole che già volgeva al tramonto.
Camilla era impolverata, stanca, ma i suoi occhi erano lo
specchio della felicità.
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La sera a tavola, intorno ad un modesto pasto, Metabo si
rivolse ad Antonio:
«Ho davvero un grande debito con te e, se pazienterai
ancora, la mia riconoscenza sarà grande. Non voglio darti
ulteriore disturbo. Domani, io e Camilla ci trasferiremo
su in collina. Abiteremo per un po’ nella nostra grotta,
giusto il tempo di completare il suo addestramento alle
armi. Poi partiremo verso sud-est, verso la terra dei
sanniti, in cerca di gloria e armi; allo scopo di reclutare
guerrieri. Per fare la guerra, caro Antonio, ci vuole oro,
molto oro, e noi offriremo i nostri servigi a chi ce ne darà
di più. Se non sarà cosi, ce lo prenderemo con la forza.
Vivremo di caccia, in completa libertà, fino al giorno in
cui riconquisteremo il mio trono e io avrò la mia
vendetta. Vendicheremo tua madre nel sangue, vero
Camilla?»
Ogni parola di quell’uomo orgoglioso e accecato dal
desiderio di vendetta era un colpo di stilo ai cuori di
Antonio e Arisia. Ma Antonio pensava di non poter
opporsi al volere degli dei. Avevano goduto di Camilla per
tante primavere; ora dovevano restituirla per sempre al
suo destino.
D'altronde, la fanciulla era affascinata dalla
determinazione e dalla forza mostrata da suo padre. Da
giovani si può essere coraggiosi, non saggi; generosi, non
prudenti. Camilla era tanto soggiogata dallo spirito
guerriero di Metabo che lo avrebbe seguito persino nel
regno di Plutone. Antonio, ormai rassegnato, era convinto
che non poteva rimproverarsi nulla, né poteva biasimare
sua figlia adottiva. In gioventù, lui stesso si sarebbe
comportato così, ma nella sua vita aveva visto scorrere
troppo sangue e non poteva certo approvare il futuro che
Metabo proponeva a Camilla. Lei ancora ignorava il
31
terribile e nauseante vuoto che si sente dentro l’animo
dopo aver lanciato eccitati, con in alto le braccia lorde di
sangue, circondati da cadaveri, al termine della battaglia,
il grido di vittoria.
32
VIII Camilla la Regina
amazzone
Era da poco terminata la quarta mietitura dalla partenza
di Camilla e Metabo, ma dei due ancora non era giunta
alcuna notizia. Dopo un primo periodo colmo di tristezza,
Antonio e Arisia cominciavano a essere più sereni. Seduti
davanti alla porta di casa, il sole serale ritornava pian
piano ad assumere per loro i suoi caldi colori, e
illuminava come un tempo la pace dell’animo.
Quella sera, mentre l’astro diurno, ormai prossimo
al suo quotidiano riposo, lanciava i suoi ultimi strali,
Antonio riposava a occhi chiusi sonnecchiando sdraiato
sull’erba. A un tratto, il pastore semi addormentato sentì
sussurrare:
«Padre. Padre... »
Come in un sogno ad Antonio parve di ascoltare di nuovo
la voce argentina di Camilla.
«Su, ta’... Apri gli occhi»
Di scatto, Antonio aprì gli occhi. Camilla era lì, in carne e
ossa.
«Arisia! Arisia! – gridò Antonio - Corri! Presto! Camilla
è tornata!»
Con le lacrime agli occhi, baciò e abbracciò più volte la
figlia che credeva ormai perduta per sempre. Come in una
visione, in piedi, accanto il cavallo tenuto per le briglie,
poggiata sulla lancia, la splendida figura di Camilla si
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stagliava contro il sole del tramonto. Era proprio lei, la
stessa bambina che la notte addormentava con antiche
nenie di mare.
Mille pensieri affollavano la mente di Antonio.
Come era diventata bella sua figlia. Era cresciuta ancora.
Era alta quasi quanto lui, irrobustita, ma ancora ben
slanciata. I capelli neri legati dietro la nuca, abbronzata,
gambe e braccia ben tornite e muscolose, sembrava
Artemide in persona. Indossava una corta tunica bianca
ormai molto impolverata. Aveva stretta in vita un'alta e
robusta fascia di cuoio, che deliziosamente metteva in
evidenza le sue forme; ai piedi calzari di pelle di montone
con gambali e parastinchi in cuoio. Un lungo mantello
nero pendeva dietro le sue spalle. Il suo armamento
personale era completato da una corta spada di ferro, una
fionda e un piccolo pugnale. Il cavallo era sellato con una
coperta di pelle di uno strano animale mai visto dalle loro
parti. Antonio avrebbe detto che fosse di un enorme gatto
selvatico, con il manto striato di giallo, bianco, arancio e
nero. Pendevano dal cavallo una bisaccia di pelle di capra
a doppia tasca, un otre in pelle ormai vuoto, un arco con
la faretra ricolma di frecce.
Il pastore rimase in silenzio a rimirarla.
Col fiatone arrivò subito dopo Arisia, che rimase senza
parole.
«Figlia mia, fatti abbracciare! Come sei bella, sembri la
dea della guerra in persona. Ma questa cicatrice, cos’è? E
un’altra ancora! Che t’hanno fatto? »
L’abbracciò di nuovo, poi si staccò all’improvviso di
scatto, dicendo con tono autoritario:
«Ahhh, puzzi peggio di una capra! Vado subito a mettere
l’acqua sul fuoco. Devi lavarti prima di cena, anzi,
immediatamente! »
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«Ben tornata a casa, Camilla!» Esclamò Antonio, ed
esplosero tutti e tre in un’allegra risata.
Quella sera a cena, dopo gli ordinari commenti sulla
bravura di Arisia e sulla sua capacità di trasformare
qualsiasi cosa di commestibile in cibo per gli dei, Antonio
chiese a Camilla:
«Figlia mia, ricordi come era buono il cosciotto del
cinghiale che uccidesti allora? »
Camilla abbozzò un sorriso, ma si fece subito seria:
«Sì, padre, lo ricordo.»
Tacque per un attimo e con lo sguardo fisso nel vuoto
riprese a parlare con voce inespressiva.
«Quanto sangue ho sparso da allora, padre mio. Animali,
uomini, la mia lancia e il mio braccio da allora non hanno
avuto riguardo per nessuno. »
«Figlia, sento tanta amarezza nelle tue parole. Sappi che
ti comprendo. Anche io da giovane ho cercato avventure e
ho sentito acre l’odore del sangue sui campi di battaglia.
Come te, ho sperimentato nel mio animo che non vi è
nulla di buono nell'uccidere. »
Antonio cercò quindi di cambiare argomento, chiedendo
a Camilla notizie di Metabo, ma la ragazza replicò con
durezza:
«Quell’uomo non è più mio padre. È solo una belva
impazzita che, in nome di un’impossibile vendetta,
distrugge tutto quello che incontra. E' da più di un anno
che le nostre strade si sono divise, e da allora non ho sue
notizie. L'unico e mio vero padre sei tu. Tu che mi hai
amata sin da quando ero in fasce, senza chiedere nulla in
cambio. »
Un nodo strinse la gola del pastore, avrebbe voluto
abbracciarla e baciarla nuovamente.
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Mangiarono qualche boccone in silenzio, poi Arisia le
chiese:
«E dimmi figlia mia, l'amore?»
«L'amore!? Madre, se non avessi conosciuto te e papà,
direi senza ombra di dubbio che l'amore tra uomo e
donna non esiste. Gli uomini sono quasi tutti delle bestie
senza ragione, i cui unici interessi sono guerra, armi e
donne. Con le donne hanno un solo scopo, e non
disdegnano di arrivare alla violenza per raggiungerlo. – e
aggiunse - Possono anche provarci, se vogliono! Devo,
infatti, ammettere che molti uomini hanno perso davvero
la testa per me, nel vero senso della parola! Lungo la
strada dal qui al mare, verso est, oltre le montagne
innevate, alcuni di loro non faranno più male a nessuna.
Uomini che pensavano che io fossi una cosa da prendere
allungando la mano, ma si sbagliavano davvero. »
Cambiò subito espressione e, con sguardo fiero e tono
solenne, concluse:
«Miei amati genitori, da quando sono partita ho
incontrato tanti uomini, ma nessuno degno di questo
nome; giunta a questo punto non mi interessa più
incontrarne alcuno. Ho posto il mio accampamento sullo
spiazzo in cima alla collina. Padre, la nostra grotta sarà il
mio quartier generale.
Voi ancora non lo sapete, ma ho il mio piccolo esercito:
tutte donne. Tutte ragazze salvate da uomini indegni.
Schiave liberate, vedove di guerra, fanciulle violentate.
Tutte hanno storie di violenza alle spalle. Insieme
abbiamo fatto voto che mai più uomo alzerà la mano su di
noi senza incrociare il bronzo delle nostre spade!
Io, Camilla, lo giuro, sono la loro garanzia. Sarò loro
protettrice e regina, e Diana sarà la nostra amata dea.
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Resteremo lassù, ci addestreremo alla difesa e alla guerra.
Non daremo alcun fastidio, anzi, se vorrete saremo la
vostra difesa e la vostra giustizia. Spargete la voce alle
famiglie e alla gente del villaggio. »
Quando la sera Antonio tornava stanco a casa, o quando
qualcosa era andato storto durante la giornata, con fare
solenne e pomposo iniziava a dire tra sé quella che era
diventata per lui la formula magica del buonumore:
Questa sera invito la regina a cena.
La cosa lo divertiva talmente tanto che quasi sempre il
malumore scompariva. Antonio ci pensava e ripensava
spesso:
Camilla regina! Qui da noi!
Certo non aveva mai conosciuto di persona né re né
regine, a parte quel violento di Metabo. Ma se davvero
quel titolo fosse stato sinonimo di nobiltà, dignità,
magnanimità, autorità, giustizia e servizio, ebbene:
Camilla incarnava alla perfezione tutte queste qualità.
Nell'accampamento sulla collina, Camilla era la
prima ad alzarsi l’ultima ad andare a dormire. Esortava,
rincuorava, aiutava tutte. Nelle liti bastava la sua
presenza per calmare ogni animo e rimettere a posto le
cose. Quando passava in mezzo a loro i volti delle sue
guerriere si illuminavano. Era la prima a inforcare il
cavallo quando qualche contadino chiedeva aiuto per una
belva o per un armento smarrito. Chiunque le chiedeva
aiuto non restava deluso. Anche i contadini in lite
incominciavano a ricorrere al suo giudizio.
A tal proposito Camilla chiedeva spesso aiuto ad
Antonio che ormai era diventato il suo prezioso
consigliere. La notte era il momento preferito da Camilla;
quando la ragazza aveva bisogno di consiglio o di
37
conforto, non esitava a raggiungere il padre al “piccolo
pozzo”. Molte volte lo svegliava anche a notte inoltrata.
38
IX Il Sacro fuoco
Una notte al “piccolo pozzo”, Antonio fu svegliato
bruscamente da Camilla.
«Padre, padre, ascoltami. E’ accaduta una cosa
straordinaria. Questa sera, all’imbrunire, ero sola nella
grotta a riflettere, quando vedo entrare una bellissima
giovane sconosciuta. Mi sono immediatamente chiesta
come avesse fatto a eludere tutte le sentinelle,
ripromettendomi di riprendere chi era di guardia. Ma la
giovane mi dice:
“Non ti inquietare Camilla e non punire nessuna delle
tue guardie. Non hanno colpa alcuna, stanno dormendo
un magico sonno. Il mio nome è Opi, ninfa prediletta
della dea Diana. La mia Signora ha preso a cuore la tua
causa sin da quando eri piccola e la sua predilezione
verso te aumenta ogni giorno di più. Essa apprezza
molto la devozione che dimostri con le tue preghiere e il
tuo agire, e, nella sua generosità, ha deciso di elargirti
un dono.
Ecco un piccolo vaso di pietra e una ampolla. Essi
sono sacri, dono degli dei, sempre con te dovrai portarli.
Prima di ogni battaglia, versa nel vaso una goccia del
liquido contenuto nell’ampolla e accendilo. Il sacro fuoco
che ne scaturirà ti proteggerà nella caccia e in battaglia.
Sarai poi tu a spegnerlo ogni volta al ritorno. Del
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contenuto dell'ampolla non hai di che curarti, il Fuoco
degli Dei che essa contiene non vedrà mai la fine.”
Detto questo, voltate le spalle, si è allontanata. L’ho
rincorsa per ringraziarla, ma era ormai come svanita nel
nulla.»
Sebbene assonnato, Antonio ascoltò attentamente il
racconto e, dopo un attimo di riflessione, le rispose:
«Figlia mia, con questa notizia mi rendi felice e nello
stesso tempo preoccupato. Anche gli dei sono con te. La
tua dedizione e il tuo comportamento non sono loro
passati inosservati. Al più presto prenderai una pecora
delle mie, andrai sul Montenero e la scarificherai sul
grande altare di pietra dedicato a Diana. Tieni da conto
questo preziosissimo dono. Come regina dovrai
affrontare molti pericoli e battaglie, tienilo sempre con te
e non affidarlo a nessuno. Diana sa essere generosa, ma
tu sei tenuta alla riconoscenza»
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X Castrum:
L’accampamento
Si era ormai sparsa la voce che sulla collina,
nell’accampamento di Camilla, ogni donna in pericolo
veniva accolta e difesa. Cosicché il piccolo esercito di
amazzoni aumentava costantemente di numero.
Il perimetro della radura che si allargava in cima
alla collina era stato recintato con basse mura realizzate
con pietra a secco, sulle quali venivano posti di traverso
tronchi di legno legati tra loro. Sull’angolo del roccione a
strapiombo che domina la valle, c’era un riparo in legno,
dove vigilava sempre una sentinella. Le tende e i tuguri
erano fuori il recinto. Man mano che i ranghi del piccolo
esercito si ingrossavano, i nuovi rifugi venivano allestiti
lungo i due sentieri principali che si erano formati a causa
del calpestio dei cavalli. Questi due viottoli scendevano
rapidamente verso valle; con l'uso sempre più intenso ai
quali erano soggetti, si allargavano e delineavano sempre
di più. Uno guardava verso le montagne innevate e
terminava quasi davanti ai campi del “piccolo pozzo”,
l’altro trovava sbocco sul lato opposto, verso la valle
dell’Amaseno, in direzione del mare.
Camilla era ormai conosciuta da tutti gli abitanti
della valle stanziati al di qua del fiume per le doti di
intelligenza, equilibrio e senso di giustizia di cui era
dotata. Aiutava indistintamente tutti quelli che
41
chiedevano il suo intervento. Dopo un anno, questa sua
disponibilità incominciò a portare i suoi frutti. I contadini
e i pastori che erano stati aiutati le portavano, in segno di
riconoscenza, piccoli regali: qualche gallina, uova,
frumento. Ma, cosa singolare, le portavano doni anche
quelli che non erano stati aiutati, nel puerile intento di
ingraziarsene i favori. Il cuore di Antonio si rallegrava per
aver allevato una figlia tanto capace. Se Camilla avesse
avuto un uomo degno di lei al suo fianco, il saggio pastore
non avrebbe avuto null’altro da chiedere alla vita.
42
XI La morte di Arisia
Quell'anno il freddo inverno sembrava non finisse mai.
Antonio di solito usciva presto con gli armenti e cercava
di tornare con un po’ di legna secca formatasi dal distacco
di rami vecchi e malati dalle querce secolari. Le scorte di
legna secca e asciutta a causa del protrarsi del freddo
erano ormai finite.
Una sera, al rientro, Antonio trovò Arisia sul
giaciglio pallida e tremante. La casa era ancora tutta in
disordine e se Arisia non aveva fatto niente lungo tutta la
giornata era un cattivo segno. Si chinò su di lei e le toccò
la fronte: scottava terribilmente e tremava come una
foglia. Rattizzò immediatamente il fuoco quasi spento
aggiungendo alcune frasche e pezzi di legna appena
portati, poi con delicatezza sussurrò:
«Arisia.»
La donna rispose con un filo di voce.
«Marito mio, non sto per niente bene. Mi brucia tutto il
petto. Ogni colpo di tosse mi da un dolore atroce. Non
sono riuscita a fare niente. Non ce la faccio ad alzarmi.»
Quella sera stessa, dopo aver bollito e tritato un po’ di
verdure e dopo aver aiutato Arisia a consumarne il brodo,
Antonio salì su in collina da sua figlia Camilla per
chiedere consiglio e aiuto.
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«Padre, adesso è ormai troppo buio - rispose Camilla Ma domani all’alba sellerò il cavallo e andrò da un uomo
molto abile con le erbe. Ha una capanna vicino al fiume,
verso Fabrateria7. Una volta ha curato e guarito una delle
mie guerriere. E’ un pastore che conosce molti rimedi. Mi
ha raccontato di essere stato istruito da, un “druido”, così
lo ha chiamato, un uomo della medicina che veniva da
molto lontano, dalle terre fredde del nord. Appena mi
sarà possibile verrò da voi»
Il giorno dopo Camilla fece quanto detto. Arrivò al
“piccolo pozzo” a metà giornata, tutta infangata e fradicia
d’acqua, essendo una giornata estremamente piovosa.
Portava con sé un sacchetto di pelle che conteneva erbe
essiccate di vario tipo. Lo consegnò ad Antonio e
aggiunse:
«Fanne un decotto, fallo raffreddare, non lo filtrare, anzi,
mescola bene il residuo delle foglie e lascialo sciogliere
nel liquido. Ne deve bere almeno una ciotola ben
mescolata sia la mattina che la sera. Non darle altro, e
speriamo bene. Secondo l’uomo delle erbe, mamma
rischia molto. Ha una malattia al petto che spesso non
perdona.»
Antonio rimase in silenzio. Camilla purtroppo aveva
confermato quello che già temeva in cuor suo.
Nonostante
il
pastore
avesse
seguito
scrupolosamente le istruzioni dell’uomo delle erbe, Arisia
non migliorava, anzi, aveva sempre più freddo
nonostante che nella casa fosse acceso costantemente un
grande falò. La donna diventava sempre più pallida e le
borse intorno agli occhi avevano assunto un colore blu
scuro. Dopo un altro giorno Arisia rantolava. La sera
7
(Fabrateria vetus) attuale Ceccano
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stessa, con accanto Antonio e Camilla che le stringevano
le mani fredde e tremanti, Arisia si presentò dal vecchio
traghettatore che l'avrebbe portata per sempre nel regno
dei morti.
L'indomani Antonio e Camilla, accompagnata da
quattro delle sue fedeli guerriere, alla presenza di alcune
donne del villaggio guidate dall'anziano che presiedeva
tutte le cerimonie funebri, seppellirono Arisia. La fossa fu
scavata non lontano dalla casa che l'aveva vista felice.
Mentre le donne cantavano una nenia funebre, nella buca
furono depositate le sue povere cose di donna contadina:
un pettine d'osso, alcuni monili di rame. Per ultimo,
Antonio depose delicatamente tra le mani della donna, in
un sacchetto di pelle, i due orecchini d'argento che le
aveva regalato il giorno delle nozze. Erano due splendidi
orecchini di fattezza orientale. Antonio ne era venuto in
possesso in uno dei suoi lunghi viaggi giovanili. La
cerimonia fu breve e scarna: a partire dal più anziano,
tutti gettarono un pugno di terra sul corpo che era stato
deposto in una posizione simile a quella fetale. Al termine
di questo breve rito, le guerriere finirono di ricoprire la
tomba. Tutti erano abituati ad accettare la morte con
naturalezza e serenità. Così era allora: per ogni individuo,
vita e morte erano compagne di tutti i giorni e nessuno
sapeva dire con certezza se sarebbe stato vivo o morto il
giorno dopo.
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46
XII Elinai e Lucero
Una notte di alcuni mesi dopo, come al solito, Camilla
svegliò Antonio nel pieno del sonno:
«Padre.»
«Camilla, dimmi, ma non dormi mai?»
«Padre, ho un problema e ho bisogno del tuo consiglio.»
Circa un mese prima si era presentato all'accampamento
un giovane contadino di nome Lucero, che abitava
all'imbocco della valle che porta all'Amaseno. Un gatto
selvatico faceva strage delle sue galline e andò per questo
a chiedere aiuto alle amazzoni. La regina, ascoltate
pazientemente le lamentele del giovane, essendo
impegnata in altre faccende più importanti, chiamò a sé
Elinai e altre sue due compagne più inesperte, di nome
Clei e Lucilla, e ordinò loro di tornare con la pelle
dell'animale.
Elinai era una giovane etrusca fatta schiava anni
prima dai Sanniti in un incursione a Fregellae; liberata da
Camilla durante il suo viaggio iniziatico verso sud, era
stata una delle prime compagne di avventura della
giovane regina. Aveva circa diciotto anni, carnagione
chiara, occhi scurissimi e capelli castani che si
allargavano sulle spalle in due lunghe trecce, corpo
atletico e snello. Del resto, nessuna guerriera di Camilla
avrebbe avuto il tempo e la possibilità di ingrassare.
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Inforcati i cavalli, la giovane etrusca con il suo arco
e la faretra a tracolla, partì al trotto verso valle insieme al
giovane contadino e alle sue compagne. La caccia al felino
durò più del previsto e le tre amazzoni tornarono con la
pelle della fiera soltanto tre giorni dopo. Tutto doveva
essere finito, ma Camilla notò alcune occhiate furtive e
dei sorrisetti celati tra Clei e Lucilla, a cui non diede però
eccessivo peso. Insolitamente, però, nelle settimane che
seguirono, Elinai aveva cominciato a uscire da sola in
ricognizione e a ritornare quasi sempre a sera inoltrata.
Camilla, incuriosita, aveva chiesto all'amica cosa la
spingesse a uscire tutte le sere, ma Elinai si era mostrata
molto evasiva.
Quel giorno, però, la giovane etrusca si era
presentata innanzi a Camilla accompagnata da Lucero.
“Camilla, mia regina e amica, so di recarti un grave torto,
ma nascondere il mio amore verso Lucero sarebbe un
torto ancor più grave che confessartelo. Ho tradito il
nostro giuramento, ma conoscere questo giovane così
onesto e leale mi ha fatto dimenticare tutti i torti subiti
nella mia vita dagli uomini. Sì, perché Lucero è davvero
un uomo, ma è diverso da tutti gli altri. Ti giuro, mia
regina, che quando sto con lui dimentico tutto il male del
mondo e mi sento bene. Le ferite che sanguinano del mio
animo all'improvviso scompaiono e mi sento felice come
non lo sono mai stata. Pur di non tradire la tua fiducia ho
provato a starne lontano, ma senza di lui mi sento come
morta. Regina mia, per il bene che provo verso di te e
tutte le altre, scioglimi dal giuramento che mi lega a voi
tutte e permettimi di sposare Lucero, l'uomo che amo. E
se, nella tua magnanimità e giustizia, ci permettessi di
rimanere nei pressi dell'accampamento, faresti di noi due
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esseri felici ed eternamente a te riconoscenti. Non voglio
perdere la tua amicizia e quella di tante compagne fedeli.”
Camilla si era sentita tradita nel profondo e la
richiesta di Elinai era stata come una pugnalata alle
spalle. Aveva avuto sempre fiducia cieca nella fedeltà e
nell'affetto dell'amica. Sentiva che la ragazza meritasse
per questo una punizione esemplare, ma le sue
appassionate parole avevano aperto una breccia nel cuore
della regina. Camilla, quindi, aveva sospeso il giudizio di
Elinai, rimandandolo al giorno successivo, per avere il
tempo di ascoltare le compagne.
Dopo aver narrato l’accaduto, la giovane riprese:
«Padre mio, sono molto confusa. La ragione mi
imporrebbe di punire Elinai come un'abietta traditrice.
Ha violato le regole. Ci ha ingannate e deve pagare. Ma il
cuore e l'affetto che provo per lei mi suggeriscono di
concederle quello che desidera. Ho salvato e portato con
me queste donne per renderle libere e per quanto
possibile felici, non posso quindi togliere loro la libertà di
scegliere il loro destino. Ma temo con questo di creare un
precedente che possa minare la disciplina del campo.
Temo, inoltre, che quell'uomo possa tradirla e umiliarla,
come sempre fanno tutti gli uomini.»
Antonio le rispose con un tono di velata tristezza.
«Camilla, sempre? Tutti gli uomini? E io cosa sono? Non
sono forse un uomo? – tacque per un attimo per dare
ancora più forza a ciò che aveva appena detto, poi riprese
-Figlia mia, non lasciarti trascinare nel vortice dell'odio
dalle tue esperienze personali. Dimentica il tuo orgoglio
ferito. L’amore è una forza straordinaria, incontrollabile.
Nessuno, una volta scatenata, è in grado di fermarla.
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Elinai non ha colpa, segue soltanto la voce del suo
cuore, e io ti invito ad ascoltare la voce del tuo. Fai tacere
la mente e ascoltalo: saprà indicarti la scelta migliore. Gli
uomini che tu hai conosciuto e che ora ti fanno odiare
tutti i loro simili, hanno fatto proprio questo errore:
hanno strappato il cuore dal loro petto e lo hanno reso
muto e sordo. Ascoltano solo il loro basso ventre, il loro
orgoglio, la loro brama di potere, diventando peggio delle
bestie. Rifletti su ciò che ti ho detto stasera.»
Fece una breve pausa e poi riprese.
«Ora figlia mia, torna sulla collina, guarda in silenzio il
sorgere del sole, placa la tua mente e ascolta il tuo cuore;
così saprai decidere da regina quale sei.»
L’indomani, con il sole alto nel cielo, sul grande
piazzale dell’accampamento c'era grande fermento. Tutte
le amazzoni, compresa Elinai, erano riunite e discutevano
animatamente riguardo alla delicata questione all'ordine
del giorno. Arrivò quindi Camilla. Tutte le fecero strada.
Salì in piedi su un gradino, fece un solo cenno e tutte
zittirono. Fu in un rispettoso e totale silenzio, che la
regina, con tono solenne, iniziò a parlare :
«Sorelle mie, noi tutte inseguiamo un sogno di pace e di
giustizia. Tutte noi abbiamo conosciuto la sofferenza a
causa degli uomini, ma noi non cerchiamo vendetta,
bensì pace. – tacque un momento, guardando negli occhi
Elinai - Se una di noi, per mezzo di un uomo, può essere
felice e trovare la pace agognata, io credo che questo sia
un bene.»
Si fermò per un attimo ancora una volta, continuando poi
in tono declamatorio.
«Se è quindi, a causa di un giuramento da noi stesse
formulato che noi la condanniamo, io, Camilla, scelta da
50
voi come vostra regina, con l’autorità che voi stesse mi
attribuite, lo sciolgo per sempre! D’ora in avanti, ci
legherà le une alle altre solo l’affetto e il rispetto che
regna tra noi. Per quello che riguarda la richiesta che la
stessa Elinai ci ha fatto, noi permettiamo a lei e a suo
promesso sposo di stabilirsi qui al Castrum, fuori le mura.
- e, rilassando il tono, aggiunse - Ordino inoltre, a Elinai e
Lucero di invitarci tutte al banchetto del loro
matrimonio!»
Cosi dicendo, Camilla scese dal gradino dove era salita e
abbracciò a lungo la commossa Elinai. Tutte le amazzoni
scoppiarono in un urlo liberatorio abbracciandosi l’una
con l’altra. Quel giorno fu ricordato a lungo da tutti i
presenti e rinforzò come non mai il carisma e
l’ascendente che Camilla aveva presso il suo piccolo
esercito. Annunciò anche una profonda trasformazione
che nemmeno la giovane volsca poteva comprendere
appieno: Camilla ormai non era soltanto la regina delle
sue amazzoni, ma stava diventando la regina di un
popolo.
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52
XIII L'incursione dei
Bruzi
Avanzavano guardinghi nel bosco, a ventaglio, nascosti
dalla nebbia mattutina che avvolgeva ogni cosa, silenziosi
come fantasmi.
Era una numerosa banda di Bruzi in cerca di
bottino e schiavi. Erano molto lontani dai loro
insediamenti, ma evidentemente la fame e il miraggio di
un facile bottino li avevano spinti fin là. Nella notte
appena trascorsa, con un abile incursione, avevano colto
di sorpresa il manipolo di guerrieri Volsci stanziati di
guardia su Montenero, trucidandoli. La valle ormai
sguarnita era nelle loro mani. Dopo aver fatto strage degli
inermi contadini, violentando le donne e uccidendo gli
uomini validi, avrebbero lasciato vivi solo i fanciulli più
robusti e le donne più giovani portandoli via con loro
come schiavi. Vestiti di pelli di capra, con la barba e i
capelli incolti, avevano tutti il volto imbrattato di fango, il
che rendeva il loro aspetto ancora più feroce. Non tutti
erano armati di spada, portavano picche, lance, asce e
clave di legno, qualcuna anche rinforzata col bronzo. Gli
esploratori che li precedevano avevano segnalato loro il
villaggio, e ora, come lupi famelici, si avvicinavano in
silenzio alla preda.
Antonio, che era uscito di casa prima dell’alba, per
cercare un agnellino scomparso la sera prima, se li trovò
davanti all’improvviso. Memore del suo passato da
53
guerriero, capì immediatamente la situazione e con
rapidità e prontezza d'animo si sdraiò subito in un
avvallamento del terreno coprendosi di foglie e rami. Fece
appena in tempo. Lo oltrepassarono quasi sfiorandolo,
ma non si accorsero di lui. Restò immobile ancora
qualche minuto, poi si alzo guardingo. Si allontanò in
silenzio per circa un altro stadio verso il “piccolo pozzo”,
poi iniziò a correre verso la collina, verso l'accampamento
di Camilla, la regina guerriera. Arrivò trafelato da sua
figlia e, con la testa che gli girava ancora per lo sforzo,
disse:
«Presto, figlia mia, i Bruzi! Hanno ucciso tutti i guerrieri
a Montenero e ora vogliono il villaggio. Salva la nostra
povera gente. Forse siamo ancora in tempo!»
Camilla rispose concitata:
«Dobbiamo intervenire immediatamente. Ho combattuto
quei selvaggi. Sono come bestie feroci, non hanno pietà di
niente e di nessuno. Distruggono e incendiano ovunque
passano, ma questa volta la pagheranno cara, non dovrà
sfuggirne nessuno. Presto, guerriere, a me!»
Camilla dimostrò l’efficienza del suo piccolo esercito, in
pochissimi minuti circa quaranta guerriere erano pronte
in assetto di battaglia. La regina, resasi conto
immediatamente della situazione, elaborò un piano
semplice ed efficace. Mentre lei e la sua cavalleria
composta da una quindicina di amazzoni avrebbero
tagliato la strada ai predoni prima del villaggio, un
gruppo di altre quindici guerriere armate di archi,
passando per il “piccolo pozzo”, si sarebbe appostato nel
bosco tra Montenero e i monti Ausoni, impedendo cosi la
ritirata ai predoni. Un piccolo terzo gruppo, composto
dalle più esperte, avrebbe raggiunto Montenero, dove
sicuramente i Bruzi avevano posto il loro accampamento;
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con cautela avrebbe eliminato le poche sentinelle lasciate
a sorvegliare i prigionieri e liberato gli ostaggi. Anche
Antonio che, ricordando la sua gioventù, aveva
impugnato la spada, avrebbe seguito il gruppo di arciere
nel bosco; un'arma in più, nel corpo a corpo, sarebbe
certo servita. Una volta assegnato i compiti a ognuna, con
la speranza di giungere in tempo, Camilla in sella al suo
cavallo, con la spada sguainata, incitò le sue guerriere:
«Sorelle mie, è giunto il tempo di sdebitarci con questa
terra che ci ha accolto a braccia aperte. Un grave pericolo
minaccia quella che ormai è diventata la nostra gente.
Ora voi tutte conoscete la ferocia di questi predoni. Ma
noi siamo guerriere e non temiamo nessuno. Mostreremo
loro con la punta della nostra spada cosa noi donne
sappiamo fare. Non daremo loro tregua e difenderemo
queste famiglie come se fossero le nostre. Non un bruzio
dovrà sfuggire! Che la dea Diana ci sia propizia!»
Detto questo, lanciò il grido di battaglia e le sue guerriere
con lei, poi giù per la valle. Il sole a est, verso le montagne
innevate, cominciava ad affacciarsi sulla valle e la nebbia
iniziava a diradarsi ai suoi raggi.
Li raggiunsero nei campi, poco prima del villaggio.
In campo aperto contro guerriere così bene addestrate le
sorti della battaglia volsero rapidamente in favore delle
amazzoni. I predoni non ebbero il tempo nemmeno di
organizzarsi e serrare i ranghi. Camilla e il suo esercito si
abbatterono come furie su quei rozzi guerrieri. La prima,
come sempre, fu l'impavida regina. Cavalcando ventre a
terra, puntò i primi due che già si erano preparati allo
scontro. Il primo era armato di spada, il secondo di clava.
I due cercavano di far passare l'amazzone in mezzo a
loro. Quello con la clava avrebbe tentato di spezzare i
garretti al cavallo e il secondo avrebbe trafitto alle spalle
55
il cavaliere. Ma Camilla, abile ed esperta quale era, evitò il
trabocchetto. Scartò con il suo cavallo all'esterno del
guerriero armato di spada e, con gesto veloce, anticipò il
fendente, staccando di netto il braccio del malcapitato e
squarciandogli parzialmente il torace. Fece poi un mezzo
giro e con uno strappo alle briglie arrestò il cavallo a una
ventina di metri dal luogo del primo impatto. Rinfoderata
poi la spada, imbracciò l'arco e incoccata una freccia,
scagliò il dardo che trafisse con un colpo in mezzo alla
fronte l'altro selvaggio che le correva incontro urlando e
brandendo minacciosamente la clava. L'uomo, lasciata
cadere la clava, tentò di afferrare la freccia con entrambe
mani, come per tirarla via, ma cadde pesantemente
all'indietro, restando immobile tra l'erba e il fango.
Immediatamente, Camilla riprese infaticabile la
battaglia che ormai si era trasformata praticamente in
una caccia all'uomo. Dopo il primo terribile impatto della
cavalleria, infatti, i Bruzi, demoralizzati, si erano dati
subito alla fuga inseguiti anche dagli abitanti del villaggio
che, allertati dal clamore dello scontro, si erano armati di
bastoni, forcole e coltellacci. Arrivati al limitare del bosco,
il gruppo dei Bruzi fuggiaschi si trovò accolto dai dardi
scagliati con precisione dalle arciere di Camilla. Fu una
carneficina. Presi tra due fuochi, incalzati alle spalle dalla
cavalleria, infilzati come selvaggina dall'alto del bosco, il
loro destino era segnato. Come promesso da Camilla
nemmeno uno dei predoni scampò alla morte. Furono
bruciati ottantasette corpi quella sera, mentre tra le file
volsche si contò un contadino ucciso e tre amazzoni ferite,
delle quali solo una gravemente.
L'urlo di vittoria di Camilla e delle sue guerriere
riecheggio a lungo nella valle, così come a lungo, in tutta
la valle del Sacco, il racconto di quell'epica giornata venne
56
narrato in ogni villaggio. Gli ostaggi liberati a Montenero,
infatti, erano frutto delle varie incursioni effettuate dai
Bruzi contro gli insediamenti sparsi a sud della valle.
Una volta liberati, molti di loro tornarono ai loro luoghi
d'origine, raccontando a chiunque incontrassero le gesta
di Camilla e delle sue guerriere. Il nome di Camilla,
invincibile guerriera e regina dei volsci, venne così
conosciuto in tutta la valle e oltre.
Quella sera, su al Castrum, il bagliore dei fuochi
era visibile in tutta la valle. I contadini e i pastori di tutti i
dintorni accompagnati dalle loro famiglie, come in
processione, si erano riversati nell’accampamento
portando ogni sorta di cibo e bevande in segno di
gratitudine. C’era allegria nell’aria. Nel grande piazzale,
attorno a grandi fuochi, si ballava e si cantava. Sugli
spiedi, succulenti cuocevano i maiali. Il popolo si sentiva
come non mai protetto e liberava spontaneamente la sua
voglia di vivere. L’aria di cameratismo e condivisione che
si era creata fece rompere gli indugi a molti giovani volsci
che, come api sul miele, ronzavano intorno alle guerriere
più belle.
La regina Camilla con Antonio, suo padre e
consigliere, sedevano su un panchetto allestito per
l’occasione compiacendosi della vista che la piazza d’armi
offriva.
«Mia Regina! - disse scherzando Antonio, accostando la
bocca all’orecchio della figlia - L’avresti mai detto? Non
avrei mai potuto immaginare che potesse accadere tutto
questo. Se fosse viva tua madre! Ora non manca che una
cosa.»
«Cosa, padre?»
«Un uomo! Un uomo degno di te che ti possa aiutare a
conservare intatto questo sogno.»
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«Padre, non c’è uomo per me e tu lo sai. Sono consacrata
alla dea. »
«Figlia mia, non parlare in questo modo. Il futuro ci è
sconosciuto. Il nostro fato è, sì, al capriccio degli dei ma,
consigliati dal cuore e illuminati dalla mente, dobbiamo
seguire sempre le nostre aspirazioni, fino a lottare con
coraggio contro il destino che non sentiamo nostro.»
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XIV Turno, re dei Rutuli
La vita scorreva serena nella valle, ormai le giovani
guerriere sentivano un forte legame di appartenenza al
territorio. La strada aperta da Elinai raccoglieva seguaci:
altre cinque nuove coppie si erano formate. Si udiva già,
fuori le mura dell’accampamento, qualche vagito di
lattante. Le abitazioni intorno al Castrum continuavano
ad aumentare di numero e Camilla, per facilitare gli
approvvigionamenti, aveva fatto allargare la strada che
portava all’accampamento che ora era percorribile anche
dai carri più grandi. Ormai gli abitanti delle terre che
andavano dall’Amaseno fino alla sponda del fiume Sacco,
proseguendo fino a Montenero e oltre, riconoscevano
Camilla come unica guida. La fama della regina amazzone
cresceva sempre più e aveva ormai valicato i confini della
grande valle del Sacco.
Un giorno giunsero all’accampamento quattro
cavalieri ben armati, che venivano da molto lontano. Il
loro abbigliamento e la fattezza delle loro armi
indicavano l’appartenenza a un altro popolo, ma la loro
lingua era comunque l'etrusco. Chiesero di incontrare
esclusivamente
la
regina.
Dovevano
riferirle
personalmente un importante messaggio: Turno, re dei
Rutuli, aveva posto accampamento venti miglia più a
nord, a Frusino8. La sua missiva chiamava a raccolta tutti
8
Attuale Frosinone
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i capi dei Volsci e degli Ernici per un grande raduno che
doveva svolgersi due giorni dopo. Turno li avrebbe
ospitati nel proprio accampamento con tutti gli onori, per
parlare di guerra e di alleanze, allo scopo di combattere
un invasore arrivato dal mare che minacciava tutta la
regione. Infatti, reduce dalla distruzione di Troia, dopo
un lunghissimo viaggio e con i favori della dea Venere,
era sbarcato alla foce del Tevere Enea con i suoi uomini.
La sera stessa, al piccolo pozzo, Camilla ne discuteva con
Antonio:
«Padre, verrai anche tu? La questione è molto grave. Si
tratta di guerra o pace. Questo nuovo invasore può
infiammare e mettere a ferro e fuoco tutta la regione. »
«Ho molti dubbi su quale sia la vera situazione e non ho
molta voglia di venire ma, se lo ritieni importante, mia
regina, verrò. »
L'indomani all'alba, Camilla e Antonio, scortati da dieci
guerriere, partirono sui loro cavalli alla volta di Frusino.
Passarono il fiume al ponte del villaggio puntando dritti
verso Nord e, dopo una lunga cavalcata, giunsero a
destinazione. L'accampamento era stato eretto in una
radura adiacente a un piccolo bosco di pioppi. Le tende,
in gran numero, erano disposte a semicerchio, al cui
centro numerosi guerrieri erano raccolti attorno a un
tavolo. Venne incontro al drappello volsco un guerriero,
non più di giovane età, ma di aspetto vigoroso e austero,
il cui abbigliamento denotava la nobile origine. Con tono
gentile ma autoritario, disse:
«Benvenuti all'accampamento di Turno, re dei Rutuli. Io
sono Volcente, uno dei suoi luogotenenti. Impastoiate i
cavalli e seguitemi, tutti i capi sono già arrivati.»
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Legati i cavalli ai margini della radura, si avviarono
assieme al centro dell'accampamento.
«La fama della tua abilità guerriera e della tua giovane
età ti hanno preceduto, regina dei Volsci. – disse Volcente
rivolgendosi a Camilla - I racconti delle gesta tue e della
tua cavalleria amazzone sono giunti molto a Nord, fino ai
nostri villaggi. Ora, vi prego di prendere posto insieme
agli altri capi. »
Così dicendo, il guerriero si avvicinò all’estremità del
tavolo dove era seduto Turno per annunciare l'arrivo di
Camilla.
Leggenda narra che Turno fosse un semidio, e a
vederlo c'era da crederlo. Alto, bello e possente, mostrava
trent’anni, o poco più. Le spalle muscolose erano
adornate da lunghi capelli neri e i suoi occhi vividi
splendevano come due smeraldi sul volto abbronzato; il
naso era dritto e regolare, e una corta barba color della
pece metteva in risalto le labbra carnose. Indossava una
tunica lunga fino ai piedi del colore dei suoi occhi e un
pugnale con il manico d'oro era infilato in un cinturone di
pelle lento sui fianchi. Un drappo di tela nera, tenuto da
due spille d'oro, ricadeva dalle spalle, avvolgendogli le
braccia.
Alzandosi in piedi, prese la parola e, con voce
forte, si rivolse all’adunata:
«Nobili guerrieri! Forse alcuni di voi già sono a
conoscenza del motivo per il quale vi ho chiamati a
raccolta! Tempo fa, è sbarcato sulla costa, a un giorno di
cavallo verso Nord, un guerriero di nome Enea. Profugo
di una città d’oltremare, il re Latino ha concesso a lui e
alla gente del suo seguito il permesso di abitare i suoi
confini. Ma, come spesso accade, il fuggiasco ha abusato
dell'ospitalità concessagli, e ora sta attentando alle nostre
61
terre e alle nostre donne. In questo stesso momento, sta
combattendo contro di noi verso Nord, e ha mostrato
l’intenzione di allearsi con gli Etruschi. Vedete bene che,
se domani ne usciremo sconfitti, non farà altro che
allargare le sue mire. - tacque per un attimo, per
riprendere con maggior impeto - Le belve vanno uccise da
piccole, perché da grandi saranno un pericolo per tutti!
Lascerete noi, Rutuli e Ausoni, a combattere da soli
l'invasore? Ecco, io vi propongo una grande alleanza per
ricacciare in mare questi serpenti prima che possano
prosperare e distruggere noi e le nostre genti. »
Un brusio si alzò da tutta l'assemblea. Seguirono gli
interventi di alcuni capi Volsci ed Ernici, che chiedevano
informazioni più dettagliate riguardo ai Troiani, e la
discussione si perse in mille rivoli. Mentre ascoltava,
Camilla osservava attentamente la platea e fu colpita da
un bel giovane dalla chioma bionda e dagli occhi del
colore del cielo, che si trovava accanto al guerriero che li
aveva accolti al loro arrivo. Il sole volgeva al tramonto e,
ormai stanchi e affamati, si stabilì di continuare la
discussione il giorno seguente. I fuochi erano già accessi e
l'odore di carne messa ad arrostire già si spandeva
intorno. Camilla, Antonio e le guerriere allestirono
rapidamente le loro tende e si ritirarono.
Appena entrate in intimità, mentre si liberavano
delle loro armi, le giovani fanciulle iniziarono a lodare
entusiaste la bellezza e il fascino di Turno. Camilla,
annoiata da quei discorsi, uscì contrariata dalla tenda;
Antonio sedeva fuori, pensieroso.
«Cosa ne pensi, padre? Sei d’accordo con Turno riguardo
gli invasori? »
«Invasori? Chi è l'invasore, figlia? Non sono forse
invasori gli Etruschi, che si stanno insediando lentamente
62
in tutto il Lazio, e i Bruzi, che scendono a valle in cerca di
cibo? O questa gente, in cerca di una terra per vivere?
Non lo è forse Turno, che cerca vite da mandare al
macello per difendere il suo potere?
Non so dove è il giusto, Camilla. Quali diritti
ognuno può invocare sulla terra in cui vive? Quando si
muore si lascia tutto, e la terra che credevi tua passa in
mano a un altro. La terra è di chi se ne prende cura, la fa
vivere e fruttare. Prima di prendere una decisione
riguardo alla guerra, bisogna riflettere seriamente sulle
conseguenze che essa comporta. Inoltre, sono convinto
che vi siano altre motivazioni, certo più personali,
nascoste dietro la rabbia ardente che ci ha mostrato re
Turno. »
Camilla replicò:
«Forse hai ragione. Turno non mi è parso sereno, come
invece è richiesto a un vero sovrano, per quanto possibile:
la lucidità è fondamentale per saper prendere le migliori
decisioni per il proprio popolo. Per quello che mi
riguarda, l'unica cosa certa è che quell'Enea è scaltro
come una volpe. Accidenti! È davvero una questione
spinosa! Ho una gran confusione in testa. Qui ci vuole
una camminata per schiarirmi le idee. Tu fai un giro nel
campo, e tieni orecchie e occhi bene aperti. Ogni
informazione può essere utile per capire meglio la
situazione. »
Detto questo, Camilla prese il mantello e si inoltrò a piedi
nel bosco di pioppi. Di lì a poco, incrociò un ruscello e si
mise a sedere sulle sue sponde a pensare.
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XV L'incontro
Era davvero una bella giornata. Il sole non era ancora
tramontato e l’aria si era tinta di rosa. Camilla, intenta a
riflettere sulla complicata situazione, osservava
distrattamente il vermiglio del cielo che si rifletteva
nell’acqua spezzandosi in rivoli d'argento.
All’improvviso, si girò di scatto, portando le mani
alla spada. Gli uccelli avevano smesso di cantare e la
foresta si era fatta improvvisamente silenziosa. La
cacciatrice conosceva perfettamente il significato di
questo silenzio: qualcuno stava avvicinandosi. Con la
spada stretta nel pugno stava alzandosi per controllare i
dintorni, quando una voce maschile si levo da dietro un
albero:
«Pace! Sono venuto in pace! La guerra è ancora lontana!
Non so per quanto tempo, ma è ancora lontana. Scusami
se mi sono avvicinato senza preavviso. Ti ho vista
preoccupata al campo: è un problema comune, del resto,
e mi farebbe piacere conoscere la tua opinione in merito.
Non è mai facile prendere delle decisioni tanto importanti
da cui dipende il bene di tutti. »
La voce prese corpo. Il guerriero biondo, che Camilla
aveva notato durante l’assemblea dei capi, si fece avanti
sorridendo. La giovane aggrottò le ciglia, rimanendo
ancora sulla difensiva; lui proseguì come se non se
accorgesse, avvicinandosi ulteriormente.
64
«So cosa provi. – il ragazzo parlava con voce tranquilla È difficile decidere quando si può causare morte e dolore.
E' bene, in questi casi, prendere tempo; cercare di capire,
riflettere a lungo. Pesare ogni azione, ogni parola. È
sempre arduo governare con giustizia, ma, in alcuni
momenti, il compito diventa ancora più gravoso, non è
così?»
Non ricevendo risposta alcuna, continuò con tono allegro:
«Tu sei Camilla, l’amazzone regina dei Volsci, vero?
Volcente, mio padre, mi ha parlato di te. Io sono Camerte,
e mi onoro di guidare e servire il popolo Ausono di
Amyclae. Sono felice di incontrarti! Devo ammettere che
indubbiamente rendi giustizia alla tua fama, sei davvero
molto giovane e bella come si racconta! – e, seriamente,
aggiunse - Forse davvero troppo giovane per avere sulla
spalle la responsabilità di una decisione così importante
per il destino di un popolo. »
Camilla rimase per un attimo perplessa. Quell'uomo
aveva letto nei suoi pensieri. Non è facile essere regina,
soprattutto se si vuole essere una buona regina.
Camerte si sedette non distante da lei e, guardandola
diritta negli occhi, aggiunse:
«Non sentirti inadeguata. In frangenti come questi, solo
gli incoscienti hanno subito le idee chiare. Anche io sono
confuso. Ho parlato con capi molto più anziani ed esperti
di noi e mi hanno palesato gli stessi dubbi. Re Turno
domani dovrà trovare ragioni più convincenti. Sei
d'accordo con me?»
Camerte era un bel guerriero di circa venticinque anni,
alto, di carnagione chiara. Indossava un paio di brache di
pelle conciata lunghe fino al ginocchio, con sopra una
corta tunica di tela di colore rosso. Al suo fianco,
pendeva una corta spada di bronzo, con un’impugnatura
65
finemente lavorata. Forse erano quegli occhi color di cielo
che sembravano leggere nei suoi pensieri a distrarla, o
forse era solamente la stanchezza del viaggio, ma
indubbiamente Camilla si sentiva stordita e incapace di
formulare una risposta. Il buon odore che proveniva
dall'uomo e quel suo sorriso franco e schietto l’avevano
come incantata. Senza trovarne una ragione, Camilla
provava una certa inquietudine. Si sarebbe certamente
sentita più a proprio agio se si fosse trovata ad affrontare
il giovane in battaglia spada in mano.
«E' raro incontrare una guerriera tanto famosa quanto
bella. – riprese Camerte - Mi piacerebbe conoscere la tua
storia, quella vera. Se ne raccontano tante sul tuo conto.
Ora che ho avuto la fortuna di incontrarti di persona,
vorrei conoscere la verità su di te. Sempre se hai voglia di
raccontarla, naturalmente.»
Il modo di fare del giovane le piacque e, rinnegando le
proprie abitudini che la rendevano scontrosa quando si
parlava di lei, Camilla accettò la proposta.
Parlarono a lungo. Dopo i primi momenti di
imbarazzo, Camilla si tranquillizzò, come se conoscesse
quel giovane da sempre. Camerte continuò a mostrarsi un
interlocutore attento e sensibile. Fu dopo molto tempo
che i due sentirono i morsi della fame, ma ormai la luna
era alta nel cielo e per il pasto avrebbero dovuto
arrangiarsi.
«C'è luna piena, l'aria è tersa e si vede come se fosse
giorno – disse Camerte - Mostrami come cavalca una vera
amazzone volsca, io cercherò di non essere da meno. »
Quando si trattava di fare un giro a cavallo Camilla non si
tirava mai indietro, soprattutto quando c’era aria di sfida.
Si avviarono a passo svelto verso i cavalli
impastoiati. Camerte disse qualcosa alla sentinella e via, a
66
cavallo verso i campi e i boschi della pianura frusinate.
Antonio che era fuori, seduto all'ingresso della sua tenda,
mentre li vedeva andare via pensò quanto fosse bella sua
figlia coi i suoi capelli neri al vento, al galoppo sul suo
cavallo bianco. Faceva coppia perfetta con il giovane che,
biondo, cavalcava al suo fianco sul suo nero stallone. Il
pastore si compiacque non poco e pregò gli dei
dell'Olimpo affinché concedessero pace e serenità al
cuore di sua figlia e, perché no? la felicità domestica di
una propria famiglia.
Camilla e Camerte tornarono sereni e scapigliati.
Quelle poche ore passate insieme avevano fatto
scomparire i venti di guerra e le loro responsabilità.
Camminavano l’uno accanto all'altro, tenendo i cavalli
per le briglia.
«Io continuo a non essere molto favorevole a questa
guerra – disse il giovane - Eppure, se mio padre mi
chiederà di combattere al suo fianco, lo seguirò.
È stato un vero piacere incontrarti, regina dei Volsci,
popolo fortunato. »
Si guardarono un’ultima volta negli occhi ed entrambi
sorrisero. Il giovane poggiò per un attimo la mano sulla
spalla della ragazza, poi si girò e a passo svelto raggiunse
la sua tenda. Mentre Camerte rientrava in tenda, Camilla
si fermò un attimo a guardarlo. Quel giovane aveva
scosso non poco le sue convinzioni sugli uomini. Rientrò
anche lei sotto i teli e si lasciò cadere come un sasso.
Sdraiata, ripensò per un attimo a Camerte, a suo padre e
alle sue parole riguardo agli uomini, ma era troppo stanca
e cadde in un sonno profondo.
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XVI La bufera
L'indomani, prima che rincominciasse l'assemblea,
Antonio riferì a Camilla ciò che aveva sentito di
interessante la sera precedente. Sembrava che Turno
avesse una forte rivalità personale con Enea, per la
questione di un matrimonio. Turno avrebbe dovuto
sposare Lavinia, la figlia di Latino, in accordo con la
regina madre. Per sigillare l’alleanza con Enea, però, il re
aveva rinnegato la parola data: offrendo Lavinia al
principe troiano, e l’orgoglioso re dei Rutuli non poteva
incassare il colpo senza cercare vendetta. Queste vicende
spiegavano il forte risentimento di Turno nei confronti di
Enea.
Il dibattito riprese poco dopo, ma le opinioni
continuavano a essere contrastanti. Nonostante tutti gli
sforzi oratori di Turno, molti dei capi erano titubanti.
Così, per scongiurare sul nascere una sconfitta politica, il
re e i suoi luogotenenti approfittarono di un minaccioso
temporale, che si stava avvicinando velocemente
all’orizzonte, per sciogliere l'assemblea.
L’appuntamento successivo fu fissato nello stesso
luogo la luna seguente, per dare a ognuno il tempo di
riflettere attentamente consultando gli anziani del
proprio popolo. Turno aveva stabilito questo lungo
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intervallo prima del nuovo incontro con l’intenzione di
contattare singolarmente i capi più importanti nei loro
insediamenti, nella speranza di indurli alla lotta. Era
convinto che questi, con il loro ascendente, avrebbero
trascinato alla guerra anche i capi minori.
Nel frattempo, nel campo si era alzato un
fortissimo vento. Le nubi scure avevano avvolto tutta la
valle. I cavalli impastoiati scalpitavano nervosi e la
polvere si alzava turbinando. Nel campo, tutti si
affrettavano a levare le tende o a rinforzare il legacci di
cuoio che le tenevano a terra; quello che si avvicinava
sembrava piuttosto una bufera che un semplice
acquazzone. Camilla, le guerriere e Antonio furono pronti
in un lampo e decisero di avviarsi immediatamente. Il
loro castrum non era che a poche ore di cavallo e il
temporale non li avrebbe certo fermati. Con la scusa del
temporale in arrivo si congedarono da Turno e da
Volcente quando erano già in arcione, scambiando con
loro solamente un brevissimo saluto. Solo per un attimo,
prima di partire al galoppo, Camilla si guardò intorno in
cerca di Camerte, ma il turbinio della polvere e il caos che
regnava in quel momento nel campo impedivano ogni
visuale. Senza indugio, la regina piantò i talloni nei
fianchi del suo cavallo, che si avviò galoppando a briglie
sciolte verso casa.
Avevano da poco superato l'agglomerato di
Fabrateria quando li raggiunse quella che era davvero
una fortissima bufera. Le nubi erano così basse, dense e
scure che sembrava fosse piombata improvvisamente la
notte. La pioggia sospinta dal vento sembrava che cadesse
parallela alla terra. I cavalli, nervosissimi, spaventati dai
lampi e dai tuoni che si susseguivano a un ritmo
impressionante, rischiavano ogni attimo di imbizzarrirsi e
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di disarcionare il proprio cavaliere. A quel punto, Camilla
decise di fermare il drappello. Giunti nei pressi di un
gruppo di querce secolari, ai piedi di una piccola
collinetta, la giovane regina scelse per la sosta il lato più
riparato dal vento. Subito dopo i cavalieri scesero dai
loro nervosi destrieri, li fecero sdraiare in terra coprendo
loro gli occhi e le orecchie con delle pelli, per accucciarsi
successivamente insieme a loro. Il vento fischiava nelle
loro orecchie in maniera assordante. Ancora un attimo e
si scatenò il finimondo. Insieme all'acqua e alle foglie che
turbinavano nell'aria, volavano pericolosamente anche
grossi rami e piccoli tronchi. All’improvviso, si sentì un
boato tremendo accompagnato da una luce abbagliante:
una quercia a un centinaio di piedi su per la piccola
collina era stata colpita da un fulmine e, spezzata,
bruciava. Camilla e le ragazze, anche se avvezze alla
battaglia, erano alquanto scosse. Antonio attribuì a quel
fulmine un significato di cattivo presagio, ma si guardò
bene dal confidarlo a sua figlia. Poco dopo, con la stessa
rapidità con cui era arrivata, la bufera si spostò verso
ovest, proseguendo la sua corsa verso il mare. Aveva
lasciato dietro di sé un paesaggio desolante: rami
spezzati, arbusti e alberi divelti. Il sentiero che
attraversava il bosco e che portava al ponte era ridotto a
una melma appiccicosa, ma il peggio era decisamente
passato e il drappello, montate di nuovo le cavalcature,
riprese lentamente la via verso casa.
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72
XVII Il Re di Amyclae
Alcuni giorni dopo, al Castrum la vita sembrava fosse
tornata a scorrere come prima, ma solo in apparenza.
Camilla, infatti, non aveva ancora affrontato con Antonio
la questione posta da Turno. Aveva ancora tempo per
decidere, ma era consapevole che in questi casi il tempo
passa molto in fretta. Sapeva di essere in contrasto con
l'opinione di suo padre e stava in realtà rimandando con
ogni scusa il momento del confronto, nell'illusoria
speranza che qualcosa o qualcuno l'aiutasse a prendere
una decisione definitiva. La giovane passava gran parte
della giornata a cavallo cacciando. Ritornava spesso,
però, a mani vuote, cosa che non sarebbe mai accaduta in
altri momenti. Si sentiva irrequieta e insofferente. Ogni
cosa le sembrava inutile. Si irritava per un nonnulla e la
consapevolezza di questa situazione la rendeva ancor più
irritabile. In cuor suo, intuiva il perché di questo suo stato
d'animo. Per qualche ragione a lei sconosciuta, il biondo
re di Amyclae si era insinuato come un tarlo nella sua
mente e faceva una fatica tremenda a scacciarlo. Cercava
di distrarsi in tutti i modi, esercitandosi al combattimento
con le migliori sue guerriere, tirando con l'arco,
cavalcando a lungo fino a sentirsi sfinita, ma, anche
quando pensava di essersene liberata, l’immagine di
Camerte tornava prepotente alla sua mente. Tutto questo
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era per lei inaccettabile. La sua serenità non poteva e non
doveva essere condizionata o turbata da nessuno, a
maggior ragione da un uomo. Così, Dopo qualche giorno,
al perdurare di questa situazione, Camilla, sempre più
inquieta, aveva deciso di confidarsi con Antonio. Sapeva
che a quel punto avrebbe dovuto affrontare anche la
spinosa questione della “guerra personale di Turno”,
come il padre l'aveva chiamata al ritorno.
Era passato mezzodì, quando la sentinella che
sorvegliava la valle verso Nord-Est lanciò l'allarme: un
numeroso gruppo di cavalieri armati si accingeva a salire
il colle. Tutte le guerriere furono allertate, le sentinelle
raddoppiate. Camilla decise, inoltre, di mandare
immediatamente due esploratrici a cavallo a osservare da
vicino il drappello di guerrieri. Raccomandò loro di
ritirarsi immediatamente al minimo accenno di ostilità da
parte degli sconosciuti. La regina rimase insieme alle
sentinelle a osservare i movimenti del drappello, le cui
intenzioni si mostravano chiare: quei cavalieri stavano
salendo al Castrum. Camilla ordinò di avvisare i popolani
fuori le mura; in caso di ostilità tutti quanti si sarebbero
dovuti trasferire all'interno delle fortificazioni. Nel
frattempo, il drappello scomparve alla vista delle
sentinelle, inghiottito dal bosco situato ai piedi della
collina. Erano ormai tutti sull'allerta, quando ecco
arrivare le due esploratrici accompagnate da un terzo
cavaliere. Camilla si affacciò immediatamente dal
roccione e dall'alto subito riconobbe la bionda chioma di
Camerte e sorrise divertita.
«Tutti calmi, sono amici. - si affrettò a gridare Camilla Potete tornare alla vostre faccende con tranquillità.»
Camerte aveva creato un gran trambusto ancor prima di
arrivare.
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«Aprite i cancelli!» ordinò.
Qualche minuto dopo, fatto il giro della roccaforte, ecco
entrare al trotto il re di Amyclae. Sceso da cavallo con un
balzo, con un gran sorriso sulle labbra si rivolse a
Camilla:
«Non sarei mai potuto tornare a casa senza aver visitato
la tua famosa grotta! »
Camilla era scesa incontro al cavaliere per rimproverarlo
aspramente, ma di fronte a quel sorriso aperto e sincero
ogni sua intenzione bellicosa scomparve. Anzi, in cuor
suo era combattuta tra l'essere contenta di vederlo e
l’irritazione per il fatto di esserlo, così rispose:
«In quel di Amyclae non si usa annunciarsi con gli
esploratori? Avrei potuto falcidiare la tua cavalleria con le
mie arciere. Con questa tua visita improvvisa e
inaspettata hai generato non poca apprensione. La paura
della guerra aleggia nell'aria, e ogni gruppo armato mette
in allarme la nostra povera gente. Comunque, visto che
ormai sei qui, che tu sia il benvenuto! Quali sono le
ragioni della tua visita? »
«Mia Regina, purtroppo mi conducono venti di guerra.
Mio padre mi ha chiesto esplicitamente di partecipare
alla guerra contro Enea. Sono contrario a essa, come sai,
ma non ho potuto dire di no. E' stato lui che mi ha
suggerito di tornare a casa passando all'interno degli
Ausoni, per cercare di convincere anche te a entrare
nell'alleanza contro Enea. Ma la ragione principale per la
quale sono qui - prese tra le sue forti mani quelle di
Camilla, che sorpresa del gesto non le tirò indietro - è che
mi devi una cena, quella che mi hai costretto a saltare a
Frusino. »
Camilla sorrise divertita.
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«Cena? Certamente! Ma, per punirti per il trambusto che
hai creato, sarà un pasto frugale: pane formaggio e
legumi. Questa sera si cena dal “saggio”, così conoscerai
mio padre. Adesso seguimi, ti mostro la mia “famosa
grotta”, come la chiami tu. Sei venuto per questo, no? »
Camilla continuava a essere combattuta. Si sentiva bene,
ma assolutamente rifiutava il concetto che quell'uomo
potesse influire così pesantemente sul suo umore, e
questi ragionamenti la contrariavano alquanto.
Mentre seguivano il viottolo che portava alla grotta,
Camerte interruppe il silenzio:«Cosa hai? Vedo un'ombra
sul tuo viso. »
Camilla rimaneva sempre stupita dalla capacità di
quell'uomo di cogliere ogni espressione del suo volto;
talvolta, sembrava sapesse davvero leggere nella sua
mente.
Nella grotta l'arredamento era cambiato: dei drappi
pendevano ora dalle pareti insieme alle pelli delle fiere
uccise dalla cacciatrice e avevano fatto la comparsa un
tavolo e degli sgabelli.
«Siediti, parlami della situazione a Nord, immagino tu
abbia notizie fresche. Dove si trova Turno?», soggiunse la
ragazza.
Seduti una di fronte l'altro, Camerte raccontò a Camilla
gli ultimi avvenimenti. La situazione stava precipitando.
Enea si era alleato con Cere, una città etrusca, governata
una volta da Mezenzio, che ora era diventato alleato di
Turno. Messalo con i Flasci, Clauso con i Sabini, Ebalo
con i Campani, tutti in quel momento stavano muovendo
verso l'accampamento dei Troiani.
«Non possiamo più aspettare. L'incontro a Frusino non
avrà più luogo. Ormai è guerra. Turno ha già posto sotto
assedio il campo troiano e dato fuoco alle loro navi. Tutta
76
la regione è coinvolta. I miei Ausoni sono in guerra, e io
passerò per Amyclae a raccogliere il resto dei miei
guerrieri e raggiungerò mio padre e Turno. »
«Ne parleremo stasera con mio padre - rispose Camilla
preoccupata - È il mio fidato consigliere, rimandiamo
perciò a stasera ogni discussione. Ora seguimi, voglio
mostrarti il resto del Castrum. Ormai sta diventando un
piccolo villaggio: il mio sogno di dare una vita nuova e
dignitosa alle mie sventurate compagne sta diventando
una realtà. »
I due passarono un pomeriggio sereno. Camilla illustrò a
Camerte i suoi progetti per il Castrum, e il giovane
sovrano, avvezzo a questo genere di problemi, contribuì
con dei suggerimenti preziosi. All'imbrunire si avviarono
verso il “piccolo pozzo”.
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XVIII La cena
Con due lumi accesi e legna abbondante sul fuoco,
Antonio accolse i due giovani sovrani. Per niente
intimidito dalla presenza di Camerte, il pastore servì,
come annunciato da Camilla, una cena molto frugale; ai
suoi occhi, il giovane re era poco più di un ragazzo. Gli
unici lussi sfoggiati in onore del figlio di Volcente erano
appunto il doppio lume e una grossa fiasca di vino sul
tavolo. La cena, anche se appetitosa, era composta da
povere cose: legumi, formaggio, focacce a volontà, che i
due ragazzi mostrarono comunque di gradire molto.
«Dopo questa cena dovrò reintegrare le scorte di cibo per
l'inverno.», disse Antonio scherzando.
«Domani manderò Clelia con il carro grande, anzi, dato
che ci sono, ti manderò anche una coppia di maiali. Non
vorrei che questo inverno debba rimanere orfana e senza
consigliere a causa di questa cena.», rispose Camilla,
stando al gioco. I tre sorrisero allegramente; non c'era
nulla di meglio per rinsaldare il cameratismo che
condividere il pasto.
Finita rapidamente la cena, dopo due lunghe
sorsate di vino che tutti apprezzarono, i tre si misero sulla
panca intorno al fuoco e il discorso si incentrò su Enea,
Turno e la guerra incombente. Camerte e Antonio si
trovarono quasi d'accordo su tutto: per entrambi, il
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conflitto si sarebbe potuto risolvere concedendo maggiori
terre ai Troiani. Inoltre, era convinzione comune che
l'ambizione e l'orgoglio di Turno avrebbero portato molti
lutti inutilmente. I Troiani, infatti, alla lunga sarebbero
stati riassorbiti dalle popolazioni limitrofe e forse uno
scambio di donne avrebbe potuto risolvere il problema in
maniera incruenta.
A
queste
parole,
Camilla
si
inalberò,
rimproverando aspramente ai due di non considerare le
donne come esseri umani, ma come merce di scambio.
Camerte, chiedendo scusa a Camilla per averla offesa,
aggiunse:
«A volte, purtroppo, è necessario trovare delle soluzioni
efficaci per il bene di molti sacrificando i pochi: un simile
scambio sarebbe accettabile, se servisse a evitare una
guerra. Del resto, ormai è troppo tardi.»
Antonio si mostrò perfettamente d’accordo con Camerte,
ma Camilla era fuori di sé.
«Sacrificatevi voi! Metteremo Enea e i Troiani di fronte
alla legge della spada!»
«Stiamo discutendo per niente. Purtroppo la guerra è già
in corso. - riprese Camerte - Come ti ho spiegato, domani
andrò a ingrossare le fila dell'alleanza contro Enea
insieme a mio padre. Tu e la tua cavalleria sarete dei
nostri? »
Antonio intervenne prima che Camilla potesse
pronunciarsi:
«Camilla, ascolta bene. Come consigliere e come padre,
per il bene tuo e del tuo popolo, come regina e come
figlia, ti imploro di non partecipare a questa follia. Non si
può andare contro il volere degli dei ed è chiaro che Enea
gode dei loro favori. Nel corso della mia vita ho visto
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molte guerre e so bene che portano solo morte e
distruzione.»
«Mi dispiace essere in disaccordo con te. – disse Camilla
rivolgendosi duramente al padre - Io sono la regina, e in
onore del popolo che ho sempre servito e per la sua
difesa, darò il mio contributo alla sconfitta di Enea. Quasi
tutte le popolazioni della nostra regione sono alle armi
contro i Troiani. Enea non ha scampo e torneremo presto
vittoriosi. Non intendo più discuterne. »
L'atmosfera si era fatta pesante e Camerte,
consapevole del conflitto interiore dei suoi commensali,
ringraziò dell’ospitalità e si congedò. L’indomani
sarebbero partiti all’alba e aveva bisogno di riposare.
Camilla lo seguì per accompagnarlo all’accampamento.
Come annunciato, il giorno dopo prima dell'alba,
Camerte e i suoi guerrieri lasciarono il territorio
dirigendosi verso il mare. Padre e figlia non si
incontrarono. Antonio rimase ai suoi campi e ai suoi
armenti, mentre Camilla al castrum organizzava il suo
piccolo esercito di amazzoni. Mandò messaggeri a
Fabrateria e ai villaggi vicini a reclutare guerrieri. Entro
due giorni sarebbero partiti verso Nord-Ovest per
raggiungere re Turno e i suoi alleati sui campi di
battaglia.
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82
XIX La profezia
La sera successiva, fu Antonio che si presentò da Camilla.
Prima che partisse per la guerra, l’avrebbe portata con sé
per un ultimo viaggio, un viaggio nel passato.
Partirono dal “piccolo pozzo” la mattina dopo a
cavallo, verso Sud. Si inoltrarono al trotto nel bosco tra
Montenero e gli Ausoni. La compagnia era silenziosa, la
tristezza attanagliava entrambi. Percorse una decina di
miglia nel bosco, piegarono leggermente verso Est. A un
certo punto, incominciarono a salire. La vegetazione
cambiò repentinamente: il terreno diventò brullo e
roccioso dando spazio solo a piccoli arbusti. Dopo poco,
dietro un avvallamento, si trovarono davanti un bosco di
allori.
«Scendiamo da cavallo. - disse Antonio- D'ora in avanti
andremo a piedi. Questa è terra sacra.»
Camilla senza dire nulla obbedì e seguì il padre. Il mistero
di questo viaggio incominciava a incuriosirla, ma non
osava interrompere i pensieri del padre che, scuro in
volto, continuava ad avanzare. Antonio si fermò
indicando un giovane albero di alloro.
«Spezzane un piccolo ramo e conservalo, ma non toccarlo
con le mani. Usa la tunica per prenderlo.»
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Presero poi uno stretto sentiero che rincominciava
a scendere. L'aria all'improvviso incominciò a farsi gelida,
tanto gelida da evidenziare il respiro. Trovarono in fondo
al sentiero un’alta parete di roccia e si infilarono in una
stretta apertura che si apriva dinanzi loro, da dove
proveniva nitido il mormorio di un ruscello. Poco dopo,
infatti, si trovarono di fronte a un piccolo lago. Antonio si
spinse nell’acqua, che arrivava appena alle caviglie, ma
era tremendamente gelida, e fece cenno a Camilla di
seguirlo. Verso l'altra sponda del laghetto, il ruscello si
addentrava nella roccia. Ne seguirono il tracciato
risalendo la leggera corrente fino a una caverna, dalla
quale sgorgava l'acqua che lo alimentava. La grotta aveva
una grande apertura e dei rozzi scalini si inoltravano in
essa. Ai bordi dei gradini, strani simboli coperti da
muschio erano incisi nella roccia, ormai quasi cancellati
dal tempo. L'alto ingresso era completamente in
penombra; dal soffitto pendevano numerose stalattiti
gocciolanti. Entrarono in silenzio, accompagnati soltanto
dal rumore dello scorrere d'acqua. Percorsero un
centinaio di piedi di un sentiero scavato nella roccia. In
alto, da alcune fessure, proveniva una fievole luce,
necessaria a illuminare il percorso. Svoltarono e,
abbandonando il ruscello sotterraneo, si trovarono di
fronte l'ingresso di un enorme antro. Antonio a quel
punto si fermò. Comunicò a bassa voce alcune istruzioni a
Camilla ed entrarono. Al centro c'era un altare di pietra,
dietro il quale si intravedeva una massa oscura in
movimento. Una voce antica e tremante, che sembrava
provenisse da un oltretomba, li apostrofò:
«Cosa siete venuti a fare nel tempio della sanguinaria? »
«Chiedo oracolo!»gridò Camilla.
«Chiedo fuoco e sangue!» Replicò la voce.
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Antonio prese la pietra focaia e, con gesti rapidi e soffio
leggero, diede fuoco all'esca.
C'era al centro della grotta di fronte all'altare una
pozza di un liquido denso e nero, che il pastore infiammò.
Le fiamme si alzarono alte e illuminarono intorno. La
caverna era talmente ampia che non se ne scorgevano i
limiti. Il forte fuoco dal fumo denso e acre riusciva ad
illuminare solamente l'altare che sembrava sospeso nel
buio. I lampi rossastri del fuoco si riflettevano
sinistramente sui volti di Antonio, Camilla e della
sacerdotessa. Da un mucchio agitato di stracci neri e
logori uscivano, infatti, due mani luride e nodose con
unghie ricurve e nere di putridume.
La vecchia allungò la mano verso Camilla. La
ragazza porse, avendo cura di non toccarlo con le mani, il
ramo di alloro che aveva conservato. La sacerdotessa
prese di scatto il ramoscello, rimanendo con le braccia
tese verso Camilla. Al bagliore rossastro del fuoco, la
ragazza prese la sua spada con una mano e lentamente la
passò di taglio sul palmo dell'altra. Una striscia vermiglia
comparve immediatamente. Lasciò sgocciolare il sangue
che sgorgava dalla ferita sulle foglie d'alloro. Rinfoderò la
spada e strinse forte il pugno della mano ferita contro il
lembo della sua tunica. La strega ritirò il ramo così
bagnato e, staccandone le foglie una a una, iniziò a
masticarle. Iniziò ad agitarsi sempre di più. A un tratto, si
piegò su se stessa e iniziò a rantolare; poi, scattò in piedi
e con sibilo emise la profezia.
85
«Il grande anno è alla fine.
La dea madre ha compiuto il suo tempo.
Sono finiti i riti di sangue,
la centesima luna è arrivata,
e tu sei Camilla,
figlia di Camilla,
figlia di Camilla.
Ultima di una stirpe di regine guerriere
degne figlie della dea madre.
Sul ventre tu hai posto una spada.
il tuo nome è già grande
e nei tempi così resterà.
Lotterai con la lupa,
ma stai attenta:
ai suoi figli nessuno attraversi la strada. »
Detto questo, emanò un ultimo rantolo e come un sacco
vuoto si accasciò sulla roccia. Camilla fece un passo verso
di lei per aiutarla, ma Antonio la bloccò con un urlo :
«No! Ferma, non toccarla! »
Dal buio fondo della caverna avanzarono come spettri,
provenienti da un oscuro passato, altre sagome ricurve
vestite di stracci. Si disposero in semicerchio intorno alla
Sacerdotessa come grandi scarafaggi, mormorando strane
parole.
Antonio prese rapidamente per mano Camilla e la
trascinò con sé fuori della grotta. Non dissero nulla fino a
che, una volta scesi a valle, Camilla, scossa dall'accaduto,
interpellò suo padre.
«Padre, cosa significa tutto questo? »
86
Antonio non rispose, continuando a cavalcare sulla via
del ritorno. Camilla non osò più porgli domande.
Arrivati a “piccolo pozzo”, Antonio ruppe il silenzio e con
voce alterata lamentò:
«Profetesse, tutte uguali! Oracolo! Ma che oracolo! Brave
col passato, ti dicono il presente, ma il domani? Chi è la
lupa? Sai quante ne hai uccise! E chi sono i suoi figli!
Camilla, ti prego non partire! È da tempo che ho un
brutto presentimento. »
«Ta', lo sai che non posso. Tu stesso mi hai insegnato che
la cosa più importante è mantenere l'onore. La parola
data è sacra. Quel che è detto è detto. Ho con me il sacro
fuoco di Diana che mi protegge, quindi non temere, lo
accenderò prima ogni battaglia.»
Rassegnato, Antonio aggiunse:
«Prima di salutarti voglio parlarti riguardo un’ultima
cosa. Io e tua madre ci siamo amati per tutta la vita e non
mi sono mai pentito di aver rinunciato a tutto per lei. Ho
pregato molto affinché gli dei concedessero anche a te
una tale fortuna. Ho notato come ti guarda Camerte,
conosco quel tipo di sguardo. Ha sicuramente un debole
per te. Mi sembra un bravo giovane, ha una posizione
degna del tuo rango. Non troverei nulla di disdicevole se
vi frequentaste. Nonostante le tue precedenti brutte
esperienze, prova a lasciarti andare. Segui il tuo cuore, è
più grande di quello che tu credi. »
«Padre, sto andando in battaglia. Pensi sia il momento
adatto per parlare di amore? Non credo che nel mio cuore
ci sia spazio per un uomo. Tranne per te naturalmente,
mio vero e unico padre. Tu che mi hai dato tutto quello
che potevi senza mai pretendere nulla. Abbracciami ora,
per un’ultima volta prima che io parta.»
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Antonio abbracciò a lungo sua figlia trattenendo le
lacrime.
«Vai, vinci e torna presto.»
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XX Guerra!
Nel frattempo erano giunti da Fabrateria e da altri villaggi
numerosi guerrieri, onorati di cavalcare accanto a Camilla
e alle sue amazzoni. Quindi il piccolo esercito iniziò la
marcia verso Laurento.
ENEIDE Libro VII
----L'ultima a la rassegna vien Camilla
ch'era di volsca gente una donzella,
non di conocchia o di ricami esperta,
ma d'armi e di cavalli, e benché virgo,
di cavalieri e di caterve armate
gran condottiera, e ne le guerre avvezza.
Era fiera in battaglia, e lieve al corso
tanto che, quasi un vento sopra l'erba
correndo, non avrebbe anco de' fiori
tocco, né l'ariste il sommo a pena;
non avrebbe per l'onde e per gli flutti
del gonfio mar, non che le piante immerse,
ma né pur tinte. Per veder costei
uscian de' tetti, empiean le strade e i campi
le genti tutte; e i giovini e le donne
stavan con meraviglia e con diletto
mirando e vagheggiando quale andava,
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e qual sembrava; come regiamente
d'ostro ornato avea 'l tergo, e 'l capo d’oro;
e con che disprezzata leggiadria
portava un pastoral nodoso mirto
con picciol ferro in punta; e con che grazia
se ne già d'arco e di faretra armata.
Il campo dei Troiani, posto vicino al mare, era ormai
sotto assedio. I Volsci si accamparono ai margini del
campo d’armi degli assedianti. Presto giunsero da loro
Camerte e suo padre, che salutarono Camilla come regina
e la invitarono a raggiungere Turno nella sua tenda, dove
si trovavano tutti i capi più importanti.
«C'è giunta notizia che Enea non è nell'accampamento
Troiano!- Turno parlava con voce ferma e dura - E’
un'occasione unica. Domani assalteremo il campo nemico
con tutte le forze a disposizione. Camilla, contiamo molto
sulla freschezza della tua cavalleria, le tue truppe
guideranno l'assalto. Concentreremo tutti gli sforzi sulla
porta principale. Messalo, tu occupati di raddoppiare i
fuochi e le sentinelle. Il nemico non deve avere alcuna via
di fuga verso terra. Che gli dei ci siano propizi! »
La sera consumarono tutti un frugale pasto. Camilla era
molto agitata. Nonostante fosse concentrata sulla
battaglia imminente, sentiva il forte bisogno di parlare
con Camerte. Si stava quindi accingendo a cercarlo
quando lo vide arrivare, scuro in volto e visibilmente
stanco. I due iniziarono a camminare tra fuochi e
guerrieri sdraiati a riposare. Ogni tanto si udiva un
lamento di qualche ferito.
90
«Ti vedo molto stanco. – disse Camilla, rompendo il
silenzio - Cosa pensi? Domani sarà davvero il giorno della
vittoria?»
«Vittoria? - rispose il giovane - Che illusione! Qui è tutto
un'illusione. Enea è imbattibile, le sue armi sono terribili
e suoi Troiani sono guerrieri valenti. Del resto, si battono
per la loro sopravvivenza e ogni giorno diventa sempre
più dura. Il sangue scorre a fiumi. Il pianto delle mogli e
delle madri in lutto è ormai incessante. Questa non era
una guerra da combattere, questa è la guerra dell'inutile
orgoglio di Turno, che ci porterà tutti alla rovina! »
Camilla replicò:
«Parli come mio padre. Non lasciarti abbattere, le
difficoltà vanno affrontate con coraggio e determinazione.
Ora non pensiamo alla battaglia di domani. Cerchiamo di
stare tranquilli almeno stasera e di distrarci pensando a
qualche cosa di bello.»
«Per me è fin troppo facile. – le rispose Camerte cercando
di sorridere - Basta guardarti.»
Camilla iniziò a protestare, ma il giovane non le permise
di continuare.
«Ho conosciuto altre donne molto belle, Camilla, ma
nessuna è come te. Tu sei fresca e trasparente come
l'acqua sorgiva. Io riesco a vedere in fondo ai tuoi occhi, e
vi vedo coraggio e grandezza d'animo, sacrificio e tanto
dolore. Sì, Camilla, vedo e sento tanto dolore e vorrei
aiutarti a cancellarlo per sempre dal tuo animo. »
«Basta, non andare oltre! - lo interruppe Camilla - Tu stai
tentando di aprire una porta che credevo di aver chiusa
per sempre. Potremmo non arrivare alla sera di domani.
Che senso ha parlare di questo? »
Il giovane provò ad accarezzare il viso di Camilla che di
scatto afferrò il suo braccio dicendo:
91
«Ho detto basta! Se tu fossi stato un altro avresti già il
mio coltello piantato nella gola! Adesso scusami, ma vado
a dormire.»
La giovane volsca si allontanò rapidamente dirigendosi
verso le sue tende. Camerte rimase immobile e pensieroso
a guardarla allontanarsi in silenzio e si avviò verso la
tenda a riposare, maledicendo tra se questa inutile
guerra.
Quella fu una notte tragica. Due audaci giovani troiani,
Eurialo e Niso, avendo notato nel campo nemico un
movimento che indicava probabilmente l’imminente
assalto, decisero di effettuare una sortita allo scopo di
avvisare Enea. Attraversarono quindi il campo nemico
seminando morte tra i nemici addormentati incontrati sul
percorso. Volcente li scoprì e fuggirono nel vicino bosco.
Niso, il più veloce, riuscì a mettersi in salvo, ma quando si
accorse di non essere seguito dall'amico, tornò indietro e
scorgendo il suo compagno d’avventura già circondato dai
nemici, scagliò, con il suo arco due dardi, uccidendo
altrettanti nemici. Volcente, infuriato, si slanciò contro
Eurialo per vendicare la morte dei suoi cavalieri. Niso, a
tale vista, uscì allo scoperto addossandosi la colpa, ma
ormai la spada di Volcente aveva trafitto Eurialo. Allora,
pazzo di dolore, con la forza della disperazione, Niso si
scagliò contro l'anziano guerriero e lo uccise. Trafitto poi
dalle armi nemiche, cadde morto sul corpo senza vita
dell'amico.
Camerte, già provato dalle tante morti, sapeva che
prima o poi la notizia della morte del padre sarebbe
arrivata. Morire in battaglia è quasi sempre il destino di
un guerriero. Era convinto ormai che lo stolto
accanimento di Turno avrebbe provocato la fine di molti.
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S’era inesorabilmente fatta l'alba. La battaglia non può
attendere. Come un macabro rito, su ordine di Turno,
Eurialo e Niso furono decapitati, le loro teste poste sopra
due aste e mostrate ai troiani. Il silenzio irreale che
precede la battaglia fu lacerato dal pianto e dalle urla
strazianti della madre di Eurialo.
Nella sua tenda, Camilla, con gesti lenti e rituali,
prese la sua bisaccia di pelle dalla quale estrasse il vaso
sacro e l'ampolla. Versò nel vaso il fuoco degli dei e lo
accese.
«Grande dea Diana, mia protettrice, a te onore e gloria.
Guida la mia mano. Che sia ferma nel dare morte al
nemico. Proteggi la tua umile serva dal ferro avversario.
Che finalmente arrida a noi la vittoria!»
Uscita dalla tenda, cinse l'armatura e, calzato
l’elmo, controllò la tensione del suo arco. Poi verificò le
frecce una a una. Infine, con voce alta e squillante si
rivolse alle sue truppe:
«Miei guerrieri! Oggi è il giorno dell'onore e del sangue. A
noi il compito di guidare l'assalto! Che ognuno di voi
scelga un compagno: controllate insieme le armi, arco e
frecce, e che l'armatura non sia troppo stretta né troppo
lenta. In battaglia guardatevi le spalle l'un l'altro. Ognuno
di voi dipende dal proprio compagno, se salverete la sua
vita è come se salvaste la vostra. In questo modo, forse
sopravvivrete. Combatteremo questa battaglia per
difendere le nostre famiglie e le nostre terre. Qualcuno di
noi, questa sera, non tornerà al campo. Ma sappiate che
le vostre gesta saranno ricordate per sempre. Ora
preparatevi! Che gli dei guidino le nostre braccia! »
Schierate tutte le truppe sul campo di battaglia,
dopo un sguardo di intesa tra i capi, Turno diede ordine
di dare fiato alle trombe e la battaglia ebbe inizio. Caronte
93
quel giorno ebbe un gran lavoro. L'impatto iniziale dei
guerrieri Volsci guidati da Camilla permise a Turno di
bruciare una torre dell'accampamento troiano, ma non vi
fu vittoria per alcuno. Nonostante i rinforzi giunti in aiuto
di Turno e nonostante l'assenza di Enea, i Troiani
rimasero sicuri nel loro accampamento.
La sera, gli stanchi guerrieri volsci commentarono
entusiasti le gesta della loro regina. Camilla, esausta,
sedeva intorno al fuoco. Arrivò Camerte e le si sedette
accanto. I due giovani in silenzio fissavano le fiamme.
«Allora? Questa vittoria? - chiese Camerte, con tono
tristemente sarcastico - Che cosa ne dici dei Troiani? »
Camilla restò ancora per qualche attimo in silenzio, poi
rispose sommessamente.
«Mi dispiace. Ho saputo di tuo padre»
«Era un guerriero! Sapeva che la morte poteva
raggiungerlo in ogni momento. Ognuno di noi sa che
forse domani una freccia, un fendente possono in un
attimo toglierci la vita. Che cosa buffa in fondo: questa
mattina vedendo i due schieramenti pronti alla battaglia
mi è sembrato di vedere due mandrie che si avviano
ignare al macello. E' stato come se vedessi già tutti morti.
Camilla, io non ho mai avuto paura. Non mi manca il
coraggio di affrontare la spada, ma il pensiero di morire,
ora che ti ho incontrato, mi sgomenta; tanto più per una
causa senza senso. Lasciamo che la vita scorra su queste
terre. Troiani, Volsci, Ausoni abbiamo tutti un cuore di
uomo che batte nel petto. Respiriamo tutti la stessa aria,
c'è posto per tutti su queste terre.
Vieni via con me, abbandoniamo in fretta questa
follia prima che ci trascini nell'abisso. Camilla, io ti amo
e per questo voglio vivere. Vivere con te, insegnare ai miei
figli la vita e non la morte. Voglio costruire e non
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distruggere. Voglio sudare maneggiando l'aratro e non la
spada. Voglio invecchiare con te e godere insieme di ogni
respiro che la vita vorrà darci, fino a che stanchi e canuti,
spento il lume, ci avvieremo insieme tra le braccia di
Plutone. Chiedo forse troppo? »
«Non chiedi troppo - rispose Camilla - Ma ci sono delle
cose più importanti dei nostri desideri. Il nostro dovere di
sovrani, il nostro onore. Abbiamo dato una parola e
dobbiamo
mantenerla.
Se
tutti
seguissero
irresponsabilmente
ogni
loro
desidero,
senza
sottometterlo a regole dettate da un ordine superiore, il
mondo si distruggerebbe. Mi sono convinta anche io che
la guerra che stiamo combattendo è sbagliata e che noi
insieme a Turno siamo destinati inesorabilmente alla
sconfitta. Il fato arride a Enea e la guerra non sarà mai
vinta. Ma ora non possiamo più tirarci indietro. – e
sottovoce aggiunse - Non so cosa sia, ma anche io per te
sento quello che dici. Non ho mai provato tutto questo
prima d'ora. »
Mentre parlava, Camerte le si avvicinò e la baciò
teneramente. La giovane rimase inebetita e senza fiato;
non sapeva, non poteva immaginare la dolcezza del bacio
di un uomo innamorato. Turbata nel profondo da
quell'evento per lei inatteso, sentiva il cuore in gola e non
riusciva a recuperare il controllo di se stessa. Camerte
comprendendo la situazione, con voce calma e serena, le
disse:
«Mia amata, sei stanca. La giornata appena trascorsa è
stata lunga e domani sarà ancora peggiore. Andiamo a
riposare. Prima o poi Enea sarà di ritorno e sarà tutto più
difficile. E' ormai assodato che la guerra è dovuta
esclusivamente a una questione personale tra Turno ed
Enea. Mi chiedo allora, perché non risolvono la questione
95
da uomini. Un duello all'ultimo sangue porrebbe fine a
questo macello. Così potremo tutti tornare a casa.»
Camilla ritornò alla sua tenda e nel buio pian piano
riprese il controllo di se stessa. Ripensò teneramente a
quel bacio e a Camerte, alle parole di suo padre e alla
battaglia, a Enea e a sua madre, e, lentamente, persa in
quel turbinio di pensieri, Camilla scivolò tra le braccia di
Morfeo.
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XXI Giove tonante!
Frattanto nell’Olimpo Giove, assai contrariato dalle frequenti
intromissioni di Giunone e di Venere nel conflitto tra Troiani e
Latini, convocò tutti gli dei al suo cospetto.
Una volta riuniti, il Padre degli Dei iniziò a parlare:
-Mia adorata Giunone, quante volte ti ho detto di non
interferire nel destino di Enea? Un destino di gloria attende la
sua discendenza e…Giunone colse al volo questa esitazione e iniziò subito a
parlare:
-Ma, mio adoratissimo marito, la colpa non è mia, è sempre
Venere, quella sottospecie di meretrice, che aiuta nella
maniera più sfacciata il suo adorato Enea, e io non lo
sopporto. Non ho mai sopportato i cocchi di mamma, e poi mi
hanno recato offesa e devono pagare!-Ma quale offesa!- La interruppe immediatamente la bellissima
Venere.
-Sei tu che ce l’hai con me e con mio figlio, senza alcuna
ragione, o meglio la vera ragione la conoscono tutti…No?Pronunciò quest'ultima frase scandendo bene le parole e
guardando uno per uno tutti i presenti che osservavano la
scena divertiti.
-Zitta!- Riprese Giunone, -Non mi interrompere! Come osi!? Ti
credi bella? Ma non è solo la bellezza il corredo che deve
avere una dea. Per soddisfare un marito non basta solo la
bellezza. Vero, maritino mio?-
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Giove, un tantino distratto dalle grazie di Venere, guardava
altrove.
-Giove!- Alzò la voce Giunone - Guarda me quando ti parlo,
invece di distrarti.-BASTA! Mille volte BASTAAA!- Tuonò Giove, e quando tuona
Giove trema L’Olimpo e tutta la terra compresa. Il silenzio fu
immediato.
-Bene, così va meglio. Lasciate che il fato compia il suo corso,
non intervenga più nessuno! Ce l’ho anche con te, mia cara
Diana… Sono stato chiaro? E' un ordine!
Non sono disposto a tollerare nessun' altro intervento… Mia
dolce mogliettina, vedrai che converrà anche a te, la nuova
stirpe che nascerà dai latini e troiani sarà potente e a te molto
devota. Tu Venere, hai aiutato fin troppo Enea. Dati i
precedenti, non costringermi ad intervenire personalmente, e
sai a cosa mi riferisco9. Adesso basta! Sono stanco delle vostre
beghe, toglietevi di torno.Più tardi, Diana, sempre circondata dalle sue devote ninfe e
dai suoi fedeli cani:
-Mia diletta Opi, purtroppo prevedo grossi guai per la nostra
Camilla. Non abbiamo possibilità di agire, Giove è stato
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Un tempo Zeus/Giove, il padre degli dèi, stanco delle continue tentazioni che la
magica cintura di Afrodite/Venere stimolava di continuo in lui, come in qualsiasi
altro essere, mortale o divino che fosse, stabilì di punire la dea, facendola
innamorare perdutamente di un comune mortale. Il prescelto fu Anchise, un
giovane pastore frigio. Afrodite, rimasta sedotta dalla sua straordinaria bellezza,
dopo averlo scorto a compiere il suo lavoro, decise di ottenere subito i suoi favori.
La dea per convincerlo a corrispondere il suo amore assunse le vesti di una
principessa frigia. Quando lei stava per procreare Enea, rivelò ad Anchise la
propria identità e gli preannunziò che il nuovo arrivato avrebbe avuto fama eterna.
L'amore di Afrodite per Anchise è narrato nell'Inno omerico ad Afrodite. Secondo
la leggenda, Anchise, ubriaco, osò vantarsi del suo amore con la dea durante una
festa: Zeus, per punirlo, lo colpì con un fulmine e lo rese zoppo.
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chiaro: nessun intervento soprannaturale! Sempre per colpa
di quelle due: quella svergognata di Venere, e quella
petulante di Giunone. Camilla purtroppo ha scelto l’alleato
sbagliato. Vai e sorveglia in battaglia la nostra diletta, se
dovesse accaderle qualche cosa di spiacevole che sia almeno
vendicata all’istante.Rispose docile la ninfa, accennando un inchino:
-Cosi sarà fatto mia Signora…-
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100
XXII L'ira di Enea
Il giorno seguente, mentre infuriava la battaglia, Enea
arrivò dal mare con i nuovi alleati etruschi. Turno
vanamente tentò di impedirne lo sbarco. Nell'infuriare
della battaglia, il re dei Rutuli uccise Pallante, fedele
alleato e amico del principe troiano, e ne calpestò il
cadavere spogliandolo del suo cinto d'oro. La morte di
Pallante fece sorgere nell'animo di Enea un’insaziabile
sete di vendetta. Con la spada sguainata, corse furente
per il campo di battaglia in cerca di Turno, uccidendo
tutti i nemici che gli si paravano davanti.
Tra corpi aggrovigliati e cozzare di spade, tra urla
di guerra e lamenti dei feriti, coperto dal sangue dei
nemici, brandendo le splendide e possenti armi forgiate
da Vulcano, Enea si aggirava rabbioso per il campo di
battaglia, gridando:
«Turno! Turno, che tu sia maledetto! Dove sei? Fatti
trovare! Finiamo questo scempio una volta per tutte!»
Mentre vagava tra le prime linee in cerca del Re
dei Rutuli, ecco che Enea incrociò il biondo re di
Amyclae. Riconoscendo in lui un condottiero di alto
rango, lo affrontò. Camerte, conscio della sua inferiorità,
cercò con astuzia di evitare lo scontro, ma l’ira di Enea fu
implacabile. L'eroe troiano lo inseguì fino a raggiungerlo.
Il giovane, resosi conto di non avere più scampo a meno
di una disonorevole fuga, si girò e decise di affrontarlo.
101
Ben piazzato sulle gambe, spada ferma nella mano destra,
scudo nella sinistra, Camerte attese senza paura
l’impatto. Il Principe troiano, arrivato di slancio, piazzò
un primo terribile fendente, il giovane riuscì a schivarlo
deviando il colpo con lo scudo, ma Enea, recuperando
subito l’equilibrio, tirò un altro fendente di ritorno.
Camerte parò ancora una volta il colpo, ma lo scudo,
dopo questo tremendo impatto, cedette di schianto.
Immediatamente il figlio di Volcente a sua volta si
allungò con la sua corta spada in un affondo, ma il
troiano deviò prontamente il colpo con il proprio scudo. Il
collo scoperto di Camerte era ormai alla portata della
spada di Enea che, in un lampo, l’affondò fino all’elsa nel
petto del ragazzo che crollò all’istante.
Non molto distante, ignara dell’accaduto, Camilla
combatteva con vigore e coraggio contro la cavalleria
etrusca. Giunone, nel frattempo, autorizzata da Giove,
prese le sembianze di Enea e, facendosi inseguire verso la
spiaggia, allontanò Turno dal campo di battaglia,
sottraendolo, almeno per quel giorno, all'ira incontenibile
del principe troiano.
Arrivò così un'altra notte di riposo e lutto nei
rispettivi accampamenti. Camilla, come era ormai suo
uso, sedeva presso il fuoco del suo accampamento e
attendeva impaziente l'arrivo del giovane Camerte. La
ragazza, ignara dell'accaduto, aveva riflettuto a lungo ed
era pronta a confessare il proprio amore al giovane Re.
Aspettò così ancora un poco, poi, irrequieta, decise di
andarlo a cercare. La voglia di vederlo era troppo forte. Si
avviò a passo spedito verso la zona dove si accampavano
gli Ausoni di Amyclae. Ma, nonostante la luna illuminasse
perfettamente il campo, non riuscì a scorgere i capelli
102
biondi del suo amato e, stranamente, l'accampamento era
deserto.
Nel suo animo l'angoscia incominciò a prendere il
sopravvento. Sempre più agitata Camilla si diresse tra le
dune, verso la spiaggia, dove si erigevano i roghi funerari.
Vide tra il fumo denso e rossastro dei numerosi e tristi
falò tutti i guerrieri Ausoni raccolti attorno a una catasta
pronta per essere incendiata. Con il cuore in gola si
avvicinò. Ciò che temeva era davanti ai suoi occhi:
Camerte giaceva steso sulla pira, sul petto la sua spada,
l'elmo e quel che restava del suo scudo. Il più anziano dei
guerrieri si accingeva a dare fuoco al legno già intriso
d'olio profumato, quando Camilla gli gridò di fermarsi.
Il guerriero si arrestò volgendo il suo sguardo
verso la regina. Camilla non aggiunse altro e, a testa alta,
con il cuore in tumulto, si avvicinò lentamente alle
spoglie del suo amato e ne baciò con delicatezza le fredde
labbra. Presa poi con decisione dalle mani dell'anziano
guerriero la fiaccola, senza indugio, appiccò il fuoco alla
pira mormorando:
«Va, amore mio, va, biondo guerriero dagli occhi come il
cielo, raggiungi tuo padre, cavalcherai al suo fianco per
sempre.»
Camilla, regina dei Volsci, non versò una lacrima. Rimase
in piedi, immobile e in silenzio, con lo sguardo fisso sulle
fiamme che sembravano lambire il cielo. Rimase lì, fino
allo spegnersi dell'ultima brace, sotto lo sguardo
indifferente di una splendida e quanto mai lontana luna.
Esauritesi le fiamme, mestamente ritornò sui suoi passi e
si diresse verso l'accampamento volsco. Tante cose le
tornavano alla mente. I suoi pensieri si accavallavano
tumultuosamente, ma l'unica cosa certa era la sensazione
di un vuoto incolmabile dentro di lei. Un senso di nausea
103
l'accompagnava a ogni passo. Ripensava al sorriso di
Camerte, al suo sguardo dolce, al suo buonumore. Solo
ora incominciava a capire nel loro significato più
profondo le parole di Antonio. Solo adesso sentiva quanto
fosse forte il sentimento che la legava al giovane re. Sì,
solo ora si rendeva conto di quanto amasse Camerte,
figlio di Volcente, re di Amyclae.
Spossata e distrutta dagli eventi, quella notte
Camilla cadde in un sonno profondo, agitato da incubi
terribili. Si destò più volte madida di sudore e in preda
all'angoscia. Come avrebbe voluto che suo padre fosse lì a
consolarla e ad abbracciarla, ma il silenzio della notte era
popolato soltanto dal lugubre lamento dei feriti. Camilla
più volte sognò di cadere in un abisso oscuro e senza
fondo: ogni volta che riusciva ad aggrapparsi a qualcosa,
questo le si sfaldava nelle mani, diventando cenere,
abbandonandola al nulla.
Il giorno dopo, all’alba, Camilla fu convocata da
Turno. Il re dei Rutuli era fatalmente ossessionato da
Enea. Molti dei suoi alleati e collaboratori più stretti
erano ormai morti. In gran numero tra i latini e i loro
alleati si chiedevano perché i due avversari non si
affrontassero in duello per decidere le sorti di una
logorante e incerta guerra che era costata troppe
innocenti giovani vite. Turno era venuto a sapere che
Enea e i suoi alleati, volendo approfittare del momento
favorevole, avevano l’intenzione di marciare su Laurento.
Camilla allora prese la parola e si rivolse a Turno e al suo
stato maggiore suggerendo un‘interessante strategia:
«Re Turno, forse questa mossa di Enea ci darà la
possibilità di porre fine a questa terribile guerra.
Anticipiamo i troiani, raccogliamo il nostro esercito e
muoviamo verso Laurento. Credendola una ritirata, Enea
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ci inseguirà per porre in atto il suo piano. Tu, con le tue
truppe migliori, ti terrai nascosto nel bosco nei pressi
della città, invece io insieme ai miei cavalieri torneremo
indietro facendo un ampio giro e, poco prima che i nostri
avversari attraversino il bosco, attaccherò la cavalleria
etrusca che sarà costretta a lasciare sguarnito il fianco dei
troiani. Se sarai rapido e abile ad approfittarne
attaccando con impeto, sfruttando l'effetto sorpresa, tu
avrai la tua vendetta e la vittoria sarà nostra. »
L’astuto piano di Camilla fu accettato con entusiasmo da
Turno e dagli altri capi e iniziarono quindi i preparativi.
Camilla ancora una volta si raccolse in preghiera
nella sua tenda, prese i doni della dea Diana, li pose in
terra dinnanzi a se e pronunciò questa parole:
«O grande dea Diana, a te sia onore e gloria. Ho tradito il
mio voto, mi sono innamorata di un uomo, ma non ne
sono pentita. La forza dell’amore una volta scatenata è
davvero inarrestabile. Per questa mia debolezza sono
stata duramente punita. Il fato si è accanito contro di me
togliendomi per sempre l’uomo che amavo. È stato come
se avesse preso la mia stessa vita. Mia amata dea, ti sono
infinitamente grata per i tuoi doni e per tutto quello che
hai fatto per me, ma questa volta il sacro fuoco resterà
spento. Affido la mia vita al destino e alla clemenza di
tutti gli dei. Ora la vita per me sembra non avere più
senso, io non so più se voglio vivere o morire. Che sia
allora il fato a decidere!»
Detto questo, usci fuori dalla tenda con passo deciso,
saltò sul suo bianco destriero e gridò :
«Mie guerriere, miei fedeli volsci a me! Pronti alla
battaglia.»
E si avviarono immediatamente al trotto verso Laurento.
105
XXIII Epilogo
Dieci giorni dopo, arrivò al galoppo al “piccolo pozzo” un
manipolo di amazzoni guidate dalla fedele Elinai. Come
Antonio sentì il loro arrivo, si affrettò a lasciare il gregge e
si avvicinò di corsa a casa. Arrivarono quasi
contemporaneamente. Antonio cercò subito con lo
sguardo se tra le cavallerizze ci fosse la sua Camilla, ma la
ricerca fu vana. Quindi, appena le guerriere scesero da
cavallo, il pastore cercò lo sguardo di Elinai. La ragazza
mestamente abbassò subito gli occhi e Antonio capì.
Seduti sullo spiazzo davanti casa, la giovane Elinai
raccontò ad Antonio l'accaduto. La guerra era finita, Enea
in duello aveva sconfitto e ucciso Turno. Era finalmente
pace tra latini e troiani: Lavinia, la figlia di Re Latino,
infatti, si sarebbe sposata al più presto con Enea. Camilla,
invece, non avrebbe più fatto ritorno.
«Eravamo ai margini del bosco presso Laurento. Guidati
dalla regina abbiamo attaccato come un sol uomo la
cavalleria etrusca. Tua figlia sembrava la dea Diana in
persona, nessun avversario riusciva a tenerle testa, la sua
furia sgominava chiunque le si parasse dinanzi. Mai come
in quel giorno, il suo coraggio e la sua temerarietà la
spingevano sempre più dentro lo schieramento nemico.
Noi non riuscivamo a starle dietro per proteggerla sui
fianchi. Conscia del pericolo, l'ho richiamata più volte
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urlando ma, ormai, presa dall'esaltazione della battaglia,
Camilla non sentiva più niente, aveva deciso che la
splendida armatura di Cloreo, sacerdote di Cibele dovesse
essere sua. Incurante dei mie richiami, Camilla ha
continuato a inoltrarsi da sola sempre di più tra le fila
nemiche, perdendo nell'impeto persino l'armatura. Ecco
che allora un arciere etrusco di nome Arrunte,
approfittando della favorevole situazione, ha preso di
mira la nostra Regina. Io ho visto tutto, ma ero troppo
distante e non potevo fare niente per aiutarla. La freccia
scagliata dall'etrusco ha colpito in pieno petto tua figlia.
Un attimo dopo anche Arrunte cadeva trafitto da una
freccia, ma era ormai troppo tardi. Dopo terribili sforzi,
io con le altre siamo riusciti a raggiungere la nostra
Camilla, ma era ormai in fin di vita. Adagiata tra le mie
braccia, mi ha ordinato di prendere il comando al suo
posto e di avvisare Turno, ma purtroppo la cavalleria
etrusca, imbaldanzita dalla morte della nostra regina,
aveva preso il sopravvento. La battaglia era ormai persa.
Antonio, amico mio, le ultime parole di Camilla sono
state per te: “Dite a mio padre che aveva ragione, l'amore
è una forza inarrestabile.”»
Seguì un lungo, triste silenzio. Antonio ed Elinai
commossi si abbracciarono. Poi, la ragazza proseguì:
«La regina Camilla, tua figlia ha lasciato a me il comando
del castrum, sarei molto onorata se tu, Antonio,
continuassi a essere il mio consigliere, come lo fosti per
lei.»
Antonio si senti all'improvviso come se avesse mille anni
sulle spalle, e con un filo di voce rispose:
«Certo, è mio dovere. Camilla avrebbe voluto che così
fosse. Ora però, vi prego, lasciatemi solo.»
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Una volta partite le ragazze, lentamente, in
silenzio, quasi trascinandosi, Antonio si recò in cima alla
collina, nel tempio del suo animo: la roccia a strapiombo
sulla valle. Si sedette come suo solito, lasciando i piedi a
penzoloni nel vuoto e lasciò libero sfogo ai suoi tristi
pensieri.
Anche se da comune mortale non posso contrastare il
volere degli dei, maledico mille volte questo fato
crudele.
Camilla: il mio fiore, appena sbocciato è stato falciato
via,
come i fiori più belli e rari è durato solo un giorno.
Io, Antonio “il latino”, maledico la guerra, le
spade, le battaglie e la bramosia di potere che sempre le
scatena. Quante vite spezzate ho incontrato. Resta di
loro soltanto il ricordo che forse svanirà con me. Anime
travolte dalla spada, dall’odio, dall’ignoranza, dalla
fame o soltanto dal tempo, spazzate via come foglie dal
vento di un inesorabile destino.
Tutti quelli che amavo non ci sono più, sono rimasto
solo.
Perché io?
Perché io sono ancora qui e non gli altri ?
Quando vado là in cima,
tra il cielo e la terra,
a cercare ragione interrogando gli dei,
so che cerco risposte
nascoste da sempre in fondo al mio cuore.
Sono qui in alto,
come piccolo lume,
perché nella valle,
108
o su in montagna,
o laggiù, in riva al mare,
c’è ancora Camilla che cerca,
una frase, un’idea, un esempio,
che l'aiuti a trovare
il sentiero che l’attende da sempre.
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XXIV Galleria dei
personaggi
Antonio: saggio pastore Latino, alleva Camilla come un
padre
Arisia: moglie e sostegno di Antonio
Metabo: violento re dei volsci, padre di Camilla, forte
ma di un’ottusa superbia
Camilla: regina dei Volsci, orgogliosa vergine guerriera,
protetta di Diana
Diana: dea delle selve, dona a Camilla il fuoco sacro
come protezione
Turno: semidio capo dei Rutuli. Coraggioso e leale, il
suo orgoglio e la sua caparbietà saranno forieri di morte
tra le file italiche
Camerte: giovane re di Amyclae alleato di Turno
110
Indice generale
I Prologo..........................................................................3
II Antonio il latino.............................................................5
III Metabo........................................................................9
IV L'infanzia di Camilla..................................................17
V Il cinghiale..................................................................21
VI La rivelazione............................................................25
VII Il Ritorno di Metabo.................................................29
VIII Camilla la Regina amazzone.................................33
IX Il Sacro fuoco ..........................................................39
X Castrum: L’accampamento.......................................41
XI La morte di Arisia......................................................43
XII Elinai e Lucero.........................................................47
XIII L'incursione dei Bruzi.............................................53
XIV Turno, re dei Rutuli.................................................59
XV L'incontro.................................................................64
XVI La bufera...............................................................69
XVII Il Re di Amyclae....................................................73
XVIII La cena...............................................................79
XIX La profezia..............................................................83
XX Guerra!....................................................................89
XXI Giove tonante!........................................................97
XXII L'ira di Enea........................................................101
XXIII Epilogo...............................................................106
XXIV Galleria dei personaggi......................................110
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