1 ANTONIO ALBERTO SEMI Ricordare il suicidio segreto* Capita
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1 ANTONIO ALBERTO SEMI Ricordare il suicidio segreto* Capita
ANTONIO ALBERTO SEMI Ricordare il suicidio segreto* Capita, quando si comincia a scrivere, di avere abbastanza chiaro il fenomeno al quale ci si vuol riferire e – soprattutto – a quali esperienze cliniche la memoria ci riporta. Arriva un momento in cui ci si dice che questa può essere la volta buona per ripensarci su con una maggiore attenzione, cercando di riunire i vari ripensamenti fatti e dando loro un certo grado di coerenza. Così era accaduto anche a me col “suicidio segreto”, sennonché poi questo desiderio di un “certo grado di coerenza” m’era sembrato sospetto, quasi che dentro di me ci fosse una tendenza a rendere razionale qualcosa che però mi sfuggiva e con la quale tuttavia dovevo fare i conti. Questo incipit può sembrare di scarso interesse per il lettore ma, in qualche misura, esso sarà anche uno dei fili conduttori di questo lavoro. In altri termini: per quale motivo e come si cerca di costruire una teoria, qualcosa di coerente e che quindi rappresenta anche a livello conscio qualcosa collocata altrove, una immagine della coerenza? Proprio perciò, anzi, cioè per questa mia incertezza sul desiderio di coerenza, avevo pensato di scrivere questo articolo in forma di dibattito con altri colleghi. Poi però avevo ridotto la rosa dei colleghi e infine avevo pensato ad un interlocutore, scelto non a caso tra i “grandi”. Così, questo lavoro può essere anche visto come una discussione fantastica tra Donald Winnicott e me, a proposito del suo importante lavoro su La paura del crollo (scritto negli anni Sessanta e pubblicato postumo nel 1974) e di quello più tardo mio su Il discorso iperbolico (1986) col desiderio di stabilire alcuni punti fermi circa espressioni quali “accaduto non pensato” o “impensabile” che circolano ampiamente nella letteratura psicoanalitica e non. Partirò da me – e scusate il narcisismo implicito, ma questo è un lavoro sul narcisismo, anche, e la scrittura non può non recarne le tracce. Nel mio lavoro sul discorso iperbolico mi ero soffermato a studiare alcune situazioni nelle quali o a livello di figure retoriche del discorso o a livello di stile del discorso in analisi veniva usata ampiamente l’iperbole, cioè quella figura retorica che implica la costituzione di una serie, della quale viene pronunciato un termine distante da quello realmente pensato. Può essere un termine in aumento o in diminuzione, si può dire che un Tizio è un Adone o invece che è uno sgorbio e l’effetto che si ottiene è quello di provocare il sorriso dell’interlocutore, che deve afferrare a quale termine realistico la serie si riferisca, che dunque, nell’esempio, deve già conoscere Tizio. Questo è l’uso oratorio cosciente dell’iperbole, ma quando l’iperbole viene usata invece “naturalmente”, le cose possono andare diversamente, cioè possono stare ad indicare che il soggetto che la usa non sa a quale oggetto si riferisca. E che l’oggetto mancante è precisamente la * Una prima versione di questo articolo, dal titolo “Il fantasma del suicidio adolescenziale nella psicoanalisi di pazienti adulti”, è stata letta al Simposio internazionale su “Accogliere, Comprendere e sostenere l’adolescente che ha tentato il suicidio”, Padova, 5-7 febbraio 2004. 1 parola adeguata. L’iperbole allora raffigura un silenzio e il silenzio è una figura della morte. Avevo allora pensato, cioè, che l’iperbole durante il discorso analitico stesse a segnalare un modo di pensare la propria morte, e che più specificamente essa implicasse l’esperienza o il ricordo di una situazione particolarissima, quella della condizione della vita preverbale, appunto quando sperimentammo il nostro silenzio. L’Io allora mi era sembrato definibile come quell’istanza che è in grado per così dire di ricordarsi di quando non c’era, cioè di quando era qualcosa di radicalmente diverso da quel che divenne nel momento in cui poté usare attivamente di strumenti linguistici. In quel lavoro, il tema della morte (della propria morte) era per così dire recuperato dalla condizione di non rappresentazione inconscia cui era stato confinato ad esempio da Freud (1915) tramite l’ipotesi, che mi sembrava e mi sembra confermabile, che essa potesse essere rappresentata in forma negativa, attraverso una mancanza, quella appunto delle parole adatte, che poteva rimandare ad una situazione realmente vissuta, in cui non esisteva ancora quel che chiamiamo ‘coscienza”, che poi costituisce il nucleo attorno al quale si organizza l’Io. Nel lavoro di Winnicott, pubblicato nel 1974 ma che – mea culpa - io non avevo conosciuto, venivano affrontate, con ben più ampia ricchezza di casistica e di esperienza, almeno a quel che l’autore lascia trasparire, situazioni per certi versi analoghe a quelle nelle quali mi sono imbattuto anch’io, partendo però da tutt’altro orizzonte teorico e tenendo conto del fatto che – anche consapevolmente e dichiaratamente – Winnicott era uno che non amava molto la teoria metapsicologica e che, contemporaneamente, dichiarava che ciò era dovuto alla sua ‘equazione personale’ 1. Winnicott enunciava la sua tesi principale sostenendo che la paura del crollo “è la paura di un crollo che è già stato sperimentato” (p.108) e precisava che usava la parola “inconscio” per significare “che l’integrazione dell’Io non è in grado di comprendere qualcosa, che l’Io è troppo immaturo per raccogliere assieme tutti i fenomeni dell’area dell’onnipotenza personale” (p.109). Poi però aggiungeva – all’apparenza in modo contraddittorio – che il paziente “può continuare la ricerca dell’evento passato, ma non ancora sperimentato, sotto forma di ricerca di tale evento nel futuro” (ibid.). Il problema che metteva in evidenza Winnicott era, com’è noto, quello della possibile esperienza in analisi di una condizione psichica che egli chiamava di “agonia” e che si poteva realizzare nel transfert in reazione ai fallimenti e agli errori dell’analista, in un certo grado inevitabili. 1 Cfr. la lettera ad Anna Freud del 18 marzo 1954 in cui scrive “io ho un modo irritante di dire le cose con un mio proprio linguaggio, invece di imparare ad usare i termini propri della metapsicologia psicoanalitica. Sto cercando di capire perché sono tanto sospettoso di questi termini. E’ forse perché essi possono simulare un’intesa comune, mentre una tale intesa non esiste? O è, invece, qualcosa che mi riguarda? Naturalmente possono essere entrambe le cose.”. Nella lettera a Balint del 5 febbraio 1960 (Winnicott allora aveva 64 anni) afferma: “mentre un tempo non riuscivo assolutamente a prendere parte ad una discussione metapsicologica, comincio ora a vedere appena un barlume di luce, cosicché, se vivrò abbastanza a lungo, penso che potrò essere in grado di prendervi parte, di tanto in tanto.” (Lettere, 1987) 2 Di fronte a questo lavoro, ammirevole per tanti aspetti, ero rimasto molto perplesso della povertà della spiegazione teorica, perché dal punto di vista topico o strutturale non veniva chiarito a che cosa si riferisse quel “non ancora sperimentato”, e forse anche perché – come capita quando si leggono in ritardo i lavori – nel frattempo era fiorita e continuava a fiorire tutta una letteratura sull’”irrapresentabile”, l’”indicibile”, il “non pensato”. E’ molto diverso riconoscere che il nostro pensiero prevalente è inconscio o invece riportare il termine “pensiero” solo alle operazioni psichiche coscienti e preconsce, come si faceva, in fondo, prima di Freud. Nel primo caso, ci troviamo confrontati con la necessità di ammettere che sì molte cose ci sfuggono, ma che non per questo non esistono nel pensiero inconscio, nel secondo caso, invece, si ammette che esiste una sfera, come dire? di registrazione – si può parlare di memoria in tal caso? – che non appartiene in qualche modo alla struttura psichica e si deve allora cadere dalla padella della incomprensione alla brace del dualismo che, dal punto di vista metodologico, appare un éscamotage fallimentare. Non credo che Winnicott pensasse questo. Piuttosto, mi sembra che, nell’uso spinto che in quegli anni si faceva del modello strutturale (Io/Super-io/Es) egli tendesse ad individuare un’area di attività dell’Io senza possibilità non solo di espressione ma, ancor prima, senza possibilità effettiva di elaborazione di un materiale – psichico comunque – che così diventava bloccato. Addirittura m’era parso di cogliere, in un Winnicott abbastanza attento a non provocare dispiaceri inutili ai colleghi kleiniani (con i quali già i rapporti non erano sempre facili) un piccolo omaggio all’avversario storico di Melanie Klein, quel Glover che aveva sostenuto, pochi anni addietro, una teoria dell’origine dell’Io che differiva notevolmente dalle ipotesi kleiniane e che, in particolare, rifiutava la presenza di un Io a qualunque stadio della vita precoce, preferendo invece ipotizzare, appunto, che varie isole egoiche debbono integrarsi attraverso un complesso lavoro, prima di giungere a costituire un Io vero e proprio, benché ancora immaturo (Glover 1968). Ma, naturalmente, questo fa parte delle mie fantasie sul pensiero di Winnicott. In ogni caso, quel che è certo è che Winnicott usò, in quel lavoro, solo il riferimento all’Io, come se nell’Io potesse accadere qualcosa che, appunto, poteva spiegare i fenomeni osservati. Dell’Es, ad esempio, non veniva fatta menzione. Per quanto mi riguarda, credo che ogni processo che preveda almeno una registrazione di un evento – e i casi di Winnicott contemplano appunto questo – sia un processo psichico, anche se a questo, per motivi che si tratta di indovinare o capire, non segue una elaborazione evidente. Nei casi di Winnicott, tuttavia, il segno di una elaborazione psichica c’era eccome, e si manifestava a livello conscio tramite ciò che egli chiamava, con espressioni dei suoi pazienti, la “futilità in analisi”, la “paura della morte”, il “vuoto”, la “non-esistenza”. Ora, quando si ha a che fare con questi aspetti, il ricorso alla prima topica, il ricorso cioè a quel punto di vista che, all’interno di una concettualizzazione dei sistemi psichici, consente di descrivere le vicissitudini delle rappresentazioni in diversi ambiti, può forse aiutare a mantenere presente che sempre di processi psichici si tratta. 3 utile. Cercherò di esplorare questa strada per vedere se se ne può ricavare qualche Credo che, dopo questi riferimenti, sarà chiaro che il titolo ha una precisazione abbastanza evidente. Esso riguarda il ricordo del suicidio adolescenziale, non quello del tentato suicidio. Voglio dire che i casi di cui intendo discutere le particolarità non sono casi di persone che hanno attuato tentativi di suicidio non riusciti ma al contrario casi di suicidio riuscito benché, per così dire, in quantità limitata. A proposito di limiti, debbo dire che anche la mia casistica è assolutamente limitata e certo non utile per una statistica – si tratta di due casi in trent’anni di lavoro – ma mi sembra utile esaminare situazioni umane che hanno la caratteristica di dimostrare la possibilità di un evento psichico. E si tratta di pazienti passabilmente “normali”, che si presentarono – entrambi – con caratteristiche che mi avevano fatto pensare a strutture nevrotiche in massima parte espresse da forme di carattere e da qualche elemento sintomatico più critico, che poteva stare ad indicare la insostenibilità, in particolari situazioni di vita, delle difese di carattere fino ad allora attuate ma che non mi erano sembrati pazienti a rischio di uno scompenso psicotico o di una condotta suicidaria. Né, del resto, hanno smentito tale opinione. Ma vedremo in che senso. Entrambi i pazienti avevano attuato però condotte pericolose durante l’adolescenza. Il primo aveva praticato, subito dopo i diciott’anni, una sorta di gara con se stesso consistente nel cercare di masturbarsi guidando l’automobile in una strada di montagna. Il “gioco” consisteva nel riuscire a provocarsi l’orgasmo nei brevi rettifili. Il secondo aveva, più banalmente, avuto un breve ma intenso periodo di ubriacature prima dell’esame di maturità. Superato questo esame, il paziente si era trasformato in un giovane studioso, tanto che i genitori gli avevano detto che per lui quello davvero era stato un esame di maturità. Ma queste condotte erano finalizzate a creare le condizioni per la raffigurabilità a livello conscio e preconscio di una situazione intrapsichica inconscia, piuttosto che ad attuare un suicidio, il cui progetto e la cui attuazione viceversa erano state ben altrimenti configurate. Un atto è leggibile in termini verbali, descrivibile, interpretabile; naturalmente al prezzo di non collegare questa lettura alla realtà psichica. Che guadagno ne ha l’apparato psichico, allora? Per usare un’immagine, si potrebbe dire che in tal modo vengono preparate entrambe le spallette di un ponte, mentre se non ci fosse questa descrizione il paziente avrebbe solo la spalletta proveniente dall’inconscio. Certo, quel che manca è il ponte e in questi casi spetta a noi (paziente e analista) cercare quale sia il ponte adatto. Poiché del primo paziente mi ero occupato nel lavoro sul discorso iperbolico, mi soffermerò di più sulle vicende del secondo. Dirò solo che egli (il primo) era venuto da me perché talune sue condotte coatte mettevano a rischio il suo futuro professionale: dopo una situazione fortemente conflittuale al seguito della quale si era separato dalla moglie, per qualche tempo, la sera, si era sentito irresistibilmente attratto dall’indossare abiti femminili e dal truccarsi da donna. Così travestito girovagò un paio di volte in automobile, preso dalla tentazione di prostituirsi. 4 Non lo aveva mai fatto ma venne da me quando, dopo aver parcheggiato l’automobile in prossimità di un gruppo di prostitute, aveva riconosciuto in uno dei loro clienti un suo dipendente. Si era detto dapprima che così rischiava grosso ma – e soprattutto – all’improvviso la situazione gli era sembrata pazzesca. Mi aveva poi detto che in quell’occasione si era chiesto ripetutamente “cosa vuol dire ‘sta roba?” e non era riuscito a pensare alcuna parola di risposta. Era stata quest’esperienza a spingerlo a consultarmi. Ed era stato nella consultazione che io non avevo capito dove stesse il problema: avevo immaginato la situazione, m’ero detto che si era angosciato opportunamente e che aveva comunque dei meccanismi di salvaguardia. Ma si trattava di ben altro. Solo più tardi capii che il paziente letteralmente non era riuscito a pensare alcuna parola. Un’esperienza paurosa di vuoto, dunque. Il secondo paziente era – all’epoca in cui iniziò l’analisi – un quarantenne che aveva già percorso tutto un cursus honorum, passando da un prestigioso dottorato all’estero a posizioni apicali in aziende internazionali. Quattro anni prima di venire da me, d’improvviso aveva deciso di impegnarsi nella piccola azienda di famiglia, riuscendo anche qui a cogliere importanti successi. Nel frattempo si era anche sposato ed aveva avuto due figli. Si rivolse a me perché si vedeva “finito”, nel doppio senso di non vedere davanti a sé alcun futuro e di percepire per la prima volta un senso ben preciso di limite alle sue capacità. Questa affermazione m’aveva fatto venire in mente, in via associativa, l’interrogativo che Freud esprime in Lutto e melanconia (1915) quando, esaminando le autocritiche del melanconico, scrive che “per quanto ne sappiamo può darsi che egli si sia avvicinato considerevolmente alla conoscenza di sé medesimo; e ci domandiamo solo perché gli uomini debbano ammalarsi prima di poter accedere a verità di questo genere” (p.105). Questa mia associazione mi aveva posto alcuni interrogativi, ma non tali da sconsigliare l’analisi. La goccia che aveva fatto traboccare il suo vaso era stata, comunque, la ormai imminente conclusione della costruzione della grande villa nella quale voleva andare ad abitare. D’improvviso, alla comunicazione dell’architetto secondo il quale la settimana seguente la villa sarebbe stata completata, aveva reagito con una sensazione di smarrimento e di paura. Soprattutto – mi disse – “sono rimasto senza parole”. Vorrei soffermarmi su questa espressione perché, lì per lì, io la presi come una raffigurazione di uno stato di stupore, di sorpresa, insomma pensai si trattasse dell’uso di una espressione idiomatica comune, mentre il paziente intendeva dire – e questo lo capii più tardi – che in quell’occasione letteralmente gli era venuto meno, benché transitoriamente, lo strumento linguistico. Insomma era stata una transitoria afasia. Era stata questa esperienza a sconvolgerlo, a spingerlo a cercare aiuto, a letteralmente terrorizzarlo. Così anche in questo caso, come nel primo, quel che era messo in discussione era la possibilità di parlare. “Cosa vuol dire ‘sta roba?” si era chiesto il primo paziente segnalando che non nella “roba” ma nel “dire” stava il mistero, inquietante. E sia il primo sia il secondo erano rimasti senza parole. 5 In entrambe queste analisi – assai diverse tra loro, ovviamente – c’è stato un periodo dedicato a questi interrogativi. Mi soffermerò ora su questo periodo, riferendomi appunto al secondo caso – che è stato il secondo anche in ordine di tempo. Nel corso del second’anno di analisi – un’analisi che filava via bene, con il paziente disposto a seguire la regola delle libere associazioni in modo addirittura sospetto – era sembrato chiaro che la medesima strategia utilizzata nella vita fino ad allora, era in atto anche in analisi: il paziente era in grado di cogliere rapidamente importanti risultati e di passare da una scoperta all’altra. Un paio di mesi prima della vacanze estive, gli avevo segnalato questo fenomeno, in occasione di un sogno singolare, nel corso del quale un grosso cane attraversava una strada e saliva i pochi gradini antistanti la porta d’ingresso d’una casa, ove defecava. Il paziente si era svegliato d’improvviso in preda a viva angoscia. La casa non gli ricordava alcuna casa nota, né la strada aveva caratteristiche particolari. Cani, poi, non ne aveva mai avuti. Il commento del paziente al sogno era stato del tipo “non capisco, forse non c’è niente da capire, avrò visto qualche cane da qualche parte, non ricordo”. Aveva poi associato con il fatto che la madre aveva sempre avuto una certa ossessione per la pulizia e io gli avevo allora ricordato che anche lui aveva recentemente sgridato una collaboratrice domestica che non aveva seguito le sue indicazioni. Al che il paziente si era ricordato di un suo amico che aveva un cane cui voleva molto bene e che lo seguiva ovunque: questo amico usava autoironicamente dire che al cane “mancava solo la parola”. Io avevo detto qualcosa che non ricordo esattamente ma che riguardava il fatto che anche lui era molto produttivo in analisi – e che si era meravigliato lui stesso di esserlo – come del resto era stato estremamente produttivo in tutto quello che aveva fatto finora, ma che anche a lui era “mancata la parola” e che questo lo aveva spaventato tanto da venire da me. Avevo aggiunto che anche questa volta si era spaventato, ma che c’era una bella differenza tra sognare una situazione e sperimentarla durante il giorno. Ero rimasto colpito da questo sogno, anche se in precedenza non mi ero illuso che l’analisi procedesse così bene come sembrava. Da quella seduta, tuttavia, la situazione psichica del paziente era andata progressivamente peggiorando, con la comparsa di una insonnia ribelle e di gravi crisi di angoscia pressocché quotidiane. Al momento di lasciarci per le vacanze, avevo provveduto a dargli i miei numeri di telefono, allarmato dal suo stato. Al rientro dalle vacanze – iniziava il terz’anno d’analisi – il paziente racconta di non avermi voluto disturbare, di essere stato ricoverato per un breve periodo in una clinica privata svizzera, di essere ormai nelle condizioni di non farcela e di stare architettando un suicidio segreto. Mi avvisa che la sua vita gli sembra ormai decisa, che è stata un insieme di fallimenti e che in fondo lui non ha mai pensato. E che anche adesso non riesce a pensare. Inoltre, dopotutto, anche se riuscisse a pensare questo non servirebbe a nulla, perché lui ha bisogno di fare, ogni giorno deve prendere delle decisioni e queste decisioni sono ormai impossibili, gli sembra che una valga l’altra, è preso dal panico all’idea di dover incontrare qualcuno per i suoi affari 6 e di dover in qualche modo decidere: forse l’unica decisione sensata che si sentirebbe di prendere sarebbe quella di lasciare sua moglie, che gli sembra un’estranea. Come dire che da un lato non si sentiva in grado di decidere sulla realtà esterna, dall’altro per quanto riguardava sé stesso aveva il bisogno di sentire di poter decidere – magari in forma negativa, tramite la separazione e, soprattutto, il suicidio. Mi colpiva, nelle sue comunicazioni, l’insistenza sul fatto di non poter pensare, di non riuscire a pensare, di pensare di non aver mai pensato. Provai un senso desolante di vuoto che contrastava col mio stato d’animo al rientro dalle vacanze: nemmeno io sapevo cosa pensare e – anzi – fui attraversato dal pensiero di prendere la decisione di interrompere il trattamento e di inviare il paziente ad uno psichiatra per una terapia farmacologica. Forse proprio l’osservare questi pensieri mi fece dire: “come quand’era al liceo. Quella volta ne uscì con le sbronze ma forse le prendeva per non guardare in faccia questo senso di vuoto: proprio quando doveva prepararsi alla maturità si era in qualche modo accorto – non so come – che le mancava una fetta del pensiero”. Mi son chiesto poi più volte perché mai abbia usato l’espressione “fetta del pensiero”, ovvero da dove mi fosse derivata. Comunque, lì per lì la mia osservazione non produsse alcun risultato, semmai qualche recriminazione in più, del tipo “gliel’avevo detto che non avevo mai pensato, si vede che neanche lei mi crede”. Alcune settimane dopo, tuttavia, il paziente lamentò che dal suo frigorifero fosse sparito un pezzo di formaggio. Aveva perciò fatto una scenata, in casa, e appariva, per la prima volta da molto tempo, assai soddisfatto. Continuò le sue associazioni con le consuete lamentele e infine con il ricordo del sogno del cane: “Lei m’ha dato del cane, prima delle vacanze, magari non se lo ricorda nemmeno. Ma oggi avrei voluto essere quel cane, li avrei sbranati. Portarmi via la mia feta quando è quasi l’unica cosa che mangio, anche se ho l’impressione di mangiare gesso!”. Potei allora dirgli che qui con me stava cercando di recuperare una fet(t)a tenuta in frigorifero tanto tempo, sentita essenziale per sopravvivere e che invece lui aveva il terrore che io gliela sottraessi, come se io potessi divertirmi sadicamente a togliergli qualcosa di necessario. Mi chiesi ad alta voce cosa potesse essere accaduto durante l’adolescenza che giustificasse sia il periodo delle sbronze sia il periodo attuale. E il paziente si arrabbiò davvero “ma non è successo niente, sono cretinate sue (lui usò un altro termine) queste, lei c’ha la mania di cercare qualcosa quando non c’è proprio niente da cercare”. Come vedete, il paziente cercava di comunicarmi il senso del vuoto e forse poteva identificarmi nel frigorifero, che ora sentiva altrettanto vuoto quanto lui, senza nemmeno la fetta-feta che aveva messo da parte o che in qualche modo mi aveva chiesto di conservargli. L’immagine che mi venne alla mente era quella di un foglio bianco, sul quale non c’è scritto nulla e che pure per qualche motivo era prezioso o importante. Aveva ragione lui, non c’era nulla da capire? Ecco qui, quando ci si trova in crisi si pensa ai colleghi: cos’avrebbe detto Winnicott? A questo punto avevo già letto il suo lavoro. E avevo anche formulato le mie critiche. Ma le avevo lasciate lì. Per di più, in seduta è ben raro che mi venga in 7 mente un autore. Eppoi ha un sapore strano quello di mettersi ad interrogare i morti, i pensieri che ci hanno lasciato e che magari d’improvviso ci sembrano inutilizzabili. Tutto sommato, anzi: sommato tutto – l’idea dei morti autorevoli ma inutilizzabili, l’immagine del foglio bianco, l’idea del formaggio e del frigorifero – gli dissi che c’era qualcosa che lui sapeva ma che non poteva letteralmente dire, come se avesse un foglio bianco davanti, quasi che ad un certo punto lui avesse deciso di cancellare la scrittura di certe cose, che lo facevano stare male, anzi che lo precipitavano in una situazione di vuoto. A pensarci dopo, gli stavo dipingendo una sorta di condizione di afasia, ma pensarci dopo, come si sa, è troppo facile. Il paziente non mi fu grato dell’intervento, ribadì la mia cocciutaggine e finì la seduta in silenzio. Fu così onesto, però, da tornare l’indomani con un blocchetto di “comunicazioni alla famiglia” che aveva trovato svuotando gli ultimi scatoloni del trasloco. Era un suo libretto scolastico, della fine della terza media e la professoressa di lettere invitava urgentemente a colloquio i genitori perché – scriveva - “Giorgio non sa o non vuole scrivere”. Quando l’aveva trovato, aveva pensato “così accontento anche quel rompicoglioni”. Il fatto di portarlo materialmente stava anche ad indicare che non poteva parlarne. Ricostruire tutto il seguito vorrebbe molto tempo: quel che interessa qui è il fatto che egli avesse avuto un periodo – breve, circa due settimane credo – alla fine della terza media, in cui aveva “dimenticato” la scrittura: traducendo in termini medici, aveva avuto una agrafia temporanea. Ricostruimmo un po’ alla volta che, quand’era tornato dalle vacanze di Natale, quell’anno, gli era capitato di innamorarsi perdutamente di una sua compagna di scuola – ma non di classe – e di aver potuto scambiare con lei alcune battute. L’aveva poi rivista e la ragazzina – più intraprendente di lui – un giorno gli aveva preso la mano, stringendola forte. Lui aveva avuto di colpo l’impressione che gliela schiacciasse ed aveva avvertito una sensazione di freddo. Poi era svenuto e – quando si era svegliato – era circondato da tanta gente. Si era disperato ma quel che mi colpì nel suo racconto fu la sua affermazione di aver giurato a se stesso di non pensarci più e di “sparire”. Quando dunque si era arrabbiato con me, affermando che “non era successo niente” nell’adolescenza, stava lottando contro quello che aveva sentito come un mio tentativo di superamento del suo diniego. Un genitore inquisitore che domanda “cos’è successo?” e un figlio che nega tutto: “non è successo niente”. L’agrafia (che riguardava comunque la mano “schiacciata”) era intervenuta un paio di mesi dopo la stretta di mano. Poiché questo sintomo era scomparso da sé – e nonostante lo “svenimento” precedente – i genitori ritennero di “non dover svegliare il cane che dorme” (notate il riferimento al cane) e di “lasciarlo in pace”. Il paziente sostiene di aver viaggiato “col pilota automatico” da allora e fino al periodo della maturità. E sostiene anche di non aver più pensato, da allora, ai pensieri. Quando il paziente affermava di non pensare, di non essere capace di pensare, credo dicesse la verità riguardo alle conseguenze della strategia difensiva adottata e che egli avesse ucciso una parte di sé, tenuta poi per così dire sepolta in un frigorifero di casa. 8 Perché qui sta il guaio: per quanto creda che entrambi ci siamo impegnati davvero molto nel trattamento, dal quarto al sest’anno, per quanto il paziente abbia ripreso le sue attività ed abbia mantenuto i suoi legami familiari, né io né lui siamo così pazzi da ritenere di aver potuto modificare il passato. Certo, ora può permettersi di fermarsi e di godere di quel che ha guadagnato – con il suo lavoro concreto e con quello analitico - e soprattutto di farlo godere agli altri. Ma, per dirla con le parole del paziente, “per venticinque anni ho vissuto come uno zombie e in fondo con lei ho potuto affrontare il danno ma la frittata ormai era fatta: io sono uno che viaggia con uno scheletrino in tasca. Quegli anni, chi me li ridà più? Come avrei potuto essere se mi fossi curato da ragazzino?” Lo scheletrino. Era questa la metafora che aveva elaborato un po’ alla volta. E il fatto che ancora alla fine dell’analisi sostenesse di averlo in tasca anziché alle sue spalle chiarisce bene i limiti dei risultati. E forse riporto questa frase anche perché giustifica un interrogativo più generale, benché l’interrogativo sul “come avrebbe potuto essere, se si fosse curato prima” avesse evidentemente in analisi tutt’altro senso, specificamente legato agli equilibri intrapsichici del paziente. Il fatto è che non saremmo buoni clinici se, oltre a tener conto della realtà psichica, non tenessimo conto di quella esterna e di quel padrone implacabile che è il tempo. Ora, non usare una parte di sé per tutto questo tempo è una forma di suicidio. E questo era stato, inconsciamente, il progetto – attuato con gravi conseguenze - del paziente. L’idea del “suicidio segreto”, come mi aveva detto quando era tornato dopo le mie vacanze e il suo crollo. Strana espressione, avevo pensato, perché se c’è un fatto pubblico, tragicamente relazionale, è proprio il suicidio. Avesse detto “un segreto progetto di suicidio” sarebbe stato differente. Invece si trattava di un ritorno del vecchio progetto – riuscito - di “sparire” che aveva formulato quand’era rinvenuto, quella volta, dopo la fatidica stretta di mano. Lo so, sto andando per le lunghe, anzi ho l’impressione di tergiversare. Dovrei ora ritornare a discutere con Winnicott, tentare di costruire una immagine teorica più precisa – metapsicologica nel senso freudiano del termine – perché la descrizione data fin qui è insufficiente. Riguardiamo allora i punti fin qui visti. Risalendo a ritroso, il paziente era venuto da me per un episodio momentaneo di afasia, eravamo risaliti ad un altro episodio, di agrafia e, poco precedente a questo, ad un episodio di perdita della coscienza conseguente ad una realizzazione simbolica di una castrazione (la stretta schiacciante di mano). Per certi versi, questo paziente assomiglia assai a quelli citati da Winnicott, sia per l’inizio dell’analisi – buono – sia per il “crollo” avvenuto. Winnicott afferma che “nei casi che sto discutendo l’analisi parte bene e va avanti con delle oscillazioni: ma ciò che accade, comunque, è che l’analista e il paziente passano il tempo colludendo su un’analisi psiconevrotica mentre invece la malattia è psicotica” (p110). Personalmente ritengo che, prima di usare questa terminologia sfumata ma in qualche modo terroristica, sarebbe bene chiarire i termini. La spiegazione microscopica, analitica, della patologia del paziente porta verso un’altra strada, che non voglio qualificare preliminarmente. 9 Quel che accadde al paziente, in effetti, dopo lo “svenimento” con la ragazzina, può essere descritto così: in qualche modo, quel che è stato intaccato o attaccato è il sistema di produzione delle rappresentazioni di parola. Queste sono costituite da varie componenti, come sappiamo: principalmente quelle di origine senso-percettiva, acustica, e quelle di origine motoria, cioè le rappresentazioni dei movimenti necessari per la formulazione di un suono, nonché le rappresentazioni che informano dell’esecuzione di questi movimenti. Se stiamo ad osservare la storia del mio paziente, possiamo pensare che dapprima venne intaccato il complesso di rappresentazioni motorie connesse ai movimenti che si debbono effettuare per scrivere: in questa fase, comparve una agrafia (ad un altro livello, ho ricordato anche più sopra che la mano usata dal paziente per scrivere era quella stessa stretta dall’amichetta). Possiamo interrogarci su che cosa accadesse nel frattempo ad altri livelli rappresentazionali, ma non abbiamo informazioni sufficienti: so solo, per esperienza diretta, che il paziente è una persona laconica. Sappiamo però che più tardi – venticinque anni dopo – il paziente presenta una transitoria afasia in occasione di un avvenimento che per un altro sarebbe stato insignificante o eventualmente rallegrante – i lavori di casa che finivano. Notiamo per inciso che anche l’episodio con la ragazzina avrebbe potuto essere considerato minuscolo o eventualmente rallegrante. Ma da un’altra persona. Sembra che nel secondo episodio – quello che motiva il ricorso all’analisi – sia stato intaccato il complesso di rappresentazioni verbali motorie. E nell’intervallo tra questi due episodi? Il paziente afferma – e in un certo senso ha ragione – di non aver più pensato. Noi certo non saremmo d’accordo con lui su un giudizio così drastico, ma io credo d’aver capito che con questa espressione intendeva un particolare modo di essere, per cui ogni situazione intrapsichica o di realtà che gli provocava un “di più” di tensione provocava anche un lavoro di disconnessione o di allentamento delle connessioni tra le diverse componenti delle rappresentazioni di parola. L’afasia fu solo il risultato di una disconnessione massiccia e fortunatamente momentanea (durata dieci minuti al massimo, mentre l’architetto attendeva una reazione e il paziente impallidiva ma non riusciva a spiccicare parola) ma, in un certo modo, il paziente disconnetteva sistematicamente, per tutta la vita. Era laconico sì, ma per un forte motivo inconscio. Questo procedimento, credo possa essere ricondotto sotto il termine di isolamento, con il quale già Freud (1925) indicava una modalità di interrompere le connessioni e che riconduceva al tabù del contatto (che nel nostro caso ci starebbe benissimo, anche per via dell’episodio della mano). Sennonché qui l’evitare che una cosa entri in contatto con un’altra raggiunge una precisione microscopica. Intendo dire che non siamo in presenza di un isolamento di un’idea da un’altra ma, all’interno di una rappresentazione di parola, di una componente da un’altra. In questo senso, l’accezione del termine “isolamento” viene modificata, precisata e allargata. L’effetto disgiuntivo di questa manovra psichica comporta la riesperienza di una condizione certamente arcaica ma non per questo psicotica: quella della fase in cui il paziente – come anche tutti abbiamo fatto – era in grado di udire il linguaggio ma non di riprodurlo. Certo, in quella situazione l’Io nel senso proprio del termine 10 ancora non c’era. E il ripetere una situazione di questo genere è qualcosa che consente all’Io attuale, metaforicamente, di mostrare appunto (Semi, 1986) che è capace di ricordarsi di quando non c’era. La sensazione di vuoto o la paura della morte, allora, rappresenterebbero alla coscienza un periodo di silenzio motorio, di incapacità fonatoria altrimenti non ricordabile. Sarebbe però insensato parlare di “irrapresentabilità” o di “indicibilità”, visto che – se si presentano a livello conscio – da qualche parte queste rappresentazioni – magari negative, magari rappresentazioni di una mancanza – da qualche parte ci sono. Come mai, ci possiamo chiedere, una esperienza che ha simbolizzato la castrazione ha fatto da detonatore ad una dinamica psichica di questa portata? E perché una persona deve poter riconfigurare attualmente situazioni così precoci? Qual è stato il premio gioioso ma anche qual è stata la trepidazione o addirittura l’angoscia legata alla scoperta di poter cominciare a riprodurre i suoni? Quale sentimento di onnipotenza ha indotto, anche se sappiamo che poi questa onnipotenza è stata duramente sconfessata e per giunta ridimensionata in occasione dell’affrontamento dei conflitti tipici, primo di tutti quello edipico? E il particolare equilibrio di ricostituzione di sé che si ha alla pubertà può servire anche a riassestare o a ritornare a quegli equilibri antichi? Sono interrogativi che in parte mi fanno sorridere, perché, come vedete, sono in parte già risolti e in parte – ma solo in parte - senza risposta. E, in questo senso, anch’io rimango senza parole. Mi chiedo se sia una conseguenza del transfert del paziente. Ma è proprio qui l’ultimo punto che mi interessa mettere in evidenza: quanto conta il transfert o, per essere più esatti, come viene agito il transfert nelle nostre teorie? Quanto il ricorso a categorie come quelle del “non pensato” o dell’”irrapresentabile” o dell’”indicibile” non rischiano di razionalizzare una condizione di non risoluzione di un rapporto transferale? Il paziente si sentiva “finito” – e a me era venuto in mente il passo di Lutto e melanconia. Quando costruiamo una nostra ipotesi, non potremmo sentirla “finita”, limitata, senza sentirci per questo “finiti” nell’altro senso, quello melanconico? Forse l’agrafia e l’afasia e la laconicità di questo paziente m’hanno fatto ricordare quanto preziose siano le nostre parole – dei pazienti e dei terapeuti, intendo dire – e quanto dobbiamo allora usarle cautamente ma con una certa coerenza durante la costruzione delle nostre ipotesi. La costruzione di nessi è quanto possiamo fare di creativo, purché abbiamo la consapevolezza del fatto che si tratta di collegamenti che istituiamo noi. E’ importante ricordarsene, come ricordarsi che la loro rottura, se qualche volta può servire a costruire altri collegamenti, talora può anche configurare un’automutilazione, un suicidio parziale. 11 Bibliografia Freud, S. (1915) Metapsicologia. OSF, 8. Freud, S. (1925) Inibizione, sintomo e angoscia. OSF, 10. Glover, E. (1968) La nascita dell’Io. Astrolabio, Roma 1970. Semi, A.A. (1986) Il discorso iperbolico. Riv. Psicoanal., 32, 1, 73-91. Winnicott, D.W. (1987) Lettere. Cortina, Milano 1988. Winnicott, D.W. (1989) Esplorazioni psicoanalitiche. Cortina, Milano 1995. Riassunto L’A. discute un celebre lavoro di Winnicott ed uno proprio, alla luce di due casi clinici. Egli espone un’ipotesi metapsicologica relativa alla condizione di “impensabilità”, distinguendo i livelli topici dell’esperienza terrorizzante dei pazienti e indicando la possibilità dell’isolamento delle componenti acustiche dalle componenti motorie delle rappresentazioni di parola: queste ultime verrebbero in seguito rimosse. Summary Recalling the secret suicide The author discusses a famous work by Winnicott and another by the author himself, taking into consideration two clinic cases. He examines a metapsychological hypothesis related to the condition of "impossibility to thinking", and he distinguishes the topical levels of the terrifying experience of patients. He indicates the possibility of isolation of a few components related to the "hearing" from the components related to the "movement/moving" in the representations of the words: the last ones would be repressed later on. Antonio Alberto Semi Castello 3471. 30122 Venezia 12