la nostra cultura - Comunità di Capodarco

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la nostra cultura - Comunità di Capodarco
LA NOSTRA CULTURA
PREMESSA: “CULTURA”
Nell’italiano parlato di oggi “cultura” è una parola dai molti significati
A volte per “cultura” s’intende il “saper molte cose”; usano la parola “cultura” in questa
accezione molte persone semplici, ma anche acclamati divi della televisione; Mike
Buongiorno, l’immortale Mike Buongiorno: i suoi campioni debbono dimostrare di sapere
molte cose; che poi conoscano a fondo la filosofia platonica o l’epistemologia del circolo di
Vienna, oppure abbiano mandato a memoria l’orario ferroviario, per lui non conta molto, il
monte premi rimane lo stesso.
Questa interpretazione minimalista oggi è del tutto perdente. Sul piano della quantità delle nozioni il
più semplice dei computers strabatterà sempre il più informato degli “uomini di cultura”.
A volte per “cultura” s’intende l’insieme degli uomini emergenti, scrittori, artisti cineasti:
quelli che tutti riconosciamo immediatamente quando appaiono in TV. Si dice “Ai funerali
di Alberto Sordi era presente tutta la cultura italiana”; Lorsignori magari chiacchieravano
del più e del meno, ma erano presenti.
La parola “cultura” ha altrove il suo vero e interessante significato.
La parola “cultura” assume senso su di un duplica sfondo:
sullo sfondo complessivo della condizione umana: l’uomo è l’unico essere chiamato ad
autrorealizzarsi in libertà, a còlere seipsum (coltivare se stesso); e dunque la parola “cultura”
indica l’insieme delle scelte che un uomo o un gruppo sociale operano per autocoltivarsi: più
esattamente, la parola “cultura” indica
o l’insieme dei fini che un uomo o un gruppo sociale scelgono come propri, perché li
sentono come valori autentici, cioè importanti o addirittura determinanti per la
propria crescita;
o l’insieme dei mezzi che adottano come idonei a conseguire quei fini;
sullo sfondo dell’attività della mente umana, che incessantemente organizza pensieri ed
esperienze secondo determinati criteri ordinatori, conferendo loro una logica, un prima e un
poi, un più importante e un meno importante.
NEL QUADRO DELLA CULTURA DEL GRATUITO
Anche nella Comunità di Capodarco dell’Umbria, come in tutte le altre comunità del gruppo sparse
in tutta Italia, il “Progetto Capodarco”, all’insegna del primato del vivere con sul vivere per, voleva
essere un’esperienza di solidarietà vissuta nella forma specifica della condivisione.
Condivisione totale tra soggetti emarginati e soggetti “normali”; non volevamo però limitarci alla
“condivisione del cuore”, bensì puntavano alla condivisione del quotidiano (“del cesso”), delle
condizioni feriali, normali nell’esistenza di ogni giorno.
Quell’esperienza si è realizzata, fino in fondo, solo per una minoranza di soci. Tutti gli altri non
hanno potuto, o non hanno voluto; ma questo non vuol dire che, automaticamente, solo per il fatto
di non vivere tutti insieme appassionatamente, sotto lo stesso tetto, l’esperienza di questi altri sia
stata meno impregnata di gratuità.
In ogni sua espressione la Comunità di Capodarco dell’Umbria va inquadrata in quella Cultura del
gratuito che, minoritaria e claudicante, tenta di farsi largo in un’età come la nostra, dominata dalla
cultura dell’utile e del potere. Abbiamo piena coscienza di essere minoranza, e di esserlo diventati
sempre di più da quando ( Capodarco di Fero dl 1966, Capodarco dell’Umbria Dal 1974)
muovemmo i primi passi. Mail sogno rimane sempre lo stesso
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IL CUORE DELLA CULTURA DEL GRATUITO
Chi vive la cultura del gratuito adopera, come categoria per leggere la vita e per viverla al meglio la
categoria del dono: Vivere significa tante cose, ma soprattutto vivere vuol dire donare e accettare
doni. Senza il dono la vita è insipida
Siamo agli antipodi rispetto alla cultura vincente oggi. La cultura vincente oggi
o è individualista: individuo e persona materialmente indicano la stessa realtà: l’uomo come
centro di dignità e di valore; ma il personalismo sottolinea che, tra le caratteristiche di questa
realtà, c’è una totale apertura all’altro come elemento indispensabile per definire se stesso,
nell’individualismo invece l’altro è un nemico, o quanto meno un concorrente;
o è consumista: il consumismo
o sul piano materiale, consiste nel consumare (cose, oggetti, denaro, ecc) non in base
ad un bisogno reale, ma in base ad un bisogno artificialmente indotto, soprattutto dai
cosiddetti “persuasori occulti”, quelli che (come la gran parte dei mass media) ti
convincono senza farti percepire la loro presenza;
o sul piano culturale consiste in un drammatico stravolgimento della vita, grazie al
quale uno si misura non su quello che è ma su quello che possiede (“conosci quel
signore di Perugia?...” – “Chi? Quello che ci ha quella Mercedes da 150 mila €?”).
La gente s’intruppa nel gregge degli individualisti e dei consumisti.
Noi diciamo: questa non è autocoltivazione, ma suicidio. Autocastrazione. E con noi lo dicono
molte altre persone, che non riescono a vivere nella gabbia che ci siamo costruiti, non si rassegnano
all’ipotesi che la vita possa ridursi alla gabbia del do ut des (“io ti do affinché tu mi dia”), dell’io
tiro solo se raccolgo, dell’io investo e non regalo.
Da queste persone sono nate le molte realtà che concretamente si ispirano alla cultura del gratuito.
LE FORME DELLA CULTURA DEL GRATUITO
La cultura del gratuito assume nel nostro mondo forme diverse
La Cooperazione sociale
La cooperativa. La cooperativa è un’azienda. Un’azienda dai connotati anche diversi, ma molto
particolare nella sua fisionomia di fondo.
Prendiamo la forma cooperativa più significativa: la cooperativa di lavoro.
In una cooperativa di lavoro, per poter meglio rispondere ai bisogni di chi le ha dato origine, il
datore di lavoro (il “padrone”) e il prestatore d’opera (l’”operaio”) si identificano; in altre parole,
sul versante del bisogno, i soci di una cooperativa di lavoro le hanno dato vita e la tengono
in vita per procurare a se stessi un reddito decoroso;
sul versante del potere, in una cooperativa di lavoro chi decide è l’assemblea dei soci,
mentre il consiglio di amministrazione la governa, seguendo le decisioni dell’assemblea.
Grazie a questa sua particolarità la cooperazione ha avuto uno specifico riconoscimento da parte
della nostra Costituzione Repubblicana
La cooperativa sociale. Tra le varie cooperative di lavoro oggi ne esiste una particolare: la
cooperativa sociale. In più rispetto alle normali cooperative essa ha -appunto- lo scopo sociale,
l’impegno ad operare a vantaggio delle fasce deboli della popolazione. In Italia la cooperativa
sociale si è articolata in due forme, che in gran parte oggi tendono ad uniformarsi:
cooperativa per l’inserimento lavorativo, che tende a personalizzare il lavoro a misura della
persona che non riesce ad inserirsi in un lavoro normale;
cooperativa di servizi, che in forma cooperativa organizza servizi a vantaggio dele fasce
deboli della popolazione.
Il volontariato
Volontariato, fenomeno di grande rilievo, ma dai contorni molto labili: associazioni formali, gruppi
informali, associazioni registrate e non registrate, gruppi a tempo, interventi a tema, ecc.. Non sono
possibili stime quantitative precise. 3, 4, 6 milioni i volontari in Italia?
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In tempi recenti il numero delle associazioni è cresciuto, ma è diminuito il numero degli membri di
ogni singola associazione.
Nel suo insieme il “fenomeno volontariato” si è stabilizzato dal punto di vista della quantità
complessiva degli aderenti, ma la sua presenza nella società sembra piuttosto impallidita rispetto a
quando, qualche anno fa, l’allora Presidente della Repubblica Scalfaro ne tessé l’elogio in TV, per
l’ultimo dell’anno, in toni epico/elegiaci che ci gratificarono, ma un po’ci fecero anche sorridere.
a) Il volontariato del tempo libero
La forma più diffusa di volontariato è il volontariato del tempo libero. Il volontario è un
cittadino che (dopo aver assolto i doveri del proprio stato) dedica gratuitamente una
significativa parte del proprio tempo, con continuità e competenza, ad iniziative di rilevanza
sociale, umanitaria, culturale: così la FIVol (Federazione Italiana del Volontariato) del
nostro defunto amico Luciano Gavazza, la più robusta e diffusa associazione di associazioni
di volontariato.
Analiticamente:
dopo aver assolto i problemi del proprio stato: sarebbe risibile pretendere di
dedicarsi seriamente ad un’opera gratuita se uno non ha prima fatto quello che
doveva nella ferialità della vita;
una parte significativa del proprio tempo libero: non gli avanzi;
con continuità: gli interventi a singhiozzo suscitano solo attese destinate ad essere
disattese e quindi, in ultima analisi, a generare frustrazioni;
con competenza: non la competenza dello specialista, ma quella di colui che conosce
le regole essenziali del come muoversi in quel dato Campo;
gratuitamente:sono ammessi solo rimborsi spese, per esempio per il telefono verde;
il candidato al suicidio che telefona da Catania a Milano perf chieder perché mai non
dovrebbe farlo) in genere ha l’avvertenza di chiedere “Richiamatemi voi”; e allora la
bollette del telefono sale…
b) Oltre il volontariato del tempo libero: il volontariato della cittadinanza
Oltre il volontariato del tempo libero, esiste un volontariato che potremmo chiamare
“volontariato della cittadinanza”, il volontariato praticato da un soggetto che
nella sua interiorità ha spostato nettamente in avanti, rispetto alla coscienza media del suo
tempo, l'asse complessivo dei diritti di cui si sente titolare e dei doveri ai quali si sente
obbligato;
nella sua prassi s’impegna, sempre con competenza e continuità, a volte anche con un
corrispettivo in denaro che gli permetta di vivere, in attività alle quali nessuna legge lo
obbliga, in problemi per la cui soluzione non ha nessuna investitura: lo fa solo perché la
coscienza di un determinato problema ha dilatato in lui la forza e il raggio d’azione della sua
morale, dei suoi “devo” che si radicano nella sua coscienza individuale.
Si pensi al WWF e ad Amnesty International, o al Tribunale per i Diritti del Malato, ai
“Girotondini”, ai “No global”, ecc.
c) Oltre il volontariato della cittadinanza: il volontariato della condivisione
Oltre il volontariato della cittadinanza, il volontariato della condivisione è quello di colui per
il quale la condivisione non è un otpional di lusso, la belle abitudine della domenica
pomeriggio, una parentesi; no, la vita condivisa è l’unica vita che egli concepisce, il bisogno
altrui non interessa solo la sua professionalità ma investe l'intera sua esistenza; ne ricava
ANCHE il necessario per il suo sostentamento, i suoi modesti hobbies, ma i VIP gli fanno
tanta tenerezza.
IL volontariato di condivisione si capisce solo sul fornite della persona accolta.
I disabili, ad esempio, spesso non chiedono solo terapia fisica e inserimento lavorativo.
Ma a volte aspirano a vivere in una famiglia vera, non si accontentano di un generico “clima
familiare”. E non si può dare un sasso a chi chiede un pane, né un serpente a chi chiede un
pesce. Non si può dare un servizio a ore a chi chiede una famiglia.
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“Ma l’importante è condividere il cuore”. NO e poi NO!! Non si può contrabbandare come
“La forma più alta d’amore” la condivisione del cuore, così facile, così gratificante per chi la
pratica; non la si può sostituire alla condivisione del cesso, che sembra volgare a chi è nato
con la puzzetta sotto il naso. Volgare invece è proprio il cuore, pompa presuntuosa che
pretende di sostituire la vita.
Ragazzi del Servizio Civile, i vostri genitori vi hanno amato col cuore o con la vita?
Nei nostri freschi e ingenui sogni di 40 anni fa quello della condivisione doveva essere il
primogenito di tutti i volontariati. Uno bussa alla tua porta, tu apri, vedi che è mal ridotto,
che sfiata, che ha fame e freddo, e dici: “Entra, su!!”. Quando se ne andrà? “E che ne so?! rispondeva Tore alla Giuina che gli chiedeva quando poteva riavere quei certi soldini- “Miga
so ‘n’indovino!!”
Io non voglio viver per loro, io voglio vivere con loro. Gli emarginati che il Signore mi ha
fatto incontrare non sono entrati solo nella mia professionalità, sono entrati nella mia vita,
l’hanno occupata, non hanno nessuna intenzione di andarsene, grazie a Dio. Anche se dalla
vita con loro devo pure tirar fuori quel tanto d’argent che permetta a me e alla mia famiglia
una vita decorosa.
Merce rara, il volontariato di condivisione. Merce rara. Doveva essere la forma più ovvia di
volontariato, è stata ed è la forma meno praticata.
Non la praticò a suo tempo il Marchese innominato che, subentrato a don Rodrigo morto di peste, a
titolo di riparazione offri a Renzo e a Lucia il pranzo di nozze proprio in quel tetro maniero che era
stato l’emblema di tutti i loro terrori. Il Marchese curò di persona l’allestimento del banchetto,
sorrise a tutti, si profuse in inchini, volle addirittura servire a tavola, ma al momento di mangiare si
ritirò con don Abbondio e altri notabili locali in una saletta a parte: parola di don Lisander, “aveva
abbastanza umiltà per mettersi al di sotto di Renzo e Lucia, non abbastanza per mettersi alla pari”.
Ma non l’hanno praticata, quella forma di volontariato, nemmeno le Suore della Carità di Madre
Teresa: “Caro fratello sfortunato, io ti rendo tutti i servizi che la dignità della tua persona esige, ma
… sia ben chiaro: questa è la casa che ospita te, quella è la casa di noi suore”. Appena un passo più
in là, ma “senza confusioni”.
Doveva essere la forma di volontariato tipico delle Comunità d'accoglienza, come la Capodarco
dell’Umbria. Non lo è stato. Al comunitario è subentrato l’operatore. ”Operatore sociale”, uno dei
tanti. Accanto all’operatore ecologico (vulgo lo scopino), all’operatrice domestica (vulgo: la donna
di servizio), all’operatore funerario (vulgo: il beccamorto). Accanto all’operatore delle fosse
biologiche, e a quello delle macchine movimento terra. All’operatore degli Avvisi di Garanzia
(vulgo: lo spiccacaldari)
L’operatore di condivisione in gran parte è ancora un sogno. La Comunità di Capodarco è come su
di un piano inclinato: scivola sempre più verso la realtà di una cooperativa sociale.
Buona cosa, una cooperativa sociale, certo, ma non nel caso nostro: in una comunità di accoglienza
tutto si struttura sulle perone che accoglie, in una cooperativa sociale quello che conta non sono
tanto i soggetti accolti, bensì i prestatori d’opera che li accolgono.
Il privato sociale
E tuttavia, se non è stato in grado di generare né volontari di condivisione né operatori di
condivisione, il volontariato ha generato, su scala molto vasta, il PRIVATO SOCIALE
La gente conosce solo il “privato speculativo”. Lavoro per guadagnare. “E per che altro, sennò?!”,
dice la gente. Tre medici bravi e ingordi si mettono insieme, trasformano la struttura fatiscente del
vecchio ospedale in una clinica di lusso, entrano nelle grazie dell’Assessore, forse (Dio non
voglia!!) gli allungano una bustarella sotto banco e ti buttano su un centro di riabilitazione che attira
clienti da tutta Italia. Bravi. Buone vacanze alle Seychelles.
Nel socio/sanitario il nostro "privato sociale" è tutt’altra cosa. Non viene promosso dallo Stato, ma
dalla società, non nasce dall’alto, ma dal basso. È senza scopo di lucro perché culturalmente è figlio
legittimo del volontariato e delle sue motivazioni.
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Il “principio di sussidiarietà”, entrato nel 2005 anche nello Statuto della Regione Umbria, dopo
essersi inserito nel Titolo V della nostra Costituzione e nella legge/quadro 328/1992, sancisce la
validità sociale della nostra presenza tra gli attori del servizio al quale i deboli hanno diritto, nel
momento in cui afferma che la soluzione di un certo problema sociale va affidata all’ente che si
colloca più immediatamente vicino ad esso. E nelle sedi co0mpetenti è stato esplicitamente
affermato che esso vale non solo tra Enti pubblici (“principio di sussidiarietà orizzontale”), ma
anche fra Ente pubblico e privato sociale (“principio di sussidiarietà verticale”).
Ma quanti secoli dovranno passare perché la Regione Umbria, statalista come poche altre, tiri fino
in fondo le conclusioni di quella scelta?
N.B. EMARGINATI PER LA TANGENTE SUPERIORE
Una notazione a parte, a insignificante. A volte noi del privato sociale, nati per trovare dal basso le
forme più efficaci per battere meglio l’emarginazione, rischiamo a nostra volta di venire emarginati,
anche se per la tangente superiore.
Oscar Luigi Scalfaro, quando era Presidente della Repubblica, in un famoso discorso di fine anno,
esclamò, sinceramente commosso: “I volontari sono degli eroi!”. Plauso unanime. Che poco dopo
venne ripreso iin una delle sue trasmissioni TV da Maurizio Gattone Costanzo. Come fosse un
complimento. “Disgraziata la nazione che ha bisogno di eroi!”, diceva Brecht.
In realtà questa impostazione mentale emargina i volontari, anche se per la tangente superiore. Sono
esseri superiori, gli esseri normali fanno altre cose.
“Madre Teresa è stata una donna eroica”: chi mai si permetterebbe di dissentire. Ma prima ancora
Madre Teresa è stata un donna intelligente, che ha “letto dentro” (intus) la vita, mentre la gran parte
dei suoi contemporanei si fermavano alla scorza, ne ha gustato il succo sapido, mentre gran parte
dei suoi contemporanei si limitavano a distillarne i veleni.
La vita è veramente intollerabile solo quando è insensata. La vita più è vuota e più pesante
Siamo seri. I tratti fisionomici del volontariato autentico sono quattro:
Il primo tratto fisionomico del volontariato e del privato sociale è il benessere di coloro
dei cui problemi ci si fa carico. Al primo posto ci sono, e debbono rimanerci, sempre loro.
2 Il secondo tratto fisionomico del volontariato è il benessere del volontario stesso. “Ma
cchì tt’o fa ffa’?!”. Già, se trovi cchì tt’o fa ffa’ diventi capace di qualsiasi impresa. Il
primato del principio di piacere. Alla lunga uno fa sempre e soltanto quello che lo gratifica.
“C’è più gioia nel dare che nel ricevere”: l’ha detto Gesù, l’ha riferito S. Paolo.
Il terzo tratto fisionomico del volontariato la sua rilevanza socio-politica: il volontariato e
il protagonista del privato sociale sperimentano forme nuove e più efficaci di approccio al
disagio e in tal modo dànno una mano e individuare quel “bene della polis” che è l’anima
della politica.
4 Il quarto tratto fisionomico del volontariato è la sua rilevanza culturale. Su quest’aspetto,
visto che parliamo di “cultura comunitaria”, vale la pena di fermarsi.
Impostato così, il volontariato, ai suoi vari livelli, e forse soprattutto il volontariato di condivisione,
può anche esser estremamente gratificante.
LA CULTURA DEL GRATUITO COME CULTURA ALTERNATIVA
Chi (come noi della Comunità di Capodarco dell’Umbria) ha scelto di mettersi insieme per battere
ogni forma di emarginazione non può farlo così, tanto per farlo, da praticone. Dio ci salvi dai
praticoni
L’ISTANZA ANTISISTEMA
In chi vuole seriamente impegnarsi per la promozione della persona emarginata non può mancare
una forte istanza antisistema. Per non perdersi nei meandri del piccolo “fai da te” l’operatore di
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condivisione deve preliminarmente ribellarsi con decisione al sistema che l’emarginazione la genera
a ciclo continuo.
Se quest'istanza anti/sistema manca in noi, ci manca qualcosa di vitale. Non ha senso alcuno aderire
la mattina a una manifestazione razzista e dedicare il pomeriggio ai malati. Non ha senso alcuno
sfruttare i propri dipendenti tutta la settimana per dedicare il week-end alle pesche di beneficenza.
O l'impegno volontario s'inserisce in una grande prospettiva di ripensamento e ridefinizione globale
dei rapporti che vigono tra gli uomini, o è solo un pannicello caldo.
Ieri, quando la gente comune faticava dall’alba al tramonto per mettere insieme il pranzo con la
cena, il volontariato più diffuso era quello delle signore della buona società, che soccorrendo i
"poverelli", a volte, disinnescando ola loro sete di giustizia, davano una mano al marito (banchiere o
uomo di governo) che perpetuava quel certo sistema sociopolitico, procurando altri “poverelli” alla
inesausta volontà di bene della sua Signora.
Il volontariato come cultura non può limitarsi alla denuncia, ma deve contribuire ad invertire la rotta
nel cuore di una cultura ormai insostenibile.
QUANDO È NATO QUESTO SISTEMA
Questo sistema è nato con l’Illuminismo.
Con l’Illuminismo nella nostra cultura hanno trionfato due categorie:
la categoria dell’utilità,
la categoria del potere.
E tutti noi, anche quelli che non hanno idee su nulla di nulla, abbiamo “respirato” questo mondo,
imparando a rapportarci con la realtà dall’angolazione dell’utile e del potere.
Grandi meriti
L'Illuminismo ha grandi meriti. L’Enciclopedia di Didérot e D’Alambert, riassumendo le sue grandi
conquiste, diventa come il sillabario degli intellettuali europei, una base solida e condivisa per le
loro indagini sull’uomo e sulla società. Montesquieu teorizza la necessità che in uno stato giusto il
potere venga suddiviso in legislativo, governativo e giudiziario. Voltaire svecchia il mondo
accademico. Rousseau fonda la scienza politica e la pedagogia moderne….: ma al di là delle singole
proposte, l’Illuminismo nel suo insieme
1. contesta lo svuotamento del valore delle realtà terrene operato da un certo (malinteso)
Cristianesimo, per il quale quello che conta è solo la vita eterna, che invece nell’autentica
visione cristiana è la sua vita terrena che diventa eterna; questa che viviamo -dicono
giustamente gli Illuministi- è l’unica vita, non la sua prova generale; la felicità non va attesa,
ma va costruita qui e adesso;
2. contesta il principio d'autorità: l’”ipse dixit” (l’ha detto lui: “lui” era prima Aristotele, poi
S. Tommaso d’aquino) non funziona più; il fatto che si sia sempre stati convinti d'una certa
tesi non ne è affatto garanzia di verità. Non accetteremo più nulla passivamente.
La RAGIONE è il vaglio di tutte le affermazioni. Durante la Grande Rivoluzione del 1789 venne
celebrato nella cattedrale di Notre Dame il Culto della Dea Ragione, intronizzata sull’altare sotto
forma di donna discinta.
Anche noi credenti adulti, ben lungi da pacchianate del genere, accettiamo il primato della ragione. Solo che
diciamo: tra i dati della ragione c’è anche la coscienza dei propri limiti di fronte agli interrogativi fondamentali
della vita, e quindi l’appello ad un Qualcosa o ad un Qualcuno che ci aiuti là dove la ragione arranca, cioè nella
risposta ai grandi e definitivi perché della vita, nel tentativo di sciogliere l’enigma del mondo (Turoldo).
Grandi conquiste del pensiero umano. Da esse non si torna indietro. Magari ce l’avesse avuto
l’Islam, nella sia storia, un suo Illuminismo!
E una pesante ipoteca
Gli Illuministi non parlano come filosofi puri, che ragionano nel limbo dei loro cieli intatti. Gli
Illuministi sono il megafono della borghesia, parlano come membri attivi e propositivi di una classe,
la borghesia -appunto-, che nel loro ambiente (la Francia e l’Inghilterra dei secc. XVII e XVIII) s’è
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letteralmente scatenata, e vuole in mano tutto il potere, il potere politico e il potere culturale, così
come da tempo ha in mano, e intende incrementare allo spasimo, tutto il potere economico.
Dietro il filosofo illuminista c’è il più nuovo di tutti i protagonisti culturali, l'imprenditore/mercante
che spinge il discorso filosofico in una direzione pragmatica. Lui finanzia la ricerca, riempie d’oro
le tasche dei Philosophes, ma vuole vedere risultati concreti. Che cosa ce ne facciamo -chiede
l’imprenditore/mercante al filosofo- di questa vostra ragione così disinfettata e improduttiva?
E la risposta se la dà da solo: “Ve lo dio io cosa ci facciamo con la ragione! Con la ragione ci
dominiamo la vita, plasmiamo la vita come piace e conviene a noi!”
E così le teorie illuministe diventano il caposaldo dell’individualismo borghese.
Cambia tutto
Cambia la vita di ogni giorno. Da quel momento le invenzioni si moltiplicano e la nostra vita ne
esce, al tempo stesso, arricchita sul piano della funzionalità e impoverita sul piano dell’umanità e
della fantasia.
Cambia la visione del mondo. Per secoli il termine “scienza” era stato abbinato a “filosofia”: erano
due diversi punti di vista per “conoscere come stanno veramente le cose”. Adesso trionfa l'inedito
binomio scienza-tecnica: non interessa più a nessuno sapere “come stanno veramente le cose”,
quello che interessa è tradurre il prima possibile le scoperte scientifiche in espedienti tecnici che
agevolino la vita dell’uomo.
Cambia la ragion d’essere dello stare insieme tra uomini.
Questo stare insieme aveva fatto aggio su diverse parole/chiave: il benessere, il bene comune, la
giustizia, la vita eterna,…Adesso tutte le parole/chiave svaniscono e ne rimane una sola.
DOMINIO. Tutto qui
LE PRIME ISTANZE CONTRO IL SISTEMA
Ben presto prende a serpeggiare in Europa la critica all’Illuminismo. Nel 1800 il Positivismo lo
esalta sul piano scientifico e lo snobba sul piano filosofico, ma in quegli stessi anni
A inizio secolo Donatiene de Sade (niente di meno!! Il… “titolare” del sadismo) accusa i
Philosophes di ipocrisia: “Avete affidato a Kant la formulazione d'un principio di facciata, il
famoso "Rappòrtati agli altri sempre come a dei fini, e mai come a dei mezzi", mentre in
realtà voi usate gli altri sempre e soltanto come mezzi";
Più tardi Friederich Nietzsche denuncerà la follia di una ragione che presume di
monopolizzare la vita; secondo lui la ragione si autocondanna quando si insedia come
principio di unità di tutte le cose, quando vuol misurare le identità, che sono sempre ribelli
all'inquadramento; solo nella "disidentità" è possibile il vero sviluppo, che o sarà
"rizomatico", aritmico e oscuro come quello delle radici, o non sarà affatto.
Tesi che tornano in tutta la filosofia successiva. Prima Bergson e Blondell, all’inizio del 900, poi il
personalismo comunitario di Mounier e l'esistenzialismo, infine Heidegger, in toni diversi dicono
tutti che l'imperversare della tecnologia non può durare all'infinito, che non si può stupidamente
puntare a "produrre di tutto e di più".
S’impone una radicale ri/visitazione delle categorie interpretative della vita.
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE
Chi sugli Illuministi picchia duro, negli anni 30 del XX secolo, è la Scuola di Francoforte, la
Facoltà di Sociologia dell’Università della città tedesca.
Alla Facoltà di Sociologia dell’Università di Francoforte, dove insegnano fra gli altri Fromm ed
Marcuse, ma soprattutto Horkheimer (“La teoria critica della società”) e Adorno (“La dialettica
dell’Illuminismo”), si tenta di ricondurre alle proprie sorgenti quello che succede in Europa, sia tra
le due guerre: (dalla vicenda della Repubblica di Weimar alla nascita della società opulenta,
passando per i totalitarismi nazifascista e stalinista), sia dopo la seconda guerra mondiale (la guerra
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fredda, le scienze umane, l'arte d'avanguardia, l’avanzata impetuosa della tecnologia, la nascita
dell'industria culturale, la complessità tipica della modernità, le molteplici radici della crisi
d'identità dell'individuo).
L’Illuminismo come culto del dominio, cioè del potere e della produzione
Contro gli Illuministi il principale capo d’accusa formulato dalla Scuola di Francoforte fu quello di
aver divinizzato la sete di dominio, di non riuscire a vedere altro che il potere come motore della
vita sociale.
1. Dominare la natura, attraverso la scienza e la tecnica.
2. Dominare la storia attraverso la politica.
Al di là di tutti i bei discorsi, occultato dietro le più nobili coperture ideologiche, questo è stato il
valore effettivamente vissuto dell’Occidente “illuminato”.
Quella che da noi ha veramente funzionato è stata la categoria della utilità.
La società non è la somma algebrica degli individui che la compongono, ma è un tutto che
obbedisce a leggi proprie, un sistema al cui interno tutte le varie componenti (l’economico, il
sociale, lo psicologico, il culturale, eec) sono strutturalmente (non episodicamente, né casualmente)
collegate e si definiscono reciprocamente.
Una volta che il motore della convivenza civile è diventa l'utilità, entriamo tutti nel duplice o
ingranaggi di due sottosistemi:
o il sottosistema ECONOMICO, incentrato sul primato assoluto della PRODUZIONE;
o il sottosistema POLITICO, incentrato sul primato assoluto del POTERE.
La produzione illimitata fa nascere il consumismo: se i bisogni non ci sono, bisogna crearli
artificialmente, bisogna mettere in circolo l’idea dell’ “automobile di prestigio”, come se un genio
in Panda diventasse all’improvviso un imbecille, e un buzzurro alla guida di una Ferrari diventasse
ipso facto un genio; bisogna mettere in circolo la vergogna di “non essere alla moda”, ecc.
Il potere come fine a se stesso uccide la politica inaridisce l’uomo, perché la politica, quella dal
profilo alto, è una delle attività più nobili e maggiormente degne dell’uomo.
Gli uomini, i giovani soprattutto, accettano di contare solamente nel momento in cui devono
produrre e nel momento in cui devono consumare; quando devono produrre, il più possibile, a testa
bassa, diventano in tutto e per tutto “burattini ubbidienti”(don Milani), come quando di sentono
impegnati a consumare “cose eccellenti”; in ultima analisi, si sentono qualcuno solo quando tifano
per la “squadra del cuore”.
L’uomo a una dimensione
Con l’Illuminismo è nato l’Uomo a una dimensione (Marcuse), integrato in tutto e per tutto nel
sistema, bisognoso di riempirsi la bocca di parole come libertà e dignità, esecutore docile di
programmi preconfezionati altrove. In realtà si attivano processi che, almeno tendenzialmente, sono
tutti mirati a scatenare la guerra di tutti contro tutti. La nostra è ormai una civiltà eminentemente
concorrenziale. Concepiamo tutto come se fossimo impegnati 24 ore su 24 in una gara con gli altri.
Qui tutta la portata culturale della Festa dei Ceri, che sono ANCHE (non soprattutto) una “gara”, ma una gara
talmente particolare che i “concorrenti” non possono sorpassarsi!
Una sofferenza immane
Con questo tipo di approccio con la vita si vive male, tutti. La nostra umanità viene umiliata quando
l’imperativo categorico è quello di comandare più di tutti e produrre più di tutti.
I nostri grandi problemi di oggi hanno sempre una spiegazione patologica e una spiegazione
culturale, che tracimano l’una nell’altra. La droga, l’alcoolismo, la depressione, l’autismo, le nuove
dipendenze informatiche affondano sempre le loro radici nell’humus della nostra cultura.
Sul piano sociale, quando all’interno di una comunità, di qualsiasi tipo, i rapporti vengono impostati
strutturalmente sul potere, l’uomo ne esce non solo logorato, ma stritolato. La letteratura e il cinema
moderni sono pieni di personaggi alienati, sperduti, impauriti in un mondo che non sentono più
come loro, perché il potere incombe anche quando rimane occulto, esercitato come fine a se stesso e
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gloria di colui che è riuscito a metterci sopra le mani. L’autore che più di ogni altro ha colto la
drammaticità di questa nostra situazione è Kafka, sia ne Il castello che ne Il processo.
Non per nulla la nostra è la prima età della storia che ha conosciuto il suicidio di adolescenti.
L’ALTERNATIVA: IL RECUPERO DELLA SOLIDARIETÀ
Gran parte del pensiero filosofico contemporaneo, presa coscienza che l’inedita accoppiata tra
tecnica e individualismo sfrenato può cancellare l’umanità dell’uomo, è alla ricerca d’una vera
alternativa all’individualismo borghese.
Di più: il monopolio della tecnica può avviare la terra alla sua distruzione fisica, se si continua a scherzare con il buco
dell’ozono, come fa Bush.
All’enorme dilatarsi delle possibilità tecniche doveva corrispondere un accrescimento adeguato
della coscienza morale collettiva. Non è successo. Cosa possiamo fare?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo preliminarmente chiederci: qual è, tra o tanti mali, il
male del male nell’uomo di oggi?
Tutte le analisi filosofiche e sociologiche, non meno che l’esperienza di tutti noi, ci dice che io male
dei mali è la solitudine. L’uomo di oggi è profondamente solo. Solo sul piano esistenziale, sul piano
relazionale, sul piano operativo, sul piano morale. Allora, prima di ogni altra cosa occorre
recuperare il primato della solidarietà.
RECUPERARE IL PRIMATO DELLA SOLIDARIETÀ
La coscienza comune deve crescere, recuperando, nel modo più vasto e articolato che sia possibile,
la solidarietà autentica. Senza accontentarsi di pannicelli caldi: la solidarietà in ogni progetto
autenticamente umano va messa al primo posto.
Non esistono nella cultura illuminista motivazioni razionali sufficienti a rendere ragione d'uno
specifico dovere morale di sostegno alle fasce deboli della società; la filantropia è un piacevole
optional del progetto-uomo illuminista, la gratuita ciliegina sulla torta, ma non si parli di un vero e
proprio dovere di "farsi prossimo" di chi non ce la fa!
L'unico appello era rivolto ai ricchi: Dategli sotto ad arricchire ancora, perché il benessere del
povero sarà il naturale riverbero della ricchezza del ricco. Parola di Adam Smith, Saggio dulla
ricchezza delle nazioni
Viene spazzato via tutto il pensiero solidarista. E viene spazzata via quella fitta trama di
associazioni, comunità, confraternite che secondo W. Ullmann configurava quasi un "privatosociale" ante litteram ed incarnava un senso del "potere dal basso", incentrato sui bisogni concreti
della persona concreta, radicalmente diverso rispetto a quello che noi tutti, in occidente, abbiamo
finito per interiorizzare con l’Illuminiamo. Non per nulla nell’età l'Illuminismo nascono i grandi,
lugubri istituti dove vengono concentrati tutti: handicappati, psicolabili, ritardati mentali,
schizofrenici. Il motivo dichiarato è quello di assisterli. Il motivo reale è quello di difendersi dai
rompicoglioni di tutti i tipi, rinchiudendoli.
Se l’Illuminismo ha schiantato l’idea stessa di solidarietà, noi dobbiamo rimetterla al centro, per
invertire il cammino di distruzione della vita che oggi è in atto.
Recuperare l’utopia
Oggi nel linguaggio corrente “utopista” equivale a “imbecille”. E invece l’utopia è il motore della
storia: La storia esce dal piccolo circolo del quotidiano, perché ci ancora chi sogna mete del tutto
irraggiungibili nella loro materialità, ma tali da contribuire in maniera determinante a dare spessore
di umanità a chi nonostante tutto continua a perseguirle. Galeano: L’utopia serve a camminare.
Totalmente utopico è il Vangelo di Gesù. Il livello ottimale della vita del singolo è nel tentare di
“Essere perfetti com’è perfetto è il Padre”. E la solidarietà tra le persone va ricondotta al fatto che
la vita è un bene intrinsecamente paradossale, che cresce nella misura in cui viene donata. "Chi
accaparra la propria vita la perde, chi la mette a disposizione degli altri l'accresce". Utopie.
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Tra le molte riedizioni che nella storia ha avuto l’utopia del Vangelo, quella di Francesco d'Assisi.
Il suo motto era Evangelium sine glossa, il Vangelo va letto senza commenti. Ma non è possibile,
l’avevAno già nOtato gli Apostoli, quando avevano sentito come “troppo duro” l’insegnamento di
Gesù circa l’uso delle ricchezza. Troppo duro? E voi provateci lo stesso, tornate ogno giorno a
provarci.
L’utopia della scuola di Barbiana. L’ultimo della classe è l’alunno più importante. Gianni lo
zuccone che se l’era squagliata, non voleva più saperne di scuola? “E noi gli siamo corsi dietro
come pazzi, gridando: Gianni, ritorna! Perché senza te questa scuola non ha nessun senso!".
In campo civile, l'utopia degli anarchici. Sul piano socio/politico i più decisi e rigorosi cultori
dell’utopia sono stati gli anarchici, quelli seri: hanno sempre sognato una società capace di fare a
meno delle leggi e delle istituzioni, cioè dello Stato, grazie all’alto grado di responsabilizzazione dei
cittadini. Meta impossibile, come per gli arbitri di calcio l’obiettivo di non dover mai fischiare
durante la partita.
Meta irraggiungibile, ma la politica “alta” se ne giova di molto.
Puntare alla radice: ripartire dagli ultimi
Recuperare l’utopia per cambiare pagina. Per arrivare… dove?
Nel 1981 la Conferenza Episcopale Italiana emanò un documento intitolato La Chiesa italiana e le
prospettive del paese. La parola d’ordine di quel documento era RIPARTIRE DAGLI ULTIMI. Per
rinnovare davvero la vita occorre ri/partire dagli «ultimi», assumere come stella polare la
condizione dell’ emarginato. E perché mai?
Perché mai dovremmo “ripartire dagli ultimi”?
Dobbiamo “ripartire dagli ultimi” perché il succo della vita (come dirà Manzoni a proposito di
Renzo e Lucia, al vertice della loro esperienza), lo colgono solo loro: Mi compiaccio con te, Padre,
Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e
le hai rivelate ai semplici (Mt 11, 25). “I semplici”: quelli che ufficialmente non contano nulla.
L’uomo come “essere di bisogno”
Dobbiamo “ripartire dagli ultimi”perché, come insegna il nostro amico, Armido Rizzi, LA VITA È
PIÙ AUTENTICA LÀ DOVE COSTA MAGGIORE FATICA CONQUISTARLA.
Ce l’hanno contrabbandato come un essere avido di denaro e di potere, ma questo l’uomo lo è
diventato, l’uomo non era nato con queste caratteristiche.
Prima di ogni altra cosa, l’uomo è un ESSERE DI BISOGNO. La vita umana è un tendere
inesausto. Il bisogno di realizzare qualcosa che non c’è è il motore di questa tensione. E la prima
cosa che l’uomo sente di dover chiarire è il senso della vita. L’uomo come teso alla ricerca del
senso.
Ebbene, la condizione di vita dell’emarginato esalta quel tendere e dunque è più umana della
condizione di vita dell'uomo normale. La differenza fra le lacrime di un bambino che piange per
puro capriccio e le lacrime di un bambino che piange per fame è totale. Nel pianto per capriccio c’è
lo sradicamento dall’essere, mentre le lacrime per fame sono la prima testimonianza
dell’appartenenza all’essere. E così la tensione che l’emarginato impiega (nel chiedere giustizia) è
la elementare carica utopica, è il non-ancora che saluta dalla lontananza del suo sforzo inceppato
il futuro di un compimento che per altri è abitudine, per lui è conquista.
TROVARSI ALTRI MAESTRI
Tutti noi veniamo quotidianamente presi di mira da una serie enorme di messaggi, la maggior parte
dei quali impliciti o addirittura subliminali, tali cioè da non raggiungere il livello della coscienza. Ci
indottrinano senza che noi ce ne accorgiamo.
È un indottrinamento ininterrotto, un formidabile “apprendimento dalla banalità patinata” che ci
induce a comportarci come tutti, a giudicare come tutti, ad assistere acriticamente agli stessi
spettacoli, a scimmiottare gli stessi VIP, a dimenticare l’altezza della nostra vocazione.
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Allora bisogna trovarsi altri maestri. Scegliere le riviste che acquistiamo. Sintonizzarci con certe
trasmissioni televisive. Con la TV bisogna anche, non soltanto divertirsi. Contattare in qualche odo
con coloro che alla nostra concezione della vita danno spessore di riflessione
La grande filosofia ebraica moderna
La nostra concezione della vita ai nostri giorni è stata sostenuta, articolate e illustrata soprattutto
dalla grande filosofia ebraica moderna. È una filosofia intinta nella Bibbia, magari anche
laicamente, ma che vuole restituire all’uomo un posto da persona tra persone.
L’ermeneutica di Gadamer invita gli uomini a collaborare per raggiungere una base comune, la più
ampia possibile, di interpretazione della realtà. Noi lo abbiamo chiamato “pluralismo in positivo”:
rimettersi continuamente in gioco, per esaltare ciò che unisce e ridimensionare ciò che divide.
Secondo la teoria dell’agire comunicativo di Habermas l’esigenza primaria che due secoli fa spinse
gli Illuministi a rinnovare la nostra cultura era un’esigenza di comunicazione: speranza delusa
quando nel modello di autocoltivazione ha preso a dettar legge la categoria del dominio. S'è seccato
tutto. Il primo effetto del disastro: abbiamo smesso di parlare. Era logico che questo accadesse. In
un tempo in cui tutto è volontà di dominio e vendita, si parla non per comunicare, ma per vincere e
convincere. Oggi dobbiamo riscoprire quella finalità di reciproca intesa che c’ è in ogni linguaggio.
Torniamo a parlare! Senza nessun secondo scopo.
Franz Rosenzweig intende rifondare la vita a partire dall’Altra sponda. Per l’uomo che teme il
momento in cui dovrà fare i conti con la morte, l’escatologia (il “discorso sulle ultime cose”) da
orizzonte diventa provocazione: la vita è movimento da e verso, e dunque quel punto omega tanto
temuto si candida a terminale che dà senso al movimento intero e lo struttura.
Martin Buber definisce la vita un essere appellati come soggetti che hanno la possibilità di
rispondere. Nel Dialogo è la nostra vita. C’è un abisso fra vita comunitaria e vita collettiva: La
collettività non è solidarietà, è affastellamento: impacchettati insieme, individuo vicino ad
individuo, insieme armati, insieme allineati; fra uomo e uomo tanta vita quanto basta a infiammare
il passo di marcia. La vita comunitaria invece si sostanzia dell'essere l'uno rivolto verso l'altro, della
volontà di darsi del tu, dell'offrire l'uno a l'altro la chiave di se stessi.
Emmanuel Lévinas denuncia che ormai la convivenza cosiddetta “civile” assume sempre più la
configurazione della guerra di tutti contro tutti. L’unica proposta radicalmente alternativa alla
tragedia culturale che incombe sul nostro mondo è nel primato assoluto dell’altro. L’epicentro del
mondo nuovo è Il Volto: l’anonimo che mi passa accanto; sempre originale, nella sua fisionomia e
nella sua storia. La legge dello sviluppo umano è l’incontro asimmetrico. E nella misura in cui “il”
volto dal quale mi proviene l’appello è indifeso, esposto a pagare nel dolore e nel silenzio tutti i
prezzi che esigono i signori del potere e del denaro, quell’appello si fa grido, e “comando”.
È il “Tu non uccidere!” dell’alba della creazione, liberato dall’involucro mitico che ce l’ha
trasmesso, emergente dal cuore delle contraddizioni di questo nostro mondo bello e disperato, un
mondo liberato e profanato al tempo stesso dalla tecnologia.
In campo cattolico
Se torniamo indietro di qualche decennio, incontriamo il grande contributo che i pensatori cattolici
hanno dato a questo modo di legere la vita: il Neospiritualismo della rivista Esprit e di Gabriel
Marcel, il Personalismo comunitario di Emmanuel Mounier, l’Umanesimo integrale di Jacques
Maritain.
L’autore più a portata di mano per noi è don Lorenzo Milani. Credo che tutti dovremmo avere
portata di mano almeno due testi: le Lettere di don Lorenzo Milani (BUR, Biblioteca Universale
Rizzoli) e Dalla parte degli ultimi. Vita del prete Lorenzo Milani, di Neera Fallaci, Milano Libri.
Naturalmente dovrebbe tutti possedere e leggere quello che la nostra comunità ha prodotto a livello
di riflessione. Almeno “L’utopia del quotidiano. Quando nacque la Comunità di Capodarco” e
“Solidali perché”. Chi li ha scritti ha la suprema ambizione di esprimere pensieri personali.
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LA “NOSTRA” SOLIDARIETÀ
Della visione solidarista della vita Capodarco ha dato un sua particolare versione.
Due sono le parole magiche che, nel nostro discorso, si illuminano l’un l’altra: CONDIVISIONE e
SOLIDARIETA’. Illustre sconosciuta la prima. Mal ridotta dall’uso la seconda.
“CONDIVISIONE”, NEL LIGUAGGIO DI OGGI: ZERO CARBONELLA
Nel vocabolario alloggiato nella mia libreria la parola “condivisione” non esiste; esiste il verbo
corrispondente, condividere, che significa avere unitamente ad altri (un’opinione, ad esempio), o,
meno comunemente, spartire.
Nella tradizione solidarista d’impianto laico l’aiuto a chi fa fatica richiama sempre la
Professionalità nelle Prestazioni rivolte all’Utenza (una professionalità asettica e rigorosamente a
tempo).
Nella tradizione cristiana l’aiuto a chi fa fatica richiama sempre il Servizio ai Poveri, il vivere per
loro. L’idea di andarci a vivere con è fuori orizzonte.
Per noi la parola condivisione indica la vita vissuta in comune con chi è nel bisogno
• nei suoi elementi materiali,
• accogliendosi reciprocamente, nel quotidiano, “così come si è”,
• elaborando e verificando insieme ogni giorno il "come dovremmo essere", insieme.
Se è fattibile, sotto le stesso tetto. Se non è fattibile (quando ad esempio, uno ha una sua famiglia
alla quale non è possibile ritagliare uno suo spazio da famiglia all’interno/a fianco della Comunità,
materialmente), spingendola il più avanti che sia possibile.
A forza di parlare di condivisione, a volte abbiamo indotto gente che vive vicino a noi ad adottare
anch’essi questo termine: oggi non è raro che un Direttore Diocesano Caritas inviti i fedeli che
celebrano la Quaresima a “compiere un bel gesto di condivisione” tirando fuori (ma che fatica!!)
qualche spicciolo per la raccolta indetta dalla Diocesi.
SOLIDARIETÀ, NEL LIGUAGGIO DI OGGI: DI TUTTO, DI PIÙ
Oggi la parola “solidarietà” è diffusissima e mal ridotta dall’uso e dall’abuso,
1. La solidarietà emotiva
La solidarietà emotiva consiste in un sussulto di reciproca appartenenza, forte ma momentaneo, che
si propaga per una specie di contagio affettivo in presenza di un caso clamoroso. Vi confluiscono il
bisogno di comunicazione emotivamente gratificante, una sincera anche se generica disponibilità
all’altro, il bisogno di sentirsi a posto e anche un po’ moderni; la solidarietà emotiva si nutre di
conformismo (fare come fa il vicino): non si capisce bene dove finisce il consenso verso la buona
azione proposta e dove comincia il consenso verso il media che l’ha amplificata.
È tipica della massa, come l’intende la sociologia: un esteso raggruppamento sociale riconducibile
ad un qualche comune denominatore. Un comune denominatore che può anche non essere
continuato, ma attivarsi in determinati tempi stabiliti (Natale, Quaresima, ecc.: tutti d’accordo,
“bisogna essere più buoni”), o covare sotto la cenere, in attesa di una ventata che lo ravvivi.
Caratteristiche della solidarietà emotiva sono
durata limitata: due giorni, poi la notizia dalla prima scivola nelle pagine interne;
episodicità: la generosità di un giorno è compatibile con il menefreghismo di tutta la vita;
superficialità: il gregge si muove quasi per un riflesso condizionato dilagante e caduco.
La solidarietà emotiva impegna la libertà dell’individuo solo epidermicamente; a volte può anche
rappresentare il primo passo di un cammino che, proseguendo in avanti, potrà diventare anche
molto serio, ma di per sé la sua funzione connaturata alla solidarietà emotiva è quella di gratificare a
buon mercato la coscienza. Potremo dire, con buona approssimazione: una funzione conservatrice,
con un tocco di modernità.
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2. La solidarietà meccanico-vitale
E’ quel senso di reciproca appartenenza che nasce d’istinto, attraverso un riconoscimento quasi...
olfattivo, tra soggetti collegati da vincoli vitali totalizzanti, di taglio viscerale (parentale o religiososacrale). E’ tipica della famiglia, del clan, delle sette religiose, dei gruppi nazionalistici più fanatici.
Vitale perché legata ai processi psico-biologici di definizione dell’io. Meccanica perché segnata da
un automatismo acritico che porta sempre e comunque a far proprie le ragioni del gruppo, anche
indipendentemente dalla qualità delle relazioni interpersonali.
3. La solidarietà organico operativa
Certe persone che sono state reciprocamente estranee, ad un certo punto, limitatamente a certe cose
da fare (una crociera, una casa da costruire in cooperativa, l’accoglienza di alcuni bambini di
Chernobyl, ecc.) si scoprono portatrici dello stesso, limitato progetto; e per realizzarlo instaurano
un legame organico (prevede dei ruoli) e operativo (è in funzione di una realizzazione).
Essa si nutre della correttezza del “do ut des” messo a punto nell’atto di stringere il patto iniziale. È
la solidarietà tipica di tutte le cosiddette società dette convenzionali (un gruppo sportivo, un partito
politico, una fabbrica, ecc.). È la forma di solidarietà di gran lunga più diffusa, al punto che a volte
tende ad identificarsi tout-court con la solidarietà. La libertà dell’individuo è seriamente e
sistematicamente impegnata, ma solo in una certa direzione; tu non vieni interpellato come persona,
ma come parte d’un tutto che è in funzione di qualcosa.
4. La solidarietà dialogico-discorsiva
È la solidarietà che nasce dal fatto che “tutti parlano la stessa lingua”. Nell’uomo il bisogno di
comunicare tra pari non è un optional lusso, è un elemento essenziale. Di questa solidarietà hanno
estremo bisogno le società democratiche, nelle quali solo di dibattito libero, profondo e partecipato
garantisce l’individuazione e la possibilità di promozione del bene comune.
La comunicazione della quale si nutre la solidarietà dialogico-discorsiva non è un parlare gratuito,
perché l’abuso della parola umilia e isola l’uomo, ma si snoda sullo sfondo di “beni” vitali, o di
“valori essenziali”: la libertà, il bene, la verità, la giustizia, l’informazione…
È qui il fondamento dello Stato di diritto, che nasce proprio per assicurare a tutti quei beni vitali.
L’impegno della mia libertà di realizzatore, che nella solidarietà organico-operativa nasceva dalla
volontà comune di raggiungere in una certa direzione un certo fine delimitato, qui nasce dalla
scoperta della mia libertà di uomo come intrinsecamente correlata alla libertà di altri uomini: il mio
bene personale è raggiungibile solo in un rapporto dialettico con il bene comune.
L’AUTENTICA SOLIDARIETÀ: INTERPERSONALE
Ognuna di queste forme di solidarietà, per quanto parziale, va valorizzata, ma nessuna di esse centra
il cuore della solidarietà, che è l’interpersonalità, l’incontro tra persone in quanto persone chein
assoluta reciprocità specchiano la propria infinita dignità nell’infinita dignità dell’altro.
Un’ottima definizione della solidarietà interpersonale ce l’ha offerta Giovanni Paolo II (nella
Sollicitudo rei socialis, al n. l38): La SOLIDARIETÀ è la ferma e perseverante determinazione a
impegnarsi per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo responsabili di tutti ( perché tutti
siamo uguali come immagine di Dio, riscattati dal sangue di Cristo, oggetto dell'azione perenne
dello Spirito).
La definizione si articola su due livelli: un livello antropologico, proposto a tutti, ed un livello
teologico, valido solo per i credenti:l’abbiamo messo tra parentesi, ne riparleremo nel capitolo
dedico ai rapporti tra solidarietà e carità.
A livello antropologico, la solidarietà consiste in un senso di radicale appartenenza non solo alla
grande famiglia umana, ma anche al proprio tempo e al proprio luogo, dal quale nasce quella ferma
e perseverante determinazione a impegnarsi per il bene di tutti e di ciascuno che è motivata dalla
convinzione che tutti siamo responsabili di tutti.
Volendo disegnare una rapida autopsia della solidarietà autenticamente umana, dovremmo dire che
i suoi elementi caratteristici sono quattro:
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1. profondità di radicamento: la solidarietà abita le fondamenta della persona;
2. totale senso di appartenenza alla grande famiglia umana, che è il solidum che
spinge la vita individuale a farsi responsabile verso tutto;
3. perseveranza a tutta prova, cioè attitudine forte ad incarnarsi in una serie di
comportamenti omogenei;
4. impegno a 360° sia sul piano politico (“il bene di tutti”) che sul piano interpersonale
(“il bene di ciascuno”);
Siamo parte essenziale d’un tutto vitale che ha il volto di tutti: questa è l’intuizione fondante della
Cultura della solidarietà. Ogni persona è LA persona: centro di dignità totalizzante, non
quantificabile, centrale solo per quello che è.
È la solidarietà della coppia degna di questo nome, delle forme forti di amicizia, di in un certo tipo
di militanza politica, dell’appartenenza non settaria ad una chiesa. La diversità non solo non fa
problema, ma è conditio sine qua non, in sua assenza la solidarietà affoga nell’omologazione.
È la solidarietà di una comunità d'accoglienza. È la scoperta dell’altro come Altro, che genera in
rapida successione rispetto, fedeltà, cura, gratuità E la libertà dell’individuo si rivela per quello che
è: non il fine supremo dell’esperienza umana, ma lo strumento principe e necessario per l’Incontro.
Questo tipo di solidarietà, la vera solidarietà, ti porta a ridefinire la vita, centrandola
o sulla categoria del bisogno,
o sulla categoria del dono
o sul primato dell’altro in quanto Altro, indispensabile per la realizzazione dell’io.
LA SOLIDARIETÀ NELLA VISIONE CRISTIANA DELLA VITA
Nella visione cristiana della vita la solidarietà occupa un posto di assoluto rilievo. Il Vangelo ha
inoculato nel nostro DNA la convinzione che noi uomini siamo un solidum, un tutt’uno, eppure…
Una parola emarginata nel linguaggio ecclesiale
Eppure la parola solidarietà è stata per secoli guardata con sospetto dai cristiani. Inventata dagli
Illuministi del 1700, essa voleva porsi come vero amore dell’uomo, alternativa alla carità cristiana,
che non sarebbe vero amore dell’uomo, ma amore di Dio truccato da amore dell’uomo. A questa
analisi, cervellotica e ingiusta, i Cristiani risposero evitando anche solo di pronunciare la parola
“solidarietà”; per questo in tutti i documenti pontifici antecedenti il magistero di Giovanni Paolo II
“solidarietà” ricorre poche decine di volte.
Ma nell'insegnamento di Papa Wojtyla quella parola ricorre circa 20.000 volte. E, come abbiamo
visto, è proprio di Wojtyla la più puntuale definizione del termine.
UNA PAROLA RECUPERATA OGGI DA DIVERSE ANGOLAZIONI
La parola tanto a lungo esorcizzata dalla Chiesa è oggi trionfalmente rientrata nel suo linguaggio
Secondo la coscienza autentica della Chiesa cattolica di oggi, così come essa vieneautenticamente
espressa in La verità vi farà liberi, il “catechismo degli adulti” pubblicato dalla CEI nel 1995, gli
uomini sono intiamente solidali fra loro perché formano un tutt’uno, a tutti i livelli: ontologico,
morale, sociale.
La solidarietà ontologica
“Ontologico” = che riguarda l’essere. Gli uomini formano un corpo solo. S. Paolo l’ha chiamato
“Corpo mistico”. Due misteriose ma vere solidarietà, una nel bene e una nel male, ci compattano.
Una SOLIDARIETÀ NEL MALE: il male c’investe, non ci dà respiro, ci penetra da ogni parte. In
mille forme: disgrazie, violenze, malattie, miseria, oppressione, ingiustizia, solitudine, morte.
Certo, molti mali dipendono dalla stupidità e dalla cattiveria umane. A questi mali sarebbe possibile
rimediare, se solo l’uomo lo volesse.
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Ma esistono altri mali ai quali non c’è rimedio. L’umanità è un magma in continua evoluzione, gli
individui e i gruppi si alternano rapidamente sulla scena del mondo, nascono, crescono, si
trasformano, muoiono; inevitabilmente questo continuo, inarrestabile movimento, provoca un attrito
continuo, i cui costi in termini di sofferenza personale o collettiva sono molto alti.
A questi mali non c’è rimedio.
La Bibbia ne prende coscienza dopo la tragedia della deportazione in Babilonia (586 – 538 a.C.) e,
con la favola/trattatello teologico nota come “racconto del peccato originale”, colloca l’inizio di
questi processi alle scaturigini stesse della storia umana tramite il racconto del peccato d’origine.
Qual è la sostanza di quel racconto?
Siamo tutti peccatori. Il cuore dell'umanità intera è corrotto. Nessun vivente è giusto davanti a Dio.
C’è una SOLIDARIETÀ NEL MALE che ci lega gli uni agli altri già prima che ognuno di noi inizi
il suo cammino nella storia. Tra questa solidarietà nel male e i peccati delle singole persone esiste
una reciprocità, si instaura un vero e proprio corto circuito:
la solidarietà nel male, inducendo l’uomo al peccato personale,
o lo chiude nel proprio egoismo,
o gli impedisce di condividere fino in fondo il grido di dolore e gli appelli alla salvezza
che gli provengono dagli altri uomini;
il peccato personale, incrementando la solidarietà nel male,
o indebolisce la possibilità di comunicarsi il bene da persona a persona,
o alimenta il contagio del male,
o deforma la coscienza, sia individuale che sociale,
o dà vita a strutture di peccato, cioè a forme di organizzazioni della vita (le istituzioni,
l’economia, ecc.) che funzionano solo in base all’odio di tutti contro tutti, e a loro
volta gravano sulle decisioni personali.
Si sviluppa così tutta intera una storia alienata da Dio: perdita della grazia, oppure costituzionale
incapacità di entrare in dialogo filiale con il Padre per amarlo sopra ogni cosa, oppure forza
endogena che inclina a chiudersi nell'esperienza terrena e ad assolutizzare i beni temporali.
A esiste anche una SOLIDARIETÀ NEL BENE, un qualcosa di radicale che unisce tutti gli uomini,
come un unico sangue che circola fra tutti e li compatta nel loro essere profondo: quel Dio che
momento dopo momento li crea a sua immagine, immette nel punto più intimo del loro essere
uomini un quid che innesca al tempo stesso tensione all’infinito e “nostalgia” d’infinito, e li…
accosta alla comunione trinitaria; e questo, attraverso percorsi che Dio solo conosce, li rende
personalmente partecipi del dinamismo che genera l’universo.
La solidarietà morale
La morale di un uomo è l’insieme dei devo che nascono imperiosi dalla sua coscienza. Kant li ha
chiamati imperativi categorici. “Uomo, sii quello che sei!”. L’uomo è, insieme, realtà e progetto: è
quello che è, e al tempo è chiamato a diventare quello che deve essere: e lo diventa secondo le
indicazioni che emergono dalla sua coscienza..
La morale cristiana, cioè l’insieme dei devo che nascono dalla coscienza illuminata da Cristo, non è
un correttivo della morale razionale, ma uno stile di vita radicalmente nuovo. Cambia la pulsione di
fondo. Amare diventa Amare come Cristo ha amato.
Se è vero che, sul piano della nostra natura umana, nessun uomo è un’isola, per cui (don Milani)
essere liberi equivale a scegliere da chi lasciarsi condizionare, sul piano della grazia nessun uomo
potrebbe da solo, con le sue forze, uscire dal regno del peccato e della morte.
La solidarietà sociale e politica
INSIEME è la parola/chiave della morale cristiana. L’individualismo diventa insensatezza. La
Comunione sulla quale si regge l’universo intero chiede di essere accolta non solo dalle singole
coscienze (accoglienza che rimane fondamentale), ma anche dalle strutture della vita degli uomini.
L’uomo per la sua intima natura è un essere sociale (Giovanni Paolo II).
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Senza rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti. Perciò la società è sostegno e
perfezione della persona. Col procedere della storia si moltiplicano i rapporti, si intensifica lo
scambio dei beni, cresce l'interdipendenza su tutta la terra, quasi a dar corpo alla vocazione del
genere umano a diventare una sola famiglia.
Da questa dimensione sociale, “nativa e strutturale”, derivano prima le comunità basate sui rapporti
interpersonali diretti, come la famiglia, la parentela, il vicinato, la cultura, la religione..
In un secondo momento vengono le formazioni sociali più ampie e più propriamente “politiche”,
basate sui rapporti mediati da strutture e legami posti in essere, tramite il dibattito democratico, per
raggiungere il bene comune: il sindacato, la città, la nazione, il sistema bancario, i trasporti, ecc.
Secondo la dottrina sociale della Chiesa ognuno deve guardare al prossimo come a un altro se
stesso, non solo nei rapporti interpersonali, ma anche nel creare strutture giuste, cioè promotrice
della persona nella comunità. Il comandamento cristiano della carità si rivela anche sul piano
politico come legge fondamentale dell'umana perfezione; la “tensione ad amare come Dio ama”
impegna a fare il possibile per edificare una convivenza solidale e pluralista, che consenta alle
persone e ai popoli di svilupparsi liberamente, con la propria identità e originalità. Ciascuno deve
assumersi impegni precisi, secondo le proprie possibilità, modificando, per quanto è necessario,
anche il proprio stile di vita. Cooperare allo sviluppo del popolo al quale si appartiene e a quello di
tutti i popoli è un imperativo per tutti e per ciascuno.
Qui è la radice prima
o dell’impegno politico di un cristiano: le varie strutture di vita che abbiamo posto in essere
(lo Stato, la scuola, la finanza, il commercio internazionale, ecc.) devono favorire la crescita
delle persone e la possibilità di incontrarsi fra di loro;
o del primato della sussidiarietà: il principio di sussidiarietà sostiene che, nei problemi che
vedono in ballo l’umanità dell’uomo, alla loro soluzione, tra le strutture esistenti, debbono
provvedere le strutture che al problema sono più vicine: e questo
o vale in senso orizzontale, fra strutture statali (quello che può fare il Comune non
deve farlo la Provincia, quello che può fare la Provincia non deve farlo la Regione,
quello che può fare la Regione non deve farlo il Governo centrale);
o vale in senso verticale, fra strutture messe in piedi dallo Stato e strutture messe in
piedi dalla società: quello che può fare la società con le sue invenzioni (un comitato
di quartiere, un’associazione di utenti, ecc.) non deve farlo lo Stato, c
o che farà un passo indietro, pur riservandosi gelosamente il compito di vagliare
l’efficacia dell’intervento
Purtroppo il nostro mondo individualista ha contagiato anche soggetti e movimenti sinceramente
religiosi, che pregano molto e fanno molta carità interpersonale, ma hanno rimosso la politica dal
loro orizzonte di vita, sembrano non avere consapevolezza della interdipendenza degli uomini e
delle nazioni e riducono la “potenza del Vangelo” a sostegno e nutrimento del proprio impegno
personale.
ALLA RADICE: “SIATE SOLIDALI TRA VOI PERCHÉ DIO È SOLIDALE CON VOI”
Ma, in ultima analisi, perché gli esseri umani dovrebbero solidarizzare e sostenersi l'un l'altro?
Perché uno dovrebbe farsi carico dei proprio fratello?
La fratellanza è stata, almeno in ordine di tempo, la prima forma di solidarietà; ed è stata anche la prima ad
essere messa in crisi.
Perché? Perché è bello che sia così? Perché tutti vivremo meglio se sapremo essere solidali l'uno
con l'altro? Perché l'uomo è un essere intrinsecamente sociale?
La Bibbia ignora tutti questi possibili motivi.
Alla domanda “Perché gli uomini dovrebbero solidarizzare tra loro?” risponde, durante l'esilio
babilonese, il libro della Genesi, con le sue favole teologiche”: gli uomini devono solidarizzare tra
di loro perché tre sono le dimensioni costitutive dell’essere umano:
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o la relazione con JHWH, cui Adamo deve amore ed obbedienza,
o la relazione col mondo che egli deve custodire e far crescere,
o la relazione con l'altro, necessaria sia per rapportarsi correttamente con JHWH, sia per
prendersi cura del mondo.
La Bibbia impegna gli uomini ad essere solidali fra loro per un solo motivo: perché per primo
JHWH solidarizza con loro, li sostiene nell’essere, li associa alla sua opera di creatore, stringe con
loro patti di comune intesa, diviene ad un certo punto uno di loro, s’identifica infine con il più
povero tra di loro.
In questa luce si comprende in pieno il carattere provocatorio del testamento di don Milani: Cari,
ragazzi, ho voluto più bene a voi che a Dio…
CARITÀ E SOLIDARIETÀ
Al vertice della visione cristiana della vita c’è una parola: carità”.
La carità è una virtù teologale. Le virtù teologali sono tre:
1. LA FEDE, che ci rende disponibili ad accogliere Dio che rivela il suo piano di salvezza in
Cristo;
2. LA SPERANZA, che applica le prospettive della fede all’esistenza personale del credente,
3. LA CARITÀ che ci fa partecipare alla forza e alla bellezza dell’amore con cui Cristo ha
amato il Padre e i fratelli nel suo sacrificio pasquale.
Virtù INFUSA: deposta “nel cuore dell’uomo” con il battesimo, la carità è innanzitutto un germe,
che potenzialmente abilita l’uomo a tendere con tutto se stesso ad amare come Dio ama.
L’utopia di tutte le utopie: amare come Dio ama. Amare come Dio ama non sarà mai e poi mai
possibile, letteralmente, nemmeno nella vita eterna. A meni che si riesca entrare nel cuore di Dio,
e… usufruire del fatto che “Dio è uno solo, ma in tre persone uguali e distinte”. Quel “ma” tra noi
credenti conta troppo poco: se ne lamentava Rahner, grande teologo cattolico del 900: i Cristiani
sono quasi solo “monoteisti” nella pratica della loro vita religiosa.
DALLA TRINITÀ ALLA STORIA
E incede proprio nel grembo trinitario -dice Bruno Forte- va ripensata per intero la storia, perché è
lì che si prepara, attraverso quotidiani gesti d’amore e attraverso la celebrazione attualizzante del
mistero, il futuro ultimo, quando la storia degli uomini si congiungerà all’esterna storia di Dio e il
Figlio consegnerà tutto al Padre, e Dio sarà tutto in tutti.
Il patto iniziale progressivamente evolve
Il patto che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe aveva instaurato con il popolo che si era
scelto come partner privilegiato (nessuno saprà mai dire perché) era stato rinnovato attraverso
Mosè: il popolo ubbidirà alla legge che JHWH gli darà tramite Mosè, al popolo saranno garantiti da
JHWH i beni essenziali della vita: pace, prosperità, fecondità. Patti chiari e amicizia lunga.
Ma già nel X sec. (tempo di composizione dei primi salmi) gli Ebrei non accontentano più dei “beni
di Dio”, ma puntano al rapporto personale con Lui, perché La tua grazia vale più della vita (Sal 63,
4) e Il mio vero bene è di stare vicino a Dio (Sal 62, 28).
I Profeti dei secoli VIII (Isaia) e VI (Geremia), di fronte alle infedeltà del popolo si convincono che
l'uomo in quanto tale non ha forze sufficienti a dare alle proposte di JHWH una risposta adeguata:
c’è bisogno di una nuova alleanza, garantita da una nuova effusione dello Spirito di JHWH,
paragonabile a quella che all’inizio aveva dato origine al mondo. Su questa linea si colloca Gesù.
Gesù, il volto di Dio
Gesù ha rivelato che nel cuore dell’Essere infinito ed eterno del quale hanno balbettato i filosofi
vivono tre Persone, tra le quali la carità circola in maniera talmente impetuosa da farne un quid
unico.
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All’inizio, dunque, non c’è né la potenza né la misericordia; all’inizio c’è la relazione.
L’uomo ha la possibilità di venire introdotto nel sublime della vita trinitaria.
I nostri Santi mistici vi sono penetrati a fondo, riportandone una sensazione come di stordimento
che esalta al massimo la nostra possibilità di accogliere il fiume straripante della gioia assoluta.
È quello che accadrà a tutti gli eletti, una volta superata con la morte l’opacità del corpo.
Ma nella nostra condizione storica, di uomini esiliati che faticosamente stanno tornando alla
“patria”, a quella patria della storia che è la Trinità Santissima, su quali punti di riferimento
possiamo contare, per non annaspare nel buio totale e renderci conto in qualche modo della realtà di
quella vita?
L’Evento Cristo Risorto rivela il mistero trinitario. La resurrezione rivela il Padre che lo ha
resuscitato, rivela il Figlio che risuscitando diviene IL VIVENTE, per antonomasia, il centro reale
di ogni vita, rivela lo Spirito Santo che congiunge sia il Padre che tutti gli uomini al Risorto,
rendendoli vivi di vita nuova
Carità e solidarietà: una complicità sincera ma provvisoria
Solidarietà e carità nell’impegno a favore dei poveri partono insieme. L’amore eterno e infinito di
Dio, per inarrestabile forza endogena, cerca le vie dell’uomo, dando origine a una serie di progetti
storici: si pensi soltanto agli ordini religiosi nati nel corso della storia cristiana.
Il primo di questi progetti è la Chiesa stessa, “luogo della croce, della resurrezione e dei poveri”.
È del tutto naturale che, quando incontra la solidarietà e le sue realizzazioni storiche, la carità ne
divenga immediatamente complice. Tensione ad amare come Dio ama e assunzione di
responsabilità di tutti verso tutti si richiamano l’una l’altra.
Gandhi e Francesco camminano a lungo insieme. Ma viene il momento di seprarasi.
La carità rivendica la propria originalità e denuncia l’insufficienza della solidarietà
Quando viene il momento di separarsi? Quando, senza complessi d’inferiorità e senza integralismi,
i Cristiani avvertono l’urgenza di richiamarsi a quel “dinamismo integralmente nuovo” al quale
Cristo li ha chiamati. La salvezza è frutto solo della grazia, della libera e gratuita iniziativa di Dio
in Cristo e non è raggiungibile con le sole forze dell’intelligenza e della volontà umane. Grazie
all’irriducibile distanza fra bisogno e risposta (sia sul piano dell’intelligenza che su quello della
volontà), le risposte buone al “perché dovrei essere solidale con i miei simili” possono essere molte,
ma l’unica risposta che decide è sempre oltre.
Metà degli anni 80, una ventina di giovani operatori del CNCA (Coordinamento Nazionale delle Comunità di
Accoglienza), al termine di tre intense giornate di dibattito sulla cultura della condivisione e dell’accoglienza,
tenutesi a Gubbio, chiedono d’incontrare Sergio Quinzio, A Montebello, tra Fossombrone e Fano. Gli
raccontano la spremitura delle loro discussioni, gli chiedono una sua riflessione in proposito. Sergio, i suoi
occhi chiari.: ”Volete sapere davvero cosa penso di voi?”. Che domanda, Sergio!! Siamo venuti quassù per
questo!! Sergio si liscia più volte la grande barba rossiccia. “Ebbene, sapete quanto vi voglio bene e quanto
stimo il vostro lavoro, ma voi...:voi non salvate nessuno!”.
La solidarietà da sola non basta. Quando si spinge l’acceleratore, ci si accorge che essa “non salva nessuno”
La stessa cosa che diceva S. Pier Damiani (+1071) da Fonte Avellana: l'amore tra gli uomini senza
l'amore verso Dio è inutilizzabile, rattrappito, senza sapore. Francesco e Ghandi si separano
LA CARITÀ DISVELA, FONDA E ABILITA: TRASCENDENDOLA, SALVA LA SOLIDARIETÀ
Provocandola ad uscire da se stessa, la carità non abbandona la solidarietà al proprio destino, ma le
offre tre indicazioni atte ad “andare fino in fondo”, apre davanti ad essa la possibilità di un triplice,
decisivo “balzo in avanti”, in tre direzioni:
1. la carità DISVELA alla solidarietà le sue radici ultime;
2. la carità FONDA la solidarietà sulla più tenace delle rocce;
3. la carità ABILITA la solidarietà a compiere ciò che altrimenti non sarebbe stato nemmeno
pensabile.
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Disvela. La solidarietà non sa da dove viene, né verso dove va, e nemmeno che cosa è. E' un piccolo
movimento occasionale ed episodico? E' il risultato d'una tempesta di ormoni impazziti?
No. Alla sua base c’è un amore gratuito tendenzialmente senza misura, un amore che cancella il
concetto stesso di "nemico", un amore che, senza escludere nessuno, preferisce gli ultimi.
Dio è Amore, Gesù ne è la prima proiezione nella storia, sulla base di questo amore l'unione fra i
discepoli di fa letteralmente in-dicibile. Su questa linea sono nati via via i "miracoli della carità":
quei pochissimi che tutti conoscono, e quei tantissimi che risplenderanno nel Regno di Dio.
Fonda. L’''emergenza assoluta del bene" che l’uomo solidale sperimentato in sé, come una forza
irresistibile, poggia su di un processo di tipo personale, ha come attori delle persone, tende ad un
fine di taglio personale, configura un forte cammino relazionale interpersonale. Le persone
coinvolte nel processo sono l’uomo e Dio; Il soggetto primo: là dove si pensava che esistesse
un'anonima "sorgente", si scopre un oceano di vita, misteriosa ma anche storica, d'insospettato e
insondabile spessore personale: la partecipazione d'amore tra il Padre e il Figlio, nella gioia dello
Spirito Santo; quel "cammino della famiglia umana verso l'unità" che era poco più di un mito di
tipo simbolico assurge ad evento finale che STORICAMENTE si realizzerà alla fine dei tempi,
quando Dio sarà tutto in tutti; e questo perché il suo protagonista è il Cristo stesso ("Io sono la
via....."), come persona STORICA, risorto e operante tra i suoi, vivente nella Chiesa.
Abilita. Una volta che la carità è penetrata nel cuore dell’uomo, risalendo in tutto l’organismo per
una specie di capillarità silenziosa e onnipotente, l'amore umano, in tutte le sue gradazioni ("agàpe"donazione; "filìa"-nobile amicizia, "eros"-bisogno psicofisico dell'altro), si apre senza più alcuna
riserva all'Infinito scoperto come persona, ma ognuna di quelle gradazioni conserva una sua
originalità e una sua dignità.
La proposta cristiana è che la solidarietà si apra alla trascendenza. La trascendenza è stata
calunniata e ridotta da alienazione dai “Maestri del sospetto” (Darwin, Marx, Freud). Feuerbach:
L’uomo debole si crea un Dio forte. E ancora: Il pensiero dell’al di là è una vigliaccata
consolatoria tesa ad evitare surrettiziamente la durezza dell’al di qua.
Certo, la trascendenza è anche un “alto là” alla presunzione umana, ma prima ancora è il punto
omega
o che struttura l’intero cammino umano, come fa ogni fine nei confronti del cammino che a
quel fine porta,
o che riempie di significato l’intero cammino umano.
La trascendenza che salva la storia, salva anche la solidarietà.
LA SOLIDARIETÀ STORICIZZA LA CARITÀ
La Chiesa serve gli uomini trascendendone la condizione e, al tempo stesso, incarnandosi in essa.
Nella dialettica fra trascendenza e incarnazione il pendolo oscilla fra posizioni diverse che
comportano pericoli diversi; quando sottolinea la propria trascendenza, la Chiesa si stacca dal
mondo, quando invece sottolinea la propria full immersion nel mondo, rischia la perdita della
propria identità, l’ompòpgazione sull’ultimo umanesimo di successo.
La solidarietà indica la forma che l’istanza caritativa deve assumere qui e oggi. Il cuore profondo
dalla solidarietà umana è l’appartenenza radicale dell’uomo ad un certo luogo, ad un certo tempo,
ad una certa cultura. Chi è solidale, prima ancora di impegnarsi a fare qualcosa, scopre là dove vive,
nel proprio tempo, nella propria cultura valori e percorsi vitali, ignoti a chi solidale non è, e magari
senza averne coscienza li propone a chi gli vive vicino.
Proprio come appartenenza la solidarietà offre un servizio di decisiva importanza alla carità.
In negativo, innanzitutto, denunciando le marachelle che possono nascondersi sotto la copertura
ideologica offerta dal nome di “carità”. Nel Corso di Laurea in Educatore Professionale ne abbiamo
individuate alcune: Il pericolo delle mezze verità, il perbenismo qualunquista, l’irresistibile fascino
dello slogan, l’ossessione verbale del servizio, l’ossessione reale del potere, lo spiritualismo.
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In positivo la radicale appartenenza al qui e all’oggi addita alla carità una serie di piste: I poveri
come luogo teologico, L’autentico rapporto tra carità e fede, L’impraticabilità della rassegnazione,
La sottile insidia dell’Age quod agis, Il corretto rapporto fra ortodossia e ortoprassi, La vera
riconciliazione, La centralità antropologica dell’Eucaristia, Il taglio cristiano dell’educazione dei
giovani. Ognuna di queste piste meriterebbe uno specifico approfondimento
CARITÀ E SOLIDARIETÀ NELLA CURA DELL’HANDICAP
Stringiamo. Questo fascicolo è indirizzato a giovani che fanno il loro servzio civile volontario
dentro una comunità di disabili.
Che “ci azzecca” con questa loro esperienza tutto quello che è stato detto finora?
“Ci azzecca” moltissimo.
LE TRE PAROLE CHE SINTETIZZANO L’INTERVENTO TECNICO SULL’HANDICAP
La coscienza civile di oggi impegna la società e lo stato a farsi carico del disabile accogliendolo,
riabilitandolo, socializzandolo,Tre parole che riassumono con efficacia.
Accoglienza. L’handicappato non va né isolato né nascosto, ma deve innanzitutto essere e sentirsi
accolto come persona; per questo occorre
o mettere a fuoco con lui la verità della sua condizione e aiutarlo a rendersi conto che solo
l'esercizio di certe sue competenze di persona è stato bloccato dalla malattia, mentre il suo
essere persona rimane intatto;
o dimostrargli con i fatti che accanto a lui ci sono persone disposte
o a scommettere sulla sua persona,
o ad instaurare con lui relazioni non funzionali né pietistiche, ma di taglio personale.
Chi deve accogliere il disabile come persona?
o Colui che si dedica alla sua riabilitazione, e il nostro Corso vorrebbe aiutarlo:
o a maturare le motivazioni di profilo personalista, il più alto che sia possibile;
o a conoscerlo nella sua concretezza, attraverso un tirocinio serio e guidato.
o La società nel suo insieme: “recuperare” vuol dire re/imparare a vivere in ambienti sempre
meno specifici, destinati solo al disabile, imparare a muoversi senza reti di protezione.
Purtroppo questa accoglienza, grazie ad una specie di razzismo strisciante, risulta a volte disturbata
da un meccanismo psicologico, che tende a deformare il rapporto con l'handicappato. Il disabile
deve giustificare sine die il fatto di essere al mondo. La gente si chiede
o devo accogliere l’handicappato anche se è diverso da me?
o oppure devo accoglierlo come se non fosse diverso da me?
o oppure devo accoglierlo proprio perché è diverso da me?
In realtà l'unica risposta veramente degna dell’uomo è… il rifiuto di rispondere a domande del
genere; se vivessimo in una società veramente accogliente, ad alto contenuto di umanità, dovremmo
poter dire: NON VEDO PERCHÉ DOVREI MOTIVARMI AD ACCOGLIERE L'HANDICAPPATO.
Inb realtà l’handicappato è quasi sempre un emarginato
• o per la tangente inferiore: segregato in casa, a non far nulla per tutta la vita, o relegato in un
istituto, a dividere per tutta la vita la camera da letto con cinque estranei, quando nel paese del
quale egli è ufficialmente cittadino è ormai rarissimo il caso d'un suo coetaneo che divida la
camera da letto col proprio fratello.
• o per la tangente “superiore”: superprotetto e viziato dall'amore dei genitori, eccessivo e poco
rispettoso della sua dignità; coccolato dai giovani del gruppo parrocchiale Caritas, "amici" che
se non fosse stato invalido non si sarebbero mai avvicinati a lui; e nel nord Europa lo Stato
Buono e Puntuale, che ogni mattina gli fa trovare nuovo di zecca un biglietto di banca da 100
euro sul comodino, con preghiera di metterlo nel portafoglio senza troppe domande sul chi ce
l'ha messo, e di restare a letto fino all'ora di pranzo, e di godersi nel pomeriggio la televisione, o,
ad libitum, di dedicarsi a infastidire la cassiera del bar.
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Paradossalmente anche noi Cristiani abbiamo in qualche modo contribuito a fare dell’accoglienza
(del disabile e del povero in genere) non la regola ma l’eccezione.
È successo quando, innalzando fino al cielo gli eroi della carità cristiana, abbiamo insinuato
(press’a poco) un ragionamento di questo tipo: noi Cristiani medi facciamo altre cose, ma ci
sentiamo vicini ai tanti preti e frati e suore e laici che, eroicamente, anche a nome nostro accolgono
i più deboli.
Riabilitazione. La "riabilitazione" è quell’insieme di operazioni che, per quanto possibile, rendono di
nuovo “agibili” quelle parti dell’organismo che nel disabile sono state lese dal deficit congenito o
dal trauma sopravvenuto. Ovviamente i processi che riabilitano un handicappato fisico sono quasi
del tutto diversi sono da quelli che riabilitano un handicappato mentale.
E, all’interno di queste due grandi classi, ogni forma di disabilità ha il suo specifico percorso.
Ma tutti i processi riabilitativi degni di questo nome hanno come base la centralità dell'uomo.
Si parte dall’uomo per arrivare all’uomo.
o Si parte dall’uomo. L’uomo-persona e l’uomo personalità.
o Ogni uomo è persona allo stesso, identico modo, con la stessa intensità; lo è per il
puro e semplice fatto di esistere come uomo. La persona, centro assolutamente
originario e irrepetibile di una dignità intangibile, in qualsiasi condizione (materiale
o morale) vivano: Caino condivide con Abele il diritto a “non essere toccato”;
o Ogni uomo è personalità in un modo totalmente diverso da quello in cui lo sono gli
altri uomini. La “personalità” è data dalla capacità di individuare i fini che uno vuol
dare alla propria vita e di scegliere i mezzi per raggiungere quei fini. In ordine alla
diversità della personalità, ogni intervento va personalizzato, in un delicato gioco di
azione/reazione fra proposta del terapeuta e risposta del paziente
“Partire dall’uomo” nel rapportarsi con il disabile vuol dire che il terapeuta è animato, al tempo
stesso, dal senso vivo dell’altissima dignità intangibile del soggetto del quale si prende cura e dalla
realistica percezione delle sue effettive possibilità di recupero.
o Per arrivare all’uomo. prima dell'arto va ri/educato e ri/motivato l'uomo. L'insulto alla sua
salute fisica è solo l’involucro esterno di un ben più grave insulto: quello fatto a lui come
persona; e si traduce sempre in insicurezza forte circa la possibilità e il senso del suo
continuare ad essere uomo tra gli uomini.
Tecnicizzare l’intero problema è fuorviante: lavorare con un prontuario d’intervento in mano, per
applicarlo al “caso” che stai trattando, è assurdo. La componente tecnica dell’intervento ha il suo
senso solo all’interno di un rapporto umano face to face, unico, irrepetibile. Per un paziente
qualsiasi, che abbia avuto una mano bloccata dall'ictus, dargli da sgranocchiare una pannocchia di
granturco sarebbe una stranezza, per l'anziano contadino di Burano sarebbe il non plus ultra ai fini
del recupero funzionale del suo arto.
Il grande sviluppo che, all’interno dello Stato Sociale, hanno assunto ai nostri giorni sia la fisiatria
che il recupero psicologico hanno indotto nella cultura di questo settore due autentiche sbornie:
• La sbornia meccanicistica nella terapia fisica: nel secondo dopoguerra ha dilagato tra gli
addetti ai lavori, a ondate, contagiando a volte anche l'opinione pubblica, una specie di gioiosa
enfatizzazione di tutte le tecniche riabilitative. Tornavano da Boston o dall’Austria giovani
fisioterapisti pimpanti, sicuri di se stessi e latori di una nuova “buona notizia”: la "soluzione
finale" era solo questione di tempo; l’incidenza del contesto umano, nel quale l'handicappato
vive veniva come rimossa.
• La sbornia sociale nella terapia psichiatrica e psicologica: nei primi anni 70 si verificò
l'infatuazione specularmente contrapposta: l'uomo è niente di più che il membro d'una data
struttura sociale, la vera riabilitazione è tutta nel corretto rapporto con questa struttura. In Italia
era il tempo dei CIM, i "Centri di Igiene Mentale" che davano per scontato che la salute mentale
fosse una questione di pura e semplice igiene. Era il tempo dei "basagliani acritici": Franco
Basaglia, a Gorizia e a Trieste, ha "abolito i manicomi", sperimentando la loro non facile
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sostituzione con proposte splendide ma di difficile realizzazione? Ebbene, i manicomi li
aboliremo anche noi. Per decreto. Senza tante “sottigliezze”.
"Sbornie": l'istanza ideologica prevaricava nei confronti delle autentiche ragioni della fisioterapia e
della psichiatria, dilagava la strumentalizzazione senza pudore da parte d'un potere politico che
aveva un bisogno estremo di gratificazione. Momenti esaltanti e al tempo stesso distruttivi.
Inserimentosociale.La socializzazione, o ri-socializzazione, è il traguardo finale di tutto il processo
L’uomo per natura sua è un essere sociale, e senza rapporti con gli altri non può vivere né
esplicare le sue doti.
La differenza fra individuo e persona è tutta qui: materialmente indicano lo stesso soggetto umano, che però è
individuo se rimane compatto in sé, chiuso a difesa del proprio io rispetto a quanto lo circonda, diventa
persona quando entra in rapporto dialettico, cordiale, osmotico, con la realtà che lo circonda.
Per un vero reinserimento del disabile occorre che in lui si affermi la consapevolezza
o di essere sempre e comunque titolare di diritti inviolabili,
o sia a livello di principio, (un ruolo effettivo, delle amicizie autentiche, una
relazionalità vera, una sua sessualità),
o sia a livello di esercizio e concreti (la scuola, il lavoro, i trasporti, i luoghi destinati
all'incontro informale e al culto, al divertimento e al consumo, alla cultura e alla
partecipazione, ecc.);
o di essere sempre e comunque impegnato ai doveri che l’esercizio di quei diritti rende
possibili, a cominciare dal dovere di non lasciare le politiche sociali in mano ad assessori
stanchi o a funzionari demotivati.
Il diritto del disabile ad un suo ruolo nella società viene oggi universalmente riconosciuto. Un
soggetto affetto da spasticità grave (da sempre la spasticità dei movimenti va a braccetto con
un'intelligenza non comune).è rettore d’una università. In Italia le elezioni politiche del 1994 hanno
inserito nella compagine di governo due soggetti invalidi (spastici anch'essi). I settori nei quali si
sono registrati i successi maggiori sono stati quello scolastico e quello dei trasporti: settori
strumentali, non di contenuto. Nello sport, i campionati di basket per soggetti in carrozzina o le
olimpiadi dei disabili sono ormai routine.
Eppure la "socializzazione effettiva" rimane spesso nel libro dei sogni.
Tra il dire e il fare. Il problema non è tanto quello di permettere all'invalido di laurearsi in
psicologia, quanto quello di dove e come metterlo in grado di esercitare la professione; il problema
non è tanto quello di attrezzare treni e bus per il trasporto degli invalidi, quanto quello del dove
trasportarli, a fare che, oltre che a riscuotere la pensione.
Nel settore del lavoro si sono dovuti registrare spesso tentativi d'inserimento o demagogici nella
loro totale impraticabilità, o semplicemente inutili, o addirittura frustranti: non c'era un contesto
umano, affettivo, culturale adeguato. per questo noi "addetti ai lavori" abbiamo dovuto a volte
rimpiangere forme di rapporto interpersonale e di inserimento sociale più limitate o anche protette,
che in passato avevamo magari demonizzato.
Questo perché il disabile, nonostante tutte le iniziative che a lui vengono dedicate, rimane pur
sempre un diverso in una società che i diversi li scansa, con i guanti gialli quando con il pungo di
ferro non si può. E se non riesce a scansarli, ne minimizza i problemi: almeno a sentire il taglio di
certi discorsi di certi assessori, quei problemi sembrerebbero risolversi tutti con l'abolizione delle
barriere architettoniche. Minimalismo.
Il minimalismo è un viziaccio che ci portiamo dentro, noi Occidentali; arciconvinti di essere i primi della
classe, quando incontriamo un povero ne facciamo d’istinto un uomo di serie B; a titolo di esempio: i bisogni
dei nostri bambini viziati sono sempre incredibilmente complessi, ma al bambino degli zingari basta una
caramella, deve bastare.
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La socializzazione autentica esige il superamento sia del culto acritico dell'efficienza, sia del
bisogno endemico di omogeneità: due cancri operanti nei vari modelli di vita standardizzati e
precotti: il minimalismo, la "cosificazione" dei rapporti, l'enfatizzazione della cultura fisica.
Il disabile, in negativo, non è -semplicemente- il non-normale.
In positivo, il disabile è una persona che ha un nome e un cognome, una storia, degli affetti, delle
relazioni, delle potenzialità; e anche la sua patologia ha un nome;
o l'handicappato, senza cessare d'essere un problema, può essere anche una risorsa, anzi,
insieme a tutti gli altri emarginati del mondo, può essere LA risorsa capace di rinnovare la
convivenza umana alle radici; Capodarco ha preso le mosse dall'intuizione che la parabola
del Buon Samaritano, nella sua parte non ancora scritta, prevede l'inversione delle parti:
colui che, colpito dai briganti, venne soccorso dal Buon Samaritano si china a sua volta sul
Buon Samaritano e lo soccorre;
o il contesto culturale ricco e il contesto affettivo caldo senza pietismi, del quale ha bisogno,
l’handicappato può decisamente contribuire a costruirlo,da protagonista;
o non basta "rinnovare la società a misura della persona”, bisogna impegnarsi a "rinnovare la
società a misura della persona che non ce la fa".
E tutto questo va organizzato secondo due diverse linee:
• inserimento di tipo affettivo/familiare: non di rado l'handicap, per lo meno ad una certa età, ti
lascia senza una famiglia;
• inserimento di tipo occupazionale (lavorativo vero e proprio, o terapeutico/occupazionale);
Agendo contestualmente sia l'handicappato nella crescita dell’autostima, sia la società che lo
circonda nel suo farsi capace di vera accoglienza, che valorizza l'uomo che è in ogni handicappato.
IL TRIPLICE SALTO DI QUALITÀ, ALLA LUCE DELLA FEDE
Il terapeuta (medico, educatore, infermiere, fisioterapista…), se vuol vivere il suo servizio al
bisognoso alla luce del vangelo, deve innanzitutto prendere umile e responsabile coscienza che,
rendendo ad un fratello quel servizio, condivide l'interessamento di Dio stesso per i meno fortunati
“Accolto”, “riabilitato”, “socializzato”: chi vive in tensione ad amare come Dio ama (la carità) non
può non accettare senza riserve le tre parole nobilissime;
Ma se la cultura di riferimento al cui interno esse vengono pronunciate è angusta, esse rischiano l’
asfissia. Se il loro riferimento essenziale è solo tecnico, quelle parole si sgonfiano.
Da qui la necessità del triplice salto di qualità cui abbiamo accennato.
Primo salto di qualità: dall'accoglienza alla preferenza.
Esiste una preferenza per i deboli ispirata a senso di responsabilità: Uno ha preso coscienza che
“fare parti uguali fra gente disuguale non fa altro che perpetuare l’ingiustizia” (don Milani) e quindi
dà ragione all’art. 3 della Costituzione che impegna la Repubblica a riservare particolari attenzioni a
chi è portatore di qualche seria difficoltà.
Esiste una preferenza per di deboli filosoficamente motivata. Nel suo L’Europa e l’altro Armido
Rizzi dimostra come la vita sia particolarmente vera la dove fa fatica ad affermarsi. Se volete capire
davvero la vita, fino in fondo, preferite quelle esperienze di frontiera dove nulla è ovvio e tutto va
conquistato con fatica. L’uomo più che in quello che è va identificato in quello a cui tende.
Esiste una preferenza per i deboli radicata nella Bibbia. La “scelta preferenziale dei poveri”, che è
oggi una colonna portante della spiritualità cristiana, va ricondotta al fatto che Gesù, che in vita sua
ha sempre vissuto povero tra i poveri, esule per qualche tempo, in un paesino dal quale molti
pensava che non possa venire nulla di buono; ha praticato fino a trent'anni un lavoro manuale duro e
scarsamente remunerativo; come maestro itinerante è stato talmente sfornito di strumenti di
sussistenza da non sapere “dove posare il capo", ci ha rivelato che Dio
per sua scelta, è debole;
è impegnato a lottare a fianco degli oppressi;
indica nel farsi carico delle varie forme di povertà il criterio del successo della vita intera..
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La gente che lo ascoltava poteva constatare con immediatezza come quegli insegnamenti
corrispondessero alla sua vita. “se non vi coalizzate intorno a questo bambino, non entrerete mai nel
regno dei cieli”: e il bambino era l’emblema dell’estrema debolezza.
Gli hanno fatto eco nei secoli il sicut alii pauperes che fu come la consegna suprema, sul piano
delle scelte di vita, di Francesco ai suoi Frati Minori; Charles de Foucauld, i cui Piccoli Fratelli, nati
tanto tempo dopo la sua morte, vanno a vivere nei posti più poveri del mondo e rinunciano a
predicare; sono però disposti, solo se qualcuno glielo chiede, a spiegare perché hanno fatto quella
scelta; il testamento di don Milani ai suoi “mocciosi”. (“ho voluto più bene a voi che a Dio”); la
promessa di papa Giovanni l’11 settembre 1962, prima che il Concilio iniziasse: La Chiesa si
presenta qual'è e quale vuol essere: la Chiesa di tutti e soprattutto la Chiesa dei poveri.. Paolo VI
all’inizio della II sessione conciliare: La Chiesa appartiene all'umanità che piange e soffre.
Paolo VI davanti all'Assemblea plenaria dell'ONU qualificandosi come avvocato dei poveri
proclamò che la Chiesa intendeva schierarsi “à coté des emarginaux”.
Le intuizioni della Chiesa latino/americana recepita dalla Chiesa cattolica. Medellin, 1968: “Cristo
nostro salvatore non solo predilesse i poveri ma, essendo lui ricco, da ricco che era si fece povero,
imperniò la sua missione sull'annuncio della liberazione dei poveri e fondò la sua Chiesa come
segno di questa povertà tra gli uomini....". Puebla, 1979: Lo scandalo dell’enorme divario fra
opulenza di pochi e miseria di molti “è il massimo tra i peccati sociali del nostro tempo” e “non
investe solo la morale cristiana, ma lo stesso essere del cristianesimo”.
Dopo quel Ripartite dagli ultimi! che la Chiesa italiana ci lanciò nel 1981, l'opzione preferenziale
per i poveri è entrata definitivamente nella pastorale ordinaria: “L’amore preferenziale per i poveri
costituisce un’esigenza intrinseca del vangelo della carità e un criterio di discernimento pastorale
nella prassi della Chiesa” (CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità 1991).
Secondo salto di qualità: dalla riabilitazione alla resurrezione
Nel messaggio biblico neotestamentario la Risurrezione di Cristo è talmente importante che
possiamo fare riferimento ad essa per definire l’uomo: “l’essere che tende a realizzarsi pienamente
nella vita tramite la Resurrezione di Cristo” “Vita”: sia temporale che eterna..
La Pasqua è una categoria interpretativa di tutta la vita, che si ripropone là dove un uomo passa,
dalla paura al coraggio, dall’ignoranza alla sapienza, dall’inerzia al dono di sé, dalla micragnosa e
stolida autosufficienza all’obbedienza Dio. Secondo S. Paolo Cristo è risorto non come individuo
isolato, ma come primizia di coloro che sono morti, cioè come capo e rappresentante dell’umanità
intera. Il Risorto è realmente, ben al di là di se e come gli uomini ne abbiano coscienza, “nel cuore
della storia”, delle persone e del mondo. Il misterioso ma attivissimo cordone ombelicale che ci
collega a Cristo fa sì che la sua Resurrezione si cali nel fluire dell’esperienza umana, e venga
come… “anticipata” negli interventi che promuovono lo sviluppo della persona umana.
Per questo la primissima Comunità di Capodarco, nel 1966, si chiamò Centro Comunitario Gesù Risorto.
La Risurrezione, alfa e omega della riabilitazione
Terzo salto di qualità: dalla socializzazione alla comunione
Nel messaggio evangelico l’impegno a socializzare il disabile mantiene tutta la sua validità, anzi la
incrementa, nella misura in cui lo radica nella COMUNIONE, la categoria che, nella II parte del suo
catechismo, la CEI indica come fondamentale per interpretare la natura della Chiesa.
Una formidabile forza invisibile unisce gli uomini a Cristo. Una forza che attiene all’essere
profondo di ogni uomo: come un cordone ombelicale attraverso il quale passa la vita, poiché
l’amore di Dio ha una forza incomparabile e produce un'intimità del tutto singolare: colloca Dio in
noi e noi in Dio...Siamo di fronte ad un concetto di portata cosmica, che non riguarda solo i disabili
e proprio per questo conferisce fondamento solidissimo all'istanza della loro socializzazione.
Chiusa in se stessa, la socializzazione, perpetua l'idea di una mortificante divisione tra socializzatori
e socializzati; chi è portatore di handicap rischia di rimanere confinato a tempo indefinito tra i
beneficiari del processo senza mai diventarne protagonista; evapora la speranza che la parabola del
Buon Samaritano possa avere un "secondo tempo", quello in cui colui che un giorno vide chinarsi
su di sé il soccorritore si china a sua volta su di lui.
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