Formato pdf - Il Porto di Toledo

Transcript

Formato pdf - Il Porto di Toledo
Sula non si dà per vinta
Era il buon carattere a salvarla, Sula. Non si crogiolava nell’amarezza, non sapeva cosa
fossero l’astio e la boria. Guidava con cautela e svoltava con dolcezza.
Quando sentiva qualcuno elogiare gli orizzonti della Tracia, di Creta, del Peloponneso,
glielo lasciava fare. Perché guastargli l’amore per il proprio paese? Perché rinfacciargli che gli
orizzonti della Macedonia, di quella occidentale cioè, la sua terra, con tutti quei boschi a farti
compagnia, le montagne a scuoterti e i cieli a darti la carica, sono i migliori?
L’altro giorno aveva aperto il pacco e invece di bigliettini di Buon Natale e Felice Anno
Nuovo 2011, ordinazioni da parte di bar dei villaggi e di chioschi di strada, aveva trovato un pacco
di Buona Pasqua e grandi uova rosse di cartone. Telefonò all’istante a Galagala, il re della gaffe e
della iettatura, il fisco gli aveva sequestrato la casa.
Buona Pasqua, gli aveva augurato, si misero un po’ a ridere e tutto bene.
Il suo modo di fare era eredità del nonno, operaio pellicciaio, una vita in mezzo al cuoio, al
martello, al raschietto e alla tavola da lavoro, immerso tra i mucchi di scampoli di pelle, che, dopo
quarant’anni a produrre beni di lusso, era riuscito a omaggiare sua moglie con un collo di pelliccia e
sua figlia con una pelliccia di lepre.
Essere avidi è un disonore e lamentarsi rode come un tarlo, diceva, la nostra salvezza è il
buon cuore, eleva anche lo spirito, è questo che ci fa uomini e non i visoni e le volpi.
Quando Sula beccò il marito con la vicina, invece di incazzarsi e pensare che quello stronzo
si meritava un buco in testa, sbatté la porta dietro di sé, camminò per due ore tra i giunchi e i
canneti del lago riflettendo sulle cose che nella sua vita erano migliorate da quando era bambina.
Uno, non aveva più geloni e verruche, due, non c’era più suo padre a picchiarla, tre, non
c’era più la maestra di Patrasso che le dava della cretina tutto il tempo, quattro, finalmente si era
liberata di quel buono a nulla di suo marito, non c’era volta che il suo portafoglio fosse pieno, e
cinque, la cosa migliore, aveva appena preso la patente e poteva trasportare con il furgone le casse
di mele.
Tornò, prese l’auto e se ne andò come se niente fosse, senza nemmeno prendere il servizio
buono di piatti e posate del matrimonio, li lasciò in dote a quel fannullone. Prese con sé solo la
figlia, l’aspettò all’uscita da scuola.
Anche dalle disgrazie si può trarre beneficio, anche con le carogne si fanno le pellicce.
Ogni nuovo giorno ne aveva parecchi di vestiti nel suo armadio, poteva scegliere quello che
voleva, andavano bene tutti eccetto quelli neri. Occhio alle grucce.
Tempo addietro, in compagnia di altri colleghi maschi, avevano tirato fuori gli incassi, non
un granché, non c’era lavoro, la conversazione era divagata, si arrivò tanto per cambiare alla solita
solfa qualunquista, a dire che in Grecia le mani le usiamo parecchio, per spolpare le costolette, per
prendere a schiaffi i nostri figli, per mandare a quel paese il vicino, per applaudire il capo, per
suonare il claxon, per lanciare i dadi, per scaccolarci il naso, per grattarci le palle.
Sula non li sgridò, ma si limitò ad aggiungere: per piantare alberi, per pestare il peperoncino
nel mortaio, per accarezzare la nipote, per chiudere gli occhi dei genitori.
Prima di andarsene gli augurò buona strada; ogni augurio, che sia una riga o anche solo due
parole, sembra una storia, con un inizio una parte centrale e una fine.
Il mestiere ha molte strade e ogni strada ha molte storie.
Faceva la venditrice ambulante da ventiquattro anni, quasi venticinque, con sede Elassòna,
una nuova casa, un nuovo inizio, caricava l’auto e ogni giorno correva in un posto diverso, ad
Argos Orestikòs, a Sèrvia, a Domokòs, a Flòrina, a Prespes.
Montava il banco e si metteva a vendere. Fagiolini, peperoni rossi, pantofole, grembiuli,
biancheria intima, stivali, filati, pettini per pidocchi, lucchetti, molle da camino, carte da gioco.
Quand’era stagione raccoglieva i ribes, e vendeva anche quelli. Raccoglieva porcini e
ceppatelli sui pendii, erano diventati un cibo alla moda, rendevano bene, li compravano anche quelli
di passaggio.
Vendeva anche uova, gliele tenevano da parte alcuni vecchi nei paesi.
Aveva cresciuto la sua unica figlia senza farle mancare niente, andava a tutto gas con la
macchina per riuscire a trovarla sveglia la sera, a sedersi a tavola, figlia, madre e nonna, la loro
vecchia era vissuta finché i suoi avevano avuto bisogno di lei. La sua Damianì si era sposata a
Ghiannitsà, lei le mandava ancora soldi, il marito era un ragazzo d’oro ma un cretino, non aveva
portato che quattro campi da niente.
Sula si era fatta le ossa sulla strada. Non più giovanissima, cinquantatrè anni suonati e non si
fermava un attimo, girava in lungo e in largo da sola ed era felice.
La Macedonia è qualcosa di bello.
Le veniva voglia di erba grassa? Ce l’aveva.
Le veniva voglia di folate di vento? Il lago di Prespes le correva in aiuto.
Riparava il motore della station wagon, un ronzino di dieci anni, metteva le gomme da neve,
sistemava alla meno peggio i tergicristalli rotti. L’auto a volte era la sua padrona e a volte la sua
schiava.
Le piaceva stendere uno strofinaccio sul cofano e fare uno spuntino con pane e formaggio. E
ogni mezz’ora si fermava per fumarsi una sigaretta fuori, per non far puzzare l’abitacolo, a volte il
lavoro la travolgeva, aveva troppo sonno per guidare fino a casa e passava la notte in macchina,
dietro, teneva un materasso di gommapiuma arrotolato.
In passato, per ogni evenienza, teneva con sé un coltello a serramanico dei coltellinai, un
tempo rinomati, di Argos Orestikòs, con il fodero e il manico in corno.
Dall’anno prima, quando due albanesi avevano pedinato, accoltellato e derubato Vlontzos,
quello delle coperte, Sula aveva fatto come la maggior parte dei venditori che andavano in giro nei
luoghi isolati e si imbattevano in bande di malfattori. Si era procurata qualcosa di meglio.
Sula non si dava per vinta, non ne aveva intenzione, la sua vita erano i chilometri e gli
scambi con i fornitori e con gli altri ambulanti, il mercato, la merce, la cassa, il chiasso del mercato.
E siccome vantava ancora un décolleté invidiabile, una volta ogni tanto si faceva un
goccetto con qualcuno che la ispirava, suonatori di orchestrine ambulanti con gli ottoni, o timidi
garzoni albanesi; era così che andava quando la bottiglia di tsìpuro si svuotava e la mente
cominciava a ballare lo tsàmiko1.
A settembre, ad Argos Orestikòs, il mercato numero uno in Grecia, aveva fatto un sacco di
soldi, aveva svenduto i perizomi, le giarrettiere, gli stivali, gli scarponi, le teglie antiaderenti e,
quando ormai era mezzanotte, dopo diversi bicchierini e due padellate di salsicce con polpa di
pomodoro sul fornelletto del vicino, venditore di vestiti da uomo e carbone, gli aveva detto levati
questa cravatta che ti taglia il petto in due, e fece l’amore con lui nel suo furgone.
Naum Sìsuras si rivelò all’altezza di una notte come si deve. Ci vuole anche questo.
Ogni anno a dicembre, sotto le feste, le richieste e gli ordinativi erano ben altri e Sula non si
fermava un attimo, saliva ogni giorno ai paesi.
Organizzava le consegne di minestre calde e trachanàs 2 ai rifugi di montagna, ascoltava le
lamentele per i dipendenti pubblici, un tempo buoni clienti e ora scomparsi a causa della crisi,
portava alle ville in campagna quello che le chiedevano, le persone istruite volevano a tutti i costi
sgabelli tipici, tinozze di una volta, utensili da concia d’epoca e mantelli da pastore. Glieli
procurava, glieli vendeva a peso d’oro. Con la stessa benzina dava una mano anche alla povera
gente, le facevano pena i vecchi soli e senza un soldo, le pensioni ridotte all’osso non bastavano per
i biglietti per scendere in città a fare due spese.
Gli portava giubbotti e vestaglie a prezzo di costo, qualche a volta anche a credito, faceva
regali quando doveva e quando poteva, portava un dolce o biscotti da caffè. Le faceva bene
ascoltare, anche se al volo, le loro storie, storie di guerra, di mine a frammentazione, di
emigrazione, di ossa, di muli, di danze, poi gli rubava qualche bella parola e la portava ai più
giovani, spazio e tempo sono il più solido dei matrimoni.
Questo significa oggi girare per la Macedonia occidentale.
1
2
Danza popolare che si balla in cerchio, originaria della Grecia centrale.
Zuppa di pasta granulosa a base di latte.
2
Le faceva compagnia la radio, quel rottame non prendeva dappertutto, stazioni locali,
clarinetti, fisarmoniche, zampogne e notizie del posto, discorsi dei sindaci e dei preti, orsi uccisi
sull’autostrada, suicidi per debiti con le banche, quel tale, lo stagnino che si era impiccato per quei
diecimila euro, lo conosceva, era un uomo giovane.
Anche lei aveva debiti, pazienza. Ma anche crediti. Le dovevano soldi sia greci che albanesi,
la roba che compravano da lei la mandavano a casa, dalle madri. Non metteva il coltello alla gola a
dei disgraziati.
Era una vita che lavorava come un cane, quand’era giovane girava scalza per i campi, tanto
che i talloni e le piante dei piedi sembravano zoccoli di cavallo, e da grande portava i pesi come uno
scaricatore, e le mani le erano diventate ruvide come le pelli grezze dei conciatori.
Sarebbe andata avanti a modo suo, a tutti i costi.
Oggi, la vigilia di Natale, ha messo il banco al mercato, ha venduto fagioli, peperoncino,
fornelletti e babbi natale di plastica, ha comprato per sé anche lucette e un alberello di natale, da
addobbare la sera, per farlo vedere ai vicini tutto illuminato alla finestra, tutti dovevano sapere che
Sula non si dava per vinta.
Aveva pensato di fare un salto a Ghiannitsà, ma Damianì aveva invitato il padre a vedere la
nipotina di un anno. Non importa, Sula era abituata alle mura vuote.
Prima di passare da casa aveva però certe questioni da sistemare. Fece rotta per la montagna.
Incrociò i fuoristrada degli sciatori, degli escursionisti e delle guardie di confine, entrò nei
boschi di faggi, superò un paio di paesini, arrivò a Profeta Elia, una chiesetta isolata.
Parcheggiò, la stavano già aspettando in cortile, la porta era chiusa a chiave. Cinque donne di mezza
età e oltre, vedove e divorziate, tutte vecchie clienti che abitavano una qui e una lì, Sula non
riusciva a fare le consegne a domicilio e le aveva avvertite col cellulare, erano arrivate puntuali,
impazienti di avere il regalo, curiose e soprattutto ammiratrici della grintosa Sula, era una star per la
sua abilità alla guida, la sua astuzia e la sua lealtà.
Strette di mano, abbracci, auguri, le ultime novità dette al volo, Sula-Babbo Natale ci sapeva
fare, distribuì i sacchetti di plastica, dai provateveli, che così finalmente vi vedo con qualcosa di
colorato.
Gli aveva portato dei kimono giapponesi, non autentici ovviamente, roba cinese da quattro
soldi, ma belli e allegri, rossi, gialli, azzurri con draghi dorati.
Le montanare rimasero sbalordite, ma li indossarono sopra i vestiti neri, strinsero le cinture,
si misero a ridere e, come le modelle della trasmissione della Menegaki, cominciarono a sfilare nel
cortile della chiesa.
Brave, vi stanno bene. Tra due settimane torno con gli sgabelli in macchina, lo faccio
diventare uno scuolabus, vi carico su e, vestite così, da geishe, vi porto a fare un giro giù a
Rangustarìa, per fare quattro salti.
La più vecchia, Iordana, il cui marito se l’era svignata dietro alle Tettoske e alle Sederoske,
le porge una pagnotta di pane casereccio, che Sula annusa e bacia. Le ricorda quei bei panini che le
cuoceva la madre.
Salì sulla station wagon e diede gas, per non essere sorpresa dalla notte che stava calando in
fretta.
Altri monti, altri boschi, altre sterrate.
Guardò l’orologio, accostò e aspettò, era l’ora. E infatti, arrivò puntuale come uno svizzero.
Lo vide da lontano con i suoi cinque cani da pastore. Uscì dall’auto, gli fece le feste.
Christos Gotsis, vecchio scapolone settantenne, prima non prendeva i tranquillanti perché lo
facevano dormire e non riusciva a svegliarsi per mungere gli animali. Da quattro anni aveva
venduto le sue trecento pecore e da allora ogni giorno andava al pascolo sui monti senza gregge,
con i suoi cani.
La pensione per infermità mentale con il 67% di invalidità, figùrati se bastava; viveva
ancora nell’ovile vuoto, sotto un tetto di lamiera arrugginita.
L’aveva conosciuto da giovane, i primi tempi che girava per le pianure e le montagne e
siccome lui non sapeva scrivere, l’aveva pagata bene perché lo aiutasse a sbrigare le pratiche per il
rimpatrio delle ossa della sorella, che era morta in FYROM3.
Erano andati insieme al confine, avevano preso la cassetta, l’avevano portata per una notte
nella casa della morta, quattro mura senza tetto, la mattina seguente l’avevano sotterrata in un
angolo del cimitero.
Gli diede i suoi regali, un piumino, un sacchetto pieno di riso spezzato per i cani e due
stecche di sigarette.
Ne fumarono una insieme, chiacchierarono.
Il mio mantello l’ho appeso a un cespuglio, le disse. Sono pronto. Che ne sarà dei cani,
pensai. Probabilmente pensava anche ad altre cose, nei suoi occhi quella malinconia sempre di
troppo per il passato che ci sbuffa il suo fiato sul collo.
Molto più tardi, erano le nove in punto e Sula era ancora sui monti bui. Era rimasta a secco
in una mulattiera, il cellulare non prendeva, non c’era anima viva. Salire sulla cima per avere più
segnale, era lontano e si moriva di freddo. Andare a piedi, con la carrozzabile ci volevano 40 minuti
e a quell’ora chi vuoi che passasse a raccattarla, tutti erano a casa, al calduccio e a mangiare il
tacchino.
Recitò una preghiera, col tempo anche queste le ripeteva a pappagallo, portò la carabina
davanti, sempre carica, non si sa mai, aveva persino i proiettili di riserva.
Il tempo passava, il freddo penetrava nelle ossa, si avvolse intorno al collo anche la pelliccia
di lepre della madre, che teneva sempre in macchina, era quel che si dice un cimelio di famiglia.
Teneva gli occhi bene aperti cercando di scorgere in lontananza fari di auto o qualche
movimento sospetto, negli ultimi anni era successo di tutto, un sacco di gente era stata massacrata,
uomini grandi e grossi li avevano fatti neri di botte, molte auto erano finite in Albania.
Comparve un branco di cinghiali, saranno stati una dozzina, che correvano su una scarpata.
Sula si affrettò ad abbassare il finestrino, prese la mira. Uccise l’ultimo, lo trascinò in
macchina. Stimava che una volta scuoiato sarebbe pesato circa trenta chili.
Con chi fare banchetto? Il giorno dopo lo avrebbe portato come un trofeo, pensava di farci
bei soldi, quando c’era da fare la festa ai maiali perdevano tutti la testa.
Pensava che era stato il Profeta Elia a mandarlo per ricambiare la sua generosità con le
ragazzine stagionate e con l’afflitto sestetto del pastore e dei suoi cani. Non si spiegava altrimenti il
colpo ben riuscito, quando tutte le lepri della Macedonia erano sfuggite alle sue pallottole.
Buttò giù un bicchiere di tsìpuro per riscaldarsi dentro, forte al punto giusto, dalla botte di
Naum.
Sula Salvarina se la sarebbe cavata alla grande anche quella sera, aveva tutto ciò che
desiderava.
Cime innevate, il cielo stellato, un alberello di natale dietro, una pagnotta accanto a sé, al
posto del passeggero.
3
Former Yugoslavian Republic of Macedonia
4
Il volantino
Mia cara sorella Uranìa,
non scrivo una lettera come si deve da quando la buonanima di Iàkovos era soldato,
all’epoca di Kostandinos Karamanlìs e della Regina Federica.
Allora mi sono esercitata ogni giorno per ventotto mesi. Gli scrivevo cosa ricamavo, dove
andavo, quanto riuscivo a mettere da parte, quanto lo amavo e di stare attento alle mitragliatrici
dell’artiglieria.
Tutto questo glielo dicevo nei fogli protocollo a righe che all’epoca conoscevamo bene, in
totale quattro pagine alla volta.
La signora Sofia leggeva e rileggeva queste righe. Erano soddisfacenti come inizio? Come
doveva iniziare la lettera dopo tanti anni che non scriveva? E poi, aveva ancora senso, al giorno
d’oggi, tutta la faccenda delle buste, dei francobolli e delle poste?
Esisteva il telefono. Lei e la sorella in due minuti si dicevano le cose più importanti, che
stavano bene, che tiravano avanti, che i figli avevano la loro vita, tutti lontano, l’uno si era portato
dietro l’altro, cinque cugini di primo grado, vivevano tutti nello stesso stato d’America, facevano lo
stesso lavoro, abitavano nello stesso quartiere, andavano d’amore e d’accordo. Naturalmente le due
sorelle si dicevano in fretta anche le ultime novità, che si era rotta la serratura blindata, che
l’antenna del televisore funzionava di nuovo.
Meno male che c'è il telefono. Girò la testa verso l’apparecchio, sul mobiletto in corridoio.
Lo guardò per un po’. Riprese la biro, per fortuna era blu. Le parole nere non si adattavano alle
circostanze.
Mia cara Uranìa, nella busta, oltre ai soldi per un frullatore, il mio pensierino per il tuo
onomastico, ti accludo anche il volantino della rosticceria Il suvlaki4 di Paraskevàs. Quando salivi
al Pireo, una volta ogni tre o quattro anni, era lì che ti portavo a mangiare le polpettine e a bere
una birra in due. Allora si chiamava Il suvlaki di Periklìs. Paraskevàs è suo figlio, ex piastrellista.
Ha rilevato l’attività da quando è tornato da Salonicco, divorziato in malo modo, così dicono.
Ancora una pausa. Pensava che Uranìa non poteva aver dimenticato quel locale. Erano
andate anche all’inaugurazione, nel ’74. Iàkovos, appena tornato dalla mobilitazione per Cipro, è lì
che aveva trovato un lavoro, aveva installato il piccolo lavandino e il water.
Leggendo, la sorella si sarebbe ricordata anche dei bei quadri appesi alle pareti, danzatori in
costume tradizionale all’aperto.
Al resto ci avrebbe pensato la signora Sofia.
Il volantino è molto dettagliato. Ha delle fotografia ben riuscite di galline allo spiedo, di
suvlaki alla brace e del gyros abbrustolito. Fai attenzione al menu con i piatti misti, i contorni e i
nuovi prezzi, ancora più accessibili. Naturalmente non occorre che tu lo mostri in paese, mica
possono ordinare i suvlaki da Paraskevàs, del resto i capretti, gli agnelli e i maiali di Mylopòtamos
e della nostra amata Creta sono i migliori di tutti.
La prima pagina si era riempita senza scarabocchi, perché la signora Sofia ripeteva dentro di
sé ogni frase due o anche tre volte, prima di metterla sulla carta. Ma era giusto scrivere sul tavolo
della cucina? Accanto al piatto con le bucce d’arancia? Sull’incerata con le piramidi d’Egitto?
Ma era quello il suo posto abituale, in compagnia della radiolina azzurra, tra il portapane
azzurro e l’orologio azzurro che segnava le otto e un quarto. Di già?
Riprese la biro.
4 Specialità gastronomica a base di carne cotta allo spiedo e avvolta nella pita, una sorta di piadina
Mia cara Uranìa, Paraskevàs potrebbe essere tuo figlio, e persino mio figlio, visto che non
ha ancora cinquant’anni. Li compirà, così mi ha detto, l’8 settembre 2012, e se Dio vuole quel
giorno offrirà ai clienti piroskì5 secondo la ricetta del Ponto, poiché il ragazzo appartiene alla
tragica stirpe dei Greci del Ponto.
Io però sono preoccupata. Ce la farà la rosticceria a reggere fino ad allora? In questo
periodo molte imprese e negozi chiudono. Già solo nel mio quartiere hanno chiuso quello di fronte,
che vendeva sfoglie dolci, focacce e rustici, il negozio di mobili da ufficio, la merceria della signora
di Volos, con la scollatura e il seno procace, te ne ricorderai, il seminterrato del povero Leonìdas e
il negozio di camicie-pullover dell’ancor più povero Vanghelis, che ha molti obblighi con ben tre
famiglie da mantenere.
Prego per Paraskevàs, che ce la faccia. Si stanca molto, con tutta la fatica che fa nel caldo
della cucina.
Ha le guance, il mento e il collo sempre zuppi di sudore. Indossa solo una canottiera. Gli
guardo le spalle muscolose, i peli bruciacchiati delle braccia.
Mise giù la biro, era pronta anche la seconda pagina. La lesse a voce alta, piano. La scrittura
era fluida? Scorreva? Aveva senso? Ne aveva eccome. Descriveva soprattutto il Pireo di oggi. E
come faceva a sopravvivere un’attività con trentasei anni di storia. Doveva andare avanti. Con
coraggio.
Rilesse le ultime due righe, per non perdere il filo.
Sono tre mesi che vado ogni giorno alla rosticceria, per osservare quest’uomo laborioso.
Lo ammiro perché non sta mai con le mani in mano.
Sto lì a guardarlo mentre mi prepara il mio suvlaki quotidiano. Non preoccuparti, non lo
mangio; con la pressione a centotrenta o centosessanta è proibito, fino a lì sale quando sono
angosciata.
Preferisco entrare nella rosticceria quando c’è la coda, per osservare più a lungo questo
eroe della quotidianità, come si muove veloce, come prende le molle, come scalpella il gyros, come
cosparge d’olio le pite.
Altre volte faccio in modo di trovarlo da solo, così posso scambiarci due parole.
Che radio ascolta? Gli chiedo. Derti, mi dice, quella che trasmette sempre musica popolare.
Signora Sofia, mi dice sempre, non è il caso che venga fin qui, basta una telefonata e le mando il
ragazzo con l’ordinazione. Per carità, lo fermo, passeggiare è una buona abitudine. Ma, continua,
con un sincero interesse per la mia persona, alla sua età non le fa bene mangiare cibo del genere, e
poi ogni sera. Il suvlaki fatto dalle sue manine, signor Paraskevàs, è una medicina, gli rispondo.
E lo è, cara Uranìa. Una medicina che mi ha tolto la ruggine dal cuore.
Si dice che il primissimo pensiero di ogni persona siano i membri della sua famiglia. Ma
cosa succede quando vivono a Mylopòtamos o a Baltimora? Te lo dico io cosa succede. Ci si
sceglie un’altra persona tra quelle che si hanno intorno e si dà la precedenza al bisogno di
prendersene cura, di assisterla. Io ho scelto Paraskevàs. È lui la mia missione.
Ora la mano correva. Aveva preso confidenza e niente poteva fermarla.
Due euro moltiplicati per trenta giorni, gli procuro un giro d’affari di sessanta euro
mensili, un undicesimo della pensione. Ma il miglior modo di sostenerlo è un altro. Prendo con
disinvoltura dal banco accanto alla cassa un mazzo di volantini e tornando a casa li distribuisco
nelle cassette della posta. Sfidando i borseggiatori e i pericoli della notte, giro per le strade senza
paura. Scelgo condomini e uffici che distano al massimo cinquecento metri dalla rosticceria.
5 Pastella ripiena
6
Naturalmente sto attenta a non farmi notare, vai a sapere cosa pensa la gente vedendo una
settantenne, per quanto in forma, che fa un lavoro da studente.
Ma una volta non sono riuscita a trattenermi. Ho incontrato alcuni studenti della scuola di
tedesco dopo la lezione e li ho presi a uno a uno, saranno stati venti. Gli ho dato il volantino e ho
parlato bene di Paraskevàs, gli ho detto che usa i prodotti più freschi e genuini, che alla loro età i
suvlaki sono un ricostituente, e infine che sono greci, niente a che vedere con l’orribile moda
straniera delle pizze, e quelle schifezze di merendine confezionate. I ragazzi mi guardavano strano,
un paio di loro sono scoppiati a ridere, ma che ne sapevano del perché e del senso del mio
comportamento.
Scrisse esattamente ciò che pensava, prima di menzionare anche le sue altre iniziative.
Anche al telefono. Quando parlo con Polyxèni o con Margarò, le ex colleghe alle calzature,
gli ricordo sempre che è un loro dovere ordinare per i figli e i nipoti la carne di Paraskevàs, perché
è un ragazzo del Ponto onesto, responsabile e con una vita difficile, e se chiudesse sarebbe la
nostra rovina.
Per lui non voterò più PASOK6, ho deciso. Anzi, gliel’ho pure detto l’altro giorno, il 14
dicembre, quando l’ho costretto a portarmi con sé alla manifestazione del giorno seguente. Le ha
dato di volta il cervello, signora Sofia, potrebbero lanciare i lacrimogeni, magari dovremo metterci
a correre, mi ha detto un po’ bruscamente, per farmi rinsavire. La verità è che non avevo ben
considerato la mia situazione. Siccome avevo messo i tacchi, il viale Stadìu non sono riuscita a
percorrerlo tutto. Mi sono seduta su un muretto e ho fatto compagnia alla statua di Kolokotrònis7.
Il fumo arrivava fino a noi.
Comunque me la sono proprio goduta la gente. Che bella sensazione.
Peccato non esserci mai andata prima, a immergermi nella Resistenza, Iàkovos era
contrario. La resistenza però la faccio adesso, non è mai troppo tardi.
Cinque pagine e mezzo. Record. Le rilesse e si accorse che finora il Natale non si era fatto
sentire in questa lettera festiva, anzi, mancava proprio. Però c’erano scritte le sue serate. Guardò
l’orologio, erano le nove e venti.
Guardò di nuovo verso il corridoio, il telefono muto accanto al vecchio vaso alto con i due
cigni scrostati, a uno mancava il collo, l’altro non aveva nemmeno la testa.
Un altro sguardo alle pagine, un altro all’orologio, erano le nove e mezza spaccate.
Che stava aspettando? Quel silenzio regnava proprio per farle scrivere il resto.
Mia cara Uranìa, forse non sei più abituata a leggere lunghe lettere, ma stasera ho deciso
di occupare il tempo scrivendo, primo, perché ho trovato questi vecchi fogli protocollo bianchi che
reclamavano inchiostro, secondo, perché non sarebbe prudente uscire, a causa di un leggero
raffreddore, e terzo, perché mi hanno riempita di botte e mi fanno male la spalla destra e il fianco
sinistro.
Ho preso freddo l’altro ieri, fradicia di pioggia com'ero: mi ero messa in testa di andare a
distribuire i volantini a due circoli di tifosi dell’Olympiakòs, volevo farli scivolare sotto le porte. Ed
è quello che ho fatto, solo che ho tolto i volantini di altre rosticcerie e ristoranti. Li tolgo anche
dalle cassette della posta, quando sporgono. A questo scopo ho sempre con me un grande sacchetto
opaco.
Purtroppo, anche se era molto tardi e non c’erano passanti per strada, mi hanno vista due
giovani in scooter, figli di uno dei concorrenti di Paraskevàs.
Sono scesi subito dalla moto e si sono avvicinati. Mi hanno insultata con parole che non
riesco a ripetere, perché mi fanno più male anche dei pugni che ho preso.
6
Panellìnio Sosialitstikò Kìnima (Movimento Socialista Panellenico); partito fondato nel 1974 da Andreas
Papandrèou, perno insieme al partito conservatore Nea Dimokratìa del sistema politico greco.
7
Theòdoros Kolokotrònis (1770-1843), eroe della Rivoluzione greca del 1821.
Così vanno le cose, col Natale alle porte.
Sono già le dieci e mezza e Paraskevàs non ha telefonato né ieri né oggi, anche se non mi
sono fatta viva per il suvlaki di rito. Possibile che non si sia accorto della mia assenza? Penso che
abbia molto lavoro, un po’ gli uomini scapoli, un po’ le centinaia di volantini che sicuramente
hanno dato i loro frutti.
L’ultima volta che l’ho visto è stato l’altro ieri mattina, quando ancora stavo bene. Passavo
del tutto casualmente e sono entrata per salutarlo. Sarebbe stata una buona occasione per
parlargli dell’eroica resistenza dei cretesi contro i nazisti. Visto che non aveva ancora acceso la
cucina e trasformato la rosticceria in un forno in cui si gronda di sudore, ho visto finalmente i suoi
folti capelli neri asciutti e vaporosi, ben pettinati, come un cappello nero di un bel tessuto.
Sbucciava cipolle e ascoltava Derti, di cui ormai sono diventata un’ascoltatrice affezionata, visto
che ho dato un taglio netto agli economisti e alle telenovele turche della televisione. Ecco che
arrivano i guai, mi ha salutata, e ha subito iniziato a cantare con la radio una vecchia canzone
rebetika, «Il mangas di Votanikòs». Come immaginerai, cara Uranìa, gli ho fatto un po’ di
controcanto.
Queste sono le mie notizie. Tutto il resto scorre identico da anni, come ce lo diciamo al
telefono.
Basta, quella lettera rischiava di diventare un libro. La signora Sofia immaginava gli occhi
della sorella maggiore, dietro gli occhiali, conquistarla riga per riga.
Forse anche lei era seduta al tavolo della cucina. Con le pagine e il volantino colorato aperti
sulla sua amata incerata con i cestini, pieni di fragole e ciliegie. Alla dolce Uranìa piaceva vivere da
sola, padrona di casa sua. Che Dio benedica i nostri americani, diceva spesso, che mettono agosto
sottosopra con le loro strane abitudini e le pretese.
Nemmeno la signora Sofia amava l’agosto cretese, troppa confusione. Si perde la nobile
solitudine delle montagne. Prima di piegare i fogli, un’ultima cosa, più cretese, era indispensabile.
Ricordo le aquile che volano nei cieli del villaggio. Mia cara sorella, vorrei, almeno
un’altra volta prima che le gambe ci tradiscano, andare insieme a te sui monti a contemplarle.
Conto di venire per la Settimana Santa.
Sono belle le chiese in quel periodo.
E poi, a causa del digiuno, anche le rosticcerie sono chiuse.
I miei auguri per l’anno nuovo.
tua sorella Sofia
8