5. BÉLA BALÁZS La «macchina» creativa1 La fotografìa che

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5. BÉLA BALÁZS La «macchina» creativa1 La fotografìa che
5. BÉLA BALÁZS
La «macchina» creativa1
La fotografìa che vediamo in proiezione non è nata sullo schermo. Contrariamente a
quanto accade per un dipinto, il contenuto della fotografia cinematografica esisteva
nella realtà finita e visibile, prima di essere proiettato sullo schermo. Esisteva dinanzi
alla macchina da presa: condizione essenziale affinché potesse essere fotografato. La
creazione vera e propria, l’azione originaria del film avvengono in teatro di posa o
all’aria aperta o, comunque, in uno spazio che si trova dinanzi alla macchina da presa,
prima che questa entri in funzione. In quello spazio recitano gli attori, e gli elettricisti
dispongono le luci. Tutto questo è
una realtà prima di trasformarsi in immagine. Di
conseguenza, il film proiettato sullo schermo non è che una riproduzione fotografica :
quasi sempre, la riproduzione dell’opera degli attori.
Perché, allora, sullo schermo vediamo cose che in teatro di posa non avremmo visto?
Che non avremmo visto nemmeno se ci fosse stato possibile assistere alla ripresa?
Quali effetti nascono per la prima volta, e soltanto, sulla pellicola che sarà più tardi
proiettata? Che cos’è quel quid che il film non riproduce, ma produce, e che
rappresenta - perciò - una forma d’arte autonoma, in sé radicalmente nuova?
Già l’abbiamo detto, si tratta di questo:
la distanza variabile,
il particolare,
il primo piano,
l’inquadratura variabile,
il taglio,
e, ciò che più conta, l’effetto psichico che il film produce sullo spettatore grazie alle
operazioni tecniche suddette: l’identificazione.
Anche ammettendo che mi sia concesso di assistere a tutte le riprese del film, non
potrò mai rendermi conto degli effetti che nascono dalla maggiore o minore distanza
della macchina da presa rispetto al soggetto da fotografare, né potrò mai vedere,
afferrare, il ritmo del montaggio che scaturisce dalle varie inquadrature. In teatro di
posa, infatti, io vedo le scene e le figure esattamente come se fossi su di un
palcoscenico. Non sono in grado di separare, a occhio nudo, i particolari dal tutto.
Nella realtà non sarà possibile vedere il volto delle cose a una distanza tale da
distinguere quei particolari microscopici che il primo piano ci rivela (nemmeno se
durante le riprese siamo stati accanto alla macchina). L’isolamento di un primo piano
ha un valore compositivo. Tutte le porzioni di spazio che entrano in gioco hanno un
loro significato: tanto ciò che la macchina inserisce nell’inquadratura, quanto ciò che
ne esclude. Ma questo significato ha un valore relativo: lo crea soltanto la macchina da
presa, si profila nel momento stesso in cui l’immagine
è proiettata sullo schermo.
Non prima.
Sarà dunque l’inquadratura a dar forma alle cose. Due immagini dello stesso oggetto,
riprese con inquadrature diverse, non hanno tra loro alcun punto di contatto. Non si
rassomigliano affatto. Questa è la caratteristica fondamentale del cinema: non
riproduce le immagini, le produce. Questo è il «modo di vedere» dell’«operatore»:
così egli crea, ed esprime la sua personalità. Ciò che crea, costituisce appunto quel
quid che sarà visibile soltanto quando verrà proiettato sullo schermo.
Non basta ancora. Oltre questo, v’è il taglio (il montaggio). È l’ultima fase,
riassuntiva, della creazione cinematografica, affatto indipendente dall’ordine delle
riprese. Il taglio crea il ritmo figurativo e la successione delle idee che nel film
Da Béla Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino 1952, parzialmente
ripubblicato in Teorici del film da Tille ad Arnheim, testi scelti da Guido Aristarco, Celid, Torino 1979,
di cui si ripropongono qui le pp. 241-46.
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debbono essere espresse. Non gli si può attribuire un valore semplicemente
riproduttivo se non altro perché non si fonda su di un originale, su un «modello» che
esista prima del film e che si possa imitare (come avviene per il quadro d’un pittore). Il
taglio può esser definito l’«architettura mobile» della materia figurativa: una forma
d’arte nuova. Questi sono gli elementi fondamentali, e fondamentalmente nuovi, del
cinema. Non scaturirono, automaticamente, dall’invenzione della macchina da presa.
Furono scoperti alcuni decenni più tardi, a Holllywood.
Siamo «dentro» l’immagine.
Tutti i mezzi espressivi di cui abbiamo parlato si basano sul movimento continuo della
macchina da presa, la quale non solo registra cose sempre nuove e diverse, ma le
registra con inquadrature ogni volta diverse dalle precedenti. Questa è la novità storica
del cinema. È pur vero che il cinema ha scoperto mondi finora inesplorati (come, ad
esempio, l’anima delle cose che circondano l’uomo, il volto delle cose che egli tocca),
che ci ha fatto materialmente sentire il peso drammatico dello spazio, che ci ha
permesso di afferrare l’anima di un paesaggio, il ritmo delle masse, il linguaggio
segreto dell’esistenza muta. Ma tutti questi elementi hanno tratto con sé nuove
cognizioni, nuovi contenuti, nuova materia. La trasformazione decisiva, e storicamente
più significativa, introdotta dal cinema in campo estetico, è questa: non soltanto ci ha
mostrato altre cose, ma ce le ha mostrate in modo diverso, eliminando dalla
consapevolezza dello spettatore la distanza interiore fra
lui e l’
opera, che fino allora
costituiva l’essenza dell’espressione artistica.
L’identificazione
La macchina da presa guida il nostro sguardo nel luogo in cui si svolge l’azione
cinematografica, l’immagine del film. È come se vedessimo ogni cosa dal di dentro,
come se fossimo circondati dai personaggi del film. Essi non debbono comunicarci ciò
che provano. Siamo noi che vediamo ciò che essi vedono, e lo vediamo come essi
stessi lo vedono. Siamo inchiodati alla poltrona, ma non vediamo Romeo e Giulietta
dalla poltrona. Vediamo il balcone di Giulietta con gli stessi occhi di Romeo, vediamo
Romeo con gli occhi di Giulietta. Ci identifichiamo, mediante lo sguardo, con i
personaggi del film. Osserviamo
ogni cosa con la loro prospettiva, non possediamo
più un nostro punto di vista. Camminiamo anche noi fra le masse, cavalchiamo
insieme al protagonista, voliamo e precipitiamo con lui; quando, sullo schermo, un
personaggio guarda negli occhi l’amata, guarda al tempo stesso nei nostri occhi. I
nostri occhi sono nella macchina da presa, si identificano con gli occhi dei personaggi.
I personaggi vedono con i nostri occhi Questo processo psicologico lo definiamo
identificazione.
In nessuna forma d’arte, mai, si è potuto scoprire un processo simile a questa
identificazione (la quale, si badi, non ha un valore di eccezione, ma di fatto normale, in
uno come in cento, come in tutti i film). Questa è, esteticamente parlando, la nuova
fondamentale caratteristica del cinema.
Una nuova estetica.
La macchina da presa emigrò in America. Ma perché l’arte cinematografica giunse in
Europa dall’America? Per quale ragione le nuove e autentiche forme espressive furono
scoperte prima a Hollywood che a Parigi? È stata, questa, la prima volta che l’Europa
ha appreso un’arte dall’America.
// cinema è l’unica arte nata nell’èra borghese, capitalistica. Tutte le altre arti
affondano le radici nell’èra precapitalistica, e recano quindi tracce di antiche forme, di
remote ideologie. Si tenga inoltre presente la tradizione dell’estetica e della storia
dell’arte borghesi, le quali fondarono, attraverso le proprie «eterne leggi», l’assoluta
autorità delle arti precapitalistiche e, soprattutto delle arti antiche. La borghesia
parificò sulla base di un’unica legge, di una sola unità di misura, l’arte degli antichi
che pure non era nata nella sua società né dalla sua ideologia. Tutte le accademie
borghesi seguirono la stessa strada. Ora, una simile speculazione artistica imbastita
dalla cultura europea non poteva essere una piattaforma favorevole per spiccare quel
gran balzo che ci avrebbe condotti, senza alcun appoggio, verso un’arte borghese
completamente nuova. E il balzo fu osato senza indugi dagli americani, privi di
tradizioni e di preparazione culturale.
Assai più difficile sarebbe stato varare questa innovazione all’ombra della
conservatrice «Académie Française» (accanto agli storici tesori del Louvre, nei luoghi
dove si declamano oggi, come due secoli fa, Corneille e Racine) che non sul terreno
vergine di Hollywood. L’ideologia della borghesia americana non si fondava su
antiche tradizioni culturali. Ma in che cosa la tradizionale estetica europea differisce
da quella americana?
Il principio del microcosmo
Dai Greci ad oggi l’estetica europea ha assunto come principio basilare la
proposizione che fra l’uomo e l’oggetto artistico esiste una distanza interiore, un
dualismo. Secondo tale principio, ogni prodotto artistico costituisce un microcosmo
chiuso in se stesso, e soggetto a determinate leggi compositive. L’oggetto artistico può
rappresentare la realtà ma non ha con essa un rapporto diretto né, comunque, un
rapporto. Fra il prodotto dell’arte e la realtà empirica esiste una separazione,
rappresentata dalla cornice se si tratta di un quadro, dallo zoccolo se si tratta di una
statua, dalla ribalta se si tratta di un’opera teatrale. L’oggetto artistico si libera dalla
natura, dalla realtà, grazie alla sua particolare essenza, alla sua composizione chiusa,
alla sua legittimità in quanto opera d’arte. Rappresentando 1a realtà, e per il fatto
stesso di rappresentarla, non può essere un prolungamento di essa, non può avere con
essa rapporti di sorta. Quando ho tra le mani un quadro, non posso penetrare nello
spazio dipinto nel quadro stesso. Non si tratta soltanto di una incapacità fìsica. È la
mia coscienza umana che non trova posto dentro il quadro, poiché è nella natura stessa
del quadro l’intenzione di non destare in me l’impressione di farne parte, di non farmi
credere che io stesso mi trovi sulla superficie dipinta.
Lo stesso ragionamento vale per il teatro. Non riuscirei a penetrare nel mondo in cui si
svolge l’opera teatrale neppure se salissi in palcoscenico, fra gli attori, neppure se la
scena si svolgesse in mezzo agli spettatori, come avviene nel circo. Neanche in quel
caso, io potrei effettivamente partecipare all’azione teatrale. Gli attori non parlano con
me. Per loro, per la loro azione, io non esisto. Con la mia presenza, io posso turbare il
ritmo compositivo della rappresentazione, ma non prendervi parte.