Edizione # 21 Settembre 2013 Italiano
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Edizione # 21 Settembre 2013 Italiano
www.invisible-dog.com [email protected] UN MEDIORIENTE CHE CAMBIA , LA POLITICA ESTERA CHE NON INTERPRETA L'insorgere della Primavera Araba ha costretto molti Paesi a confrontarsi con un mondo arabo in ebollizione, dove vecchie alleanze o vecchie rivalita' sono state modificate dagli eventi. Nel divenire di queste turbolenze politiche, tutti quei Paesi che in passato si erano posizionati su una linea di politica estera cristallizzata fra amici e nemici sono stati subitaneamente costretti a modificare i loro atteggiamenti, a cambiare approccio, a decidere sull'onda delle urgenze sociali su quale cavallo puntare, se appoggiare una nuova dirigenza o rifiutarla, se optare sui benefici di una rivoluzione o se adagiarsi sulle certezze di una restaurazione. Alleanze e rivalita' frutto di rapporti sedimentati nel tempo sono improvvisamente decadute e tutti si sono trovati davanti a dover effettuare delle scelte repentine, magari dolorose, qualche volta opportunistiche e basate piu' sull'onda emotiva degli eventi che sulla razionalita' di una valutazione di merito. Siamo tutti fratelli Arrivano i Fratelli Musulmani in Egitto? Gli Stati Uniti optano per appoggiare l'ondata di liberalizzazione e democratizzazione che percorre il Paese. Lo fanno a scapito di una alleanza ultra-decennale tra Washington e l'e'lite militare cairota. Abbandonano al suo destino un Hosni Mubarak isolato, stremato e malato e - senza le perplessita' che il caso comunque richiedeva - si pongono a fianco di una Fratellanza tradizionalmente ostile alla presenza americana nella regione ed all'esistenza di Israele, storico alleato di Washington. Stesso problema per l'Arabia Saudita: il regime di Ryad si trova nella scomoda posizione di dover accettare una leadership islamica guidata da un'organizzazione come quella dei Fratelli Musulmani non particolarmente amata dai seguaci del wahabismo a scapito, anche in questo caso, del tradizionale legame del regno con i militari egiziani. Ma, a differenza degli Stati Uniti, i sauditi non abbracciano a piene mani la nuova dirigenza egiziana. Si mantengono ai margini di un rapporto formale. I sauditi non amano le rivoluzioni, non amano poi che le rivoluzioni trovino giustificazioni religiose e soprattutto non amano che vi sia un Islam politico. In parole povere: non amano i Fratelli Musulmani. L'arrivo della Fratellanza al potere viene invece subito appoggiato da Ankara. E' troppa la similitudine tra gli eventi egiziani e quelli turchi. Un potere militare che viene scalzato da una formazione partitica islamica. Mohamed Morsi viene visto come il Recep Erdogan egiziano. Il Partito di Giustizia e Liberta' egiziano come l'AKP turco. Poi tocca al Qatar, piccolo Stato con grandi ambizioni. La caduta dei militari egiziani fornisce a Doha lo spazio per giocare una propria, spregiudicata politica estera. Qui il motivo non e' la presunta affinita' tra la Fratellanza e le vicende dell'Emirato. La chiave di volta e' la competizione strisciante con i sauditi. Ryad ha riserve e timori su quelle organizzazioni radicali islamiche che pullulano il Medio Oriente? Il problema non si pone per il Qatar. Anzi, fornisce al Paese praterie per sviluppare e consolidare tutta una serie di opzioni in salsa islamica appoggiando tutto quel che di nuovo o di vecchio non risulta gradito ai concorrenti sauditi. Le primavere nordafricane Per gli eventi che si sviluppano in Tunisia i termini del problema sono piu' o meno gli stessi: un regime militare, una rivoluzione, un partito islamico che prende il potere. Stesso atteggiamento americano che abbraccia subito il presunto vagito di una democrazia tunisina (anche qui senza pensare troppo alla mancanza di affinita' tra il salafismo islamico di Rachid Ghannouchi e gli Stati Uniti), stessa titubanza saudita, stessa esultanza turca e del Qatar. Ryad fa anche di piu': offre rifugio a Ben Ali nel proprio Paese. Rachid Ghannouchi, esule tunisino per molti anni visto con sospetto dal mondo occidentale per le presunte collusioni tra il suo movimento Ennahda ed il terrorismo islamico, diviene improvvisamente l'icona di un mondo arabo alla ricerca di giustizia sociale, democrazia e liberta'. Nessuno pone piu' di una marginale attenzione ai suoi trascorsi ai limiti dell'eversione. Ben Ali era un dittatore che prima faceva comodo a molti. Ora e' solo un autocrate circondato dal disprezzo internazionale per tutte le ruberie perpetrate insieme alla famiglia Trabelsi e per la sua violazione sistematica dei diritti umani. Ed ecco il caso libico. Muammar Gheddafi non e' amato in Occidente e nemmeno nel mondo arabo. Per cacciarlo occorre un impegno militare internazionale. Il Qatar promette e poi aderisce con propri militari alle operazioni. L'Arabia Saudita si mantiene sostanzialmente neutrale. Gli Stati Uniti, fagocitati dall'attivismo francese, danno il loro fondamentale concorso alla vittoria sul terreno. La Turchia, inizialmente ostile all'intervento avendo sempre avuti buoni rapporti con Gheddafi, passa su posizioni neutrali. E' contraria alle operazioni anche l'Algeria che paventa - a giusto titolo - che una defenestrazione del rais portera' instabilita' e darò spazio al terrorismo islamico. Algeri non vede di buon occhio ne' la caduta di Hosni Mubarak al Cairo, ne' la cacciata di Ben Ali a Tunisi. Il potere ad Algeri e' da sempre detenuto dai militari, anche se per interposta persona come attualmente con Abdelaziz Bouteflika. C'e' piu' empatia verso quelle leadership che piu' si avvicinano alla realta' politica algerina. Cosi' come vi e' da sempre l'avversione nei confronti delle frange islamiche radicali ed il correlato terrorismo. Del resto l'Algeria e' da oltre 20 anni che combatte contro un terrorismo interno, con decine di migliaia di morti ammazzati, e teme un ulteriore contagio dai Paesi con i quali, fra mille difficolta', una cooperazione anti-terrorismo era in atto. Dalla Siria alla Palestina Insorge poi il caso della Siria. Non e' un problema per gli americani avversare il regime alawita, da sempre schierato sul fronte avverso a Israele e tradizionalmente schierato al fianco dell'Unione Sovietica ieri e della Russia oggi. Il problema che gli Stati Uniti debbono affrontare e', a livello politico, quello di contrastare l'appoggio russo a Bashar al Assad (che ha bloccato l'Onu ed evitato sinora qualsivoglia opzione diplomatica per la defenestrazione del dittatore) e, sul piano pratico, quello di aiutare la ribellione a rovesciare il regime. Washington ha incontrato problemi nel trovare una leadership credibile che unifichi i ribelli. Cosi' come non ha ancora deciso quali armamenti dare e a chi darli. C'e' la ragionevole paura che le armi finiscano nelle mani sbagliate. Sulle stesse problematiche si confrontano l'Arabia Saudita ed il Qatar. Appoggiano sul piano politico le diverse espressioni della ribellione. Ryad ha paura che vengano fornite armi a gruppi radicali islamici e che questi ultimi, una volta rientrati in patria, possano un domani incidere sulla stabilita' del regno. Infatti troppi “volontari“ islamici sono di nazionalita' saudita. E molti di questi ricevono oggi finanziamenti (e grazie ad essi la possibilita' di acquistare armi) da organizzazioni caritatevoli wahabite saudite. Per Ryad ad un problema di politica estera se ne sovrappone uno di sicurezza nazionale e di politica interna. Piu' spregiudicato e' il comportamento del Qatar che invece fornisce armi ai ribelli senza tante distinzioni sulla loro potenziale pericolosita'. Se, come potrebbe essere probabile, il regime alawita venisse sostituito dalla sua opposizione piu' credibile - quella dei Fratelli Musulmani - Doha avrebbe tutto da guadagnare da questo ricambio. Anche perche' durante le varie primavere arabe il Qatar e' sempre stato dalla parte della Fratellanza e di quei movimenti o partiti di ispirazione islamica. Per Doha, al contrario di Ryad, non esiste in politica estera una competizione tra sciiti e sunniti. Non ha comunita' sciite sul proprio territorio, non ha contenziosi di alcun genere con Teheran e non e' legata, a differenza dei sauditi, ad una politica della religione. Anche nel campo palestinese le posizioni si divaricano. L'Egitto di Mohamed Morsi trova subito consonanza politica con Hamas. Non potrebbe essere altrimenti visto che il movimento di Khaled Mashal e' un'estrapolazione politico-religiosa dei Fratelli Musulmani egiziani. Lo stesso fa il Qatar con il movimento di stanza a Gaza. L'Arabia Saudita si schiera invece sul fronte dell'OLP. Gli Stati Uniti, ancora una volta, si trovano spiazzati. Appoggiano Morsi, ma sono molto in difficolta' con gli estremismi e le intemperanze di Mashal. Optano per una posizione “attendista“ e fanno diplomazia a parole: vogliono la pace tra palestinesi e israeliani, auspicano che la vicinanza di Mohamed Morsi porti Hamas su posizioni moderate e negoziali, condannano ogni forma di violenza. La situazione cambia Questo era sostanzialmente il quadro dei rapporti di politica estera a seguito delle primavere arabe. Uno stravolgimento di intrecci, alleanze e connivenze cristallizzate nel tempo. Scelte un po' forzate, qualche volta contro natura, ma necessarie a limitare i danni che il nuovo contesto poteva portare agli interessi nazionali degli attori in gioco. L'assunto era stato quello di sempre: c'e' voglia di democrazia e di giustizia sociale, le primavere arabe rappresentano un anelito di liberta' in una regione a lungo dominata da prevaricazioni e abusi. E' quindi un bene cavalcare queste aspirazioni. Ma le cose non erano poi cosi' nette come sembravano: dietro alle rivolte sociali non c'erano solo gli aneliti di democrazia, ma anche rivalse sociali, condizioni economiche di disagio, talvolta voglia di vendetta. E la verita', cosi' diversa da come era stata pensata, si e' poi rivelata per quella che era: crollato un regime si e' creata anarchia sociale (Libia), cacciata una dittatura militare si sono instaurate pseudo-democrazie che interpretano le liberta' sociali solo in una visuale islamica e regressiva (Egitto e Tunisia), le battaglie nate come rivoluzioni democratiche calamitano jihadisti da ogni dove (Siria). A fattor comune vi e' un unico denominatore: caos, morti, proteste, crescita del terrorismo islamico. Attentati in Libia, attentati in Siria, attentati in Turchia, l'Egitto e la Tunisia sull'orlo della guerra civile. Nessuna esportazione della democrazia, frase tanto cara al per niente compianto presidente George W. Bush. Sono cambiati gli attori di ogni melodramma nazionale, ma i metodi di gestione del potere sono rimasti gli stessi. E qui si e' poi aggiunta l'ultima evoluzione: la restaurazione. Per adesso hanno incominciato i militari egiziani il 30 giugno con l'arresto di Mohamed Morsi. In Tunisia l'esperienza di democrazia islamico-centrica e' entrata in crisi con troppi morti in cerca di autore nelle fila dell'opposizione. In Siria il regime di Bashar al Assad non solo non sta crollando, ma sta riguadagnando militarmente terreno. Corsi e ricorsi storici si sovrappongono. Tutto cambia, ma poi, alla fine, nulla cambia. Il problema adesso e' il nuovo (ri)posizionamento di tutti quei Paesi che avevano appoggiato le primavere arabe. Gli Stati Uniti prima appoggiavano i militari di Hosni Mubarak, poi si sono subitaneamente convertiti alle idee di Mohamed Morsi e adesso che il generale Abdel Fattah Al Sissi ha ripreso manu militari il controllo del Paese cosa faranno? Passeranno dall'appoggio della rivoluzione all'appoggio della restaurazione con una ulteriore giravolta di politica estera? Ed in Tunisia continuera' l'appoggio di Washington ad una dirigenza islamica che non ha saputo rispondere alle aspirazioni della gente, ma ha solo dato spazio all'eliminazione fisica dei suoi oppositori per mano dei gruppi estremisti salafiti? Se il regime di Bashar al Assad non crollera', ma si rafforzera' sara' meglio favorire il dialogo con la Russia o vale la pena continuare l'appoggio alla lotta armata sempre piu' nelle mani degli integralisti filo-Qaedisti? In questo mondo arabo ed islamico che si contorce socialmente e facilmente confonde la primavera delle idee con l'autunno delle realta' pone problemi di posizionamento a tutti e non solo agli Stati Uniti. Un Morsi che finisce in galera penalizza le scelte del Qatar, colpisce negativamente l'immaginario del turco Erdogan, ma ripropone delle chance alla politica estera di Ryad. E nella Tunisia percorsa da proteste e tensioni c'e' ancora spazio per un ripensamento americano, per il supporto del Qatar a Ennadha o ancora una volta ha avuto ragione la prudenza saudita? Tutte domande che ancora non hanno adeguate risposte. Ma una cosa e' certamente avvenuta: sono le vicende dei Paesi ed i loro stravolgimenti interni che condizionano adesso le politiche estere e non viceversa. I fatti precedono e condizionano le intenzioni. E la politica estera, quella dei Paesi della regione, ma anche dei paesi Occidentali, sclerotizzata da decenni di immobilismo in Medio Oriente, cerca di cambiare pelle, fa fatica a capire e ad adattarsi ad un mondo che cambia e di cui però non riesce ancora ad interpretare le prospettive. Storie nazionali di cui non si conosce il finale, ma soprattutto sulle quali la politica estera degli attori esterni ha ormai scarsa incidenza. IL PERCHE' DEL NIGERGATE L'episodio giornalisticamente etichettato come il Nigergate si riferisce ad una informativa su un presunto acquisto di uranio per un altrettanto programma nucleare iracheno. Fu una delle chiavi di volta della guerra in Iraq, una delle "pistole fumanti" sulla presenza di armi di distruzione di massa a Baghdad. Era il 28 Gennaio 2003 quando il presidente George W. Bush affermava che "Saddam Hussein ha recentemente ricercato ingenti quantitativi di uranio in Africa". Era una balla, ma due mesi dopo servi' a giustificare l'invasione statunitense. Per capire come si arrivo' a quel dossier e' necessario contestualizzare l'evento. L'impero del male Dopo l'attentato terroristico alle Torri gemelle l'11 settembre 2001 gli Stati Uniti decidono di intervenire contro quelle organizzazioni e quegli Stati considerati coinvolti, a diverso titolo, nel terrorismo internazionale. A parte Osama bin Laden, mandante dichiarato dell'attentato, entrano nel mirino di Washington l'Afghanistan, a buon titolo perché offre ospitalita' e rifugio al leader di Al Qaeda, e, inopinatamente, anche l'Iraq. Saddam Hussein diventava improvvisamente l'emblema dell'impero del male e veniva accusato - a torto - di essere implicato nel terrorismo islamico internazionale. Tutto si poteva dire di Saddam, da decenni al vertice di una dittatura laica, ma non che guardasse di buon occhio il mondo religioso. Da una parte si confrontava con una opposizione sciita, sostenuta dagli iraniani, dall'altra fronteggiava l'ostilita' del mondo religioso sunnita veicolato e finanziato dai sauditi. Lui poi con Osama bin Laden o con Al Qaeda non aveva mai avuto niente a che fare. Non apparteneva al suo mondo o al suo modo di pensare o agire. Ma Saddam era diventato il male. Gli venne contestato il suo coinvolgimento in un programma nucleare, fu accusato di volersi dotare di un'arma atomica. Piovvero richieste di ispezioni internazionali, minacce, sanzioni, a cui Saddam Hussein rispose il piu' delle volte in modo negativo non tanto per nascondere i suoi programmi nel settore delle armi di distruzioni di massa (che le inchieste dimostreranno di non esistere), ma per orgoglio nazionale e per quell'approccio un po' brutale e prepotente che contraddistingueva l'uomo ed il nazionalista. Altro suo difetto comportamentale derivava dalla scarsa cognizione del mondo circostante, dall'influenza dell'opinione pubblica internazionale, dal bisogno di coltivarsi amici o combattere mediaticamente i nemici. Gia' aveva sbagliato quando aveva attaccato ed invaso il Kuwait nell'agosto del 1990. Avrebbe potuto ottenere lo stesso obiettivo di conquista dell'emirato utilizzando mezzi piu' sofisticati - un colpo di Stato, fomentare l'opposizione con armi o soldi - che non intervenire con delle divisioni meccanizzate ed invadere il Paese. Era cosi' ampio il divario di forza tra i due Paesi che ogni altra alternativa all'invasione militare era facilmente percorribile. Nel mondo arabo l'emiro Ahmad al Jaber al Sabah non godeva certo di una buona reputazione, essendo ritenuto un personaggio arrogante e ricco e questa circostanza era risultata molto evidente durante l'invasione quando i giordani ed i palestinesi manifestavano la loro gioia per strada. Ma nel 2001-2003 Saddam Hussein non aveva colpe specifiche, se non quella di essere ancora al potere dopo la prima guerra del golfo. Aveva perso la guerra nel 1991 contro gli Stati Uniti ed i suoi alleati, aveva subito l'invasione delle truppe alleate, ma George Bush senior (o meglio George Herbert Walker Bush) per un errore di calcolo politico-militare non aveva autorizzato le truppe americane a proseguire l'invasione fino a Bagdad pensando, erroneamente, che una cosi' sonora sconfitta del dittatore avrebbe sicuramente favorito la sua defenestrazione o eliminazione. Saddam Hussein rimaneva cosi' al potere, mentre George Bush senior, anche per quell'errore iracheno, perdeva nel 1993 la riconferma del suo mandato presidenziale. Sogni di gloria Ma ritorniamo nel 2001: il 20 gennaio di quell'anno viene nominato Presidente il figlio di Bush padre, George W. Bush o meglio conosciuto come Bush Junior. Subisce l'attentato alle Torri Gemelle, caratterizza in chiave interventista tutto il suo mandato presidenziale e scatena la guerra al terrorismo. Di nuovo punta l'indice accusatorio verso Saddam Hussein, pretestuosamente per il suo coinvolgimento nel terrorismo islamico internazionale, emotivamente (perché dietro alla politica di un Paese c'e' sempre un uomo con le sue debolezze, sentimenti o risentimenti) perché il dittatore aveva commesso il peccato mortale di aver affossato, in quota parte, la carriera del padre. E' qui che si inizia a costruire quell'impalcatura di presunte prove e indizi che possano permettere al Presidente degli Stati Uniti di giustificare una guerra contro l'Iraq. Ed e' proprio in questo contesto che entra in gioco l'Italia e la storia del Nigergate. E' un'Italia che ha stretti legami con gli Stati Uniti, anche in virtu' di quel legame di amicizia instaurato tra il Presidente Bush ed il Primo Ministro italiano Silvio Berlusconi, anch'egli ritornato alla guida del governo italiano nel 2001. L'amicizia tra i due uomini politici e' un evento di dominio pubblico ed e' ben pubblicizzata. Ma c'e' anche una terza persona che entra in gioco ed e' il nuovo capo del SISMI, il Servizio italiano di intelligence deputato alla ricerca all'estero, nella persona del Generale Niccolo' Pollari. Pollari e' nominato da Berlusconi - sembra anche con qualche dubbio capo dell'intelligence militare il 15 ottobre 2001. Gli viene dato ampio mandato di combattere il terrorismo internazionale. Il SISMI (oggi, dopo la riforma dei Servizi, ha cambiato nome in A.I.SE.) e' un organismo che opera sotto la responsabilita' del Primo Ministro che poi generalmente nomina e delega, per le questioni di controllo e coordinamento, un Sottosegretario. La buona reputazione di un capo dei Servizi italiani e' molto legata alle benemerenze che altri Servizi stranieri veicolano politicamente nei contatti bilaterali. Soprattutto la C.I.A. ed il Mossad. E' una circostanza che il Generale Pollari conosce molto bene e che consciamente o inconsciamente intende sfruttare. Perché il disegno di Niccolo' Pollari e' di piu' lungo respiro che non il comando del SISMI. Il suo vero obiettivo e' diventare il primo Comandante della Guardia di Finanza proveniente dal Corpo dopo una presumibile riforma di legge. Sta gia' lavorando in questa direzione favorendo, prima sottobanco e poi piu' ufficialmente, un nuovo Comandante della Finanza nella persona del Generale Roberto Speciale. I due si erano conosciuti quando Speciale era Sotto Capo di Stato Maggiore dell'Esercito (incarico ricoperto dal 1999) e Pollari vice Direttore del CESIS. Il sodalizio si completera' nell'ottobre del 2003 quando Roberto Speciale verra' nominato Comandante della Finanza contrariamente alla terna fornita dallo Stato Maggiore dell'Esercito sulla base di titoli e anzianita'. Ma Niccolo' Pollari, grazie al suo instaurato afflato con il Primo Ministro protempore, fa cambiare i valori in campo e aiuta Speciale. Gli amici si aiuteranno nel tempo con una serie di favori incrociati, sia a livello professionale (circa 850 finanzieri entreranno nel Servizio), ma anche a livello personale o meglio familiare. La "pistola fumante" Ma torniamo alle circostanze degli anni 2001-2003. Berlusconi e' amico di Bush Junior, Niccolo' Pollari ha mire di lungo respiro ed ha tutto l'interesse a coltivare i suoi sogni favorendo quelle persone e quelle entita' che lo possono agevolare. Ecco allora che assecondare la C.I.A., fatto ricorrente per tutti i Capi del SISMI, diventa imperativo. Aiuta la C.I.A., acquista benemerenze da Berlusconi, coltiva la sua carriera in prospettiva. Dopo l'attentato del settembre 2001 gli americani dedicano le loro energie alla lotta al terrorismo. La C.I.A. viene autorizzata anche alle operazioni sporche come le "extraordinary renditions", il ricorso alle torture e alle carceri segrete. Tutto e' lecito nel perseguimento di questa lotta al terrore. E' una impostazione che viene appoggiata anche da altri Paesi che condividono con gli Stati Uniti la preoccupazione per il terrorismo islamico (e su questa tendenza si inserira' il caso di Abu Omar, alias Hassan Mustafa Osama Nasr, rapito a Milano il 17 febbraio 2003). Non ci sono dubbi sul coinvolgimento dell'Afghanistan che ospita Osama bin Laden (che viene subito attaccato), ma non per l'Iraq. Occorre una sinergia di intelligence per scoprire (o creare) tutte quelle circostanze che possano giustificare un attacco militare americano contro Saddam Hussein. Ovviamente e' un problema che, di riflesso, interessa anche il SISMI. Bisogna trovare la cosiddetta "pistola fumante", la prova incontrovertibile delle mire nucleari irachene. Qui entrano in gioco tutta una serie di personaggi, depistaggi, disinformazione che, in maniera incontrovertibile, ha poi portato alla luce una inchiesta giornalistica di Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo sul giornale "La Repubblica" nel 2005. Sono attori di un thriller una fonte inaffidabile, una informatrice presso l'ambasciata nigerina di Roma, notizie e smentite che si accavallano sulla stampa e nella cooperazione tra Servizi stranieri (l'MI-6 inglese, la D.G.R.E. francese ed ovviamente la C.I.A.), ma il cui protagonista principale rimane, nel suo attivismo un po' ostentato e poi smentito (quando poi i fatti hanno incontrovertibilmente dimostrato che era tutta una bufala), il SISMI di Niccolo' Pollari. Una recita a soggetto di una commedia internazionale - meglio una spy-story - la cui trama si e' poi sviluppata sugli interessi personali degli attori e non sull'oggetto del contendere. In questo gioco delle parti anche la stampa fa la sua parte facendosi strumento per veicolare notizie volutamente disinformanti sul circuito mediatico a scopo di accreditare verita' non dimostrate, ma soprattutto per divulgare dubbi, sospetti ed accuse non ulteriormente dimostrabili. Basterebbe citare l'inchiesta pubblicata sul "New York Times" del settembre 2002 in cui la giornalista Judith Miller parlava di tubi di alluminio di cui Saddam Hussein si sarebbe fornito per costruire la bomba atomica. O la storia pubblicata dal settimanale "Panorama" sulla presunta fornitura di uranio grezzo (yellowcake) dal Niger all'Iraq. Ovviamente molta disinformazione ha avuto anche matrice politica sempre nell'obiettivo di accusare l'Iraq: l'ambasciatore americano John Negroponte in un intervento alle Nazioni Unite, il Presidente George Bush nel suo intervento del gennaio 2003 sullo "State of the Union", lo stesso Segretario di Stato Colin Powell. Quest'ultimo poi aveva avuto il compito, durante un memorabile intervento alle Nazioni Unite il 5 febbraio 2003, di mostrare al mondo le prove inconfutabili del coinvolgimento iracheno nel programma delle armi di distruzione di massa. Ma a parte l'inequivocabile inattendibilita' del dossier sull'uranio nigerino, tutti hanno interesse a credere il contrario. Soprattutto i due attori principali: gli U.S.A. che vogliono fare la guerra a Saddam Hussein e Pollari che vuole ricavare da questa operazione tutta una serie di benefici contatti e di benemerenze. Non e' tanto la C.I.A. che interessa al Generale, ma soprattutto quei vertici politici che girano intorno a Bush e che possono potenzialmente determinare quella "captatio benevolentiae" a cui lui aspira. Niccolo' Pollari ha varie tessere nel suo mosaico relazionale che possono aiutarlo nelle sue entrature statunitensi: non solo il dossier ma anche agganci con persone influenti della stampa italiana e americana. Ha all'interno del Servizio anche chi lo aiuta in questo. Anche perché lui non parla una parola di inglese e non puo' ricorrere a tutti quei sofismi linguistici che tanto supportano le sue scaltrezze. Il dossier lo mette in contatto con personaggi altolocati del Pentagono e dello staff del Segretario alla Sicurezza nazionale Condoleeza Rice e si muove con il supporto di giornalisti influenti della stampa americana. Il Capo del SISMI nel settembre del 2002 si incontra con Stephen Hadley, vice di Condi Rice. Tutti cercano la "pistola fumante" e lui la fornisce. Gode anche dell'appoggio dell'allora capo della C.I.A., George Tenet, in caduta di consensi dopo l'attentato delle Torri Gemelle e con il bisogno di procurare ai propri capi cio' che loro vogliono. Ognuno subordina la ricerca informativa all'interesse privato. Un castello di carta Non tutto pero' va nel verso giusto. Al coro di accuse contro Saddam c'e' una voce contraria. L'Amministrazione U.S.A. aveva delegato un ex ambasciatore, Joseph Wilson, per indagare sulla pista irachena-nigerina. Il diplomatico, nel febbraio del 2002, consegna un rapporto in cui, in maniera inequivocabile, smentisce le informazioni sull'acquisizione di uranio da parte di Saddam Hussein. Ma questo rapporto non altera le convinzioni del Presidente George W. Bush e di chi lo assecondava. Il Dipartimento di Giustizia dovra' pero' indagare su una fuga di notizie perché, non casualmente, era stato rivelato il nome di un'agente della C.I.A. che, non casualmente, era proprio la moglie dell'ambasciatore Wilson, la signora Valerie Plame. E molti, non casualmente, pensano che la fuga di notizie sia proprio venuta dall'Amministrazione americana. Niccolo' Pollari e' un personaggio alquanto scaltro: fa ma non lo vuole fare vedere. E' anche prudente perché, come un po' tutte le patacche, l'informativa sul Niger nasconde un margine non accettabile di rischio. E' suo preciso interesse che l'origine dell'informativa non appaia, almeno sul piano mediatico, chiara. Viene aiutato in questo dal rimbalzarsi della storia del Niger su vari organi di stampa e negli uffici di vari Servizi. Quando interpellato dal Comitato Parlamentare per Controllo dei Servizi Segreti (COPASIR) sulla questione del Niger non parla - almeno alla prima audizione - di prove documentali, ma di informazioni. Come dire: voci, notizie non confermate. Il altre parole si trincera dietro una cautela semantica. In seguito, invece, sara' molto piu' disinvolto perché questa volta, a suo dire, avra' le prove documentali sull'acquisizione irachena di materiale per sistemi missilistici. Si tratta di tubi di alluminio. Quello che viene etichettato come materiale "dual use". Ma adesso di "use" ne ha sempre uno solo: quello bellico. La scaltrezza di Niccolo' Pollari va ben oltre le parole. Quando non si sente sicuro si nasconde dietro la tacita accondiscendenza dei suoi superiori, non lascia mai niente al caso. Lo fara' anche in questo caso ed alla fine i suoi superiori saranno costretti a difenderlo. Quando si accorgera' che l'informativa del Nigergate ha assunto toni grotteschi che possono pericolosamente danneggiare il suo sogno di carriera, soprattutto nel farsi accreditare l'origine di una patacca usata per dare il via ad una guerra, il Generale sente il bisogno impellente di defilarsi. E lo fa appoggiandosi ancora una volta - e come poi accadra' nel processo per il sequestro di Abu Omar - al segreto di Stato grazie alla consueta compiacenza del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega per i Servizi Segreti, Gianni Letta. Ma Niccolo' Pollari fa di piu': rilascia una intervista nel 2004 e accusa i Servizi francesi di essere loro gli originatori del dossier. Tentativo maldestro perché erano stati proprio i francesi, quelli della D.G.S.E. (Direction Generale de la Securite Exterieure), i primi critici del dossier Niger rimbalzato nella catena dei contatti tra Servizi. Chi meglio dei francesi sapeva che le miniere nigerine, da cui gli stessi francesi acquisiscono il 26% del fabbisogno nazionale di uranio per alimentare le loro centrali nucleare sotto la stretta gestione e controllo di una societa' francese, la AREVA , non potevano sicuramente fornire niente a nessuno, tantomeno quell'iperbolica quantita' (500 tonnellate) di yellow cake ipotizzate nel dossier. E se poi qualcuno avesse tentato veramente di trasportare dalle miniere di Arlit o Akouta verso l'Iraq tutto questo quantitativo di uranio, una cosa del genere poteva passare inosservata nell'attraversamento di altri Paesi o nell'utilizzo di trasporti aerei? Una bugia mortale Ma tutti quei dubbi cosi' evidenti e macroscopici che avrebbero dovuto consigliare tutti gli addetti ai lavori che si sono confrontati sul dossier ad usare cautela o dissociarsi non hanno trovato mai udienza. La storia del Nigergate ha favorito la guerra in Iraq e cosi', nel tempo, ha prodotto poi tutta una serie di conseguenze e controindicazioni: una guerra inutile, sbagliata, che ha creato nel Paese anarchia ed instabilita' che continua ancora oggi dopo dieci anni, un Paese distrutto e percorso dalla violenza settaria, gli oltre 4.400 morti americani, i 35 morti italiani, le centinaia di migliaia di morti iracheni di cui la maggioranza civili, una regione percorsa dai venti di una rivolta sociale caratterizzata da una colorazione religiosa, il terrorismo islamico che si e' diffuso esponenzialmente. Il tutto non ha tra l'altro nemmeno prodotto quella tanto decantata esportazione della democrazia tanto cara alla retorica del presidente americano George W. Bush. Certo, non e' stato solo il dossier del Nigergate a fare decidere il Presidente Bush di andare alla guerra contro Saddam Hussein. Lui aveva gia' deciso. E' stato pero' uno dei tasselli su cui si e' costruita una impalcatura di menzogne per giustificare l'intervento armato. Ma tra tante disgrazie c'e' anche chi ci ha tratto un guadagno diretto da questo imbroglio di intelligence: chi ha confezionato con il personale alle proprie dipendenze il dossier e' oggi un altissimo dirigente dell'A.I.S.E.; chi ha procurato contatti a Niccolo' Pollari nell'establishment americano e tra i giornalisti italiani e d'oltreoceano e' anche lui un importante dirigente dell'A.I.S.E.. Oltre al povero Saddam Hussein che ci ha rimesso la vita o Pollari che ci ha rimesso in prospettiva le ambizioni di carriera, entrambi quindi non hanno certo tratto giovamento dal Nigergate, ma qualcuno alla fine ne ha tratto un beneficio che dura tuttora. UN PAESE DIMENTICATO: LE COMORE Le isole Comore appartengono a quella parte del globo di cui nessuno si preoccupa. Lontane dai grandi traffici, prive di prevalente interesse strategico, senza materie prime e risorse, non servono a nessuno. Vivono la loro storia e la loro emarginazione sociale ed economica nel totale disinteresse del mondo. Nel continente africano, a cui geograficamente appartengono, non sono una eccezione: Stato povero e disastrato occupano una posizione di assoluto prestigio (sono 163sime tra le 187 nazioni piu' povere del mondo). Le Comore vivono di sussidi internazionali, in questo caso pura elemosina, e l’ex nazione coloniale - la Francia - avendo a suo tempo favorito la secessione di Mayotte nel 1974 e nonostante sia rimasta legata ai territori d’oltremare, non ha piu' tanto interesse ad assicurarsi altri approdi strategici nell’area. Una piccola popolazione (734.750 abitanti, dato 2010), il 98% della quale musulmana, ripartita su 3 isole (Ngazidja o Grande Comore dove vive il 52% della popolazione; Nzawani o Anjouan dove vive il 42%, e Mwali o Mohe'li la piu' piccola) con una densita' territorio/abitanti particolarmente alta. L'alto tasso di crescita demografica (2,4%) abbinato ad un modesto livello di aspettativa di vita fanno si' che il 52% della popolazione della Comore abbia meno di 20 anni. Una bomba sociale ad orologeria che ogni tanto produce un colpo di Stato. Tanto per dare un senso alle statistiche, dall’indipendenza acquisita nel luglio del 1975 ad oggi nel Paese ci sono stati almeno 21 colpi di Stato a cui nessuno come si e' detto all’inizio - ha dato l’importanza che meritavano (sembra che, nello stesso lasso di tempo, solo l’Ecuador abbia fatto meglio). La scuola Denard L’ultimo tentativo, peraltro fallito, di golpe e' stato il 20 aprile 2013. L'evento ha avuto risalto perche' un partito di opposizione, il Ridja (Rassemblement pour un initiative de developpement avec la jeunesse avertie), ed altre tre associazioni non governative hanno denunciato il governo francese per l’implicazione di personaggi legati alla Francia. Tra le quindici persone arrestate vi era infatti un mercenario francese, altri due personaggi francesi (un uomo d’affari e la sorella di un mercenario congolese), dei franco-comoriani, altri mercenari di nazionalita' congolese e ciadiana ed ovviamente anche dei personaggi locali. Il mercenario francese, tale Patrick Klein, e' un personaggio legato al defunto Bob Denard, morto nel 2007, ancor piu' noto mercenario che viveva in Sudafrica , gia' implicato in un precedente colpo di Stato nelle isole Comore nel 1995. Al fianco di Klein vi erano anche un ex colonnello dell’armata congolese esiliato in Francia e gia' frequentatore dell’Accademia militare di Saint Cyr ed un colonnello ciadiano (anche lui ex alunno di Saint Cyr). L’iniziativa del presidente del Ridja Said Larifou tenta di far luce sull’episodio sperando soprattutto che l’inchiesta francese individui i mandanti del golpe e ne sveli le finalita'. Larifou non ha probabilmente particolare fiducia sulla parallela inchiesta del governo comoriano. Comunque, esistono pochi dubbi che il colpo di Stato sia stato concepito ed organizzato a Parigi. E' li' che Klein ha contattato, reclutato ed anche pagato (da 10.000 euro a 22.000 a secondo dell’importanza del soggetto) i suoi mercenari. Quindi c’e' un finanziatore (ancora non noto), dei soldati di ventura (quasi tutti noti) e un mandante (ancora non perfettamente individuato). Il sospetto, lecito o meno, e' che il golpe fosse mirato ad impedire la rotazione quinquennale alla presidenza del Paese delle 3 isole, cosi' come stabilita da un accordo di pacificazione del 2001 che prefigurava una "Unione delle Comore" con particolare autonomia per ciascuna isola. Un sistema che, nelle intenzioni dei proponenti, doveva assicurare una struttura istituzionale piu' rappresentativa (ed almeno all’inizio l’accordo ha funzionato), ma che ha poi incominciato a evidenziare delle crepe quando, nel 2010, il Presidente Ahmed Abdallah Sambi ha cercato di estendere il suo mandato oltre i termini di scadenza costituzionale. Dopo dei negoziati tra i maggiori partiti, il 26 maggio 2011 e' stato eletto Presidente - e questa volta in modo ritenuto democratico - Ikililou Dhoinine dell’isola di Mohe'li. Dhoinine ha il mandato in scadenza nel 2016, ma forse questo dettaglio, in un Paese dove l’acquisizione del potere avviene storicamente con l’uso delle armi e raramente con le elezioni, ha costituito le premesse per affrettare l’ennesimo colpo di Stato. La dinastia Abdallah Nel suo tumultuoso procedere, la storia politica delle Comore si interseca sempre con due attori che ne fanno da protagonisti: i mercenari (Bob Denard fino al 2007 e poi i suoi accoliti) e la famiglia Abdallah. A parte i soldati di ventura che si sono recati nella capitale Moroni per realizzare il golpe di Aprile 2013, vi sono state connivenze con alcuni (almeno 12) tra militari e personaggi locali. E’ infatti emerso, anche in questo ultimo fallito colpo di Stato, l’ombra di uno dei tanti figli del defunto Presidente Ahmed Abdallah, Mahamoud. Ahmed Abderamane Abdallah, il patriarca della famiglia, e' stato eletto Presidente della Repubblica delle Comore nel luglio del 1975 per poi essere defenestrato con un colpo di Stato dopo appena un mese (e qui compare Renard a fianco dei golpisti guidati da Ali Solih). Tre anni dopo un altro colpo di Stato ed Ali Solih e' ucciso dai mercenari e Ahmed Abdallah viene rimesso al potere. Protagonista sempre Bob Denard che recita due parti nella stessa commedia: una volta a favore di Solih, la seconda a favore di Abdallah. Nell’ottobre del 1979 Ahmed Abdallah rivince le elezioni presidenziali, ma come spesso accade in queste parti di mondo, la sua democrazia - anche se supportata e tutelata dal ruolo dei mercenari - si trasforma in dittatura. Fonda il partito unico nel 1982 e due anni dopo con questo escamotage rivince le elezioni, subisce un fallito tentativo di colpo di Stato da parte delle Guardie Repubblicane al quale sopravvive, ma il 26 novembre 1989 viene ucciso in un altro golpe. Fomentato da chi? La risposta e' sempre la stessa: Bob Denard. Da quel momento, sparito il patriarca, compaiono sulla scena politica (intendendo soprattutto quella legata ai suoi sovvertimenti traumatici) i figli. Nel 1992 vengono arrestati per tentato colpo di Stato i gemelli Abderemane e Sheikh e con loro anche un loro fratellastro. Altra comparsa del clan nel settembre 1995, sempre protagonista Bob Renard, per estromettere il Presidente Djohar e per cercare di liberare i due gemelli (gia' condannati a morte, pena poi tramutata in ergastolo). Obiettivo raggiunto. Poi tocca ad un altro fratello, Mahmoud, accompagnato da Abderemane, tentare il golpe nel 2000. Entrambi sono arrestati e liberati dopo pochi mesi. Ed infine, proprio in quest’ultimo ulteriore tentativo di aprile 2013, ecco ricomparire il nome di Mahmoud anche se poi il dato deve essere suffragato da prove nonostante esistano forti sospetti al riguardo - ovviamente con l'aiuto di mercenari. L’obiettivo ultimo di aprile era eliminare l’attuale Presidente Ikililou Dhoinine, il Colonnello Yussouf Idjihadi che ricopre le funzioni di capo di stato maggiore ed un altro ufficiale, il Col. Ibrahim Ahamada. Gli Abdallah sono una realta' economica molto importante nel Paese (oggi un po’ meno che nel passato). Gestiscono in regime quasi di monopolio l’import-export, hanno vaste proprieta' immobiliari (anche a Mayotte) e forse questo li fa sentire predestinati, anche se non attraverso canali democratici, a governare il Paese. Il clan Abdallah e' molto coeso ed e' composto di 5 fratelli e 4 sorelle (queste ultime non dedite a trame eversive). Nonostante non siedano sullo scranno piu' alto, i membri della famiglia occupano sempre posizioni istituzionali di prestigio. Sheikh occupa attualmente l’incarico di addetto militare nell’ambasciata a Parigi. Il fratello gemello Abderemane e' deputato all’Assemblea nazionale nonche' presidente della Commissione Esteri. L’altro fratello, Salim, sinora mai implicato in attivita' politica, presiede il consiglio di amministrazione della Banca centrale delle Comore. Il piu' vecchio, Nassuf, e' invece consigliere del Presidente Dhoinine. In passato era stato vice presidente dell’Assemblea nazionale, ambasciatore in Sudafrica e consigliere del Presidente di Anjouan. Allora, visto che tra l’attuale Presidente e vari membri del clan ci sono buoni rapporti, perche' Mahmoud ha cercato di estrometterlo? La risposta e' implicita nel fatto che Mahmoud era molto legato all’ex Presidente - poi deceduto - Mohamed Taki Abdulkarim. Successivamente il suo astro politico si era lentamente eclissato. Forse ha giocato in proprio (magari con l’appoggio di gente collegata a Taki) ed in competizione con i fratelli politicamente piu' attrezzati. Resta il fatto che nel comune sentire del clan ci si ritiene sempre predestinati alla guida del Paese. E se quindi Mahmdoud ha guidato il colpo di stato, il sistema militarizzato che regola il clan ha fatto si' che il golpista fosse difeso dai fratelli ed alla fine, dopo essere stato arrestato, e' stato anche liberato. Un errore di valutazione Un Paese che passa da un colpo di Stato all’altro, dove i maggiori introiti sono forniti dalle noci di cocco, un angolo sperduto del mondo dove la democrazia e' un'opzione scarsamente applicata che importanza può avere nella globalizzazione? La risposta si chiama Fazul Mohammed Abdallah, un terrorista comoriano al soldo di Al Qaeda, implicato negli attentati alle ambasciata americane di Nairobi e Dar es Salaam del 1998, passato poi al fianco degli Shabaab somali dove poi ha trovato la morte nel 2011. Perche' in un Paese dove ha spazio la sottocultura civica, dove la poverta' raggiunge livelli insopportabili (il 45% della popolazione vive sotto il livello di poverta' ed il reddito procapite annuale e' di circa 750$) e dove l’ingiustizia sociale e' pane quotidiano si creano le condizioni per la crescita di personaggi che non hanno nulla da perdere e che fanno dell’unica ideologia che fornisce degli pseudo alibi ai loro comportamenti - nel caso specifico l’Islam - uno scopo di vita. Nel loro piccolo le Comore hanno dato un piccolo contributo all’instabilita' del mondo grazie alla disattenzione del globo che le circonda.