Edizione # 21 Settembre 2013 Italiano

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Edizione # 21 Settembre 2013 Italiano
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UN MEDIORIENTE CHE CAMBIA , LA POLITICA ESTERA CHE NON INTERPRETA
L'insorgere della Primavera Araba ha costretto molti Paesi a confrontarsi con un mondo
arabo in ebollizione, dove vecchie alleanze o vecchie rivalita' sono state modificate dagli
eventi. Nel divenire di queste turbolenze politiche, tutti quei Paesi che in passato si erano
posizionati su una linea di politica estera cristallizzata fra amici e nemici sono stati
subitaneamente costretti a modificare i loro atteggiamenti, a cambiare approccio, a
decidere sull'onda delle urgenze sociali su quale cavallo puntare, se appoggiare una
nuova dirigenza o rifiutarla, se optare sui benefici di una rivoluzione o se adagiarsi sulle
certezze di una restaurazione. Alleanze e rivalita' frutto di rapporti sedimentati nel tempo
sono improvvisamente decadute e tutti si sono trovati davanti a dover effettuare delle
scelte repentine, magari dolorose, qualche volta opportunistiche e basate piu' sull'onda
emotiva degli eventi che sulla razionalita' di una valutazione di merito.
Siamo tutti fratelli
Arrivano i Fratelli Musulmani in Egitto? Gli Stati Uniti optano per appoggiare l'ondata di
liberalizzazione e democratizzazione che percorre il Paese. Lo fanno a scapito di una
alleanza ultra-decennale tra Washington e l'e'lite militare cairota. Abbandonano al suo
destino un Hosni Mubarak isolato, stremato e malato e - senza le perplessita' che il caso
comunque richiedeva - si pongono a fianco di una Fratellanza tradizionalmente ostile alla
presenza americana nella regione ed all'esistenza di Israele, storico alleato di Washington.
Stesso problema per l'Arabia Saudita: il regime di Ryad si trova nella scomoda posizione
di dover accettare una leadership islamica guidata da un'organizzazione come quella dei
Fratelli Musulmani non particolarmente amata dai seguaci del wahabismo a scapito, anche
in questo caso, del tradizionale legame del regno con i militari egiziani. Ma, a differenza
degli Stati Uniti, i sauditi non abbracciano a piene mani la nuova dirigenza egiziana. Si
mantengono ai margini di un rapporto formale. I sauditi non amano le rivoluzioni, non
amano poi che le rivoluzioni trovino giustificazioni religiose e soprattutto non amano che vi
sia un Islam politico. In parole povere: non amano i Fratelli Musulmani.
L'arrivo della Fratellanza al potere viene invece subito appoggiato da Ankara. E' troppa la
similitudine tra gli eventi egiziani e quelli turchi. Un potere militare che viene scalzato da
una formazione partitica islamica. Mohamed Morsi viene visto come il Recep Erdogan
egiziano. Il Partito di Giustizia e Liberta' egiziano come l'AKP turco.
Poi tocca al Qatar, piccolo Stato con grandi ambizioni. La caduta dei militari egiziani
fornisce a Doha lo spazio per giocare una propria, spregiudicata politica estera. Qui il
motivo non e' la presunta affinita' tra la Fratellanza e le vicende dell'Emirato. La chiave di
volta e' la competizione strisciante con i sauditi. Ryad ha riserve e timori su quelle
organizzazioni radicali islamiche che pullulano il Medio Oriente? Il problema non si pone
per il Qatar. Anzi, fornisce al Paese praterie per sviluppare e consolidare tutta una serie di
opzioni in salsa islamica appoggiando tutto quel che di nuovo o di vecchio non risulta
gradito ai concorrenti sauditi.
Le primavere nordafricane
Per gli eventi che si sviluppano in Tunisia i termini del problema sono piu' o meno gli
stessi: un regime militare, una rivoluzione, un partito islamico che prende il potere. Stesso
atteggiamento americano che abbraccia subito il presunto vagito di una democrazia
tunisina (anche qui senza pensare troppo alla mancanza di affinita' tra il salafismo islamico
di Rachid Ghannouchi e gli Stati Uniti), stessa titubanza saudita, stessa esultanza turca e
del Qatar. Ryad fa anche di piu': offre rifugio a Ben Ali nel proprio Paese.
Rachid Ghannouchi, esule tunisino per molti anni visto con sospetto dal mondo
occidentale per le presunte collusioni tra il suo movimento Ennahda ed il terrorismo
islamico, diviene improvvisamente l'icona di un mondo arabo alla ricerca di giustizia
sociale, democrazia e liberta'. Nessuno pone piu' di una marginale attenzione ai suoi
trascorsi ai limiti dell'eversione. Ben Ali era un dittatore che prima faceva comodo a molti.
Ora e' solo un autocrate circondato dal disprezzo internazionale per tutte le ruberie
perpetrate insieme alla famiglia Trabelsi e per la sua violazione sistematica dei diritti
umani.
Ed ecco il caso libico. Muammar Gheddafi non e' amato in Occidente e nemmeno nel
mondo arabo. Per cacciarlo occorre un impegno militare internazionale. Il Qatar promette
e poi aderisce con propri militari alle operazioni. L'Arabia Saudita si mantiene
sostanzialmente neutrale. Gli Stati Uniti, fagocitati dall'attivismo francese, danno il loro
fondamentale concorso alla vittoria sul terreno. La Turchia, inizialmente ostile all'intervento
avendo sempre avuti buoni rapporti con Gheddafi, passa su posizioni neutrali. E' contraria
alle operazioni anche l'Algeria che paventa - a giusto titolo - che una defenestrazione del
rais portera' instabilita' e darò spazio al terrorismo islamico.
Algeri non vede di buon occhio ne' la caduta di Hosni Mubarak al Cairo, ne' la cacciata di
Ben Ali a Tunisi. Il potere ad Algeri e' da sempre detenuto dai militari, anche se per
interposta persona come attualmente con Abdelaziz Bouteflika. C'e' piu' empatia verso
quelle leadership che piu' si avvicinano alla realta' politica algerina. Cosi' come vi e' da
sempre l'avversione nei confronti delle frange islamiche radicali ed il correlato terrorismo.
Del resto l'Algeria e' da oltre 20 anni che combatte contro un terrorismo interno, con
decine di migliaia di morti ammazzati, e teme un ulteriore contagio dai Paesi con i quali,
fra mille difficolta', una cooperazione anti-terrorismo era in atto.
Dalla Siria alla Palestina
Insorge poi il caso della Siria. Non e' un problema per gli americani avversare il regime
alawita, da sempre schierato sul fronte avverso a Israele e tradizionalmente schierato al
fianco dell'Unione Sovietica ieri e della Russia oggi. Il problema che gli Stati Uniti debbono
affrontare e', a livello politico, quello di contrastare l'appoggio russo a Bashar al Assad
(che ha bloccato l'Onu ed evitato sinora qualsivoglia opzione diplomatica per la
defenestrazione del dittatore) e, sul piano pratico, quello di aiutare la ribellione a
rovesciare il regime. Washington ha incontrato problemi nel trovare una leadership
credibile che unifichi i ribelli. Cosi' come non ha ancora deciso quali armamenti dare e a
chi darli. C'e' la ragionevole paura che le armi finiscano nelle mani sbagliate.
Sulle stesse problematiche si confrontano l'Arabia Saudita ed il Qatar. Appoggiano sul
piano politico le diverse espressioni della ribellione. Ryad ha paura che vengano fornite
armi a gruppi radicali islamici e che questi ultimi, una volta rientrati in patria, possano un
domani incidere sulla stabilita' del regno. Infatti troppi “volontari“ islamici sono di
nazionalita' saudita. E molti di questi ricevono oggi finanziamenti (e grazie ad essi la
possibilita' di acquistare armi) da organizzazioni caritatevoli wahabite saudite. Per Ryad ad
un problema di politica estera se ne sovrappone uno di sicurezza nazionale e di politica
interna.
Piu' spregiudicato e' il comportamento del Qatar che invece fornisce armi ai ribelli senza
tante distinzioni sulla loro potenziale pericolosita'. Se, come potrebbe essere probabile, il
regime alawita venisse sostituito dalla sua opposizione piu' credibile - quella dei Fratelli
Musulmani - Doha avrebbe tutto da guadagnare da questo ricambio. Anche perche'
durante le varie primavere arabe il Qatar e' sempre stato dalla parte della Fratellanza e di
quei movimenti o partiti di ispirazione islamica. Per Doha, al contrario di Ryad, non esiste
in politica estera una competizione tra sciiti e sunniti. Non ha comunita' sciite sul proprio
territorio, non ha contenziosi di alcun genere con Teheran e non e' legata, a differenza dei
sauditi, ad una politica della religione.
Anche nel campo palestinese le posizioni si divaricano. L'Egitto di Mohamed Morsi trova
subito consonanza politica con Hamas. Non potrebbe essere altrimenti visto che il
movimento di Khaled Mashal e' un'estrapolazione politico-religiosa dei Fratelli Musulmani
egiziani. Lo stesso fa il Qatar con il movimento di stanza a Gaza. L'Arabia Saudita si
schiera invece sul fronte dell'OLP. Gli Stati Uniti, ancora una volta, si trovano spiazzati.
Appoggiano Morsi, ma sono molto in difficolta' con gli estremismi e le intemperanze di
Mashal. Optano per una posizione “attendista“ e fanno diplomazia a parole: vogliono la
pace tra palestinesi e israeliani, auspicano che la vicinanza di Mohamed Morsi porti
Hamas su posizioni moderate e negoziali, condannano ogni forma di violenza.
La situazione cambia
Questo era sostanzialmente il quadro dei rapporti di politica estera a seguito delle
primavere arabe. Uno stravolgimento di intrecci, alleanze e connivenze cristallizzate nel
tempo. Scelte un po' forzate, qualche volta contro natura, ma necessarie a limitare i danni
che il nuovo contesto poteva portare agli interessi nazionali degli attori in gioco.
L'assunto era stato quello di sempre: c'e' voglia di democrazia e di giustizia sociale, le
primavere arabe rappresentano un anelito di liberta' in una regione a lungo dominata da
prevaricazioni e abusi. E' quindi un bene cavalcare queste aspirazioni. Ma le cose non
erano poi cosi' nette come sembravano: dietro alle rivolte sociali non c'erano solo gli aneliti
di democrazia, ma anche rivalse sociali, condizioni economiche di disagio, talvolta voglia
di vendetta.
E la verita', cosi' diversa da come era stata pensata, si e' poi rivelata per quella che era:
crollato un regime si e' creata anarchia sociale (Libia), cacciata una dittatura militare si
sono instaurate pseudo-democrazie che interpretano le liberta' sociali solo in una visuale
islamica e regressiva (Egitto e Tunisia), le battaglie nate come rivoluzioni democratiche
calamitano jihadisti da ogni dove (Siria). A fattor comune vi e' un unico denominatore:
caos, morti, proteste, crescita del terrorismo islamico. Attentati in Libia, attentati in Siria,
attentati in Turchia, l'Egitto e la Tunisia sull'orlo della guerra civile.
Nessuna esportazione della democrazia, frase tanto cara al per niente compianto
presidente George W. Bush. Sono cambiati gli attori di ogni melodramma nazionale, ma i
metodi di gestione del potere sono rimasti gli stessi. E qui si e' poi aggiunta l'ultima
evoluzione: la restaurazione. Per adesso hanno incominciato i militari egiziani il 30 giugno
con l'arresto di Mohamed Morsi. In Tunisia l'esperienza di democrazia islamico-centrica e'
entrata in crisi con troppi morti in cerca di autore nelle fila dell'opposizione. In Siria il
regime di Bashar al Assad non solo non sta crollando, ma sta riguadagnando militarmente
terreno.
Corsi e ricorsi storici si sovrappongono. Tutto cambia, ma poi, alla fine, nulla cambia. Il
problema adesso e' il nuovo (ri)posizionamento di tutti quei Paesi che avevano appoggiato
le primavere arabe. Gli Stati Uniti prima appoggiavano i militari di Hosni Mubarak, poi si
sono subitaneamente convertiti alle idee di Mohamed Morsi e adesso che il generale
Abdel Fattah Al Sissi ha ripreso manu militari il controllo del Paese cosa faranno?
Passeranno dall'appoggio della rivoluzione all'appoggio della restaurazione con una
ulteriore giravolta di politica estera?
Ed in Tunisia continuera' l'appoggio di Washington ad una dirigenza islamica che non ha
saputo rispondere alle aspirazioni della gente, ma ha solo dato spazio all'eliminazione
fisica dei suoi oppositori per mano dei gruppi estremisti salafiti?
Se il regime di Bashar al Assad non crollera', ma si rafforzera' sara' meglio favorire il
dialogo con la Russia o vale la pena continuare l'appoggio alla lotta armata sempre piu'
nelle mani degli integralisti filo-Qaedisti?
In questo mondo arabo ed islamico che si contorce socialmente e facilmente confonde la
primavera delle idee con l'autunno delle realta' pone problemi di posizionamento a tutti e
non solo agli Stati Uniti. Un Morsi che finisce in galera penalizza le scelte del Qatar,
colpisce negativamente l'immaginario del turco Erdogan, ma ripropone delle chance alla
politica estera di Ryad.
E nella Tunisia percorsa da proteste e tensioni c'e' ancora spazio per un ripensamento
americano, per il supporto del Qatar a Ennadha o ancora una volta ha avuto ragione la
prudenza saudita?
Tutte domande che ancora non hanno adeguate risposte. Ma una cosa e' certamente
avvenuta: sono le vicende dei Paesi ed i loro stravolgimenti interni che condizionano
adesso le politiche estere e non viceversa. I fatti precedono e condizionano le intenzioni. E
la politica estera, quella dei Paesi della regione, ma anche dei paesi Occidentali,
sclerotizzata da decenni di immobilismo in Medio Oriente, cerca di cambiare pelle, fa fatica
a capire e ad adattarsi ad un mondo che cambia e di cui però non riesce ancora ad
interpretare le prospettive. Storie nazionali di cui non si conosce il finale, ma soprattutto
sulle quali la politica estera degli attori esterni ha ormai scarsa incidenza.
IL PERCHE' DEL NIGERGATE
L'episodio giornalisticamente etichettato come il Nigergate si riferisce ad una informativa
su un presunto acquisto di uranio per un altrettanto programma nucleare iracheno. Fu una
delle chiavi di volta della guerra in Iraq, una delle "pistole fumanti" sulla presenza di armi di
distruzione di massa a Baghdad. Era il 28 Gennaio 2003 quando il presidente George W.
Bush affermava che "Saddam Hussein ha recentemente ricercato ingenti quantitativi di
uranio in Africa". Era una balla, ma due mesi dopo servi' a giustificare l'invasione
statunitense. Per capire come si arrivo' a quel dossier e' necessario contestualizzare
l'evento.
L'impero del male
Dopo l'attentato terroristico alle Torri gemelle l'11 settembre 2001 gli Stati Uniti decidono di
intervenire contro quelle organizzazioni e quegli Stati considerati coinvolti, a diverso titolo,
nel terrorismo internazionale. A parte Osama bin Laden, mandante dichiarato
dell'attentato, entrano nel mirino di Washington l'Afghanistan, a buon titolo perché offre
ospitalita' e rifugio al leader di Al Qaeda, e, inopinatamente, anche l'Iraq.
Saddam Hussein diventava improvvisamente l'emblema dell'impero del male e veniva
accusato - a torto - di essere implicato nel terrorismo islamico internazionale. Tutto si
poteva dire di Saddam, da decenni al vertice di una dittatura laica, ma non che guardasse
di buon occhio il mondo religioso. Da una parte si confrontava con una opposizione sciita,
sostenuta dagli iraniani, dall'altra fronteggiava l'ostilita' del mondo religioso sunnita
veicolato e finanziato dai sauditi. Lui poi con Osama bin Laden o con Al Qaeda non aveva
mai avuto niente a che fare. Non apparteneva al suo mondo o al suo modo di pensare o
agire.
Ma Saddam era diventato il male. Gli venne contestato il suo coinvolgimento in un
programma nucleare, fu accusato di volersi dotare di un'arma atomica. Piovvero richieste
di ispezioni internazionali, minacce, sanzioni, a cui Saddam Hussein rispose il piu' delle
volte in modo negativo non tanto per nascondere i suoi programmi nel settore delle armi di
distruzioni di massa (che le inchieste dimostreranno di non esistere), ma per orgoglio
nazionale e per quell'approccio un po' brutale e prepotente che contraddistingueva l'uomo
ed il nazionalista. Altro suo difetto comportamentale derivava dalla scarsa cognizione del
mondo circostante, dall'influenza dell'opinione pubblica internazionale, dal bisogno di
coltivarsi amici o combattere mediaticamente i nemici.
Gia' aveva sbagliato quando aveva attaccato ed invaso il Kuwait nell'agosto del 1990.
Avrebbe potuto ottenere lo stesso obiettivo di conquista dell'emirato utilizzando mezzi piu'
sofisticati - un colpo di Stato, fomentare l'opposizione con armi o soldi - che non
intervenire con delle divisioni meccanizzate ed invadere il Paese. Era cosi' ampio il divario
di forza tra i due Paesi che ogni altra alternativa all'invasione militare era facilmente
percorribile. Nel mondo arabo l'emiro Ahmad al Jaber al Sabah non godeva certo di una
buona reputazione, essendo ritenuto un personaggio arrogante e ricco e questa
circostanza era risultata molto evidente durante l'invasione quando i giordani ed i
palestinesi manifestavano la loro gioia per strada.
Ma nel 2001-2003 Saddam Hussein non aveva colpe specifiche, se non quella di essere
ancora al potere dopo la prima guerra del golfo. Aveva perso la guerra nel 1991 contro gli
Stati Uniti ed i suoi alleati, aveva subito l'invasione delle truppe alleate, ma George Bush
senior (o meglio George Herbert Walker Bush) per un errore di calcolo politico-militare non
aveva autorizzato le truppe americane a proseguire l'invasione fino a Bagdad pensando,
erroneamente, che una cosi' sonora sconfitta del dittatore avrebbe sicuramente favorito la
sua defenestrazione o eliminazione.
Saddam Hussein rimaneva cosi' al potere, mentre George Bush senior, anche per
quell'errore iracheno, perdeva nel 1993 la riconferma del suo mandato presidenziale.
Sogni di gloria
Ma ritorniamo nel 2001: il 20 gennaio di quell'anno viene nominato Presidente il figlio di
Bush padre, George W. Bush o meglio conosciuto come Bush Junior. Subisce l'attentato
alle Torri Gemelle, caratterizza in chiave interventista tutto il suo mandato presidenziale e
scatena la guerra al terrorismo. Di nuovo punta l'indice accusatorio verso Saddam
Hussein, pretestuosamente per il suo coinvolgimento nel terrorismo islamico
internazionale, emotivamente (perché dietro alla politica di un Paese c'e' sempre un uomo
con le sue debolezze, sentimenti o risentimenti) perché il dittatore aveva commesso il
peccato mortale di aver affossato, in quota parte, la carriera del padre.
E' qui che si inizia a costruire quell'impalcatura di presunte prove e indizi che possano
permettere al Presidente degli Stati Uniti di giustificare una guerra contro l'Iraq. Ed e'
proprio in questo contesto che entra in gioco l'Italia e la storia del Nigergate. E' un'Italia
che ha stretti legami con gli Stati Uniti, anche in virtu' di quel legame di amicizia instaurato
tra il Presidente Bush ed il Primo Ministro italiano Silvio Berlusconi, anch'egli ritornato alla
guida del governo italiano nel 2001. L'amicizia tra i due uomini politici e' un evento di
dominio pubblico ed e' ben pubblicizzata.
Ma c'e' anche una terza persona che entra in gioco ed e' il nuovo capo del SISMI, il
Servizio italiano di intelligence deputato alla ricerca all'estero, nella persona del Generale
Niccolo' Pollari. Pollari e' nominato da Berlusconi - sembra anche con qualche dubbio capo dell'intelligence militare il 15 ottobre 2001. Gli viene dato ampio mandato di
combattere il terrorismo internazionale. Il SISMI (oggi, dopo la riforma dei Servizi, ha
cambiato nome in A.I.SE.) e' un organismo che opera sotto la responsabilita' del Primo
Ministro che poi generalmente nomina e delega, per le questioni di controllo e
coordinamento, un Sottosegretario.
La buona reputazione di un capo dei Servizi italiani e' molto legata alle benemerenze che
altri Servizi stranieri veicolano politicamente nei contatti bilaterali. Soprattutto la C.I.A. ed il
Mossad. E' una circostanza che il Generale Pollari conosce molto bene e che
consciamente o inconsciamente intende sfruttare. Perché il disegno di Niccolo' Pollari e' di
piu' lungo respiro che non il comando del SISMI. Il suo vero obiettivo e' diventare il primo
Comandante della Guardia di Finanza proveniente dal Corpo dopo una presumibile
riforma di legge. Sta gia' lavorando in questa direzione favorendo, prima sottobanco e poi
piu' ufficialmente, un nuovo Comandante della Finanza nella persona del Generale
Roberto Speciale.
I due si erano conosciuti quando Speciale era Sotto Capo di Stato Maggiore dell'Esercito
(incarico ricoperto dal 1999) e Pollari vice Direttore del CESIS. Il sodalizio si completera'
nell'ottobre del 2003 quando Roberto Speciale verra' nominato Comandante della Finanza
contrariamente alla terna fornita dallo Stato Maggiore dell'Esercito sulla base di titoli e
anzianita'. Ma Niccolo' Pollari, grazie al suo instaurato afflato con il Primo Ministro protempore, fa cambiare i valori in campo e aiuta Speciale. Gli amici si aiuteranno nel tempo
con una serie di favori incrociati, sia a livello professionale (circa 850 finanzieri entreranno
nel Servizio), ma anche a livello personale o meglio familiare.
La "pistola fumante"
Ma torniamo alle circostanze degli anni 2001-2003. Berlusconi e' amico di Bush Junior,
Niccolo' Pollari ha mire di lungo respiro ed ha tutto l'interesse a coltivare i suoi sogni
favorendo quelle persone e quelle entita' che lo possono agevolare. Ecco allora che
assecondare la C.I.A., fatto ricorrente per tutti i Capi del SISMI, diventa imperativo. Aiuta la
C.I.A., acquista benemerenze da Berlusconi, coltiva la sua carriera in prospettiva.
Dopo l'attentato del settembre 2001 gli americani dedicano le loro energie alla lotta al
terrorismo. La C.I.A. viene autorizzata anche alle operazioni sporche come le
"extraordinary renditions", il ricorso alle torture e alle carceri segrete. Tutto e' lecito nel
perseguimento di questa lotta al terrore. E' una impostazione che viene appoggiata anche
da altri Paesi che condividono con gli Stati Uniti la preoccupazione per il terrorismo
islamico (e su questa tendenza si inserira' il caso di Abu Omar, alias Hassan Mustafa
Osama Nasr, rapito a Milano il 17 febbraio 2003).
Non ci sono dubbi sul coinvolgimento dell'Afghanistan che ospita Osama bin Laden (che
viene subito attaccato), ma non per l'Iraq. Occorre una sinergia di intelligence per scoprire
(o creare) tutte quelle circostanze che possano giustificare un attacco militare americano
contro Saddam Hussein. Ovviamente e' un problema che, di riflesso, interessa anche il
SISMI. Bisogna trovare la cosiddetta "pistola fumante", la prova incontrovertibile delle
mire nucleari irachene.
Qui entrano in gioco tutta una serie di personaggi, depistaggi, disinformazione che, in
maniera incontrovertibile, ha poi portato alla luce una inchiesta giornalistica di Carlo Bonini
e Giuseppe D'Avanzo sul giornale "La Repubblica" nel 2005.
Sono attori di un thriller una fonte inaffidabile, una informatrice presso l'ambasciata
nigerina di Roma, notizie e smentite che si accavallano sulla stampa e nella cooperazione
tra Servizi stranieri (l'MI-6 inglese, la D.G.R.E. francese ed ovviamente la C.I.A.), ma il cui
protagonista principale rimane, nel suo attivismo un po' ostentato e poi smentito (quando
poi i fatti hanno incontrovertibilmente dimostrato che era tutta una bufala), il SISMI di
Niccolo' Pollari.
Una recita a soggetto di una commedia internazionale - meglio una spy-story - la cui trama
si e' poi sviluppata sugli interessi personali degli attori e non sull'oggetto del contendere.
In questo gioco delle parti anche la stampa fa la sua parte facendosi strumento per
veicolare notizie volutamente disinformanti sul circuito mediatico a scopo di accreditare
verita' non dimostrate, ma soprattutto per divulgare dubbi, sospetti ed accuse non
ulteriormente dimostrabili. Basterebbe citare l'inchiesta pubblicata sul "New York Times"
del settembre 2002 in cui la giornalista Judith Miller parlava di tubi di alluminio di cui
Saddam Hussein si sarebbe fornito per costruire la bomba atomica. O la storia pubblicata
dal settimanale "Panorama" sulla presunta fornitura di uranio grezzo (yellowcake) dal
Niger all'Iraq.
Ovviamente molta disinformazione ha avuto anche matrice politica sempre nell'obiettivo di
accusare l'Iraq: l'ambasciatore americano John Negroponte in un intervento alle Nazioni
Unite, il Presidente George Bush nel suo intervento del gennaio 2003 sullo "State of the
Union", lo stesso Segretario di Stato Colin Powell. Quest'ultimo poi aveva avuto il compito,
durante un memorabile intervento alle Nazioni Unite il 5 febbraio 2003, di mostrare al
mondo le prove inconfutabili del coinvolgimento iracheno nel programma delle armi di
distruzione di massa.
Ma a parte l'inequivocabile inattendibilita' del dossier sull'uranio nigerino, tutti hanno
interesse a credere il contrario. Soprattutto i due attori principali: gli U.S.A. che vogliono
fare la guerra a Saddam Hussein e Pollari che vuole ricavare da questa operazione tutta
una serie di benefici contatti e di benemerenze. Non e' tanto la C.I.A. che interessa al
Generale, ma soprattutto quei vertici politici che girano intorno a Bush e che possono
potenzialmente determinare quella "captatio benevolentiae" a cui lui aspira. Niccolo' Pollari
ha varie tessere nel suo mosaico relazionale che possono aiutarlo nelle sue entrature
statunitensi: non solo il dossier ma anche agganci con persone influenti della stampa
italiana e americana. Ha all'interno del Servizio anche chi lo aiuta in questo. Anche perché
lui non parla una parola di inglese e non puo' ricorrere a tutti quei sofismi linguistici che
tanto supportano le sue scaltrezze.
Il dossier lo mette in contatto con personaggi altolocati del Pentagono e dello staff del
Segretario alla Sicurezza nazionale Condoleeza Rice e si muove con il supporto di
giornalisti influenti della stampa americana. Il Capo del SISMI nel settembre del 2002 si
incontra con Stephen Hadley, vice di Condi Rice. Tutti cercano la "pistola fumante" e lui la
fornisce. Gode anche dell'appoggio dell'allora capo della C.I.A., George Tenet, in caduta di
consensi dopo l'attentato delle Torri Gemelle e con il bisogno di procurare ai propri capi
cio' che loro vogliono. Ognuno subordina la ricerca informativa all'interesse privato.
Un castello di carta
Non tutto pero' va nel verso giusto. Al coro di accuse contro Saddam c'e' una voce
contraria. L'Amministrazione U.S.A. aveva delegato un ex ambasciatore, Joseph Wilson,
per indagare sulla pista irachena-nigerina. Il diplomatico, nel febbraio del 2002, consegna
un rapporto in cui, in maniera inequivocabile, smentisce le informazioni sull'acquisizione di
uranio da parte di Saddam Hussein. Ma questo rapporto non altera le convinzioni del
Presidente George W. Bush e di chi lo assecondava. Il Dipartimento di Giustizia dovra'
pero' indagare su una fuga di notizie perché, non casualmente, era stato rivelato il nome di
un'agente della C.I.A. che, non casualmente, era proprio la moglie dell'ambasciatore
Wilson, la signora Valerie Plame. E molti, non casualmente, pensano che la fuga di notizie
sia proprio venuta dall'Amministrazione americana.
Niccolo' Pollari e' un personaggio alquanto scaltro: fa ma non lo vuole fare vedere. E'
anche prudente perché, come un po' tutte le patacche, l'informativa sul Niger nasconde un
margine non accettabile di rischio. E' suo preciso interesse che l'origine dell'informativa
non appaia, almeno sul piano mediatico, chiara. Viene aiutato in questo dal rimbalzarsi
della storia del Niger su vari organi di stampa e negli uffici di vari Servizi. Quando
interpellato dal Comitato Parlamentare per Controllo dei Servizi Segreti (COPASIR) sulla
questione del Niger non parla - almeno alla prima audizione - di prove documentali, ma di
informazioni. Come dire: voci, notizie non confermate. Il altre parole si trincera dietro una
cautela semantica. In seguito, invece, sara' molto piu' disinvolto perché questa volta, a suo
dire, avra' le prove documentali sull'acquisizione irachena di materiale per sistemi
missilistici. Si tratta di tubi di alluminio. Quello che viene etichettato come materiale "dual
use". Ma adesso di "use" ne ha sempre uno solo: quello bellico.
La scaltrezza di Niccolo' Pollari va ben oltre le parole. Quando non si sente sicuro si
nasconde dietro la tacita accondiscendenza dei suoi superiori, non lascia mai niente al
caso. Lo fara' anche in questo caso ed alla fine i suoi superiori saranno costretti a
difenderlo. Quando si accorgera' che l'informativa del Nigergate ha assunto toni grotteschi
che possono pericolosamente danneggiare il suo sogno di carriera, soprattutto nel farsi
accreditare l'origine di una patacca usata per dare il via ad una guerra, il Generale sente il
bisogno impellente di defilarsi. E lo fa appoggiandosi ancora una volta - e come poi
accadra' nel processo per il sequestro di Abu Omar - al segreto di Stato grazie alla
consueta compiacenza del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con
delega per i Servizi Segreti, Gianni Letta. Ma Niccolo' Pollari fa di piu': rilascia una
intervista nel 2004 e accusa i Servizi francesi di essere loro gli originatori del dossier.
Tentativo maldestro perché erano stati proprio i francesi, quelli della D.G.S.E. (Direction
Generale de la Securite Exterieure), i primi critici del dossier Niger rimbalzato nella catena
dei contatti tra Servizi. Chi meglio dei francesi sapeva che le miniere nigerine, da cui gli
stessi francesi acquisiscono il 26% del fabbisogno nazionale di uranio per alimentare le
loro centrali nucleare sotto la stretta gestione e controllo di una societa' francese, la
AREVA , non potevano sicuramente fornire niente a nessuno, tantomeno quell'iperbolica
quantita' (500 tonnellate) di yellow cake ipotizzate nel dossier. E se poi qualcuno avesse
tentato veramente di trasportare dalle miniere di Arlit o Akouta verso l'Iraq tutto questo
quantitativo di uranio, una cosa del genere poteva passare inosservata
nell'attraversamento di altri Paesi o nell'utilizzo di trasporti aerei?
Una bugia mortale
Ma tutti quei dubbi cosi' evidenti e macroscopici che avrebbero dovuto consigliare tutti gli
addetti ai lavori che si sono confrontati sul dossier ad usare cautela o dissociarsi non
hanno trovato mai udienza.
La storia del Nigergate ha favorito la guerra in Iraq e cosi', nel tempo, ha prodotto poi tutta
una serie di conseguenze e controindicazioni: una guerra inutile, sbagliata, che ha creato
nel Paese anarchia ed instabilita' che continua ancora oggi dopo dieci anni, un Paese
distrutto e percorso dalla violenza settaria, gli oltre 4.400 morti americani, i 35 morti
italiani, le centinaia di migliaia di morti iracheni di cui la maggioranza civili, una regione
percorsa dai venti di una rivolta sociale caratterizzata da una colorazione religiosa, il
terrorismo islamico che si e' diffuso esponenzialmente. Il tutto non ha tra l'altro nemmeno
prodotto quella tanto decantata esportazione della democrazia tanto cara alla retorica del
presidente americano George W. Bush.
Certo, non e' stato solo il dossier del Nigergate a fare decidere il Presidente Bush di
andare alla guerra contro Saddam Hussein. Lui aveva gia' deciso. E' stato pero' uno dei
tasselli su cui si e' costruita una impalcatura di menzogne per giustificare l'intervento
armato.
Ma tra tante disgrazie c'e' anche chi ci ha tratto un guadagno diretto da questo imbroglio di
intelligence: chi ha confezionato con il personale alle proprie dipendenze il dossier e' oggi
un altissimo dirigente dell'A.I.S.E.; chi ha procurato contatti a Niccolo' Pollari
nell'establishment americano e tra i giornalisti italiani e d'oltreoceano e' anche lui un
importante dirigente dell'A.I.S.E..
Oltre al povero Saddam Hussein che ci ha rimesso la vita o Pollari che ci ha rimesso in
prospettiva le ambizioni di carriera, entrambi quindi non hanno certo tratto giovamento dal
Nigergate, ma qualcuno alla fine ne ha tratto un beneficio che dura tuttora.
UN PAESE DIMENTICATO: LE COMORE
Le isole Comore appartengono a quella parte del globo di cui nessuno si preoccupa.
Lontane dai grandi traffici, prive di prevalente interesse strategico, senza materie prime e
risorse, non servono a nessuno. Vivono la loro storia e la loro emarginazione sociale ed
economica nel totale disinteresse
del mondo. Nel continente africano, a cui
geograficamente appartengono, non sono una eccezione: Stato povero e disastrato
occupano una posizione di assoluto prestigio (sono 163sime tra le 187 nazioni piu' povere
del mondo). Le Comore vivono di sussidi internazionali, in questo caso pura elemosina, e
l’ex nazione coloniale - la Francia - avendo a suo tempo favorito la secessione di Mayotte
nel 1974 e nonostante sia rimasta legata ai territori d’oltremare, non ha piu' tanto interesse
ad assicurarsi altri approdi strategici nell’area.
Una piccola popolazione (734.750 abitanti, dato 2010), il 98% della quale musulmana,
ripartita su 3 isole (Ngazidja o Grande Comore dove vive il 52% della popolazione;
Nzawani o Anjouan dove vive il 42%, e Mwali o Mohe'li la piu' piccola) con una densita'
territorio/abitanti particolarmente alta. L'alto tasso di crescita demografica (2,4%) abbinato
ad un modesto livello di aspettativa di vita fanno si' che il 52% della popolazione della
Comore abbia meno di 20 anni. Una bomba sociale ad orologeria che ogni tanto produce
un colpo di Stato. Tanto per dare un senso alle statistiche, dall’indipendenza acquisita nel
luglio del 1975 ad oggi nel Paese ci sono stati almeno 21 colpi di Stato a cui nessuno come si e' detto all’inizio - ha dato l’importanza che meritavano (sembra che, nello stesso
lasso di tempo, solo l’Ecuador abbia fatto meglio).
La scuola Denard
L’ultimo tentativo, peraltro fallito, di golpe e' stato il 20 aprile 2013. L'evento ha avuto
risalto perche' un partito di opposizione, il Ridja (Rassemblement pour un initiative de
developpement avec la jeunesse avertie), ed altre tre associazioni non governative hanno
denunciato il governo francese per l’implicazione di personaggi legati alla Francia. Tra le
quindici persone arrestate vi era infatti un mercenario francese, altri due personaggi
francesi (un uomo d’affari e la sorella di un mercenario congolese), dei franco-comoriani,
altri mercenari di nazionalita' congolese e ciadiana ed ovviamente anche dei personaggi
locali.
Il mercenario francese, tale Patrick Klein, e' un personaggio legato al defunto Bob Denard,
morto nel 2007, ancor piu' noto mercenario che viveva in Sudafrica , gia' implicato in un
precedente colpo di Stato nelle isole Comore nel 1995. Al fianco di Klein vi erano anche un
ex colonnello dell’armata congolese esiliato in Francia e gia' frequentatore dell’Accademia
militare di Saint Cyr ed un colonnello ciadiano (anche lui ex alunno di Saint Cyr).
L’iniziativa del presidente del Ridja Said Larifou tenta di far luce sull’episodio sperando
soprattutto che l’inchiesta francese individui i mandanti del golpe e ne sveli le finalita'.
Larifou non ha probabilmente particolare fiducia sulla parallela inchiesta del governo
comoriano. Comunque, esistono pochi dubbi che il colpo di Stato sia stato concepito ed
organizzato a Parigi. E' li' che Klein ha contattato, reclutato ed anche pagato (da 10.000
euro a 22.000 a secondo dell’importanza del soggetto) i suoi mercenari. Quindi c’e' un
finanziatore (ancora non noto), dei soldati di ventura (quasi tutti noti) e un mandante
(ancora non perfettamente individuato).
Il sospetto, lecito o meno, e' che il golpe fosse mirato ad impedire la rotazione
quinquennale alla presidenza del Paese delle 3 isole, cosi' come stabilita da un accordo di
pacificazione del 2001 che prefigurava una "Unione delle Comore" con particolare
autonomia per ciascuna isola. Un sistema che, nelle intenzioni dei proponenti, doveva
assicurare una struttura istituzionale piu' rappresentativa (ed almeno all’inizio l’accordo ha
funzionato), ma che ha poi incominciato a evidenziare delle crepe quando, nel 2010, il
Presidente Ahmed Abdallah Sambi ha cercato di estendere il suo mandato oltre i termini di
scadenza costituzionale. Dopo dei negoziati tra i maggiori partiti, il 26 maggio 2011 e' stato
eletto Presidente - e questa volta in modo ritenuto democratico - Ikililou Dhoinine dell’isola
di Mohe'li. Dhoinine ha il mandato in scadenza nel 2016, ma forse questo dettaglio, in un
Paese dove l’acquisizione del potere avviene storicamente con l’uso delle armi e
raramente con le elezioni, ha costituito le premesse per affrettare l’ennesimo colpo di
Stato.
La dinastia Abdallah
Nel suo tumultuoso procedere, la storia politica delle Comore si interseca sempre con due
attori che ne fanno da protagonisti: i mercenari (Bob Denard fino al 2007 e poi i suoi
accoliti) e la famiglia Abdallah. A parte i soldati di ventura che si sono recati nella capitale
Moroni per realizzare il golpe di Aprile 2013, vi sono state connivenze con alcuni (almeno
12) tra militari e personaggi locali. E’ infatti emerso, anche in questo ultimo fallito colpo di
Stato, l’ombra di uno dei tanti figli del defunto Presidente Ahmed Abdallah, Mahamoud.
Ahmed Abderamane Abdallah, il patriarca della famiglia, e' stato eletto Presidente della
Repubblica delle Comore nel luglio del 1975 per poi essere defenestrato con un colpo di
Stato dopo appena un mese (e qui compare Renard a fianco dei golpisti guidati da Ali
Solih). Tre anni dopo un altro colpo di Stato ed Ali Solih e' ucciso dai mercenari e Ahmed
Abdallah viene rimesso al potere. Protagonista sempre Bob Denard che recita due parti
nella stessa commedia: una volta a favore di Solih, la seconda a favore di Abdallah.
Nell’ottobre del 1979 Ahmed Abdallah rivince le elezioni presidenziali, ma come spesso
accade in queste parti di mondo, la sua democrazia - anche se supportata e tutelata dal
ruolo dei mercenari - si trasforma in dittatura. Fonda il partito unico nel 1982 e due anni
dopo con questo escamotage rivince le elezioni, subisce un fallito tentativo di colpo di
Stato da parte delle Guardie Repubblicane al quale sopravvive, ma il 26 novembre 1989
viene ucciso in un altro golpe. Fomentato da chi? La risposta e' sempre la stessa: Bob
Denard.
Da quel momento, sparito il patriarca, compaiono sulla scena politica (intendendo
soprattutto quella legata ai suoi sovvertimenti traumatici) i figli. Nel 1992 vengono arrestati
per tentato colpo di Stato i gemelli Abderemane e Sheikh e con loro anche un loro
fratellastro. Altra comparsa del clan nel settembre 1995, sempre protagonista Bob Renard,
per estromettere il Presidente Djohar e per cercare di liberare i due gemelli (gia'
condannati a morte, pena poi tramutata in ergastolo). Obiettivo raggiunto.
Poi tocca ad un altro fratello, Mahmoud, accompagnato da Abderemane, tentare il golpe
nel 2000. Entrambi sono arrestati e liberati dopo pochi mesi. Ed infine, proprio in
quest’ultimo ulteriore tentativo di aprile 2013, ecco ricomparire il nome di Mahmoud anche se poi il dato deve essere suffragato da prove nonostante esistano forti sospetti al
riguardo - ovviamente con l'aiuto di mercenari. L’obiettivo ultimo di aprile era eliminare
l’attuale Presidente Ikililou Dhoinine, il Colonnello Yussouf Idjihadi che ricopre le funzioni di
capo di stato maggiore ed un altro ufficiale, il Col. Ibrahim Ahamada.
Gli Abdallah sono una realta' economica molto importante nel Paese (oggi un po’ meno
che nel passato). Gestiscono in regime quasi di monopolio l’import-export, hanno vaste
proprieta' immobiliari (anche a Mayotte) e forse questo li fa sentire predestinati, anche se
non attraverso canali democratici, a governare il Paese.
Il clan Abdallah e' molto coeso ed e' composto di 5 fratelli e 4 sorelle (queste ultime non
dedite a trame eversive). Nonostante non siedano sullo scranno piu' alto, i membri della
famiglia occupano sempre posizioni istituzionali di prestigio. Sheikh occupa attualmente
l’incarico di addetto militare nell’ambasciata a Parigi. Il fratello gemello Abderemane e'
deputato all’Assemblea nazionale nonche' presidente della Commissione Esteri. L’altro
fratello, Salim, sinora mai implicato in attivita' politica, presiede il consiglio di
amministrazione della Banca centrale delle Comore. Il piu' vecchio, Nassuf, e' invece
consigliere del Presidente Dhoinine. In passato era stato vice presidente dell’Assemblea
nazionale, ambasciatore in Sudafrica e consigliere del Presidente di Anjouan.
Allora, visto che tra l’attuale Presidente e vari membri del clan ci sono buoni rapporti,
perche' Mahmoud ha cercato di estrometterlo?
La risposta e' implicita nel fatto che Mahmoud era molto legato all’ex Presidente - poi
deceduto - Mohamed Taki Abdulkarim. Successivamente il suo astro politico si era
lentamente eclissato. Forse ha giocato in proprio (magari con l’appoggio di gente collegata
a Taki) ed in competizione con i fratelli politicamente piu' attrezzati. Resta il fatto che nel
comune sentire del clan ci si ritiene sempre predestinati alla guida del Paese. E se quindi
Mahmdoud ha guidato il colpo di stato, il sistema militarizzato che regola il clan ha fatto si'
che il golpista fosse difeso dai fratelli ed alla fine, dopo essere stato arrestato, e' stato
anche liberato.
Un errore di valutazione
Un Paese che passa da un colpo di Stato all’altro, dove i maggiori introiti sono forniti dalle
noci di cocco, un angolo sperduto del mondo dove la democrazia e' un'opzione
scarsamente applicata che importanza può avere nella globalizzazione?
La risposta si chiama Fazul Mohammed Abdallah, un terrorista comoriano al soldo di Al
Qaeda, implicato negli attentati alle ambasciata americane di Nairobi e Dar es Salaam del
1998, passato poi al fianco degli Shabaab somali dove poi ha trovato la morte nel 2011.
Perche' in un Paese dove ha spazio la sottocultura civica, dove la poverta' raggiunge livelli
insopportabili (il 45% della popolazione vive sotto il livello di poverta' ed il reddito procapite annuale e' di circa 750$) e dove l’ingiustizia sociale e' pane quotidiano si creano le
condizioni per la crescita di personaggi che non hanno nulla da perdere e che fanno
dell’unica ideologia che fornisce degli pseudo alibi ai loro comportamenti - nel caso
specifico l’Islam - uno scopo di vita.
Nel loro piccolo le Comore hanno dato un piccolo contributo all’instabilita' del mondo
grazie alla disattenzione del globo che le circonda.