Magari domani lo faccio
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Magari domani lo faccio
Eleonora Rango MAGARI DOMANI LO FACCIO www.0111edizioni.com www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com MAGARI DOMANI LO FACCIO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Eleonora Rango ISBN: 978-88-6578-045-5 In copertina: Immagine fornita dall’Autore “I wanna a breeze and an open mind I wanna swim in the ocean, wanna take my time for me, it's all free So maybe tomorrow I'll find my way home” Stereophonics - Maybe Tomorrow “Life has a funny way of sneaking up on you Life has a funny, funny way of helping you outHelping you out” Alanis Morissette - Ironic CAPITOLO 1 Il primo lunedì mattina di settembre, le vacanze appena trascorse, Irene sta tornando al lavoro senza nessuna voglia di rimettere mano alle sue scartoffie, tra partite doppie, bilanci d’esercizio e fonti di finanziamento. Seduta sull’autobus che la sta portando in ufficio, si chiede cosa diavolo stia facendo lì. Come ha potuto sprecare tanto tempo in studi di cui in realtà non le importava niente? Guarda distrattamente dal finestrino. Sì, si sente decisamente fuori luogo. Le porte si aprono, e con uno slancio dettato dall’abitudine scende dall’autobus. Pochi passi ed è arrivata. Studio del Professor Agostino De Angelis, Dottore Commercialista. Un uomo impareggiabile. Professionista stimato, campione nell’arte di delegare ai suoi dipendenti, catalizzatore di attenzioni in ogni tipo di conversazione. Praticamente parla solo lui. Ferratissimo in qualsiasi argomento, lettore di una quantità infinita di giornali, riviste di settore, romanzi, classici greci e latini. Nel suo studio c’è un continuo turn-over di giovani laureati in economia e commercio dalle brillanti speranze. Forgia i migliori commercialisti della provincia. Un capo che pretende moltissimo, ma questo è lo scotto da pagare per poter scrivere nel curriculum che si è lavorato per lui. Un valore aggiunto di non poco conto. Irene gode di tale privilegio, e non gliene può fregare di meno. I suoi colleghi: Marinella, Giovanna e Davide. Marinella ha la solita espressione insoddisfatta e stanca, Giovanna è più in forma che mai e Davide si sta preparando per uscire. Il grande capo fortunatamente non è ancora arrivato. Dopo due settimane che non lo vedono, toccherà sorbirlo per tutta la mattinata mentre racconta la sua mirabolante estate e si informa su quella dei suoi dipendenti. Sottoporrà senz’altro astu- te domande che hanno un unico scopo: sottolineare che le loro vacanze, a confronto delle sue, fanno schifo. Irene non fa in tempo a sedersi che Marinella è già accanto alla sua scrivania. «Allora? Tutto bene?» «Non ci lamentiamo, grazie» risponde laconica, vorrebbe chiudere presto la conversazione. Marinella è una che se attacca bottone, non la smette più. Ci vuole un’ottima disposizione d’animo per stare ad ascoltarla: la nonna che soffre di cuore e sono due anni che se ne preannuncia la morte, il padre che ha avuto l’ennesima crisi d’asma ma fuma come un turco e non c’è verso di convincerlo a smettere, la mamma che ha l’esaurimento nervoso e litiga con la zia, che tra le altre cose è una grandissima stronza, perché quando il nonno è morto ha fatto non si sa quali raggiri per fregarsi diecimila euro dall’eredità. Senza contare che il carissimo defunto stava a casa con loro, e doveva andarci lei nello stesso bagno in cui lui aveva schizzato la tavo- letta. E la cosa che più le rode di tutta la storia è che quei diecimila euro sono finiti dritti filati nell’acquisto della macchina della cugina, mentre lei ancora divide la sua con la madre. Quel giorno Marinella è appena partita con un racconto sulla sua vacanza a Formentera, le spiagge fantastiche, il clima magnifico, il pesce fresco tutte le sere, anche se purtroppo il troppo sole le ha fatto venire un eritema. E mentre è lì che sta per abbassarsi la maglietta sulle spalle, Irene infila una mano nella borsa e accende il cellulare. Spera ardentemente che qualcuno la chiami. E le sue preghiere vengono esaudite: dopo trenta secondi arriva il desiderato trillo. «Scusami un momento.» Sms ore 09:07 DA: Fabio “Buongiorno carissima! Come è iniziato il primo giorno di lavoro? Andrò a pranzo con Francesco, ci vediamo stasera a casa. Il pane lo prendo io. Un bacio stella” «È una cosa importante, esco un attimo che devo chiamare casa.» Afferra sigarette e accendino, e si dirige verso l’uscita. Aria, ha bisogno di aria. Sms ore 09:17 A: Fabio “Per ora ti dico solo che mi hai salvato da una chiacchierata con Marinella! Ti spiegherò.:-) Ok per il pane… salutami Fra! Bacio” Cerca di placare la sua inquietudine aspirando lunghe boccate di fumo e intanto chiama Laura per chiederle se ha voglia di andare a pranzo con lei. «Ok, passo a prenderti in ufficio.» Nel frattempo ha finito la sua sigaretta. Fa rotolare il filtro lungo il pollice e con una schicchera prova a centrare l’anfora dell’ingresso. Il mozzicone va a sbattere contro la parete bianca lasciando una lunga striscia di cenere, e Irene ha l’ulteriore conferma che quella è davvero una giornata storta. CAPITOLO 2 Dall’altra parte della città Stefania si è tirata su dal letto con una irrefrenabile voglia di andare in ufficio. Ancora due gocce di profumo sui polsi ed è pronta a iniziare la sua magnifica giornata. Sono quindici giorni che non vede Nicola. L’uomo dei suoi sogni: affascinante, intelligente, carismatico, l’unico che l’abbia distolta dal pensiero fisso della carriera. Nicola è il suo capo, e sua moglie è bellissima. Stefania ha trascorso le vacanze a casa in attesa di questo momento. Ha preferito non partire, sperava di riuscire a vederlo anche solo per qualche ora, ma le sue aspettative sono state deluse: la famiglia di Nicola reclamava attenzioni. Così una mattina, ora se ne vergogna terribilmente, era andata a fare jogging davanti a casa sua. Voleva solo dare una sbirciatina, si era detta, non aveva intenzione di fermarsi a spiarlo. Ma una volta arrivata, la tentazione era stata troppo forte. Si era appostata dietro alla rete di recinzione della villetta. Solo un minuto, giusto un’occhiata e me ne vado. Invece era rimasta nascosta come un detective di quart’ordine per tre quarti d’ora. Per prima era uscita la moglie, preparava il tavolo per la colazione in terrazza come nelle pubblicità del mulino bianco, già vestita e truccata di tutto punto. Una donna da spot, appunto. Poi era apparso Nicola. Bello come il sole, aveva abbracciato la moglie e si era seduto con lei a mangiare. Sembravano due fidanzati alla loro prima vacanza. Si era allontanata a passo di lumaca, non aveva più voglia di correre. Ma non si sentiva ancora sconfitta. Sta recitando la parte del marito affettuoso. Nicola quando è con lei finge. Per lui è uno sforzo terribile, me lo ha detto mille volte, non devo preoccuparmi. Non doveva preoccuparsi, continuava a ripeterselo. Intanto piangeva. La sua estate era stata scandita dalle corse la mattina, filmetti mielosi trasmessi in televisione nel primo pomeriggio e le letture in giardino dopo cena, mentre le zanzare si divertivano a divorarla. Fingeva di stare bene, non c’era niente che non andava e lei non doveva preoccuparsi. Se la tristezza prendeva il sopravvento, continuava a ripetersi discorsi che ormai aveva imparato a memoria. Era stanca delle sue stupide ambizioni, stanca di spremersi come un limone, di pretendere sempre di più da se stessa e di vivere con l’eterna paura di perdere. Voleva un po’ di serenità. Voleva non pensare. Voleva che qualcuno badasse a lei. Come da bambina, quando non sapeva niente della vita, dell’amore, delle responsabilità, del denaro, del lavoro, della morte, della nostalgia, dei sensi di colpa, delle scelte sbagliate. La stessa litania ogni volta, la recitava come un mantra. Una difesa che a ogni attacco diventava sempre più for- te. Se c’era una falla, subito la individuava e immediatamente provvedeva a riempirla con il cemento armato. Oggi finalmente lo rivedrà. Ancora prova a credere in quella storia, ancora spera. Stefania è così: obiettivo, impegno, risultato raggiunto. Con il risveglio è tornata quell’eccitazione mista ad ansia che tanto le mancava. La fa sentire viva. Appoggia la boccetta di profumo sulla mensola del bagno e si guarda allo specchio. Ha paura che un giorno o l’altro andrà letteralmente via di testa. Si punta contro il dito medio. «Vaffanculo!» Forse non è poi così magnifica questa magnifica giornata. CAPITOLO 3 Il suo risveglio, di buon’ora, è privo di emozioni. Non ha né un lavoro da detestare, né un uomo da desiderare, nessun amplesso da ricordare. A movimentare la giornata fortunatamente è arrivata una chiamata di Irene per un invito a pranzo e un messaggio di Martina che le riferiva di Andrea, la sua ultima conquista. Laura ha già tirato giù le tende, le ha lavate e riappese, ha pulito le serrande e sta terminando di passare lo straccio sul balcone. La fronte sudata e le mascelle che continuano a serrarsi masticando il niente a causa dello stress. Il dentista l’ha costretta a mettere un apparecchio di notte, per evitare che i suoi denti si grattugino come formaggio. Prima di mettersi a letto infila in bocca quel coso trasparente e sembra un pugile che sta per salire sul ring. Pec- cato che quasi mai ci sia qualcuno da combattere. Giovanni a volte non rincasa neppure, e comunque torna tardissimo, sembra quasi che voglia evitarla. Si sono conosciuti quattro anni fa. Laura faceva pratica forense nello studio legale in cui Giovanni era socio. Prima ancora che lei concludesse il primo anno di praticantato erano già sposati. Giovanni è più vecchio di lei di quindici anni, anche per questo motivo hanno deciso di accelerare i tempi. Lei avrebbe voluto subito un figlio, che purtroppo non è arrivato. Hanno fatto alcune analisi, e il problema è risultato essere di Giovanni. Il medico ha detto che si potrebbe provare con un piccolo intervento chirurgico, o al limite tentare una inseminazione in vitro. Lui non ne ha mai voluto sapere. «Se questo è il nostro destino, dobbiamo accettarlo.» Così ha sentenziato a chiusura del discorso, e non ha più voluto parlarne. Laura ancora non l’ha accettato. Evita di insistere sull’argomento, immagina che per Giovanni non sia stato facile digerire la diagnosi. Sarebbe stato meglio se a risultare sterile fosse stata lei. Rilegge il messaggio di Martina. Le loro esistenze sono agli antipodi, non riuscirebbe mai a vivere come lei, e forse proprio per questo l’amica le piace tanto. Senza una certezza, un punto fermo, ogni giorno diverso dall’altro. Laura si incanta quando Marti le racconta le sue avventure e pensa che vorrebbe tanto avere la sua stessa leggerezza. Se ne frega di tutto, dipende esclusivamente da se stessa e non deve rendere conto di nulla a nessuno. Laura invece è circondata da una corte di giudici: sua madre, suo fratello, suo padre, Giovanni e infine il più implacabile di tutti, se stessa. Il display del cellulare la avvisa che è tardi: ha ancora un sacco di cose da fare, e prima di andare a pranzo con Irene deve passare da sua madre. La signora Patrizia detesta i ritardi e Laura detesta farla arrabbiare. CAPITOLO 4 «Buongiorno a tutti!» Stefania entra in ufficio e cerca di cominciare la giornata nel migliore dei modi. Le risponde solo Margherita, la nuova stagista. Sta sempre sulle sue e non parla mai con nessuno. In compenso saluta. Gli altri non sembrano molto allegri, il primo giorno di lavoro è traumatico per tutti. Immediatamente dopo guarda dentro all’ufficio di Nicola, muore dalla voglia di incontrarlo. Da quella sbirciatina riesce solo a vedere metà della sua faccia, sta ridendo. Evidentemente è insieme a qualcuno, ma non riesce a capire chi sia. Va ad appendere la giacca e prova di nuovo a buttare l’occhio. Stefi ancora prova a crederci, spera che non appena lui si accorgerà che lei è lì, la chiamerà nel suo ufficio con una scusa qualsiasi. Sono due settimane che non si vedono… Si siede alla scrivania, preme il tasto di accensione del pc e mentre aspetta che tutte le applicazioni siano cariche, accavalla le gambe. Il suo piede continua ad agitarsi su e giù in un movimento incontrollato. È nervosa. Con chi diavolo parla? Non sarà mica una donna? Con quel sorriso smargiasso incanta tutte. Gloria non è alla sua scrivania. La classica segretaria tutta occhioni che ammiccano e sorrisini mielosi. Di quelle che buttano l’intero stipendio in borse, scarpe, vestiti ed estetista. Stefania la odia. Non può sopportare il pensiero che Nicola sia con lei. Si alza in piedi, va verso la macchinetta del caffè passando di nuovo davanti alla porta. Non riesce a vedere niente. Lui continua a parlare a bassa voce, e ride, e parla, e ride, poi chiude la porta. No, sta troppo male. Deve per forza entrare in quella stanza. Prepara un caffè, fa un lungo respiro, e bussa. «Avanti…» «Ciao Nicola… volevo salutarti e…» Una ragazza stupenda è seduta su una sedia di fianco alla sua, stanno guardando qualcosa al computer. «Ciao, capiti a proposito. Volevo presentarti Sabrina, sostituirà Gloria. Non so se te lo hanno già detto, ma si è dimessa.» Di male in peggio. La tipa si alza. Uno schianto, un metro e settantacinque di forme fantastiche, lunghi capelli neri e un sorriso a settantadue denti. Porge la mano a Stefania mentre Nicola elenca le sue infinite qualità, l’enorme fortuna che hanno nell’averla in squadra e il fatto che l’azienda punta molto su di lei. Una così più che sostituire Gloria potrebbe sostituire lui. O Stefi. Cazzo! «Piacere di conoscerti.» È l’unica cosa che riesce a dire. Sta per girare i tacchi e andarsene quando si accorge di avere il bicchiere con il caffè ancora in mano. Lo posa sulla scrivania. «Ti ho portato il caffè.» Nicola la ringrazia senza neanche guardarla. «Portane un altro per Sabrina. Dovrò annoiarla ancora per un bel po’ di tempo con le mie chiacchiere.» Si volta verso di lei e le sorride educatamente. Stefania resta in piedi impalata, immobile di fronte alla scrivania come un’ebete. Avrebbe voglia di riprendersi il caffè e buttarglielo in faccia, andare a recuperare la sua giacca e uscirsene sbattendo la porta. Potrebbe andarsene a passeggiare sul mare. Provare a credere che merita di più, che non era questo che si aspettava, ricordare tutto il tempo che ha sudato per raggiungere i suoi obiettivi. Rimboccarsi le maniche per cominciare a ricostruire la sua vita. Ma l’unica cosa che riesce a fare è abbassare lo sguardo per nascondere gli occhi pieni di lacrime. CAPITOLO 5 L’odore di casa propria. Inconfondibile. Laura è appena entrata in casa sua, casa di sua madre. Che fatica dirlo. Tre anni che si è sposata e ancora considera quella la sua casa. La cucina è già satura degli odori del pranzo: pasta al sugo, spezzatino con patate, torta di mele. Può riconoscere il profumo di ogni ingrediente. La sua vecchia cameretta con le pareti rosa è rimasta come l’ha lasciata: i peluche sul letto e il poster dei Take That dietro allo sportello dell’armadio; il piumone bianco d’inverno e il copriletto a fiori d’estate. Lo scendiletto peloso per terra e la foto del primo giorno di scuola sul comodino. Tutto immutato da vent’anni. «Lauretta vuoi fermarti a pranzo con noi?» «No, grazie mamma! Vado, ho appuntamento con Irene.» «Tesoro, ma perché non resti? Giovanni è contento che te ne vai a spasso con le amiche quando lui non c’è? Non sta bene che due ragazze pranzino in giro da sole, e poi, figlia mia, sei anche sposata! Per le tue amiche è diverso, sono tutte singol!». «Mamma, Irene convive.» «E non è la stessa cosa? Non ha mica un marito a cui rendere conto! Sta solo con uno che l’aiuta a pagare l’affitto!» «Irene non paga l’affitto. Lei e Fabio hanno un mutuo. Sono una famiglia, non due persone che dividono le bollette.» «E vabbè! Fa lo stesso. Comunque Irene è una donna che lavora, lei può andare a pranzo dove le pare. Tu stai a casa tesoro mio, sai quanto è importante in famiglia che la donna…» «Ti prego mamma. Ho ventotto anni. E poi lo sai che Giovanni non torne- rebbe a casa comunque, ha molto da fare.» Prende la borsa dal divano e va verso la porta. «Fai come ti pare, potresti comunque impegnarti a far andare le cose in un’altra direzione, poi non lamentarti con la storia dei bambini e…» Con un bacio di saluto la zittisce. «Ciao Mamma! Ci sentiamo domani.» In sala c’è ancora una vetrinetta con tutte le coppe vinte durante le gare di pattinaggio artistico; nel corridoio una foto formato poster di Laura con tocco e toga il giorno della sua laurea e, sulla parete opposta, una gigantografia raffigurante lei e Giovanni il giorno del loro matrimonio. Una figlia modello, Laura. Tranne che adesso i nipotini non arrivano. E se i meriti sono suoi, le colpe non possono essere da meno. Tutti in casa sanno che è Giovanni a non poter avere bambini, ma sua madre, senza troppi giri di parole, continua a sostenere che se lui non ne vuole sapere di trovare una soluzione la colpa è solo sua, che negli ultimi tempi è cambiata e invece di crescere, va all’indietro come i gamberi. Dovrebbe mettere la testa a posto, non può più permettersi le uscite da ragazzina come quando andava l’università. Per non parlare delle amicizie che non sono mai andate bene. Le sue amiche erano sempre la causa delle “strane idee che si metteva in testa”. Qualsiasi cosa, dal desiderio di avere jeans firmati, a una risposta data di traverso a quindici anni. Pensa che Laura si lascerebbe condizionare da chiunque, quando in realtà l’unica persona che ha sempre ascoltato è lei. Giovanni è invece l’intoccabile. Un santo. Ogni volta che vanno a pranzo dai suoi, si ripetono le solite scene che rasentano il ridicolo. La signora Patrizia ci tiene che tutto sia perfetto, prepara pranzi degni di una tavola reale, e davanti al genero si atteggia pateticamente a donna sofisticata, nonostante una volta sì, e l’altra pure, sbagli i congiuntivi. Apre il portone, tre scalini ed è nel piazzale. Aria, ha bisogno d’aria. La giornata è stupenda. C’è un sole meraviglioso. Prima non ci aveva fatto caso. Tra poco passerà a prendere Irene. CAPITOLO 6 Martina si siede sul letto a gambe incrociate, fa qualche circonduzione col collo. Da destra a sinistra, poi ricomincia dall’altra parte. Maledetta cervicale. Vorrebbe dormire tutto il giorno ma è già quasi l’una. Si sdraia di nuovo seppellendo la testa sotto il cuscino. Prova a riacciuffare gli ultimi ricordi della notte: sesso con Andrea. Simpatico Andrea. Era un po’ che gli stava dietro e alla fine ha fatto centro. Come sempre Cazzo, è tardi. Di scatto tira fuori la testa dal cuscino e scende dal letto. Ci sono dei jeans e una canottiera nera appoggiati sulla sedia di fronte alla scrivania, li indossava ieri sera, un paio di sandali è di fianco all’armadio. Decine di foto sono attaccate confusamente sulla parete alle spalle del let- to. Foto di lei che sorride, le sue amiche, le vacanze, foto al lavoro. Le conosce a memoria, a occhi chiusi potrebbe ricordare facilmente l’ordine in cui sono disposte. Al centro ce n’è una di lei da bambina con mamma e papà; a destra quella del loro matrimonio mentre si baciano fuori dalla chiesa. Sopra c’è una foto con Laura, Stefania e Irene sedute sul divano, Irene ha un’espressione intontita e indica di fronte a sé, Stefania ha gli occhi chiusi e Laura sta guardando Martina che corre verso di loro. L’autoscatto aveva immortalato la scena prima che lei riuscisse a raggiungere il divano. Irene continuava a dire che la foto era già stata scattata, ma nessuna le voleva credere. È l’unica rimasta del suo ventesimo compleanno: una festa memorabile. Il cane è sulla sua poltrona che la guarda assonnato, Mino si dev’essere svegliato anche lui di malavoglia. Martina indossa canotta e minigonna svolazzante, infila i suoi occhiali da sole, prende il guinzaglio e senza neanche lavarsi la faccia, lo porta fuori. «Corri Mino! Corri corri corri!» La scena si ripete ogni giorno, la gara è a chi arriva primo in fondo alle scale. Il gioco è tutto nell’ostacolare Mino e riuscire a tenerlo dietro, se invece riesce a superarla, inizia a correre come un forsennato e a quel punto vince lui. Prima di aprire il portone Martina gli mette sempre il guinzaglio, altrimenti continuerebbe a correre col rischio di finire sotto una macchina. «Accidenti no! Bestiaccia ti acchiappo!» L’ha superata. Sta per saltare gli ultimi due scalini. C’è solo l’atrio dell’ingresso che la separa da Mino. È smanioso di uscire, sta seduto su due zampe e graffia il portone con le altre due. Ma in quel momento, attraverso i vetri smerigliati, Martina vede qualcuno che dall’esterno sta per aprirlo. Posso arrivare prima che riesca ad aprire. Scende gli ultimi scalini e si avventa sul portone. «Mino Mino Mi… nooo!» È troppo tardi. Travolgendo il tizio che ha malauguratamente aperto il portone prima che lei potesse mettere il guinzaglio al cane, corre come una matta verso il cancello esterno, ma quel bastardo è talmente nano che si infila tra una sbarra e l’altra. Scavalca la recinzione incurante della gonnellina da tennista che indossa. Dopo una corsa sul marciapiede Mino ha già svoltato l’angolo. È accaduto un’altra volta, ed è tornato dopo poco tempo. Però Martina ha sempre paura che possa finire sotto a una macchina. «Che deficiente!» «Scusami, non l’ho fatto apposta… non mi ero accorto del cane.» Dietro di lei c’è l’inquilino del secondo piano che è accorso a darle una mano. Si è trasferito da poco nel palazzo, non sa neppure come si chiama. «Non preoccuparti, non ce l’avevo con te! È che quando facciamo quel gioco sulle scale lui non ascolta più e… lasciamo perdere. Non preoccuparti, davvero.» Il tipo indossa un completo di lino marrone e una camicia bianca, nono- stante il caldo. Infatti ha la fronte sudata. Martina si rende conto che dopo questo discorso può tranquillamente pensare che sia una pazza: parla del suo cane come se fosse un essere pensante. «Mi dispiace comunque. Se vuoi ti aiuto a cercarlo.» «No, ti ringrazio. Non ascolta nessuno tranne me. Anche se lo trovassi, non riusciresti a prenderlo. Penso che farò un giro qua intorno… anzi, hai per caso una sigaretta?» Lui si batte una mano sul petto e sulle varie tasche del vestito. Alla fine le trova e le porge anche l’accendino. «Non appena lo trovi fammi sapere qualcosa… ci tengo.» «Volentieri, ma… come ti avverto?» Martina finge spudoratamente di non sapere chi sia. Non si sono mai presentati, è vero, ma è fico abbastanza da essersi fatto notare in altre situazioni. «Scusami! Mi chiamo Gabriele, abitiamo nello stesso palazzo. Sto pro- prio sotto il tuo appartamento. Pensavo lo sapessi.» Infatti lo sapevo. «Piacere Gabriele, io sono Martina.» «Allora aspetto che passi da me… col cagnolino ovviamente!» Martina rimane a guardarlo mentre lui si dirige verso il cancello di casa. Tira una lunga boccata, noncurante del fatto che quella sigaretta a digiuno sarà la causa di un’acidità di stomaco che la accompagnerà per tutta la giornata. Se acchiappa Minuccio, questa volta lo concia per le feste. CAPITOLO 7 Sms ore 12:55 DA: Laura “tra 5 min sono lì!;-*” In un nanosecondo Irene è in piedi, prende la giacca saluta tutti ed è già fuori. È una bellissima giornata. Mentre aspetta Laura sulla soglia dell’ufficio vede avvicinarsi il suo capo con la figlia. La prediletta Diletta. L’amore di papà. Ha la sua stessa età, come lei ha una laurea in economia e commercio, punteggio centodieci e lode. L’unica differenza è che l’ha presa in un’università americana, e adesso lavora come giornalista per una rivista economica. Noblesse oblige. Pensava di averla scampata. De Angelis non s’era visto per tutta la mattina. Neanche una telefonata. Troppo bello per essere vero. Quando sono a pochi passi da lei, sente il dottor De Angelis recitare versi danteschi. Diletta lo guarda ammaliata. Molto tempo prima, era ancora alle medie, doveva imparare San Martino per il giorno seguente. Quel pomeriggio aveva appuntamento dal dentista, la stava accompagnando suo padre. In macchina aveva provato a studiare, ma a causa del mal d’auto non riusciva a continuare. Il suo babbo aveva iniziato a ripetere i versi con lei: San Martino era l’unica poesia che suo padre sapesse. La poesia più conosciuta dagli italiani dopo Mattina, anche se spesso, come in questo caso, il merito era di Fiorello e non di Carducci. Quella era stata l’unica volta in cui lei e suo padre avevano “discusso” di poesia. «Buongiorno dottore, ciao Diletta!» «Salve Irene, come andiamo? Trascorse bene le vacanze?» Stava andando uno schifo, Ire era più stanca e depressa dell’ultima volta che si erano visti. «Tutto bene grazie, le vacanze sono state davvero rilassanti!» Irene si volta verso Diletta, vuole troncare la conversazione con De Angelis, non le va che inizi con le sue domande, a maggior ragione di fronte alla figlia, per lui sarebbe troppo divertente. «Tu Dile, come stai? È un po’ che non ci vediamo… sei stata fuori per le vacanze?» «Figurati, le ultime due settimane sono stata a Boston. Cose di lavoro, ho dovuto seguire un convegno. Una noia mortale. Purtroppo sono l’ultima arrivata. Non posso permettermi le ferie. Sai, quando si lavora a certi livelli…» Se scendessi da quella pianta il livello sarebbe più basso. Attenta che se cadi da lassù ti spappoli per terra. «…una noia mortaaale.» Per Ire il massimo della trasferta a lavoro è una capatina alle poste. Per dirla alla Diletta, mezz’ora lontana dall’ufficio è “uno spaaasso assoluuuto”. Le viene in soccorso un clacson: Laura si è fermata in seconda fila dalla parte opposta della strada e le sta facendo segno di sbrigarsi. «Immagino… scusatemi, una persona mi sta aspettando per andare a pranzo. Piacere di averti visto Diletta. Arrivederci dottore.» È contenta di vedere Laura, e la abbraccia con un trasporto particolare: deve ancora riprendersi dalla chiacchierata con De Angelis e pre-Diletta. Decidono di andare a pranzo in una trattoria che è proprio vicino a casa di Martina. «La chiamiamo? Vediamo se può raggiungerci» propone Irene. «Ciao Marti! Che fai?» Rumore di traffico. «Sto cercando Mino!» Ha il fiatone. «È scappato?» «Sì! Quel cane è un demente! Se lo acchiappo vivo giuro che stavolta lo ammazzo io! È la seconda volta che fa così! Non ce lo porto più fuori! Adesso gli compro la lettiera come ai gatti, lo faccio pisciare là dentro! Gli faccio venire una crisi d’identità a quell’imbecille patentato!» Irene intuisce che non è il momento più opportuno per chiederle se ha voglia di andare a pranzo con loro. «Aspetta aspetta, aspetta che forse l’ho visto! Mino… Minooo!» Ire allontana il telefono dall’orecchio per evitare la rottura del timpano mentre Laura continua a fare gesti: chi è scappato? «Eccolo! Razza di un mentecatto! S’è cacciato sotto un camion… ciao…» Dopo dieci minuti hanno già parcheggiato di fronte casa di Martina, ma l’amica non risponde al cellulare. Laura è già preoccupata: «Che facciamo adesso?» «Dividiamoci, tu vai a destra, io a sinistra, e se non ci incontriamo prima ci chiamiamo con il cellulare.» Irene sta già morendo di fame e ora le è venuta anche sete. Ci saranno almeno ventotto gradi; la bretella della borsa le si è appiccicata alla spalla e quello stramaledetto reggiseno la fa sudare. Passa davanti a una pizzeria al taglio. L’ingresso è spalancato e in un attimo ha l’acquolina in bocca. Lancia un’occhiata con il buon proposito di non fermarsi. Calzoni fritti, mozzarella filante, formaggio fuso, pezzettini di salsiccia pieni di olio, prosciutto crudo fresco di taglio. Irene quando ha fame non riesce a vedere altro. Però stavolta tira dritto, stoicamente: potrebbe imbattersi in Martina che seduta a terra sta piangendo al fianco di Minuccio spiaccicato sull’asfalto. Invece è Laura a trovarla: riconosce le ciabatte, perché l’amica è stesa sotto un camion e di lei si vedono solo le lunghe gambe abbronzate. E la voce è inconfondibile: sta urlando una serie di improperi contro il cane che è raggomitolato accanto a una delle ruote anteriori. Continua ad abbaiare e non ne vuole sapere di uscire. «Marti… Marti che fai? Esci fuori di lì! Non vedi che Mino trema come una foglia? Non ti ascolterà mai se continui a urlare in questo modo!» «E gli conviene non uscire! Se lo acchiappo lo strangolo!» Laura si dirige dall’altra parte del camion: il cane non ha neppure il tempo di accorgersi che sta arrivando alle sue spalle, che lo afferra per la coda. Un salto in avanti tentando un’ultima fuga, e Martina lo acchiappa. «Preso, bastardo!» La faccia paonazza, i vestiti unti come quelli di un meccanico, ha chiaramente voglia di uccidere. Ma riesce solo ad assestare al fuggitivo una gran pacca sul culo. Laura lo salva dalla furia assassina della padrona. «E lascialo stare povera bestia! È colpa tua se è scappato. E adesso calmati o la allento a te una bella chiappata!» Il terzetto intercetta Irene proprio quando stava per abbandonare i nobili propositi e infilarsi in quella pizzeria da sogno. «Dai Minuccio, non preoccuparti che ora andiamo a casa e la padroncina ti perdona» lo rassicura Laura. Martina la guarda di traverso e le fa una linguaccia: «È da vedere. Intanto tienimelo lontano!» CAPITOLO 8 Sono rimasti chiusi nell’ufficio di Nicola fino a ora di pranzo. Quando sono usciti, Stefania l’ha visto aprire la porta e cederle il passo. L’ha accompagnata fino alla sua scrivania, quella dove prima stava Gloria, e le ha detto soave che per il momento poteva cominciare con il rispondere al telefono e sbrigare le pratiche di segreteria. «Così inizi a interfacciarti con le aziende e ti fai un’idea della nostra clientela.» In giornata si sarebbe occupato lui stesso di ordinare il suo computer portatile. La storia tra lei e Nicola era iniziata proprio per vicissitudini legate a un laptop. Era da un anno e due mesi che lavorava alla MB Counsulting, una società di consulenza aziendale. Era stata assunta ancor prima di laurearsi, alla fine di uno stage che le aveva proposto l’università. Tutto andava a gonfie vele, Nicola le era sempre vicino per darle una mano, il lavoro le piaceva e l’entusiasmo era alle stelle: il suo capo sembrava nutrire per lei una grande stima. In più di un’occasione aveva notato che le rivolgeva attenzioni particolari, e ne era lusingata naturalmente, ma le aveva considerate premure di un capo verso una ragazza sveglia, dedita al suo lavoro, e meritevole di carinerie. Aveva deciso comunque di darsi questa spiegazione: Nicola era sposato, e non appena qualche strano pensiero le balenava in mente, lo scacciava in un attimo, come fosse un insetto fastidioso. Fino a quando una sera erano rimasti solo loro due in ufficio. Lui nella sua stanza, lei alla scrivania nell’open space. Stava per mettere via le ultime cose e andarsene, quando aveva deciso di andare da Nicola: in più di un’occasione gli aveva chiesto un pc portatile, ma lui aveva sempre rimandato. Quello le sembrava il momento adatto per avanzare di nuovo la proposta. In fin dei conti tutti i suoi colleghi ce l’avevano, e lei se lo meritava. Aveva infilato la giacca dirigendosi verso l’altra stanza. Nicola era assorto a leggere dei documenti, le maniche della camicia girate e gli occhiali da vista appoggiati sulla fronte. Per attirare l’attenzione Stefania aveva picchiettato leggermente le nocche sulla porta. «Dimmi Stefania.» «Scusami se ti disturbo…» «Nessun disturbo.» Aveva reclinato la testa indietro fino a poggiarla sullo schienale della poltrona. Si era messo comodo. «Avrei necessità di un computer portatile. Ricordi? Te ne avevo già parlato. Ora credo che… sia indispensabile. Potrei lavorare a casa e rendere molto di più.» Nicola le aveva sorriso scuotendo lievemente la testa. E lentamente si era tolto gli occhiali, riponendoli con cura nella custodia. «Ti prego Stefania, siediti.» L’imbarazzo che le era parso di percepire l’aveva allarmata. Per prima cosa aveva pensato che volesse licenziarla, e stesse cercando le parole per dirglielo nel modo migliore. Quella sensazione era priva di fondamento, ora lo sapeva, non c’erano motivi per preoccuparsi, ma non era riuscita a dare un’altra spiegazione a quel silenzio che era sceso su di lei come una colla appiccicosa da quando aveva messo piede nell’ufficio di Nicola. Si era allora seduta sulla punta della sedia di fronte alla scrivania, pronta al peggio. Mentre lui nel frattempo si era alzato, e aveva aperto la finestra accendendosi una sigaretta, senza mai guardarla. Evidentemente non ne aveva il coraggio. «Sono un po’ imbarazzato, non so da dove cominciare… Penso ti sarai accorta che ultimamente con te mi comporto in maniera… diversa.» Spostando la tenda, aveva distrattamente guardato fuori. Era una serata di fine estate, il sole era già tramonta- to, e un’ultima luce dorata avvolgeva la sagoma di Nicola. «Senti Nicola, puoi parlare liberamente. Ho capito che la storia del pc è solo un pretesto, il nocciolo della questione è un altro!» E guardami in faccia quando ti parlo! Vigliacco! Stava innervosendosi, non capiva perché continuasse a tergiversare. Se non la voleva più in quell’ufficio, pazienza, avrebbe trovato un altro lavoro. «Hai ragione. Inutile che continuo a girarci intorno.» Bene, era pronta a firmare le dimissioni. Finalmente Nicola aveva alzato il viso guardandola dritto negli occhi. «Non faccio che pensare a te.» Cervello in black out. Non sapeva cosa fare, non sapeva cosa dire. La tensione che aveva provato fino a un attimo prima l’aveva abbandonata con la velocità della luce. L’aveva sentita fisicamente scivolare via dalla base della testa. Una scossa aveva percorso le braccia, lo stomaco e le gambe, scaricando a terra. Nicola aveva continuato a guardarla senza dire niente, e poi aveva scosso la testa, negli occhi un’espressione di sconfitta, lasciando intendere che era già pentito, pronto a fare dietrofront. «Scusami, sono stato un cretino. Un vero imbecille! Chissà cosa mi ero messo in testa. È che tu sei così in gamba e piena di vita, per un attimo ho pensato che… lasciamo perdere. Non so neanche io cosa ho pensato. È stata sicuramente una cazzata. Una enorme cazzata! Adesso non so come fare. Ho rovinato tutto…» Era piuttosto comico. Mentre parlava era tornato alla scrivania e continuava a spostare carte da una parte all’altra. Ma il suo imbarazzo aveva intenerito Stefania, inducendola ad abbassare le difese. La situazione era quantomeno surreale, e a un certo punto le era quasi venuto da ridere. «Nicola… stai calmo… fermati un attimo e ascoltami.» Stefania ti prego non farlo. Mentre le parole le scivolavano fuori dalla bocca, una parte di sé la guardava esterrefatta, come se a parlare fosse una perfetta sconosciuta, che per giunta stava dicendo cose alle quali lei non credeva. «…anche io non faccio che pensare a te.» Perché aveva detto quella frase così definitiva, compromettente e, soprattutto, falsa? Certo, qualche fantasia l’aveva pure fatta, Nicola era un bel tipo, ma niente che giustificasse quella dichiarazione. Era stata la sensazione di potere che provava in quel momento a farla rispondere come la protagonista di una telenovela messicana? Sì, forse l’idea di averlo in pugno la eccitava. Tuttavia quelle parole pronunciate con assoluta leggerezza, ora le sembravano già autentiche, tanto da pensare che quel desiderio era nascosto da tempo nel suo cuore, e che aveva solo cercato di occultarlo. Perché lo considerava impossibile da realizzare, improbabile quanto trovare Jude Law che suona il campanello di casa e ti chiede di nasconderlo perché sta scappando dagli alieni. Per questo lo aveva allontanato. Stefania obiettivo, Stefania impegno, Stefania risultato raggiunto. Niente sprechi inutili. Nicola rimaneva in piedi, aveva appoggiato entrambe le mani sul tavolo e la guardava con gratitudine. Sembrava felice. Poi aveva fatto il giro del tavolo e prendendo il suo viso tra le mani l’aveva baciata. Non baciava un uomo da… non ricordava neanche da quanto. Gli uomini non erano mai stati la sua priorità. Tantomeno in quel periodo della vita. Prima di salutarsi, avevano impiegato una buona mezz’ora per riordinare la scrivania. Da lì in avanti la sua vita era cambiata radicalmente. Ogni cosa aveva senso solo se ruotava intorno a lui. Anche nel lavoro cercava di dare il meglio esclusivamente per avere la sua approvazione. Il guardaroba si era riempito di gonne da abbinare con tailleur originariamente composti da giacche e pantaloni. Erano più funzionali allo scopo. Lo facevano in qualsiasi momento e ovunque. Nel suo ufficio, in bagno, nell’archivio. Non badavano troppo alle comodità. E certe scopate, anche col senno di poi, Stefi è sicura che le rimpiangerà per tutta la vita. Intanto, è una donna di ventotto anni con una brillante carriera che le sta sfuggendo di mano, innamorata di un uomo sposato che molto probabilmente non la ama più. Per rimetterla in sesto ci vorrebbe una flebo di autostima. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...