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i libri del 2012 / 1 - monografie
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MONOGRAFIE
Donatella Alfonso, Ci chiamavano Libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945,
Genova, De Ferrari, 185 pp., € 16,00
Nel tempo della postmemoria, il libro dimostra che è ancora possibile ascoltare la voce
dei protagonisti della lotta di liberazione. L’a., recuperando le testimoni della Resistenza
ligure, ci consegna un racconto corale di donne. Nelle storie, brevi tranches de vie, prevale
la dimensione soggettiva e l’autorappresentazione, ambiti che storiche e storici in questi
ultimi trent’anni hanno frequentato con profitto, alimentando con rinnovata complessità
la storiografia sulla guerra e sulla Resistenza. Di particolare interesse, nell’esperienza delle
donne, è l’adesione all’antifascismo e la volontà di misurarsi con la sfera pubblica dell’Italia
repubblicana. L’a. esalta la soggettività femminile con la forza del racconto orale e del
vissuto individuale e fa emergere le ragioni della coscienza nell’agire quotidiano delle
giovani, qualificando la scelta antifascista. La consapevolezza politica delle protagoniste,
rileva Lidia Menapace nella prefazione, è evidenziata negli «spazi quotidiani, mescolati,
tra le case», nella clandestinità con «astuzie e mascheramenti specifici che resero l’intero
territorio politicizzato» (p. 9). Un agire politico che solo all’indomani della Liberazione,
scrive l’a., quando molte passeranno alla militanza politica, condurrà alla piena
consapevolezza delle fatiche e della distanza che ancora le separava dall’emancipazione.
Nelle campagne, e soprattutto nelle fabbriche, «la coscienza di classe cresce di pari passo
con l’odio verso il fascismo e la necessità di far finire la guerra» (p. 31), mentre la povertà
spingeva alla rivolta. Da qui alla lotta armata il cammino era tutt’altro che lineare. Le
donne non erano accettate facilmente sui monti a causa di pregiudizi maschili, che le
volevano attente solo alle mansioni di «cura» e «collegamento». Ma «avere un’arma in
mano» (p. 47) aveva un significato simbolico speciale, decisivo per il pari riconoscimento
con i maschi. I pregiudizi degli uomini alimentarono la memoria taciuta e persistettero
dopo la Liberazione, spingendo molte ad abbandonare la militanza politica: delusioni e
autolimitazioni nell’agire si trovano riflessi in molti racconti di vita, nella maggior parte
dei casi celati nella narrazione di sé. Non per M.G. Pighetti (cristiana e anarchica): «E se
c’è ancora tanto cammino da fare per le donne, non dimentichiamo che c’è la rabbia dei
maschi, che non accettano di essere messi in un ruolo inferiore o che le donne scelgano per
sé. Per questo c’è tanta violenza, perversione, schiavitù persino. D’altronde forse nemmeno
quelli che conoscono un poeta raffinato come Novalis ricordano che scriveva, rivolgendosi
alla fidanzata diciottenne morta Sono contento che tu sia morta perché ora sei veramente mia.
E le cose non son cambiate, quante donne vengono uccise perché gli uomini dicono tu mi
fai rimanere solo, ma tu sei solo mia?» (p. 123).
Marco Minardi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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Elisabetta Amalfitano, Dalla parte dell’essere umano. Il socialismo di Rodolfo Mondolfo,
Roma, L’Asino d’oro, 178 pp., € 18,00
Nel 1992, ripubblicando l’edizione delle Vie maestre del socialismo di Filippo Turati
curata da Rodolfo Mondolfo, Gaetano Arfè descriveva lo storico della filosofia antica
marchigiano come il maggiore e il più originale interprete italiano del marxismo nella sua
versione democratica e gradualista e osservava come questo filone di pensiero non avesse
mai goduto nel nostro paese di molta fortuna. In fondo, il libro in oggetto, frutto di una
tesi di dottorato, tenta di dare una risposta alla questione posta da Arfè (e riproposta da
Bruno Accarino nella prefazione), soffermandosi in particolare sugli scritti di carattere
politico dal 1909 al 1938, anno della partenza di Mondolfo, a causa delle leggi razziali,
per l’Argentina, dove morirà, quasi centenario, nel 1976. L’autrice delinea bene, sullo
sfondo della storia del socialismo, il percorso di formazione intellettuale di Mondolfo,
dagli studi giovanili su sensismo ed empirismo, all’incontro con il positivismo di Ardigò,
per giungere alla propria, personale, «filosofia della prassi», che apriva una nuova strada
per il dibattito marxista in Italia, cercando di superare sia il determinismo materialista
che l’idealismo nelle sue varie forme, giungendo a delineare una sorta di «umanesimo
marxista», in cui il socialismo si costruiva non tanto dal dato economico, ma da quello
«personale» e di coscienza (la «prassi che si rovescia»). Questa lettura, influenzata anche da
Rousseau per l’importanza data agli aspetti educativi e formativi, fu fortemente criticata
negli anni ’60 da Galvano Della Volpe e dalla sua scuola, sulla base di un’interpretazione
scientifico-strutturalista degli scritti marxiani, contribuendo notevolmente al lungo oblio
del pensiero di Mondolfo, nonostante (o forse proprio perché…) Norberto Bobbio avesse
curato, nel 1968, sotto il titolo di Umanismo di Marx, una sua raccolta di scritti. Allo
stesso modo ne derivava, per Mondolfo, una visione del rapporto partito-masse molto
diversa da quella comunista e dello stesso Gramsci (cui pure dedicò su «Critica sociale», a metà degli anni ’50, una serie di saggi di grande interesse, mettendone in risalto
le contraddizioni tra pensiero e pratica politica) e un conseguente giudizio critico sulla
rivoluzione russa, «prova del fuoco» della concezione leninista della politica, rispetto alla
quale prendeva decisamente la parte di Martov e dei menscevichi. Le pagine dedicate a
questi temi (come quelle su Sorel e il rapporto forza-violenza, su cui tornerà nel suo esilio
argentino) sono forse quelle più interessanti per lo storico, anche se talora un po’ ripetitive. Conclude il volume, nel tentativo di attualizzare il pensiero di Mondolfo, una serie
di brevi interviste con Giacomo Marramao, Luciano Pellicani, Giuseppe Tamburrano e
lo psichiatra Massimo Fagioli (il contributo delle cui teorie al tema del libro resta francamente misterioso).
Giovanni Scirocco
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Luigi Ambrosi, Prefetti in terra rossa. Conflittualità e ordine pubblico a Modena nel periodo
del centrismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 234 pp., € 16,00
Le vicende di tre prefetti sono qui affrontate secondo gli auspici della storiografia
più avvertita: la storia dei prefetti non può esaurirsi nella ricostruzione della dimensione
istituzionale e amministrativa delle loro funzioni, ma deve connettersi alla storia sociale
e politica delle province in cui si trovano a operare. Meglio se si concentra su periodi di
transizione o di crisi. Così l’a. intreccia queste dimensioni, partendo dalle biografie dei
prefetti per coglierne i tratti culturali, e approfondendo la storia della provincia modenese
nel dopoguerra. Ne risulta un quadro vivido, fondato su un’analisi rigorosa delle fonti
archivistiche e della stampa locale, dal quale emerge il complicato rapporto tra l’autorità
periferica dello Stato, gli enti locali e le forze politiche. Al centro dell’attenzione sono le
modalità con cui i prefetti interpretano il conflitto sociale, le azioni del Pci locale e come
dispiegano le strategie per «contenere» la forza delle opposizioni. Non vi è dubbio che
l’Emilia centrale, dove il radicamento del Pci è capillare, rappresenti un osservatorio privilegiato per studiare la risposta degli apparati statali a una sfida nella quale conflittualità
sociale e politica sono strettamente intrecciate; per indagare – come dichiara esplicitamente l’a. – il rapporto che si crea tra lo Stato e i cittadini.
Resta un problema non affrontato, come lo stesso a. dichiara: quello Stato giudicato
distante e parziale è uno Stato che si rivolge a cittadini che in larga misura aderiscono al
Pci, un partito che in Emilia presenta profili peculiari e più persistenti che in altre realtà.
Qui il «partito nuovo» fatica a imporsi, rimangono la tentazione della «spallata» e il culto
della forza «proletaria» che, anche se non si traducono mai in una linea politica alternativa
a quella di Togliatti, contribuiscono a radicalizzare i conflitti e i rapporti con le autorità
dello Stato. D’altra parte, il volume documenta quanto lontani dalla pratica democratica
fossero i comportamenti dei prefetti in questione. Funzionari entrati nei ruoli del Ministero nel 1914 (due dei tre) e che attraversano il fascismo adattandosi e conformandosi
alle richieste del regime. Prefetti per i quali non basta riferirsi solo al fascismo e all’anticomunismo per interpretarne le culture. Occorre riflettere maggiormente sui codici di
più lungo periodo che accomunano buona parte delle classi dirigenti italiane quando
si occupano dei ceti popolari e del mondo del lavoro: un mondo – come emerge dalla
documentazione proposta dall’a. – descritto in modo benevolo quando passivamente si
fa guidare dal paternalismo delle «classi responsabili»; irrazionale, eversivo ed «eccitato»
quando, per incapacità di giudizio, si consegna nelle mani di «sobillatori» e «agitatori di
professione». Un conflitto sociale perciò mai riconosciuto come tale, ma invariabilmente
ricondotto ad azione sovversiva (che non mancava) e finisce così per impedire la visuale
dei seri problemi della provincia ancora afflitta alla metà degli anni ’50 da una grave
mancanza di lavoro.
Lorenzo Bertucelli
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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Renato Bacconi, Saint Gobain. Un secolo di industria, lavoro e società a Pisa (1889-1983),
Pisa, Bfs, 336 pp., € 22,00
La storia del lavoro ha ricevuto negli ultimi anni in Italia una discreta attenzione da
parte dei soggetti che hanno avuto un ruolo diretto nel suo svolgimento concreto, in primo luogo i sindacati e le aziende. Ciò ha dato luogo a vari studi di qualità e impostazioni
diverse (dai volumi editi dalla Cgil in occasione del suo centenario, al recente e bel lavoro
di Roberta Garruccio promosso dalla Fondazione Pirelli, recensito in altra parte di questo
fascicolo), ma che testimoniano una vitalità non dimostrata dal mondo accademico. Molte sono state anche le ricostruzioni storiche redatte dai singoli protagonisti, attraverso un
lavoro di rielaborazione in chiave storica di eventi e ambienti vissuti in prima persona: tra
gli esempi più alti, i volumi sulle vicende del polo industriale di Porto Marghera scritti da
Cesco Chinello, ma anche iniziative singolari come quella del sito web dedicato a Mirafiori (www.mirafiori-accordielotte.org), creato da un gruppo di ex sindacalisti torinesi ed
estremamente ricco di materiali.
In questo filone si inserisce anche questo libro sullo stabilimento pisano della multinazionale francese del vetro Saint Gobain, stampato dalla casa editrice della Biblioteca
Franco Serantini. L’a., sindacalista proveniente dal mondo del lavoro, è stato segretario
generale della Cgil di Pisa in occasione della firma di un importante accordo di ristrutturazione del 1983, concluso «in disaccordo coi compagni del C[onsiglio] d[i] F[abbrica]»
(p. 322). Tuttavia, Bacconi non si limita al racconto di questa esperienza, ma prova a fare
qualcosa di più, pur avvertendo il lettore che il risultato «potrebbe far arricciare il naso agli
specialisti della ricerca storica» (p. 13). Il libro propone una carrellata nel tempo lungo
della storia, attraverso un intreccio non sempre ben riuscito, ma assai stimolante, che si
articola tra vicende locali, storia aziendale e aspetti sociali del lavoro.
Si tratta di un’opera, che pur non provenendo da uno storico professionista né raggiungendo la capacità d’analisi di un Chinello, presenta molti elementi di interesse. E
non solo perché la categoria dei vetrai, come segnala Maurizio Antonioli nella prefazione
all’opera, è «una delle categorie più complesse e […] più affascinanti del movimento
operaio italiano, benché ancora una delle meno conosciute» (p. 7); ma anche perché il
volume mette al centro il problema storico del rapporto tra un territorio concreto e delimitato, un centro urbano di modeste dimensioni e ricca tradizione politica, e le strategie
di un soggetto economico esterno, una «multinazionale alla francese» che non può essere
ricondotta ai modelli canonici dell’imprenditoria locale, con elevati livelli di investimento tecnologico (e quindi il bisogno continuo di modificare l’organizzazione del lavoro),
un’ampia disponibilità di capitali (e quindi una discreta capacità di resistenza) e la possibilità di giocare le sue carte su più ambiti geografici (e quindi la continua ricattabilità dello
spostamento della produzione). Un problema dalla vicenda secolare, che potrebbe aiutare
gli storici di professione a ridiscutere e affinare categorie e strumenti di analisi.
Stefano Gallo
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Cristina Badon, Eleonora Rinuccini e la famiglia Corsini. Un matrimonio aristocratico nel
secolo della borghesia (1813-1882), Roma, Aracne, 192 pp., € 12,00
Il volume – accolto nella bella collana «Donne nella storia» – delinea il profilo biografico di Eleonora Rinuccini (1813-1886), una interessante figura di donna dell’aristocrazia toscana vissuta in pieno ’800, negli anni che hanno visto cruciali trasformazioni
politiche e sociali. La vicenda è raccontata lungo il filo delle suggestioni che vengono dal
ricco carteggio che Nora intrattiene quasi quotidianamente con il marito Neri dei principi Corsini (sposato nel 1834), governatore di Livorno dal 1837 al 1847, costretto dagli
impegni pubblici a una lontananza forzata per lunghi periodi.
Le lettere (conservate nell’Archivio della famiglia Corsini a Firenze e recentemente
censite) sono per la narrazione la base documentaria da cui emergono una pluralità di
elementi che permettono di seguire le tracce dell’esperienza di vita della protagonista colta
attraverso la rete relazionale interna alla famiglia.
Allo stesso tempo, per il tipo di contenuti e di riferimenti, esse consentono di rivolgere lo sguardo a un contesto più ampio che si muove tra privato e pubblico, tra emozioni
(intime e confidenziali) e pragmatismo legato alle «faccende» del quotidiano; tra affettività coniugale e affermazione dei ruoli dentro e fuori le mura domestiche; tra comunità
locale e dimensione nazionale ed europea.
Il quadro che emerge, rispetto ai modelli educativi e alle mentalità sul ruolo delle
donne nella società aristocratico-borghese del XIX secolo, è quello di un vissuto al femminile con forti tratti di modernità, che testimonia un processo di emancipazione consapevole, caratterizzato da anti-convenzionalismo, intraprendenza nella gestione della casa e
nella cura dei figli, tensioni politiche che si esplicitano nell’adesione appassionata alle idee
liberal-moderate (proprie anche del padre e del marito), capacità individuale di opinione
e di critica, attenzione alla circolazione dei saperi.
Nella ricostruzione che l’a. ci presenta, viene introdotta una serie di nodi storiografici (educazione, istruzione, socialità, forme di apprendistato politico e culturale) in
cui talvolta la storia di Nora diviene piuttosto l’occasione per aprire digressioni (anche
interessanti) su più tematiche di ordine generale che, però, lasciano sullo sfondo l’oggetto
di studio.
Un’ultima osservazione riguarda i diari (pubblicati in appendice) scritti da Eleonora
negli anni della vecchiaia. Essi rappresentano un bilancio della sua esistenza e sono espressione dell’esigenza (non usuale e scontata per le donne) di «scrivere de’ ricordi della [sua]
vita» (p. 164) per lasciare memoria di sé e per trasmettere ai più giovani un modello di riferimento, una linea di condotta funzionale all’unità della famiglia: «che ciascuno – scrive
–, pur avendo la sua piccola famiglia, possa continuare, come finora, a mostrare un vivo
interesse per quella dei suoi fratelli e delle sue sorelle, condividendo consigli e affetti, gioie
e inquietudini» (p. 179). Per questo, sarebbe stato più opportuno utilizzare tali «memorie
dell’io» in maniera più efficace.
Daria De Donno
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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Bruna Bagnato, L’Italia e la guerra d’Algeria (1954-1962), Soveria Mannelli, Rubbettino,
800 pp., € 28,00
Un libro grande ma anche un grande libro. Settecentocinquanta pagine di testo in
corpo piccolo e tantissime note in corpo ancora più piccolo, più cinquanta pagine di bibliografia e indice dei nomi. Ma anche un’analisi di insolita e ammirevole ampiezza su un
periodo cruciale per tutto il dopoguerra con riferimento alle due dimensioni Est-Ovest
e Nord-Sud.
Da un libro in cui c’è moltissimo viene spontaneo aspettarsi che ci sia tutto. Eppure
in questo libro qualcosa manca. In linea di principio, i pilastri su cui si regge sono due:
la guerra d’Algeria e la politica internazionale dell’Italia. In realtà la guerra d’Algeria non
è trattata. Si dà per nota. È la conseguenza di una scelta metodologica di una storica e di
una storia che hanno come obiettivo l’Italia e l’Europa più che l’Algeria e il Terzo mondo.
L’impostazione, legittima, comporta degli inconvenienti. È difficile apprezzare nel bene
o nel male gli equilibrismi della politica italiana sull’Algeria per non scontentare Parigi se
non si ha presente il quadro della situazione sul terreno.
Le pagine sono tante perché il libro dà conto nei dettagli di tutti gli incontri bilaterali italo-francesi del periodo, anche quando i temi più in vista non riguardano espressamente l’Algeria, di tutti i voti all’Onu, con una gradazione di complicità che va scemando, di tutte le sfumature nell’orientamento dei nostri diplomatici a Parigi e nelle altre sedi
principali. Gli ambasciatori, Quaroni detto «il papa» in primis, hanno un notevole peso.
Capita persino che il rappresentante all’Onu, forse per il fuso orario, non riceva direttive
da Roma e debba decidere da solo come votare. L’azione dell’Italia è una successione di
omissioni, elusioni e offerte finte o velleitarie di mediazione. È l’ambasciatore francese
Palewski spesso a dettare da Palazzo Farnese al governo italiano come comportarsi. Con
il neo-atlantismo si moltiplicano i «giri di valzer» per tener buoni i governi arabi ma il
richiamo delle alleanze alla fine è sempre più forte.
Per Italia si intende soprattutto il governo. Largo spazio viene dedicato, è vero, a
La Pira e Mattei. La vicenda del Colloquio mediterraneo del 1958 merita giustamente
un’attenzione speciale. Ma sia il sindaco di Firenze che il presidente dell’Eni, per quanto
eterodossi, si muovono pur sempre in ambito democristiano. Per una descrizione un po’
distesa delle iniziative dell’opposizione di sinistra bisogna arrivare invece a p. 658 e anche qui le manifestazioni di solidarietà per gli algerini in lotta vengono passate al vaglio
della maggiore o minore irritazione degli ambienti francesi più che come un controcanto
dell’ipocrisia ufficiale.
La conclusione di Bagnato è perfetta. Senza spendere molte parole di commento dopo
aver fatto parlare i fatti, alla fine si limita a mettere in parallelo lo scritto di un diplomatico
che deplora le troppe occasioni perdute per troppo servilismo nei confronti di Parigi e una
dichiarazione di Moro rivolta agli arabi che rivendica i meriti dell’Italia. È questa «la forbice
interpretativa circa l’atteggiamento dell’Italia verso la guerra d’Algeria» (p. 742).
Gian Paolo Calchi Novati
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Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle,
Roma-Bari, Laterza, 369 pp., € 18,00
In questo volume, l’a. attacca la pubblicistica anti-risorgimentale degli ultimi anni
attraverso uno dei suoi «miti», la storia dei prigionieri di guerra borbonici catturati durante la crisi finale del Regno delle Due Sicilie. Si tratta di una ricostruzione attenta e
minuziosa, giustificata – come spiega lo stesso a. – dalla necessità di affrontare con rigore
scientifico e onestà intellettuale un diffuso quanto banale uso pubblico della storia.
Barbero ricostruisce il percorso dei prigionieri, il loro numero, le condizioni della
cattura e della detenzione, per definire i dati reali della questione, cominciando con la
differenza tra coloro che furono presi nelle campagne dell’autunno-inverno 1860-1861, i
renitenti alla leva e i disertori successivi. A fronte della documentazione riportata, i recenti
quanto banali miti neoborbonici del «lager» di Fenestrelle, della congiura nel forte o del
campo di San Maurizio si sciolgono immediatamente, e definitivamente, in modesti e
inconsistenti argomenti di battaglia politica quotidiana. È proprio l’a. a ridimensionare
queste recenti «miserie della storiografia» (p. 292) che coinvolgono storici dilettanti, giornalisti e a volte accademici, ottenendo però il favore di una opinione pubblica affamata
di capri espiatori.
Più interessante, dal punto di vista storico, è comprendere la questione della fine
dell’esercito borbonico e del rapporto tra l’attaccamento dei militari alla propria patria e
gli effetti devastanti della dissoluzione delle sue istituzioni. Non meno utile è lo sguardo
ai vincitori, al loro incontro con i connazionali acquisiti, caratterizzato da un misto di
entusiasmo, incomprensione e delusione rispetto a coloro con cui avrebbero condiviso
la nuova patria. I pregiudizi delle alte sfere piemontesi e la volontà di integrare i vecchi
nemici nelle nuove istituzioni si intrecciarono con una sostanziale accettazione del nuovo
stato delle cose da parte della maggioranza dei prigionieri e i tentativi di resistenza di
una minoranza di loro. L’a. sottolinea come la nuova classe dirigente non intese negare
l’italianità degli ex militari, e i dati di fatto mostrano che in tempi rapidissimi riuscì a
incorporare le leve meridionali nell’esercito. Anche gli inevitabili problemi connessi (diserzioni, provenienze diverse, resistenze politiche) furono gestiti con esito in buona parte
positivo. Erano linee ancora confuse ma utili per comprendere i termini dello scontro
politico, sulla stampa e in Parlamento, tra sostenitori della nuova patria e difensori dei
vecchi Stati. I prigionieri, soprattutto i refrattari arruolati dopo l’Unità, diventarono un
argomento di conflitto tra destra e sinistra, nonché tra nazionalisti unitari e legittimisti,
anche perché la scoperta della camorra nell’esercito, come il fantasma del brigantaggio e
della guerriglia filo borbonica, erano diventati un fatto concreto. I quadri e i gregari delle
bande erano, infatti, formati spesso proprio da ex militari delle Due Sicilie. In ogni caso
l’integrazione riuscì. Alla fine del decennio era nato il nuovo esercito italiano, anche se
con le contraddizioni di una nazione ancora tutta da costruire.
Carmine Pinto
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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Paolo Barcella, Venuti qui per cercare lavoro. Gli emigrati italiani nella Svizzera del secondo
dopoguerra, Bellinzona, Fondazione Pellegrini-Canevascini, 344 pp., s.i.p.
Nella oramai abbastanza ampia storiografia sull’esodo italiano del secondo dopoguerra mancava di fatto un testo complessivo sull’emigrazione verso quella che è stata
di gran lunga la prima destinazione di quegli anni. Altro pregio importante del libro è
l’indagine della percezione del vissuto da parte degli emigrati e del loro rapporto con la
popolazione elvetica. L’a. utilizza prevalentemente fonti soggettive: un centinaio di interviste a emigrati e religiosi che li assistevano, i temi scolastici degli allievi italiani della
scuola «Dante Alighieri» della Missione cattolica di Winterthur e tre epistolari. Si tratta di
fonti ampie e preziose, ma che sollevano un importante problema di rappresentatività: gli
intervistati sono quasi esclusivamente emigrati definitivi che tuttora vivono in Svizzera.
In realtà la grande maggioranza degli italiani in Svizzera – circa l’84 per cento dal 1946 al
1976 – è rimpatriata dopo poche stagioni e, anzi, la Confederazione è stata la destinazione dove il tasso di rimpatrio è stato più elevato che in qualsiasi altra meta di quegli anni.
Se da un lato va riconosciuto che tale limite metodologico non conduce l’a. a interpretazioni fuorvianti, dall’altro esso non giustifica l’affermazione secondo cui il «ritorno era ed
è, appunto, un mito» (p. 78).
Il libro affronta le cause dell’esodo, che evolvono da scelta quasi obbligata a opportunità di miglioramento economico, di avventura e conoscenza. Suggestiva è l’indagine sulla percezione del territorio dove la sensibilità degli immigrati verso la natura della Confederazione testimonia quanto precoce sia stata l’influenza dell’allora nascente movimento
ecologista internazionale a livello popolare. L’atteggiamento verso la città risulta, invece,
ambivalente: da un lato, la modernità urbana, secolarizzata e individualista, spaventa;
dall’altro, appare, soprattutto alle donne, l’opportunità per emanciparsi dal controllo
comunitario della sessualità. Quando si pensi alla ben maggiore dimensione delle città
industriali italiane del tempo e al fatto che in Svizzera mancava ancora il diritto di voto
delle donne, ci si rende conto di quanto la differenza di percezioni riflettesse il diverso
grado di modernità dei territori sia italiani che elvetici. Barcella indaga quindi molteplici
mestieri (trascurando, a causa del suo campione, quelli edili e della campagna, tipici degli
stagionali), il problema abitativo (rilevando come ostacolasse la già di per sé restrittiva
concessione del ricongiungimento familiare), e le scelte matrimoniali (dove l’esogamia era
scarsissima, ma l’endogamia evolveva dalla sfera paesana a quella regionale). La parte più
avvincente del volume illustra la percezione della xenofobia e delle relative iniziative referendarie di Schwarzenbach. Anche qui emerge la diversità di esperienze degli immigrati
italiani, tra indifferenza, rimozione, sofferenza e ribellione. In definitiva, le conclusioni
risultano ampie, convincenti e non di rado innovative, sarebbe stata però opportuna una
maggiore dialettica tra le fonti utilizzate dall’a. e quelle già disponibili.
Sandro Rinauro
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Natascia Barrale, Le traduzioni di narrativa tedesca durante il fascismo, Roma, Carocci,
306 pp., € 30,00
Il volume deriva da una tesi di dottorato in Letteratura tedesca discussa presso l’Università di Palermo. Si tratta di un lavoro che tiene conto della riflessione storiografica (pur
con alcune lacune) e che si rivela al contempo utile agli storici della cultura per entrare
più addentro in certe questioni.
L’a. parte da un ampio affresco dell’attività di traduzione, non solo dal tedesco, che
prese piede nella penisola nel periodo interbellico. Si confermano alcune nozioni e paradossi, riguardanti l’attenzione e l’efficacia dimostrate dal regime fascista per tutelare la
cultura nazionale dagli «esotismi» più pericolosi. Tuttavia, come la storiografia ha dimostrato, la censura esisteva e sulle traduzioni di opere narrative poteva abbattersi con molti
danni. Ciò spinse entrambe le categorie, ben prima del 1938 – quando l’autarchia diventò
più severa – a far entrare in gioco complesse strategie di autodifesa, tra le quali l’esame
preventivo dei libri e delle operazioni di autocensura che molto dovevano caratterizzare la
«prassi traduttoria» degli anni ’30. In altri termini gli italiani conobbero sì con generosità
la letteratura weimariana, con le sue immagini moderne e metropolitane, ma attraverso
un efficiente filtro che impediva di indugiare troppo su tematiche come la disoccupazione, la crisi dei ceti medi e, soprattutto, la sessualità e l’emancipazione femminile. Molto
utili, per quest’ultimo ambito, le note sulla traduzione dei romanzi di Vicky Baum operata da Barbara Allason, che evitò scrupolosamente di mettere in discussione istituti come
il matrimonio e la maternità, tradendo le intenzioni dell’autrice. Altrettanto efficaci i
tagli operati sui lavori di Fallada, quando questi indulgevano a un ritratto impietoso delle
condizioni del ceto impiegatizio nel tornante della crisi mondiale. Mentre risultavano più
«digeribili», anche di fronte alla censura fascista, i capolavori ambientati nella tragedia
della Grande guerra, alla quale Mondadori tentò addirittura, dovendo desistere dopo
poco tempo, di dedicare una corposa collana.
L’a. ripercorre venti anni di consumo letterario e la vicenda delle grandi collezioni
che segnarono per l’Italia l’ingresso nella modernità culturale. Le sue specifiche competenze sono utili per comprendere nel concreto quale e quanta fu la modernità importata
con le traduzioni, che si affermavano mentre in Germania era in vigore la letteratura della
«nuova oggettività» con il suo impegno sociale e politico demonizzato dal nazismo. Le
scelte dei traduttori, debitamente documentate, ci informano su quello che nell’Italia
degli anni ’30 poteva e doveva passare attraverso il vaglio della censura: storie sì moderne, ma assolutamente non irrispettose dei valori a cui la Chiesa da una parte e il regime
dall’altra mostravano di tenere maggiormente. Una modernità dunque fortemente filtrata
induce a rivedere il giudizio d’insieme sulla esterofilia degli italiani dell’entre-deux-guerres. Un maggior numero di esempi, che prendesse in considerazione anche altri traduttori, avrebbe apportato ulteriori conoscenze per la risoluzione di questo nodo storiografico,
superando i limiti che i tre esempi – pur assai illuminanti – lasciano sussistere.
Maria Pia Casalena
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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Stefania Bartoloni, Il fascismo e le donne nella «Rassegna femminile italiana» 1925-1930,
Roma, Biblink, pp. 179, € 22,00
La vicenda di uno dei più importanti periodici portavoce del fascismo al femminile
è anche, in trasparenza, la biografia della sua fondatrice e direttrice, Elisa Majer Rizzioli,
ispettrice generale dei Fasci femminili, che vi si dedicò dal gennaio 1925 al giugno 1930,
data della morte di lei e del suo giornale. Nella ricerca di Stefania Bartoloni la messa a
fuoco sul quinquennio si accompagna al richiamo all’attivismo sociale femminista che
decolla già fra ’800 e ’900, si sviluppa in modo diverso e drammatico durante il primo
conflitto mondiale, per poi sfociare in esiti antiegualitari e antidemocratici, che coinvolgono persino molte emancipazioniste. Nella «Rassegna femminile italiana» si riflettono le
rivendicazioni – poi ineluse e disilluse – di indipendenza e libertà di azione da parte delle
donne divenute fasciste, che si riconoscevano autentiche co-protagoniste dell’avventura
mussoliniana. Nello stesso tempo, quasi, se non di più, che dagli uomini di partito, il
fascismo, ipotizza l’a., fu vissuto come una vera e propria religione politica dalle militanti:
nazionaliste, dannunziane e fasciste si riconobbero «apostole» e «missionarie» di un credo
collettivo cui aderire con passione.
Bartoloni, attraverso l’analisi della fonte giornalistica, accompagnata da pregevoli
affondi nelle carte dell’Archivio centrale dello Stato, della Segreteria particolare del duce,
mette in rilievo elementi non trascurabili nella costruzione dell’identità femminile novecentesca. Primi fra tutti l’ambiguità e la forza/debolezza della cosiddetta «cultura del
materno», che già aveva accomunato le diverse correnti emancipazioniste, e il miraggio
del suffragio, magari circoscritto al solo voto amministrativo attivo e passivo (il raggiungimento di un tale obiettivo era destinato a tramutarsi anche per le donne fasciste della
«Rassegna» in una sorta di supplizio di Tantalo). Intrecciato alla politica, appare rilevante
il mondo delle relazioni personali e sociali. Esemplare la ricerca di un colloquio a tu per tu
con il duce che sostiene e anima Majer Rizzioli quando le ostilità dei dirigenti del Partito
fascista sembrano schiacciare il suo giornale. O la speranza riposta in Farinacci, poi motivo di amara disillusione e che, per una certa dose di probabile ingenuità della militante, fu
anche riposta nel suo successore Augusto Turati. La vicenda fa toccare con mano quanto
sia stato difficile per più di una generazione di donne il passaggio dalla pratica sociale –
che ella sperimentò nella Croce Rossa durante il conflitto mondiale – alla pratica politica.
In particolare per le donne fasciste, strette fra la ricerca di una contraddittoria emancipazione, frutto di un’agognata «modernità», e il virilismo del regime.
È bene ricordare infine che l’a. da tempo contribuisce alla valorizzazione di fondi
bibliografici di pregio, come i periodici a stampa della Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma, che possiede una delle poche copie complete della «Rassegna femminile italiana», ora disponibile anche in formato digitale per la libera consultazione.
Roberta Fossati
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Silvio Berardi, Mary Tibaldi Chiesa. La prima donna repubblicana in Parlamento tra cooperazione internazionale e mondialismo, Milano, FrancoAngeli, 295 pp., € 35,00
Il volume ricostruisce la biografia politica di Mary Tibaldi Chiesa – figlia del più noto
repubblicano Eugenio Chiesa, e conosciuta maggiormente come scrittrice e librettista – e
la suddivide in tre fasi. La prima ripercorre la formazione politica e ideale (nell’infanzia
e nella prima adolescenza) che ne influenzò la carriera condotta all’ombra del pensiero
paterno e ricostruisce la rete di relazioni della comunità repubblicana durante il ventennio fascista. La seconda fase abbraccia l’attività parlamentare circoscritta a meno di una
legislatura, per via della convalida dell’elezione avvenuta «a scoppio ritardato» solo dopo
quindici mesi dalle consultazioni elettorali dell’aprile 1948 (p. 100), ma intensa per i contenuti apportati al dibattito pubblico. I temi proposti da Tibaldi Chiesa si inserivano nella
tradizione mazziniana: il superamento della dimensione nazionale attraverso l’istituzione
di un ordine federalista e la cooperazione internazionale; il raggiungimento dell’emancipazione femminile come fattore di progresso; la difesa dei diritti umani e l’abolizione della
pena di morte; l’indipendenza dei popoli oppressi, il miglioramento della condizione operaia, e la tutela dell’infanzia. La terza è dedicata all’impegno post-parlamentare e appare
la più interessante: questo impegno si concretizzò nella partecipazione di Mary Tibaldi
Chiesa a organizzazioni e associazioni internazionali finalizzate all’affermazione dei diritti
umani e alla pace nel mondo e comprese anche il tentativo di riformare le Nazioni Unite
in senso più democratico.
Il filo rosso che percorre il volume è – come indicato da Neva Pellegrini Baiada
nell’introduzione (p. 16) – l’illimitata fiducia di Tibaldi Chiesa nelle potenzialità delle
donne italiane, potenzialità inespresse a causa di pregiudizi maschili e resistenze femminili
«a occupare un ruolo nella società che non fosse soltanto di madre e di moglie» (p. 177).
La monografia si inserisce nel filone di studi biografici sui quadri intermedi delle organizzazioni politiche italiane e ricostruisce, con l’ausilio di una vasta gamma di fonti, la
vita di un personaggio rimasto ai margini della storiografia e della memoria, anche per la
duplice circostanza di appartenere al sesso femminile e a un partito d’élite, e non di massa,
come quello repubblicano. Una figura poliedrica come quella ricostruita soffre dell’essere
costretta nella categoria del personaggio di seconda fila, continuamente posta al confronto sia con il pensiero e le attività della più autorevole figura paterna, sia con pensatori di
rilievo storico evidentemente superiore, quali Mazzini e Cattaneo. Ad esempio, costringe
un po’ nell’ombra alcune felici intuizioni di Mary Tibaldi Chiesa quali la creazione di una
moneta unica o l’utilizzo del nucleare per scopi pacifici (p. 135).
Il pregio maggiore della ricerca è proprio di riportare alla luce, attraverso l’utilizzo
di fonti in gran parte inedite, una donna poco conosciuta ed eclettica (parlamentare,
scrittrice, poetessa, musicista, cittadina cosmopolita), nonché una delle prime elette al
Parlamento della Repubblica italiana.
Debora Migliucci
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Axel Berkofsky, A Pacifist Constitution for an Armed Empire. Past and Present of Japanese
Security and Defense Policies, Milano, FrancoAngeli, 315 pp., € 38,00
Il volume analizza l’evoluzione delle politiche di sicurezza del Giappone dal 1945
a oggi. Gli interrogativi ai quali l’a. riconduce la sua disamina sono ben sintetizzati nel
titolo: come è possibile spiegare la coesistenza di una Costituzione radicalmente pacifista,
quale è quella entrata in vigore nel 1947, con le politiche di difesa e di sicurezza che il
Giappone ha adottato dal 1950 in poi? Perché l’articolo 9 (la cosiddetta clausola pacifista) non è stato mai emendato, ma è stato invece ripetutamente teso «come un elastico»
(Gotōda Masazumi, citato a p. 207) in modo che potesse soddisfare di volta in volta le
nuove esigenze del Giappone?
Il tema, di non facile trattazione, si inserisce nel più ampio dibattito sulla rilevanza
dell’antimilitarismo nella politica estera giapponese. Mentre alcuni studiosi (ad esempio,
Franco Mazzei, Glenn Hook, Richard Samuels) concordano nel ritenere che l’antimilitarismo sia stato profondamente interiorizzato dal Giappone fino al punto da divenire uno
dei tratti caratterizzanti della sua diplomazia negli anni della Guerra fredda, non tutti
interpretano l’evoluzione delle politiche di sicurezza nell’era post-bipolare come un segno
dell’allontanamento da questa norma.
Il merito principale dell’a. risiede nell’aver ricollocato i termini di questo dibattito
all’interno del contesto storico che li ha prodotti. Muovendosi agilmente tra le teorie delle
relazioni internazionali e la storia postbellica nipponica, Berkofsky analizza i dilemmi con
i quali la politica di sicurezza del Giappone ha dovuto confrontarsi. In particolare, nella
prima parte del volume, egli ripercorre criticamente le tappe che hanno scandito la stesura e l’adozione della Costituzione postbellica, soffermandosi sulla genesi dell’articolo 9
e sul dibattito sulla revisione costituzionale. La seconda parte è invece dedicata all’analisi
dell’evoluzione delle politiche di sicurezza, esaminata alla luce delle significative trasformazioni che hanno segnato la transizione del Giappone all’era post-bipolare.
Rispetto alla «Costituzione», meno indagato appare il concetto di «impero», che
occupa un ruolo non marginale nella visione dell’a., come il titolo del volume lascia intendere. Nella storia del Giappone, la politica espansionistica (e, dunque, l’impero in quanto suo prodotto) ha rappresentato un’opzione eccezionale (oltre che fallimentare), come
dimostrano le sue più significative manifestazioni: le invasioni della Corea di Toyotomi
Hideyoshi (1592; 1597) e la politica revisionistica messa in atto dal 1931 al 1945. D’altro
canto, il Giappone postbellico ha fatto della negazione dell’impero il suo atto fondativo,
tornando a perseguire i suoi interessi nazionali in modo pragmatico e compatibile con
le «invarianti» geopolitiche che hanno storicamente vincolato le sue opzioni strategiche.
L’approfondimento delle implicazioni relative all’uso del termine «impero» potrebbe offrire spunti interessanti per una futura ricerca.
Noemi Lanna
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Emmanuel Betta, L’altra genesi. Storia della fecondazione artificiale, Roma, Carocci, 268
pp., € 20,00
Il libro si annuncia con una bella copertina dov’è riprodotta la fascia superiore della
Sacra conversazione di Piero della Francesca: il catino dell’abside occupato da una grande
conchiglia dov’è sospeso un uovo di struzzo, simbolo di vita e di rinascita. Di vita e di
nascita trattano, in maniera diversa, tutti i cinque capitoli e l’epilogo italiano dedicato a
quell’infausta legge 40/2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) che
ha subito, dopo travagliato parto, un continuo processo di demolizione da parte di vari
tribunali, della Corte costituzionale e della Corte europea. Sorte più che meritata.
Riprodurre artificialmente esseri viventi è una tentazione che ricorre sovente nella
cultura occidentale – ma non solo in quella – vissuta da più parti e agenti, con numerosissime varianti nel corso di una lunga durata. Il libro di Betta ne esamina con cura una
forma specifica, riguardante le pratiche della fecondazione artificiale, dal XVIII secolo a
oggi. Finalità prevalenti d’ibridazione ebbero le prove fatte su animali da Réaumur già
intorno al 1737, permanendo l’oscurità che avvolgeva i fenomeni del trasmettersi della
vita e che aveva ispirato fino allora le congetture preformiste. Conosceva quelle prove
l’abate Spallanzani quando, pochi decenni dopo, approfondì ed estese la sperimentazione.
Svariati generi e specie furono coinvolti nel suo inseminare: rane rospi e salamandre dapprima, poi mammiferi. Lo scopo del naturalista si limitò a svelare i misteri della generazione del vivente, mentre le applicazioni erano ancora di là da venire. Dalle carte di John
Hunter – medico e chirurgo di origine scozzese, la cui straordinaria collezione anatomica
e fisiologica forma l’Hunterian Museum di Londra – risulta come a lui si debba attribuire,
verso fine ’700, la prima inseminazione operata su una donna, ideata come rimedio alla
sterilità, e culminata in una nascita.
Il libro di Betta dà conto ampiamente, e con molta chiarezza, degli sviluppi ottocenteschi e novecenteschi, sia rispetto alla progressiva legittimazione scientifica degli
interventi fecondativi, sia per quanto riguarda l’inevitabile approdo della questione alla
sfera pubblica, con la conseguente e netta condanna da parte della Chiesa cattolica, essendo in gioco il divaricarsi di sessualità e riproduzione. E non mancheranno ovviamente
implicazioni eugenetiche, quando l’intero mondo «civilizzato» sarà stato preso dall’assillo
della degenerazione. Che in Italia proprio un mangiapreti come Paolo Mantegazza – le
cui opere divulgative furono regolarmente messe all’Indice – si cimentasse anche nella
crioconservazione del seme maschile, da impiegare a distanza di tempo dall’emissione,
mostra quanto la fecondazione diventasse fra l’altro un’arma del locale Kulturkampf.
Più in generale, Betta rileva come il tema affrontato sia di quelli «perturbanti», che
suscitano emozioni e conflitti. Vi è implicata una molteplicità di sguardi, discorsi e azioni:
ne deriva così una storia di complessi e mutevoli intrecci fra scienza, religione, morale e
diritto, non facile da ricostruire e raccontare.
Claudio Pogliano
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Marco Boglione, L’Italia murata. Bunker, linee fortificate e sistemi difensivi dagli anni Trenta al secondo dopoguerra, Torino, Blu Edizioni, 359 pp., € 18,00
Con L’Italia murata Marco Boglione prova a mettere in comunicazione un tema
che rientra negli studi sulle fortificazioni permanenti, spesso fini a sé stessi, con la storia dell’ambiente, dell’architettura militare e soprattutto della politica militare ed estera
italiana. Se superiamo il momento descrittivo dell’analisi degli argomenti, dobbiamo riconoscere che l’a. riesce a suscitare una serie di interrogativi validi sul piano storiografico
una volta trasformati in ipotesi di ricerca.
Le fortificazioni e i sistemi difensivi studiati sono in primo luogo quelli della Maginot italiana che divenne una delle componenti della preparazione alla guerra da parte del regime fascista a partire dal 1931. Del Vallo alpino del Littorio apprendiamo le
principali vicende, dalla progettazione delle opere alle procedure per l’assegnazione dei
lavori e all’esecuzione. Lavori non interrotti dalla dichiarazione di guerra ma, sia pure
con rallentamenti o integrazioni, portati avanti sino al 1943. È lasciato al lettore il giudizio complessivo sullo scollamento palese esistente tra la situazione strategica mutata e
l’avanzamento quasi per inerzia del programma. In un caso però l’a. mette in evidenza
come l’alleggerimento del sistema rivolto verso la Francia fosse dovuto all’impegno straordinario sviluppato alla frontiera con il Reich dopo il patto d’acciaio e sino all’autunno
del 1942, suscitando una crescente irritazione nell’alleato. Proprio allora al Vallo alpino fu
data visibilità. Fu utilizzato per mobilitare l’opinione pubblica a favore della guerra. Nel
settembre fu organizzata lungo il suo tracciato, per ben 2.430 km, una staffetta dei ragazzi
della Gioventù italiana del Littorio su un percorso in quota che andava da Mentone a Sussak. Si trattò di una impresa sportiva ragguardevole a fini non militari ma di propaganda
poiché collegava, mi sembra, la giustificazione delle esigenze di difesa del paese (da un
nemico al momento inesistente) con il futuro, affidato a giovani capaci, nel tentativo di
far dimenticare i gravi problemi del momento.
A quella del Vallo segue nel libro l’analisi piuttosto dettagliata della costruzione e
dell’impiego delle linee fortificate che furono costruite in Italia dopo l’8 settembre dai tedeschi anche se credo riguardino più la fortificazione campale che quella permanente, dati
i compiti temporanei loro affidati. Sorprendono invece favorevolmente le pagine finali,
dedicate alla inattesa rinascita di una parte del Vallo. Le opere situate tra il Brennero e il
confine jugoslavo, sulle linee di invasione presumibilmente seguite dalle forze del patto di
Varsavia, vissero così dal 1952 una seconda giovinezza e una maturità insidiata dall’obsolescenza tecnica e politica (furono infatti progressivamente smantellate tra la metà degli
anni ’80 e il 1990). Con un vantaggio per lo Stato repubblicano. Non considerando le
spese di adeguamento dei bunker alla guerra Nbc (nucleare, biologica, chimica), il loro
riuso riuscì certamente ad ammortizzare la spesa inutilmente sostenuta anni prima dal
regime.
Fortunato Minniti
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Cristina Bon, Alla ricerca di una più perfetta Unione. Convenzioni e Costituzioni negli Stati
Uniti della prima metà dell’800, Milano, FrancoAngeli, 291 pp., € 35,00
Cristina Bon tratta un argomento talmente arcano per la nostra storiografia da parere irrilevante; ma tale non è, e non lo è oltreatlantico dove si ritiene necessario rivolgersi
al livello statale per comprendere il senso del costituzionalismo americano, che non si
esaurisce nel potere costituente nazionale, nel judicial review o nel côté nazionale del federalismo.
Oggetto dell’opera è uno dei due strumenti di revisione costituzionale fissati dall’art.
V della Costituzione del 1787, la convenzione statale. Un istituto mai usato per emendarla; ma a cui spesso si è fatto ricorso per modificare le Costituzioni degli stati, dove pure
è previsto, anzi, dove nacque in età rivoluzionaria prima di comparire nel testo federale.
Bon centra perfettamente il significato della convenzione quando scrive che vi si deve
vedere la volontà di «istituzionalizzare» la rivoluzione, di mettere a punto uno strumento
che consente al popolo di esprimersi e risolvere problemi politici fondamentali senza sovvertire il sistema. L’a., tuttavia, intende fondare la teoria nella storia e si sposta su questo
terreno per seguire il tema delle convenzioni statali nel Sud fino allo scoppio della Guerra
civile attraverso i case study della Virginia e della Georgia.
L’esame storico delle varie convenzioni costituzionali consente di dar loro concretezza ed evidenzia il nesso fra questioni politiche legate alle trasformazioni socioeconomiche
delle diverse regioni degli Stati e problemi costituzionali relativi sia alla rappresentanza
– in lenta trasformazione dalla tradizione corporate per contee a quella proporzionale alla
popolazione –, sia alla fiscalità. Temi che rischiavano di far saltare l’unità statale e che
impattavano sulla schiavitù per il peso assegnato nel 1787 agli schiavi nel calcolo della popolazione ai fini della rappresentanza e in quello del loro valore per la tassazione. Problemi
che portarono al distacco della West Virginia dalla Virginia al momento della secessione;
mentre la loro soluzione convenzionale portò la Georgia a una scelta secessionista senza
fratture. Il nesso fra scontri costituzionali e problemi politici degli Stati o nazionali – il
volume tratta lucidamente anche la Nashville convention degli stati del Sud che nel 1850
giunse a un passo dalla secessione sulla questione della schiavitù nei territori strappati al
Messico – costituisce il nucleo, complesso, ma lucidamente trattato, del volume. Meno
utile, invece, perché schematica, è la ricostruzione della genealogia concettuale della convenzione, fatta, mi pare, per un eccesso di scrupolo teorico. Il tema del compact è infatti
talmente enorme che non basta un capitolo sulle sue origini calviniste e zwingliane e su
Althusius per collocarvi correttamente l’istituto americano della convenzione. Il rischio è
di mettere assieme elementi, religiosi e non, la cui filiazione l’uno dall’altro è difficile da
provare e va seguita per strade indirette. Il libro, comunque, resta solido e valido.
Tiziano Bonazzi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Giuseppe Bonvegna, Politica, Religione, Risorgimento. L’eredità di Antonio Rosmini in Svizzera, Milano-Udine, Mimesis, 123 pp., € 15,00
Il libro si colloca nell’atmosfera del rinnovato interesse per il filosofo cattolico Antonio Rosmini (1797-1855), anche determinato dalla sua beatificazione nel 2006 e ulteriormente alimentato dall’attenzione alla questione religiosa del Risorgimento italiano nel
contesto del 150° anniversario della fondazione dello Stato nazionale.
L’a. ricorda sia alcune tappe della biografia rosminiana, in particolare la pubblicazione delle opere maggiori, sia i punti di contatto del pensatore con gli ambienti religiosi
della Svizzera italiana. Segue il percorso rosminiano da Milano a Domodossola, dove nel
1828 viene fondata la nuova congregazione dal nome programmatico di Istituto della Carità. Il lavoro presenta una serie di brevi ritratti di personaggi che accompagnano il cammino del Roveretano, dal conte Giacomo Mellerio, uomo politico lombardo e promotore
del pensiero di Rosmini, a Giovanni Battista Loewenbruck, cofondatore dell’istituto a
cui risale la scelta per così dire «geopolitica» della prima sede del ramo femminile della
nuova congregazione a Locarno in Ticino, fino a Jean-Félix-Onésime Luquet, vescovo
di Hesbon, nel 1847 incaricato da Pio IX della missione di pacificazione religiosa della
Svizzera.
L’a. s’avvale in particolare dei lavori di studiosi come Fulvio De Giorgi che hanno
analizzato l’iter di Rosmini in rapporto con gli ambienti religiosi e politici contemporanei
dai quali furono anche influenzate le vicende dell’Istituto sopra citato. Sulle sue orme l’a.
ricorda per esempio l’atteggiamento favorevole da parte delle autorità ticinesi nell’accogliere (nel 1832) l’insediamento dell’Istituto femminile della Congregazione. Rosmini
e i suoi collaboratori incontrarono nel Ticino un clima politico liberale, anti-asburgico,
insieme a un cattolicesimo di stampo riformatore, di cui numerosi rappresentanti divennero loro interlocutori. Il mondo dell’editoria nel Canton Ticino (il caso della tipografia
Veladini, presso cui escono tra altre opere anche le Cinque piaghe della Santa Chiesa),
come gli organi di stampa (l’esempio della rivista «Cattolico» e della «Gazzetta Ticinese»)
offrivano a Rosmini punti di incontro ed efficaci piattaforme per far circolare le proprie
idee. Il libro fornisce un’impressione del dinamico scenario religioso e culturale nel cantone meridionale della Confederazione elvetica. Molteplici sono nell’opera di Rosmini le
ispirazioni provenienti da quei contatti, sia per quanto riguarda le sue idee ecclesiologiche
relative alla struttura interna della Chiesa, sia in merito al rapporto tra religione e politica,
e tra Chiesa emancipata e Stato moderno. Da apprezzare il tentativo dell’a. di abbozzare
una topografia culturale in fermentazione, con ritratti di protagonisti magari di solo modesta notorietà, ma di notevole rilievo nella rete vivace di conoscenze, scambi e influenze
reciproche che si era creata nell’area di confine tra Lombardia, Svizzera e Piemonte. Tuttavia si sarebbe desiderata una migliore precisazione del focus della ricerca per sfruttare
appieno il ricco materiale di una storia intellettuale tra cosmopolitismo, idea nazionale e
riforma religiosa.
Christiane Liermann
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Giovanni Borgognone, Martino Mazzonis, Tea Party. La rivolta populista e la destra americana, Venezia, Marsilio, 159 pp., € 12,00
Quando Barack Obama si è presentato a Osawatomie nel dicembre 2011 non aveva
nessuna intenzione di celebrare la figura di John Brown, che dalla cittadina del Kansas
aveva preso le mosse per la sua personale rivolta antischiavista. Il dialogo con la storia del
primo presidente afroamericano, sempre intenso e serrato, aveva un altro riferimento: il
discorso di Theodore Roosevelt tenuto proprio a Osawatomie nel 1910. Per Obama era
importante, in vista della rielezione, arginare la rivolta dei Tea Parties, al plurale come sottolineano i due aa. di questo libro sottile, ma dal grande spessore storico e politico. Nella
nazione che più interpreta le trasformazioni della comunicazione politica, il nuovo Tea
Party, ispirato a quello di Boston del 16 dicembre 1773, è stato lanciato via etere da un
giornalista finanziario dell’emittente televisiva Cnbc, Rick Santelli, il 19 febbraio 2009,
con un chiaro accento antifiscale, apparendo come «un moto spontaneo in difesa del comune cittadino» (p. 44). Oggetto dell’avversione di Santelli era l’American Recovery and
Reinvestment Act firmato da Obama due giorni prima, una legge che mirava a favorire la
ripresa economica con un aumento della spesa federale.
Il richiamo al Tea Party della Boston rivoluzionaria era stato una costante del nuovo
movimento populista americano sin dagli anni ’90, ma la presidenza Obama aveva inasprito gli accenti della protesta e i raduni dei militanti si erano intensificati sino a raggiungere l’apice con il Tax Day dell’aprile 2009, con manifestazioni in 750 diverse città e la
minaccia di secessione pronunciata ad Austin dal governatore del Texas, Rick Perry. Come
nel ’700 la protesta si era estesa in tutte le tredici colonie, allo stesso modo i Tea Parties
contemporanei si sono diffusi in tutta la nazione diventando un movimento politico e
poi una costola del Partito repubblicano in grado di influenzare la scelta dei candidati al
Congresso. Spiegare questa trasformazione è il compito di questo volume che, se a prima
vista sembra un instant book per interpretare un fenomeno tipicamente americano, in
realtà, nel riflettere sul profondo legame tra populismo e destra politica, ci propone una
sintesi storico-storiografica efficace di un tema sempre molto attuale tra le due sponde
dell’Atlantico, proprio nel momento in cui anche in Europa i populisti sfidano l’idea di
un’unione coesa per cavalcare l’intolleranza e la disperazione causate dalla profonda crisi
economica. Ancora una volta il messaggio che ci arriva dagli Usa appare chiaro: il populismo rimane una sfida seria alle democrazie occidentali e va combattuto usando gli antidoti che la Storia ci ha fornito. Le rivolte populiste, scrivono gli aa., «sono generalmente
indice dell’insicurezza di una nazione sulla propria identità» (p. 117) e rappresentano un
moto di profonda sfiducia nei confronti dell’establishment politico. Studiarle e demistificarle può aiutare a riportare in auge la buona politica.
Marco Sioli
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Silvia Buzzelli, Marco De Paolis, Andrea Speranzoni, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia. Questioni preliminari, Torino, Giappichelli, XI-316 pp., € 25,00
Il libro affronta alcune delle questioni correlate alla più recente stagione dei processi
svoltisi in Italia per crimini di guerra commessi dai tedeschi sulle popolazioni italiane
dopo l’8 settembre 1943.
Silvia Buzzelli, docente di procedura penale europea alla Bicocca, nel suo capitolo Giudicare senza necessariamente punire, ripercorre le varie soluzioni per rendere giustizia dopo
crimini efferati (modello punitivo, riconciliativo, amnistia), analizzando le obiezioni che già
investirono il processo di Norimberga – trattarsi cioè di «giustizia dei vincitori». L’a. rileva
come in realtà ben presto gli sconfitti riemersero potenti sul piano politico, a causa della
guerra fredda, e furono capaci di affossare il «progetto Norimberga» (p. 23). Sottolinea inoltre il valore di verità degli attuali processi: la sua funzione riparatrice, per le vittime, mette in
secondo piano, «fino a divenire marginale, l’aspetto risarcitorio» (p. 53).
De Paolis, pubblico ministero presso il Tribunale militare di Roma e protagonista
dell’attuale stagione processuale, nel suo capitolo La punizione dei crimini di guerra in Italia ricostruisce dal punto di vista storico-giuridico le varie fasi processuali: dal dopoguerra
al 1994, con pochi processi celebrati; dal 1994 al 2002, con una lenta ripresa dopo il
ritrovamento dei fascicoli di indagine illegittimamente archiviati nel 1960 dall’allora procura generale militare; dal 2002 a oggi, con numerosi processi anche per le grandi stragi
(Sant’Anna di Stazzema e Monte Sole, innanzi tutto). Al saggio sono allegate utili schede
nominative su tutti i processi celebrati. L’a. sottolinea l’evoluzione del diritto penale in
tema di crimini di guerra, anche per gli stimoli offerti alla magistratura dai contributi
degli storici che si sono occupati della «guerra ai civili»: rispetto alla cultura giuridica
prevalente subito dopo la fine del conflitto, la sua linea è stata quella di ampliare la ricerca
dei responsabili a tutti coloro «con un significativo incarico di comando alle operazioni
militari che determinarono come effetto finale il massacro di centinaia di persone civili
non belligeranti. […] Un principio moderno […] che cancella definitivamente quella
odiosa e ipocrita deresponsabilizzazione del militare visto come una specie di automa che
deve sempre e soltanto obbedire ciecamente agli ordini del superiore» (pp. 127-128).
Andrea Speranzoni, del foro di Bologna, avvocato di parte civile in alcuni dei processi celebrati, affronta nel suo saggio Problematiche relative alle parti eventuali nei processi
italiani per crimini di guerra le questioni poste dalla costituzione di parte civile, e in particolare la richiesta di risarcimenti alla Repubblica federale tedesca (ritenuta inammissibile
da una sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja del 3 febbraio 2012, che
ha ribadito il principio dell’immunità giudiziaria degli Stati). L’a. sottolinea il valore catartico che assumono le testimonianze rese dalle vittime al dibattimento: una «restitutio
memoriae» che trasforma il lutto privato in memoria pubblica (p. 195).
Paolo Pezzino
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Ion Cârja, Ion Aurel Pop, Un italiano a Bucarest: Luigi Cazzavillan (1852-1903), Roma,
Viella, 248 pp., € 30,00
Il volume traccia la biografia di Luigi Cazzavillan, un personaggio poco noto in Italia,
ma molto importante per lo sviluppo dell’opinione pubblica e della stampa in Romania.
Cazzavillan – nato ad Arzignano, nel Vicentino, nel 1852 – è ricordato soprattutto per aver
fondato nel 1884 quello che a buon diritto può essere considerato il primo quotidiano moderno romeno, «Universul». Pur trattandosi di una personalità ritenuta di un certo rilievo in
Romania, tanto da essergli intitolato un parco a Bucarest, questo di Cârja e Pop è il primo
studio sistematico dedicato a Cazzavillan, finora oggetto di trattazioni concentrate per lo
più sulla sua esperienza di patriota o sulla sua condizione di emigrato in Romania.
I due aa. partono dall’esperienza di Cazzavillan come volontario garibaldino nella
terza guerra di indipendenza e nel conflitto franco-prussiano, passando poi alla partecipazione alle lotte nei Balcani tra il 1876 e il 1878. La narrazione di questa fase della
vicenda biografica ha il pregio di non eccedere nei toni encomiastici talora presenti nella
storiografia romena dedicata al periodo risorgimentale. I motivi che spinsero Cazzavillan
a impegnarsi nelle lotte di Serbia e Romania contro l’Impero ottomano vengono, infatti,
individuati non solo nella sua propensione a sostenere i popoli oppressi, ma anche nel
tentativo di andare a «cercar fortuna», il che non sorprende se si considera che il Veneto
era uno dei principali bacini dell’emigrazione dall’Italia nella seconda metà dell’800.
La parte più corposa del volume è dedicata al periodo romeno e all’opera di imprenditore editoriale, che si rivela l’aspetto più interessante e meno studiato della vicenda. È
ciò a rendere Cazzavillan diverso dagli altri patrioti italiani trasferitisi in Romania. Due
testate da lui fondate negli anni ’80 svolsero un ruolo particolarmente importante: «Fraternitatea italo-română» e «Universul». La prima rientrava nel filone delle pubblicazioni
bilingue o dedicate all’amicizia tra paesi, un’amicizia avvertita come particolarmente stretta con l’Italia, il cui percorso verso l’unità nazionale era per molti versi parallelo a quello
romeno. L’elemento di novità del periodico era il taglio moderno, interessato soprattutto
all’evoluzione politica internazionale, un segnale rivelatore della sensibilità di Cazzavillan
nel comprendere le esigenze dell’opinione pubblica. Ma il salto di qualità è senz’altro
rappresentato da «Universul». La dettagliata ricostruzione dell’attività del giornale nel suo
primo ventennio di vita fa emergere la capacità del suo fondatore di dar vita a un vero e
proprio quotidiano di massa, con prezzo basso, alta tiratura, una grafica accattivante (è il
primo a usare le Lynotipe per la composizione tipografica) e una scelta delle notizie sempre attenta alle esigenze dell’opinione pubblica, come dimostra l’impegno finanziario di
Cazzavillan per assicurarsi un corrispondente dalla Francia durante il caso Dreyfus.
Dal volume emerge quindi soprattutto la figura di un abile imprenditore, capace di
utilizzare innovazioni tecnologiche e tendenze giornalistiche all’avanguardia per adattarle
alla realtà di un paese in trasformazione.
Emanuela Costantini
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Roberto Carocci, Roma sovversiva. Anarchismo e conflittualità sociale dall’età giolittiana al
fascismo (1900-1926), Roma, Odradek, 349 pp., € 24,00
Nonostante l’assenza di un solido tessuto industriale e di una classe operaia coesa, si
poteva sospettare che la Roma a cavallo fra i due secoli, figlia dell’espansione demografica
e urbana derivante dall’edificazione della città capitale, fosse comunque – e a dispetto di
certe apparenze – una realtà tutt’altro che pacificata, brulicante di inquietudini sociali
e di potenzialità sovversive. Episodi come quelli dei gravi scontri di piazza Santa Croce
in Gerusalemme del 1° maggio 1891, ricostruiti in un lontano e significativo articolo di
Luciano Cafagna del 1953, ne avevano del resto offerto una tangibile testimonianza. Al di
là di alcuni notevoli affondi episodici come quello di Cafagna, mancava però sul tema un
organico studio di insieme. Il documentato volume di Carocci, rielaborazione di una tesi
di laurea, contribuisce a colmare questa lacuna, ripercorrendo le vicende delle classi subalterne romane dagli anni di fine secolo fino al consolidarsi della dittatura fascista. Centro
di attrazione di un proletariato sradicato e fragile, fatto di mille e stratificati mestieri,
spesso in bilico fra lavoro e disoccupazione, la Roma di inizio secolo, come illustra l’a.,
si prestava per caratteristiche proprie a meglio favorire la crescita politica del movimento anarchico rispetto a forze che si richiamavano all’approccio socialista. Il movimento
libertario rimase così a lungo una presenza ragguardevole della vita sociale della capitale:
dal vivace reticolato di circoli politici d’età giolittiana, passando per le vicende e i successi
dell’anarcosindacalismo, fino all’esperienza degli Arditi del popolo, in cui gli anarchici
giocarono un ruolo determinante e che proprio a Roma e nei suoi quartieri popolari ebbe
il proprio centro d’irradiazione. Ma proprio i parziali successi dell’arditismo popolare, che
fecero di Roma una delle poche città italiane capaci di resistere con efficacia allo squadrismo, furono l’ultimo significativo atto del lungo ciclo espansivo dell’anarchismo romano
che con l’avvento del fascismo finì rapidamente per essere ridotto all’inazione.
Assai documentato, attraverso un sistematico spoglio delle fonti d’archivio e della
stampa anarchica, il libro si presenta scritto in maniera fluida e chiara, soprattutto se
si considera che siamo di fronte alla monografia di esordio di un giovane autore. Non
manca nel testo una sufficiente sensibilità alle ragioni della storia sociale, con richiami alla
particolarità del tessuto socio-economico romano e alle specifiche condizioni materiali
dei suoi lavoratori. Interessante ancora è il recupero di tutta una serie di rilevanti figure
minori che animarono la scena del locale anarchismo e ne testimoniano al contempo la
matrice fortemente e schiettamente popolare. Qualcosa si sarebbe forse potuto pretendere
da questo lavoro anche sul terreno dell’analisi culturale, approfondendo la peculiare mentalità, nonché le modalità di ricezione dell’ideale anarchico, dei militanti di questa ricca e
singolare colonia, a oggi poco conosciuta, di quella galassia geograficamente e socialmente
composita che fu l’anarchismo italiano.
Marco Manfredi
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Bruno Cartosio, I lunghi anni Sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti, Milano, Feltrinelli, 396 pp., € 25,00
In questo volume, bello e denso, Cartosio comincia dalla «fine», dalle elezioni del
primo presidente nero nel 2008. Non sostiene come T. Hayden (The Long Sixties. From
1860 to Barack Obama, 2009) che l’elezione di Obama non sarebbe stata possibile senza
i «Sixties», ma per lui i temi che vi hanno condotto – discriminazione razziale e sessuale,
sperequazioni sociali, ruolo di grande potenza degli Stati Uniti e loro rapporto con la
guerra – sono gli stessi che i movimenti sociali sollevarono negli anni ’60, avviando la
società americana al cambiamento. Il volume è ricchissimo e non facile perché intreccia
eventi e memorie, dibattiti coevi e discussioni storiografiche attuali in una narrazione diacronica che considera gli anni ’60 un «contenitore» troppo stretto per capire e interpretare
i mutamenti del decennio che prende avvio dalle battaglie per i diritti civili a metà anni
’50 per arrivare alla sconfitta nel Vietnam.
Ci sono dunque le battaglie desegregazioniste negli Stati del Sud, i sit-in dello Student
non Violent Coordinating Committee e l’esperienza della Student for a Democratic Society,
la guerra fredda culturale, le contraddizioni di Johnson, Martin Luther King e la Southern
Christian Leadership Conference, la parabola della controcultura, fino ai movimenti delle
donne – la National Association of Women e lo Women’s Liberation Movement. Ma ci sono
anche i movimenti contro la guerra, le alterne vicende della New Left e i movimenti che si
sviluppano negli anni ’70: ambientalisti, gay, ispanici, nativi, dei consumatori. Mai semplificate, le loro storie vengono scavate servendosi di una quantità e diversità di fonti che fanno
del volume molto più di una storia culturale di quel periodo. Cartosio non «abbraccia» mai
tesi storiografiche consolidate, ma ne elabora di nuove e originali. Se con S. Whitfield (How
the Fifties became the Sixties, 2008) indica una continuità con gli anni ’50 – il decennio della
prosperità e degli alti standard di vita, ma non di libertà personale, autonomia, uguaglianza,
inclusione –, amplia il discorso introducendo con forza l’esperienza delle lotte operaie e il
ruolo dello Stato nella repressione e il declino dei movimenti. L’a. critica infatti gli studi che,
pur tentando una visione d’insieme, non riescono a inserire la «crescente “propensione alla
violenza” dei movimenti tra fine anni Sessanta e i primi anni Settanta» (p. 307) nel quadro
della politica repressiva messa in atto dal governo americano. Di grande interesse il capitolo
Beat, hippie e controcultura in cui l’a. analizza i tre fenomeni nell’ambito di una più ampia
analisi della questione giovanile maturata negli anni ’50, sempre tenendo fede all’obiettivo,
pienamente raggiunto, che permea il volume: intersecare il piano del reale e quello del simbolico mantenendoli distinti.
Il volume di Cartosio e la sua tesi forte – i movimenti come aspetto fondante della
democrazia americana – portano un contributo di grande rilievo non solo alla storia dei
Sixties, ma a quella dell’intero dopoguerra. Il discorso di Obama in occasione del suo secondo giuramento (gennaio 2013), con la forte attenzione su donne, giovani, minoranze
etniche, gay, rafforza le premesse del volume.
Elisabetta Vezzosi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Elisabetta Cassina Wolff, L’inchiostro dei vinti. Stampa e ideologia neofascista 1945-1953,
Milano, Mursia, 394 pp., € 18,00
Dal primo pionieristico saggio di Piero Ignazi, Il polo escluso (il Mulino, 1988), la
considerazione del neofascismo come oggetto di ricerca storiografica, e non come fenomeno deleterio da esecrare, ha compiuto notevoli progressi, favoriti anche dallo scioglimento
del Msi e poi dalla malinconica deriva di Alleanza nazionale. Ormai non c’è più il rischio
di legittimare nessuno analizzando in modo attento e pacato, come fa Elisabetta Cassina
Wolff, il dibattito che impegnò i sopravvissuti della Rsi tra la fine della guerra e le elezioni
politiche del 1953, che videro il primo rilevante radicamento del partito della Fiamma.
E si può serenamente convenire con l’autrice circa la vitalità della discussione che allora
si dipanò su periodici come «La Rivolta Ideale», «Meridiano d’Italia», «Asso di Bastoni»,
«Fracassa», «La Sfida», «Nazione Sociale» e «Imperium». Esagerato appare invece sostenere
che l’ideologia neofascista dimostrò «una notevole capacità d’influire sul dibattito politico
del tempo» (p. 269). Innanzitutto, come sottolinea la stessa a. è difficile parlare di una
visione unitaria: si manifestarono, piuttosto, modi assai diversi di concepire il fascismo
nell’intento di farne sopravvivere gli ideali dopo la sconfitta. C’era un abisso tra il «socialismo nazionale» della sinistra missina, alla ricerca di una terza via tra comunismo e capitalismo, e la «rivolta contro il mondo moderno» del filosofo tradizionalista Julius Evola
e dei suoi giovani seguaci, nemici irriducibili della società di massa in quanto tale. In secondo luogo, la discussione rimase racchiusa entro i confini dell’ambiente nostalgico, con
scarsi spiragli d’interlocuzione esterna. Né i comunisti, quando cercarono d’intavolare un
dialogo con i missini in funzione antiborghese e antiamericana; né i moderati, quando si
sforzarono di assorbirli in un blocco d’ordine nella prospettiva di una svolta a destra, mostrarono di prendere sul serio le idee elaborate dagli epigoni della Rsi. D’altronde le stesse
scelte politiche del Msi finirono per prescindere largamente dalle controversie ideologiche
interne a quel mondo. Figure come Concetto Pettinato e Giorgio Pini, alle cui posizioni
l’a. dà un gran rilievo, vennero presto emarginate. Lo stesso Giorgio Almirante si richiamò alle idee della sinistra missina in una logica prevalentemente strumentale. Il fatto è che
l’unico ruolo a disposizione per un Msi che non volesse ridursi a pura testimonianza era
quello di fungere da sponda per la destra conservatrice e cattolica, all’incontro con la quale non ci si poteva certo presentare con il linguaggio anticapitalista della socializzazione di
Salò. Ne scaturì, dopo il 1953, la graduale ma stabile affermazione di un segretario come
Arturo Michelini, che al dibattito studiato in questo libro rimase sempre estraneo.
Antonio Carioti
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Adriana Castagnoli, Essere impresa nel mondo. L’espansione internazionale della Olivetti
dalle origini agli anni Sessanta, Bologna, il Mulino, 267 pp., € 20,00
Esce un nuovo titolo della «Collana di studi e ricerche dell’Associazione Archivio
storico Olivetti» che porta avanti la sua ambizione a trarre spunti per guardare il presente
dalla storia Olivetti: in questo caso si tratta della sua strategia multinazionale. Il libro
corrisponde a una ricerca svolta dall’a. su una documentazione in gran parte nuova, da
cui emergono dettagli più precisi circa la vocazione internazionale dell’azienda di Ivrea,
vocazione qui stilizzata in fasi successive.
La prima ne sottolinea la precocità: come è noto, la decisione di Camillo Olivetti
di investire all’estero matura già nell’immediato primo dopoguerra e si irrobustisce durante gli anni ’30, in piena grande depressione. L’a. approfondisce questa fase di internazionalizzazione nelle sue diverse direzioni geografiche e modalità, e lo fa soprattutto a
partire dal carteggio di Camillo conservato nell’Archivio storico Olivetti, ma anche nei
documenti della Banca Commerciale italiana e della Banca d’Italia, che riguardano in
particolare il dipanarsi dell’intreccio tra la Underwood Italiana (1930), Comit-SofinditIri, con un coinvolgimento, mancato, dello stesso Camillo Olivetti nel 1935 (pp. 70-76).
La seconda riguarda invece il salto di qualità che l’impegno estero Olivetti registra, con
Adriano, tra la ricostruzione e l’istituzione del Mec: nel periodo 1946-1958 gli insediamenti produttivi in altri paesi diventano 5, su un totale di 19 sedi estere, mentre «la più
importante esperienza […] prende forma nel 1950 […] creando la Olivetti Corporation
of America, con sede a New York» (p. 142). L’investimento diretto negli Usa compensa il
declino delle esportazioni nei mercati sudamericani, insieme alle nuove attività accese, oltre che in Europa, in Messico e in India. Anche in questa fase c’è un’esplorazione mancata
ma interessante: l’ipotesi di una joint venture con il governo israeliano (pp. 168-173), in
un paese che si progettava come la «Svizzera del Medioriente», ossia centro di produzione
ed esportazione in Asia e Africa, ma che conosceva anche una già avanzata sperimentazione sull’elettronica: è il 1959, e allo stesso anno risale la vicenda dell’acquisizione, qui
ricostruita in dettaglio, della Underwood americana da parte della Olivetti di Adriano.
La terza fase e ultima parte del volume si concentra infatti sull’ingresso della Olivetti nel
settore dell’elettronica, ma soprattutto sulla cessione della divisione elettronica Olivetti
alla General Electric Company nel 1964, quattro anni dopo la improvvisa scomparsa di
Adriano Olivetti. Le discusse circostanze di questa cessione sono ricostruite dall’a. sulla
base di nuovi documenti trovati nell’archivio Ge (Schenectady Museum Archives) e sono
valutate criticamente in sede di postfazione.
Le acquisizioni di conoscenza offerte dal libro si accompagnano allo sforzo di incorniciarle, oltre che nella storia del commercio italiano, soprattutto nella letteratura più
recente degli international business studies, facendo leva sui diversi strumenti interpretativi
di questi stessi studi, specie nell’analisi dell’evoluzione delle motivazioni alla internazionalizzazione.
Roberta Garruccio
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Matteo Ceschi, Tutti i colori di Obama. L’altra storia delle elezioni americane, Milano,
FrancoAngeli, 166 pp., € 22,00
La monografia di Ceschi propone una galleria di personalità afro-americane che dal
1968 hanno concorso alla presidenza degli Stati Uniti. In particolare, sono esaminate le candidature del comico Dick Gregory per il Peace and Freedom Party nel 1968, della rappresentante di New York alla Camera federale Shirley Chisholm nelle primarie democratiche
del 1972 e del pastore battista Jesse Jackson per la nomination del Partito democratico nel
1984 e nel 1988. Tutti e quattro i tentativi furono infruttuosi, ma costituirono nondimeno delle occasioni di rottura rispetto alla precedente marginalità degli afro-americani nelle
elezioni presidenziali e rappresentarono quindi un avvicinamento all’instaurazione di quella
politica post-razziale che ha condotto Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008.
Per politica post-razziale viene generalmente inteso il superamento della centralità
delle rivendicazioni precipue della comunità nera nella stesura dei programmi elettorali
dei candidati di colore, come è accaduto proprio nel caso di Obama sia nel 2008 sia nel
2012. Il lettore, pertanto, si chiede come possa essere considerato un candidato postrazziale Gregory, che promise di «dipingere la Casa Bianca di nero» (p. 23) qualora fosse
stato eletto alla presidenza. Purtroppo il libro non si preoccupa di approfondire i contenuti della principale categoria interpretativa che adotta, adombrando che post-razziale
possa significare più semplicemente l’irrompere degli afro-americani sulla scena politica
nazionale. Tale prospettiva, però, rende incompleto e parziale il quadro dei candidati neri
passati in rassegna perché omette le campagne di Charlene Mitchell – la fondatrice del
Che-Lumumba Club – per il Partito comunista nel 1968, del governatore della Virginia
Douglass Wilder nelle primarie democratiche del 1992 e di Cynthia McKinney per il
Green Party nel 2008.
Inoltre la narrazione procede in modo cronachistico senza un confronto significativo
con la storiografia e la politologia sull’esperienza politica degli afro-americani. L’emergere
delle candidature di esponenti della comunità nera e il progressivo superamento della linea
del colore, per esempio, avrebbero dovuto essere messi in relazione alla diminuzione della
rilevanza della questione razziale come determinante del voto nelle elezioni presidenziali a
partire dalla fine degli anni ’60 del ’900 (cfr. David G. Lawrence, The Collapse of the Democratic Presidential Majority, Boulder, Westview Press, 1996, in particolare pp. 68-70).
Docente di storia del giornalismo, l’a. cade in una specie di deformazione professionale che lo porta a utilizzare come fonti documentarie quasi esclusivamente la stampa
quotidiana e periodica, oltre a qualche autobiografia dei candidati. Tuttavia appare per lo
meno velleitario che si possa ambire a studiare Shirley Chisholm senza prendere in considerazione gli Shirley Chisholm Papers, depositati da tempo presso la Rutgers University. Il
risultato della ricerca è così un lavoro divulgativo, più descrittivo che analitico, che riesce
comunque a introdurre a un pubblico italiano di non specialisti alcuni dei predecessori di
Obama nella politica americana.
Stefano Luconi
i libri del 2012 / 1 - monografie
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John Champagne, Aesthetic Modernism and Masculinity in Fascist Italy, New York, Routledge, 221 pp., $ 130,00
Il libro rientra in un filone di studi anglosassoni di taglio culturalista sviluppati
da storici dell’arte e della letteratura che con troppa disinvoltura analizzano il fascismo
attraverso interpretazioni talvolta bizzarre di quadri e romanzi. Sin dalle prime pagine
l’a. afferma che le statue dei marmi sono un’espressione di feticismo anale, di corpi che si
offrono allo sguardo come le prostitute in vetrina, mentre le raffigurazioni di nudo maschile sono evidenti espressioni di omoerotismo, perché «we might note that the naked
buttocks are a source of pleasure for both men and women» (p. 4). Un eccesso di psicanalisi e decostruzionismo, combinati con il materialismo storico e la teoria queer, alimenta
la convinzione di poter cogliere i veri significati celati dietro le apparenze, finendo di fatto
per sovrainterpretare i testi presi in esame e rendere ancora più fumosa l’analisi. Secondo
l’a. le contraddizioni del capitalismo, dovute alla necessità di favorire sia la produzione sia
il consumo, rendono la mascolinità fascista continuamente in bilico tra esibizione di un
corpo ipervirile e fascinazione omoerotica per quest’immagine dell’uomo, oggetto come
le donne di sguardi e desideri. Insomma, la contemplazione erotica del corpo maschile
favorisce la sua femminilizzazione e la diffusione dell’«omofascismo». La rappresentazione del pene e dell’ano simboleggiano questa compresenza nell’uomo fascista di una
mascolinità attiva e una femminilità passiva e l’ambivalenza tra sessismo e omosessualità, omofobia e omoerotismo. Le opere artistiche, letterarie e musicali sono l’ambito nel
quale si esprimono e si risolvono queste contraddizioni e i quadri di De Pisis, Carrà e
Janni, le composizioni di Castelnuovo-Tedesco, i testi di Pirandello e i romanzi di Bassani
sono gli esempi di questa ibrida mascolinità. Il rischio di tale approccio è però quello di
cancellare il fascismo, sia perché se ne sottovaluta l’essenza politica, sia perché solo con
molta fantasia si può pensare che l’Enrico IV di Pirandello abbia a che fare con l’intento di
distruggere la mascolinità fascista, mettendo in scena il desiderio di «deconstruct phallic
subjects» (p. 70).
Risulta invece apprezzabile il sottolineare le molteplici caratterizzazioni della mascolinità e l’eclettismo del fascismo, con la sua capacità di adoperare diversi linguaggi espressivi, coniugando modernità e tradizione. Anche da questo punto di vista sarebbe stato
però opportuno far più attenzione a non dare lo stesso peso a correnti e opere che hanno
avuto un impatto assai diverso sulla cultura e sull’immaginario del tempo. Interessante è
infine l’idea di un utilizzo artistico dell’omosessualità, dissimulata abilmente nei testi, per
muovere in realtà una critica all’eteronormatività e al fascismo.
L’approccio di genere utilizzato per interpretare opere artistiche, letterarie e musicali
è comunque originale e meritevole di essere sviluppato; però con un’attenzione alla concretezza e alla specificità del fatto storico maggiore di quanta non ne mostri l’a., che parte
dal presupposto che fascismo e modernismo estetico non siano fenomeni circoscritti nel
tempo e nello spazio ma «cultural logics» ancor oggi operanti.
Lorenzo Benadusi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Danilo Ciampanella, Senza illusioni e senza ottimismi. Piero Gobetti. Prospettive e limiti di
una rivoluzione liberale, Roma, Aracne, 336 pp., € 15,00
L’a. del volume è studioso di storia della filosofia politica alla prima pubblicazione di
rilievo e si propone di rintracciare le linee fondamentali della teoria politica di Piero Gobetti come emergono dai suoi scritti. Per lui l’antifascista torinese è il «teorico dell’intransigenza e dell’individualismo, della competizione intesa come unico strumento atto sia al
miglioramento del singolo […] sia dei gruppi sociali antagonisti che misurano sul piano
effettuale la loro capacità di guidare in una determinata fase storica una data società»; ma
a giudizio dell’a. egli è pure il teorico della politica intesa come dimensione totale dell’esistenza pubblica, come attività che mira a «ricomprendere in sé il dinamico svolgersi delle
forze economiche e sociali senza soffocarne le spinte autonomiste, senza sovrapporsi a
esse, ma aderendovi e, allo stesso tempo, sollevandole al di sopra di sé medesime, dando
loro voce, fornendone espressione generale, sintetica». In questo senso il pensiero di Gobetti può dirsi propriamente liberale e rivoluzionario: «rivoluzionario perché si alimenta
delle iniziative autonome dal basso che trovano il loro limite nella lotta politica stessa,
ma liberale perché crede nelle forme giuridico istituzionali dello Stato borghese – e cioè
nella divisione dei poteri, nella funzione del Parlamento e nell’esercizio di voto – nelle
quali quel primo impulso rivoluzionario» può essere assorbito e risolto dialetticamente,
valorizzandolo e non sopprimendolo (pp. 176-179).
Ciampanella si sofferma sugli studi di Piero Gobetti relativi al Risorgimento, sui
suoi rapporti con Salvemini, Einaudi e Croce da un lato, Gramsci e il gruppo dell’«Ordine Nuovo» dall’altro. In questo senso l’a. muove dalle tematiche «classiche» degli studi
sullo scrittore politico, ma intende pure offrire di lui e della sua funzione storica una
lettura fortemente attualizzata, vedendo nell’antifascista torinese l’espressione di tensioni
non ancora risolte nei processi di trasformazione delle società contemporanee. In questo senso, nel suo volume, Ciampanella compie nei confronti di Gobetti, come osserva
Marco Scavino presentando il libro, l’operazione che in genere viene riservata ai «classici»
del pensiero politico, quegli autori «ai quali si continua a porre delle domande anche a
prescindere dal contesto in cui essi vissero e operarono, che vengono riletti e reinterpretati
come fossero sempre attuali, che ogni generazione di intellettuali riesce in qualche modo a
far sua, proprio per la loro capacità di dirci qualcosa sul mondo in cui viviamo» (p. 19).
Un po’ carente è la bibliografia e ad alcuni temi (i teorici della questione meridionale, i Consigli di fabbrica ecc.) l’a. dedica una trattazione specifica assai più ampia di quel
che richiederebbe la comprensione del pensiero gobettiano. In questo senso, a tratti, il
libro sembra risentire del lavoro di tesi da cui deriva.
Bartolo Gariglio
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Salvatore Cingari, Un’ideologia per il ceto dirigente dell’Italia unita. Pensiero e politica al
liceo Dante di Firenze (1853-1945), Firenze, Olschki, 502 pp., € 42,00
Da alcuni anni l’archivio del Liceo «Dante» di Firenze è stato inventariato e la monografia dedicatagli da Salvatore Cingari ci consegna uno studio ampio e articolato che
focalizza «i processi di costruzione di saperi comuni e opinioni “medie” alla base della
pedagogia politica unitaria» (p. 10).
Da sempre la storia della scuola può fungere da cartina di tornasole per studiare fenomeni che appartengono non solo al mondo della formazione e dell’educazione, ma più
in generale alla costruzione del consenso e della cultura, e la scelta di Cingari, poco praticata dagli storici della scuola, appare estremamente interessante. Il ginnasio-liceo non
rappresenta infatti solo una costruzione culturale dell’Italia nuova, ma anche il tentativo
e il timore di una rivisitazione di una tradizione che affondava nei secoli precedenti la sua
legittima esistenza. Oltre alla bellezza dei documenti scelti e riportati nel testo si segnala
la singolare prospettiva di veder studiati fondi solitamente riservati alla storia della scuola
in un contesto nuovo come quello della storia delle ideologie.
Il lavoro si estende dal 1853, anno di fondazione del Liceo fiorentino, al 1945 e
una prospettiva interessante è quella di valutare come il pensiero politico che giunge
al «Dante» (attraverso documenti ufficiali e non ufficiali) si traduca in un pensiero che
talvolta rivisita e talvolta riporta fedelmente la lectio ufficiale: le lezioni, i libri di testo e
le dichiarazioni dei docenti, non meno dei timori legati all’associazionismo studentesco
(che nella scuola avrebbe potuto trovare forme di collaborazione con un pensiero politico
democratico e in opposizione all’ideologia che si voleva dominante), fa della storia della
scuola un punto di vista privilegiato per la storia della cultura.
Si segnala, infine, il grande impianto documentario del volume, non esclusivamente
circoscritto al solo Archivio del Liceo «Dante», ma arricchito anche da materiali conservati presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma, e diverse fonti a stampa. A questo si
aggiunge una ricca bibliografia, certamente indispensabile per affrontare un tema che si
pone al crocevia di numerose aree disciplinari.
Cristina Sagliocco
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Simona Colarizi, Marco Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della seconda repubblica,
Roma-Bari, Laterza, 276 pp., € 18,00
È già tempo di scrivere la storia della seconda Repubblica? Il volume di Colarizi e
Gervasoni dimostra che questa avventura può quantomeno essere iniziata. Ovviamente
non c’è negli aa. la presunzione di fornire una ricostruzione definitiva, ma questo nulla
toglie non solo all’utilità del loro lavoro, ma anche a un impianto che non è affatto «cronachistico», anche se è preciso nel fornire il filo degli avvenimenti. La vicenda copre l’arco
1989-2011, anni che quasi tutti hanno ben in mente, anche se penso che a leggere queste
pagine scopriranno che quando si ha davanti la ricostruzione consecutiva e complessiva
si colgono aspetti che nel tumulto degli eventi erano quasi sfuggiti. La cosa più eclatante
è che il libro ricorda come nel 1991-1992 si discutesse delle stesse cose che ci affannano
oggi. Vent’anni passati invano? L’assai equilibrata visione dei due aa. (e la loro mancanza
di furori ideologici di parte è un merito non piccolo) non si lascia affascinare da giudizi
onnicomprensivi, ma i materiali che ci mettono sotto gli occhi fanno sorgere qualche
preoccupata riflessione sulla ostinata viscosità dei nostri problemi e su una altrettanto
ostinata miopia delle nostre classi politiche per un ventennio alla ricerca per essi di una
soluzione «facile».
Certo fa una qualche impressione ripercorrere il tumulto di questi vent’anni che registra davvero una crisi di sistema. Infatti a colpire non è tanto il cambiamento dei singoli
partiti, il sorgere di nuove formazioni, con rapporti a volte allentati, a volte inesistenti col
quadro pregresso, bensì il fatto che quello che era un «sistema dei partiti» che si trasmetteva a tutta la società non è stato in grado di lasciare il posto a qualcosa di diverso, ma pur
sempre «sistemico». Al contrario questa seconda Repubblica appare come un continuo
farsi e disfarsi di «amalgame» mal riuscite. La metafora della «tela di Penelope» è da questo
punto di vista assai azzeccata, sebbene non si veda chi sia l’Ulisse che si attende.
Forse sarebbe necessario aggiungere che il «Godot» che tutti aspettavano e annunciavano come «risolutore» dei nostri guai non era tanto un uomo, quanto un vero e proprio
deus ex machina: una legge elettorale che, miracolosamente, avrebbe costretto il paese
a trovare quell’equilibrio e quella capacità di far fronte al proprio futuro che la classe
politica era incapace di dargli. Ovviamente, e le pagine acute di Colarizi e Gervasoni lo
ricostruiscono bene, né i presunti leader carismatici né quelli partoriti dalle «macchine di
scena» (elettorali) sono stati in grado di fare il miracolo, mentre invece, e anche questo è
documentato con intelligenza, mutavano pelle le istituzioni della Repubblica: a cominciare dal ruolo del capo dello Stato, passando per la marginalizzazione del Parlamento
(non per caso lasciato alle «nomine» dei partiti), per la magistratura, per finire al presunto
federalismo che, come vediamo oggi anche troppo bene, più che imporre le virtù della
periferia sul centro corrotto, ha ottenuto esattamente l’esito contrario.
Paolo Pombeni
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Fausto Colombo, Il paese leggero. Gli italiani e i media tra contestazione e riflusso, RomaBari, Laterza, 300 pp., € 22,00
Fausto Colombo è un sociologo della comunicazione che qui ripercorre due decenni
cruciali della storia italiana, gli anni ’70 e ’80, attraverso un’analisi trasversale e approfondita dei media: televisione, radio, cinema, editoria, stampa, fumetto. L’intento, ambizioso, è quello di ricostruire l’immaginario collettivo di quei decenni, individuandone
continuità e rotture, contraddizioni e limiti, ma soprattutto i lasciti che hanno permeato
l’era del cosiddetto berlusconismo.
L’originalità della proposta risiede in due elementi principali: da un lato, le coordinate
temporali che l’a. suggerisce rispettivamente per gli anni «dell’utopia e della disillusione»
e per quelli «del sogno e dell’incubo»; dall’altro, il taglio interpretativo che offre. Iniziati
nel 1967, con le prime proteste universitarie, il suicidio di Tenco al Festival di Sanremo e
l’uscita di Lettera a una professoressa dei ragazzi di Barbiana, gli anni «della contestazione,
della partecipazione, della letterarietà di massa e della pulsione all’espressione di sé» (p.
114) si conclusero, secondo l’a., nel 1977, anno che vide saldarsi «le ultime espressioni
della creatività rivoluzionaria e i tic autodistruttivi della sinistra, i primi risultati di una
politica riformista della cultura e le nuove istanze dell’industria dell’intrattenimento» (p.
116). È poi «nel nome di Aldo Moro» che Colombo fa partire il decennio ’80, nel segno
cioè di una tragedia umana e politica analoga a quella che nel 1992 lo concluse, ovvero le
stragi di mafia di Capaci e via D’Amelio.
Già la prospettiva cronologica suggerisce una parziale rilettura dell’interpretazione
tradizionale di questi due decenni. Il primo, «condannato alla brutale definizione di anni
di piombo», vide invece una moltiplicazione di voci, istanze, soggetti comunicativi, volontà di partecipazione che costituì «una sperimentazione non del tutto inutile, non del
tutto esaurita con la propria sconfitta» (p. 107). Quel desiderio di partecipare, di «dire la
propria» altro non fu, infatti, che l’altra faccia dell’individualismo degli anni ’80 e pose
le basi di quelle forme partecipative e di mobilitazione spontanea presenti ancora oggi,
specie fra i giovani. Allo stesso modo gli anni ’80, quelli della «Milano da bere» del celebre
spot, quelli che l’ottimismo craxiano sintetizzava con l’espressione «la nave va», navigarono in realtà «fra entusiasmo e catastrofe, il primo onnipresente, enfatico, elevato a cifra del
decennio; la seconda più inavvertita nella percezione collettiva» (p. 154). Perché, al di là
del luccichio del nuovo benessere, il dolore e il lutto continuarono a essere presenti, dalle
morti per droga al flagello dell’Aids, e tanti erano i segnali (il terrorismo non del tutto
sopito, la mafia, gli scandali, la P2, la corruzione) che la «nave Italia» avrebbe prima o poi
cozzato contro il suo iceberg. È infatti al Titanic che l’a., rielaborando la metafora di Craxi, associa amaramente la vicenda italiana degli anni ’80, un decennio in cui l’ottimismo
scaturiva, più che da dati oggettivi, da «un apparato simbolico che inseguiva e coccolava
la voglia di cambiamento» degli italiani (p. 127).
Giulia Guazzaloca
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Francesca Congiu, Stato e società nella Cina contemporanea. Dalla rivoluzione all’”armonia
sociale”, Roma, Carocci, 141 pp., € 14,00
In questo suo lavoro, agile ma denso di contenuti, Francesca Congiu ci conduce
lungo il percorso che la Cina ha compiuto in questi decenni, a partire dall’avvio del processo di «modernizzazione» ispirato da Deng Xiaoping con la fine degli anni ’70 e sino
ai giorni nostri, alla vigilia dello svolgimento del XVIII Congresso nazionale del Partito
comunista cinese (Pcc), poi tenutosi nel novembre 2012. Il tema centrale del volume è il
rapporto tra Stato e società, così come è andato configurandosi in Cina lungo un arco di
tempo relativamente breve (gli ultimi decenni), ma complesso e assai ricco di eventi. Il
primo capitolo appare essenzialmente come introduttivo al cuore del volume: in esso, si
ripercorrono le tappe principali che la Cina tardo-imperiale, repubblicana e poi «maoista»
ha compiuto tra metà ’800 e gli anni ’70 del ’900, dando vita – come scrive Congiu – a
un sistema socio-politico segnato da «frammentazione e autonomismi» (p. 16) il quale
venne poi sottoposto a partire dal 1949, per vari aspetti, a una «trasformazione radicale
delle strutture sociali ed economiche» (p. 31).
I capitoli successivi (2, 3 e 4) si focalizzano, come già indicato, sugli ultimi decenni.
Vengono individuati gli elementi di discontinuità ma anche di continuità tra periodo
delle riforme e fase maoista, gli sforzi finalizzati a una istituzionalizzazione del sistema
politico, la ricerca di una nuova identità politica che segue la tragica «crisi della primavera del 1989». Tale ricerca porterà, con Jiang Zemin, all’avvento della cosiddetta «terza
generazione» di leaders, alla «ristrutturazione del settore pubblico» dell’economia e alla
riconfigurazione del rapporto partito-classe operaia (capitolo 3, in particolare pp. 90-94),
e all’affermarsi della teoria delle «tre rappresentanze» quale simbolo del cambiamento in
atto nella natura e nella stessa dislocazione sociale del Pcc. Il quarto e ultimo capitolo si
concentra invece sugli elementi di crisi e di contraddizione che accompagnano nel nuovo
secolo la marcia in avanti del paese, nonché sullo sforzo da parte del Partito-Stato di tracciare le linee di un rapporto tra potere e società basato sull’«armonia», capace di «tener
conto degli interessi di tutte le forze sociali» (p. 117), ma certo non alieno, ove necessario,
da quello che l’a. definisce «il ritorno dello Stato forte».
Nell’insieme, il lavoro di Francesca Congiu appare come un utile quanto essenziale
strumento di conoscenza e di riflessione sulle trasformazioni intervenute in questi decenni in Cina, con particolare riferimento al rapporto stato-società. Se un limite può essere
sottolineato è quello della dimensione del volume: 85 pagine (capitolo introduttivo e
bibliografia esclusi) sono sicuramente poche per consentire un approfondimento effettivo
di tematiche così ampie e complesse, quali ad esempio la questione – opportunamente
accennata dall’a. (in particolare a p. 87) – dell’emergere o meno di una «classe media» in
Cina. È quindi auspicabile che Congiu possa sviluppare più a fondo in futuro tali tematiche, muovendo dal lavoro positivo svolto con questo volume.
Guido Samarani
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Flavio Giovanni Conti, I prigionieri italiani negli Stati Uniti, Bologna, il Mulino, 541
pp., € 28,00
Questo lavoro si inserisce in un filone di studi che da diversi anni sta portando a un
approfondimento degli studi sulla prigionia italiana durante la seconda guerra mondiale e
che negli ultimissimi tempi ha visto la pubblicazione di numerose ricerche incentrate sulle
esperienze di chi fu catturato dagli anglo-americani. Conti è stato un pioniere in questo
campo avendo studiato fin dagli anni ’70 i prigionieri di guerra italiani detenuti degli alleati. Con questa monografia egli sceglie di affrontare in maniera specifica le vicissitudini
dei circa 50.0000 nostri militari detenuti nel territorio degli Stati Uniti. La ricerca si basa
su un’ampia documentazione visionata presso archivi italiani, statunitensi e vaticani, su
un attento studio della stampa quotidiana e periodica edita negli Stati Uniti durante il
periodo di detenzione dei prigionieri e su un’aggiornata disamina della bibliografia e della
memorialistica.
Il volume è diviso in due sezioni. Nella prima sono affrontate le diverse questioni
generali quali l’organizzazione, le condizioni, il trattamento e il rapporto con l’opinione
pubblica statunitense e le comunità italo-americane. Nella seconda parte, invece, l’a. ricostruisce le specifiche vicende di alcuni dei principali campi dove furono reclusi i nostri
connazionali in divisa e la fase del rimpatrio.
Il lavoro affronta una vicenda complessa e ricca di sfaccettature in cui si giocarono e
incrociarono diverse partite, sia da parte statunitense, che trasse indubbi vantaggi dalla presenza di queste decine di migliaia di prigionieri di guerra utilizzati come manodopera a bassissimo costo, che da parte italiana, con il governo del Regno del Sud desideroso di far pesare
sul tavolo delle trattative di pace l’impiego di questi uomini nello sforzo bellico alleato.
Rispetto alle opere precedenti l’a. riesce a dare maggiore risalto e attenzione al vissuto dei prigionieri, catapultati dal teatro di guerra mediterraneo negli Stati Uniti, dove
ebbero la fortuna di avere un miglior trattamento, almeno da un punto di vista materiale,
rispetto agli altri loro commilitoni fatti prigionieri dalle diverse potenze belligeranti. Conti ci guida in un mosaico di storie che s’intrecciano, a cominciare dalla complessa vicenda
dell’adesione al programma di cooperazione, proposto su base volontaria a ognuno dei
prigionieri a partire dalla primavera del 1944. Sui motivi di tale adesione influirono tanti
fattori, tra i quali la contrapposizione tra fascismo e antifascismo ebbe un peso, ma fu
tutt’altro che determinante. L’a. fa comprendere efficacemente le diversità di questa esperienza a seconda dei campi, influenzata, oltre che dai diversi orientamenti dei gruppi di
prigionieri presenti, da fattori come le differenti mansioni svolte, dalla presenza o meno
di comunità italo-americane, dal ruolo della Chiesa cattolica sul territorio statunitense e
dal differente atteggiamento dei responsabili dei campi.
Il volume è dunque un corposo e valido contributo sull’esperienza di questi nostri
connazionali oltre oceano, che fornisce ulteriori validi strumenti di comprensione della
complessa transizione del nostro paese dal fascismo alla democrazia.
Mario De Prospo
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Giuseppe Conti, «Fare gli italiani». Esercito permanente e «nazione armata» nell’Italia liberale, Milano, FrancoAngeli, 217 pp., € 28,00
Il libro rappresenta il tentativo di raccogliere e dare organica coerenza ai diversi
filoni d’indagine che Conti ha portato avanti negli anni, sempre nell’ambito di quella
«nuova storia militare» attenta al tempo di pace oltre che ai frangenti bellici. È così che,
riproponendo tre saggi editi e aggiungendovi una breve introduzione e un corposo contributo inedito, Conti esamina «la dimensione, i successi e i limiti degli sforzi della classe
dirigente liberale, e in particolare dell’istituzione militare, […] per “fare gli italiani”, sia
procedendo alla loro “fusione”, sia, e soprattutto, alla loro rigenerazione fisica e morale
dopo secoli di sottomissione agli stranieri» (p. 17). Il decennale dibattito sulla cosiddetta
«nazione armata», la tribolata esistenza dei convitti nazionali militarizzati, le polemiche
generate dalle conferenze sul militarismo tenute dal Ferrero nel 1898 e il ruolo di «scuola
della nazione» dell’esercito in età giolittiana sono ovviamente solo alcune delle possibili
chiavi d’accesso al grande problema del rapporto fra esercito e Nation-building in Italia,
ancor’oggi in attesa di uno studio sistematico su grandi fenomeni come la coscrizione
obbligatoria e il reducismo post-risorgimentale.
Nondimeno, si tratta di aspetti centrali sia per il ruolo giocato dal mito della «nazione armata» nella retorica repubblicano-garibaldina e nel dibattito in materia di organica,
sia per l’indiscussa centralità di Ferrero nella storia dell’antimilitarismo italiano e per il
posto occupato dai collegi nel plasmare un pezzo importante della classe dirigente italiana. Anche i più datati tra i contributi raccolti in questo volume appaiono tutt’oggi di
grande interesse soprattutto perché valorizzano «gli effetti che le riforme militari del tempo di pace producono nel tessuto politico-culturale delle nazioni» (p. 10), e suggeriscono
quindi la necessità di guardare alle norme, alle pratiche, al sistema di valori, all’educazione
e alla pedagogia militari in stretta connessione con quanto accadeva nel mondo civile,
evitando così il rischio di un approccio solipsistico – e quindi inevitabilmente fuorviante – che ha spesso caratterizzato le ricerche sui principali agenti di nazionalizzazione in
ambito civile (in primis la scuola) e militare (le scuole reggimentali, le accademie, etc.).
È infatti guardando al complesso dello sforzo teso a «fare gli italiani» che è possibile
osservare le strategie poste in essere dall’élite liberale per raggiungere un obiettivo tanto
ambizioso e cogliere le divergenze d’opinione, le lotte di potere interministeriali e le molteplici resistenze interne agli stessi agenti di nazionalizzazione che frenarono lo slancio di
quanti vi si dedicarono invece con impegno. Gli scontri fra Ministero della Guerra e della
Pubblica Istruzione per la gestione dei collegi e l’atteggiamento ambiguo dell’ufficialità
di fronte al richiamo del ministro Pedotti a formare il cittadino oltre che il soldato sono
esempi eloquenti in tal senso, che Conti ricostruisce puntualmente e che rappresentano
un buon punto di partenza per nuove indagini sul ruolo dei militari nella costruzione
dello Stato-nazione.
Marco Rovinello
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Ennio Corvaglia, Le due Italie. Giovanni Manna e l’unificazione liberale, Napoli, Guida,
396 pp., € 22,00
Il volume passa in rassegna senza soluzioni di continuità i momenti salienti della
biografia politico-intellettuale di Giovanni Manna. Giurista di ispirazione liberale e cattolica, Manna occuperà nelle due brevi parentesi costituzionali (1848 e 1860) del Regno
delle due Sicilie la poltrona di ministro, per poi transitare nell’amministrazione centrale
dello Stato unitario fino alla guida del Dicastero dell’Agricoltura (1862-1864).
Sin dall’apertura del volume viene dato il giusto rilievo all’attività teoretica di Manna relativa agli studi amministrativi che nel contesto meridionale lo rendono un unicum.
Da giurista auspica una graduale modernizzazione politica e amministrativa della Monarchia, nei limiti di un governo con regole ma senza Costituzione, ferma restando l’esigenza
di nazionalizzare gli istituti politici nati nel decennio murattiano e armonizzarli con la
tradizione giuridica napoletana risalente alla stagione riformista settecentesca.
La svolta autoritaria del 15 maggio 1848, che trova Manna da pochi giorni alla guida del Ministero delle Finanze nel governo moderato Troya, ne segna, a parziale riprova
della tesi crociana del definitivo divorzio tra la dinastia e le classi colte a partire dal ’48,
il ritiro dalla dimensione pubblica. Tra i pochi liberali che sfuggono alla persecuzione o
all’esilio, anche per l’intercessione della famiglia, quella del decennio di preparazione sarà
per Manna una fase di riflessione sui temi giuridici ed economici. Diversamente da gran
parte dell’emigrazione moderata – in particolare Massari, Poerio e Scialoja – che abbraccia
univocamente l’opzione piemontese, Manna continua a confidare, ma senza facili illusioni, nella possibilità di riformare dall’interno il regime borbonico. La fedeltà dinastica e
lo spirito di servizio lo porteranno ad accettare sotto Francesco II la carica di ministro e,
compito ancora più gravoso, la conduzione della missione diplomatica a Torino, destinata
a sicuro fallimento.
Particolarmente densa di spunti è l’ultima parte del lavoro, dedicata agli anni postunitari. Respinta a ragione la nomea di «autonomista», l’a. mostra una personalità che vive
una interiore evoluzione – «Dacché l’unità e l’unificazione mi è parsa possibile, io l’ho
voluta e la voglio con l’ardore del fanatico. Al passato non vi penso più: sono entrato in
un ordine d’idee nuovo» (p. 248) – e un avvicinamento alle posizioni fusioniste cavouriane, specie sul ruolo del Parlamento come armonizzatore delle differenze territoriali e sui
temi economici del liberoscambismo. Su quest’ultimo aspetto interessanti sono le pagine
che ricostruiscono il merito della contrapposizione col ministero (piemontese) Rattazzi
e le divergenze dall’impostazione industrialista selliana, che porteranno alle dimissioni
di Manna da direttore generale dei dazi indiretti, e che si trascineranno anche in seguito
quando, da ministro dell’Agricoltura, darà un contributo imprescindibile alla stipula del
trattato di commercio e navigazione con la Francia (1863), necessario a suo giudizio a
immettere il Meridione nel sistema capitalistico nazionale e internazionale.
Fabrizio La Manna
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Flavia Cumoli, Un tetto a chi lavora. Mondi operai e migrazioni italiane nell’Europa degli
anni Cinquanta, Milano, Guerini e Associati, 270 pp., € 24,00
Il volume propone un’inedita comparazione tra migrazioni internazionali e migrazioni interne al paese nell’immediato secondo dopoguerra, sottolineando, finalmente,
l’opportunità di considerare i due fenomeni come espressione di meccanismi e processi
analoghi, indipendentemente dal fatto di superare frontiere nazionali. Il tema al centro
del lavoro è l’inserimento degli immigrati nei nuovi contesti urbani in cui si trasferiscono
in cerca di occupazione negli anni ’50: da un lato gli immigrati italiani in Belgio reclutati
per lavorare nelle miniere della Louvière e dall’altro gli immigrati meridionali che arrivano nell’area metropolitana milanese attratti dall’industrializzazione in crescita.
Accanto all’analisi delle politiche abitative attuate dalle diverse amministrazioni locali competenti per affrontare i problemi derivanti dall’aumento della popolazione residente, emergono descrizioni stimolanti della vita materiale e relazionale delle famiglie
immigrate, utili a gettare luce sulla realtà della vita urbana e dei mondi operai europei del
periodo. Ben prima dei vistosi movimenti di popolazione negli anni del miracolo economico le città italiane erano già un crocevia di individui e famiglie che si spostavano dalle
zone rurali vicine e lontane in cerca di maggiori opportunità occupazionali: l’immagine
dei quartieri operai costituiti da popolazione stabile e sedimentata da generazioni è lontana dalla realtà, come già aveva mostrato Maurizio Gribaudi nel caso di Torino per i decenni tra le due guerre. I mondi operai novecenteschi sono caratterizzati da popolazione
in costante movimento e questo dato ha conseguenze sugli stili di vita e sulle scelte.
In questo quadro risultano interessanti le strategie abitative, che appaiono legate
non solo ai progetti migratori (volti al ritorno al luogo di origine o alla stabilizzazione
nel nuovo contesto), ma anche alle relazioni sociali e all’appartenenza di genere. Come
emerge dall’osservazione della vita nei borghi minerari in Belgio, la scelta di una casa più
o meno moderna poteva essere guidata da ragioni che esulavano dalla pura aspirazione a
un miglioramento in termini di confort. Le reti sociali risultavano fondamentali in queste
decisioni e le mogli dei minatori, che, non lavorando in miniera, sviluppano la propria
socialità nell’ambito del vicinato, sono molto sensibili all’importanza di abitare in un
contesto dove sia possibile sviluppare relazioni. Per questo motivo a volte possono addirittura preferire le baracche, precarie e prive di standard abitativi moderni ma collocate in
un contesto che richiama la dimensione del villaggio in cui tutti si conoscono e si possa
contare su rapporti di solidarietà reciproca, piuttosto che gli alloggi di nuova costruzione
e vicini al centro urbano, ma caratterizzati dal «silenzio» e dall’isolamento sociale.
I processi di trasformazione della famiglia operaia indotti dall’immigrazione in città
sono invece al centro dell’analisi di Sesto San Giovanni, uno dei terminali più importanti
dei flussi in arrivo nell’area metropolitana milanese negli anni del miracolo economico.
Anna Badino
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Leonardo Pompeo D’Alessandro, Umberto Terracini nel “partito nuovo” di Togliatti, prefazione di Albertina Vittoria, Roma, Aracne, 124 pp., € 9,00
La figura di Terracini è senza dubbio una delle più complesse nel gruppo dirigente
«storico» del Pci. Tra i fondatori del Pcd’I, Terracini vive più di un contrasto col Partito
(dal dissenso sulla «svolta» del 1929 a quello sul patto Molotov-Ribbentrop), finendo per
essere espulso per decisione del collettivo comunista al confino di Ventotene. Reintegrato
nel «partito nuovo» in primo luogo per volontà di Togliatti, Terracini si differenzierà
anche in altre occasioni dalla linea della maggioranza, conquistandosi quella fama di «comunista eretico» poi consolidatasi sul piano storiografico. Da questo punto di vista, il
volume di D’Alessandro è per certi versi in controtendenza, evidenziando la complessità
del percorso politico del dirigente piemontese e la sua sintonia con Togliatti. È anzi proprio questo legame – caratterizzato dalla stima reciproca ma anche da una visione molto
simile dei compiti del Pci, di un partito comunista «di tipo nuovo», destinato a operare
in una democrazia rappresentativa che pure si voleva «di tipo nuovo» – che costituisce il
filo rosso del volume. L’elemento comune di fondo è dunque quello della democrazia progressiva, della centralità della Costituzione nel disegno dei comunisti, che la considerano
un programma da attuare col supporto della mobilitazione di massa, piuttosto che un
insieme di norme e principi sanciti su un piano meramente formale. Il problema del difficile equilibrio tra libertà del dissenso e «disciplina di partito» emerge in molti passaggi,
dall’atteggiamento verso il piano Marshall al giudizio sull’Urss dopo il XX Congresso del
Pcus. Ma l’a. sottolinea come altrettanti momenti decisivi vedano invece Terracini al fianco di Togliatti, dal dibattito sulla proposta sovietica che il «Migliore» vada a dirigere il Cominform (con Terracini unico a opporsi in Direzione), al giudizio sui «fatti d’Ungheria»;
mentre in altre occasioni è Togliatti ad avvicinarsi alle sue posizioni. D’altra parte, se vi fu
tale sintonia e Terracini poté essere uno dei dirigenti più autorevoli del Pci, ciò è dovuto
in primo luogo al fatto che, come D’Alessandro evidenzia, nonostante il «ripiegamento»
indotto dalla guerra fredda, la linea del Pci continuò a essere quella della democrazia
progressiva, dell’attuazione della Costituzione, nel convincimento – di Terracini come di
Togliatti – che la democrazia fosse il terreno su cui maggiormente il movimento operaio
potesse avanzare, trovandosi invece l’avversario sempre più a disagio. La ricerca di D’Alessandro, dunque, oltre a costituire un contributo prezioso alla ricostruzione del percorso
di Terracini, aiuta anche a comprendere meglio che cosa fosse il gruppo dirigente del Pci,
al di là della semplicistica contrapposizione ortodossi/eretici. Se molti «eretici» poterono
essere dirigenti di primo piano, cioè, si può concludere, da un lato, che la loro eterodossia
non fosse così marcata come si tende a sostenere; dall’altro, che il Pci non era un partito
monolitico, ma una forza complessa, costituita da tante e diverse individualità, forze sociali e sensibilità culturali, accomunate da un progetto collettivo di trasformazione.
Alexander Höbel
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Diletta D’Andrea, Gould Francis Leckie e la Sicilia, 1801-1818, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 356 pp., € 34,00
L’a. torna a parlare di quel decennio in cui la Sicilia «parlò inglese». Se in un precedente studio (Rubbettino, 2008) aveva descritto la presenza di militari, diplomatici e
mercanti inglesi residenti soprattutto a Messina e Palermo e del loro rapporto con l’amministrazione borbonica, in questo centra l’attenzione sulla permanenza in Sicilia all’inizio
dell’800 dell’imprenditore e pubblicista inglese Gould Francis Leckie, evidenziandone
non solo i molteplici investimenti economici fatti in particolare a Siracusa, ma soprattutto il lavoro di intelligence che egli intraprese per il suo governo. Condotto dalla moda del
Grand Tour, Leckie si ritrova non casualmente in Sicilia in un momento storico molto
particolare poiché l’Isola sin dal 1798 era diventata il rifugio del re Ferdinando IV di
Borbone e della corte di Napoli, che sotto la protezione inglese resistevano ai tentativi di
conquista da parte di Napoleone. Attraverso un appropriato impianto di ricerca archivistico-storiografico l’a. attraversa alcuni punti nodali del dibattito sulla storia siciliana
del primo ’800 a partire dall’influenza inglese sulla corte borbonica per finire trattando il
dibattito sulla Costituzione del 1812. Il testo poi, amplificando la struttura già delineata
da Salvatore Russo in diversi lavori (tra i quali: Agorà Edizioni, 2001), descrive le reti che
unirono Leckie ai diversi imprenditori inglesi già presenti nell’Isola e alla intellighenzia
siciliana, in particolare quella siracusana, descrivendo ad esempio i rapporti con Saverio
Landolina, regio custode delle antichità del Val di Noto, e Tommaso Gargallo, letterato
siracusano poi ministro della Guerra di Ferdinando IV. È proprio a Siracusa che Leckie si
stabilisce prendendo in enfiteusi il feudo di Tremilia; tale politica economica veniva incoraggiata dal re al fine di apportare miglioramenti all’agricoltura siciliana attraverso tecniche provenienti dall’estero. L’a. pone poi l’accento sul tentativo di Leckie, che possedeva
un patrimonio così cospicuo «da consentirgli, tra l’altro, di concedere un prestito allo
stesso senato cittadino, per una somma assolutamente considerevole» (p.143) e oramai
risiedeva per un tempo utile in città, di entrare a far parte della mastra nobile siracusana.
Qui però avviene lo scontro con l’élite cittadina che mostrò il suo carattere fortemente
conservativo nella gestione del potere, nell’accesso alle più alte cariche e nel controllo
delle risorse, negandogli di fatto l’appartenenza alla mastra. La sua attività politica prese
altre strade, come la creazione di un banco di credito per l’agricoltura che gli permise di
finanziare lo stesso re. L’ultima parte del testo, che segue le considerazioni di Romeo,
Rosselli e Giarrizzo e quelle più recenti di D’Angelo, è dedicata alla descrizione dell’attività di intelligence che vide Leckie elaborare la cosiddetta «strategia insulare», che doveva
permettere alla Gran Bretagna di ampliare l’influenza nel Mediterraneo, rivelando la sua
grande capacità di analista della politica, adombrata solo negli ultimi anni di permanenza
da un acceso scontro sui criteri della riforma costituzionale del 1812 avviata dal plenipotenziario Bentinck e da lui non sempre condivisi.
Salvatore Santuccio
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Pompeo De Angelis, L’isola senza mare. Storia del Piano di Sviluppo Economico dell’Umbria
(1960-1970), Arrone (Terni), Edizioni Thyrus, 262 pp., € 22,00
Nel volume si ricostruiscono, attraverso il dibattito parlamentare che si svolse tra
l’11 e il 17 febbraio del 1960, le vicende che portarono alla genesi e all’elaborazione
del Piano di sviluppo per l’Umbria, nato in un momento particolarmente difficile per il
territorio. L’anno precedente, infatti, la regione era stata scossa da uno sciopero generale
legato alla chiusura delle miniere di lignite, ai licenziamenti della Colussi di Perugia e alla
crisi di altre importanti aziende.
Il primo dato che emerge dal libro, messo in evidenza dall’a., è costituito dalla precoce spinta alla programmazione che caratterizza la realtà umbra, in netto anticipo rispetto sia al dibattito nazionale, sia alla nascita dell’ente regionale. Un secondo importante
aspetto del Piano è legato alla capacità del suo ispiratore, il democristiano Filippo Micheli, vicino a Dossetti, di coinvolgere nella programmazione tutte le istituzioni, come
le camere di commercio, e le maggiori forze politiche locali, cioè il Partito comunista e il
Partito socialista. Al dibattito parlamentare parteciparono esponenti locali e nazionali di
tutti gli schieramenti: Achille Crociani, Pietro Ingrao, Vinicio Baldelli, Dario Valori, Luciano Radi, Alberto Guidi, Franco Maria Malfatti, Alfio Caponi, Luigi Silvestro Anderlini
e Vittorio Cecati, i quali interpellarono Emilio Colombo, ministro dell’Industria e del
Commercio. Il Piano, nonostante la sua approfondita articolazione e la sua validità, fu poi
fatto decadere per motivi politici, al momento dell’istituzione della Regione Umbria.
Nell’ambito di un modello di sviluppo ispirato dalla sostanziale chiusura dell’Umbria verso l’esterno, richiamata nello stesso titolo attraverso l’immagine di «un’isola senza
mare», l’a. dimostra come le successive vicende economiche e sociali dell’Umbria, fino ai
nostri giorni, siano indissolubilmente legate al Piano del 1960, quando la regione, ancora caratterizzata da un’economia prevalentemente agricola, a esclusione del grande polo
industriale di Terni, si presentava come un’area isolata, a causa della mancanza di strade e
ferrovie in grado di metterla rapidamente in comunicazione con le regioni vicine.
Accanto alla narrazione del ricco e complesso dibattito parlamentare, seguito attraverso tutti gli interventi dei deputati, l’a. colloca una serie di schede che illustrano gli
episodi più importanti della storia economica e sociale dell’Umbria contemporanea, dalle
miniere di Morgnano alle acciaierie ternane, dalla Buitoni-Perugina alle diverse centrali
idroelettriche della regione, dalle Fornaci Briziarelli di Marsciano alla Perugia di fine ’800
di Zeffirino Faina, solo per citarne alcune. La collocazione delle schede segue gli argomenti trattati nel dibattito parlamentare.
Da tutto ciò scaturisce un’originale storia della regione, nella quale l’attualità del
piano e la sua mancata attuazione sono chiamate a confrontarsi con il passato recente di
questo territorio eterogeneo, con le sue potenzialità non del tutto espresse e con i suoi
nodi critici rimasti in gran parte irrisolti.
Augusto Ciuffetti
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Carlo Alberto Defanti, Eugenetica: un tabù contemporaneo. Storia di un’idea controversa,
Codice, Torino, 309 pp., € 23,00
Primario di neurologia all’ospedale Niguarda di Milano, tra i fondatori della Consulta di bioetica, Defanti torna a occuparsi di questioni bioetiche sul controllo della vita,
tema già affrontato (Soglie. Medicina e fine vita, 2007) che in quest’occasione è indagato
da un punto di vista diverso. Il libro si interroga sul tabù dell’eugenetica, vale a dire sul suo
carattere storico e sulle sue implicazioni in riferimento alle questioni bioetiche contemporanee. Restituire al fenomeno storico dell’eugenetica la sua articolazione complessa, per
l’a. serve a sgombrare il campo da facili semplificazioni che ne fanno una filiazione diretta
dell’evoluzionismo darwiniano, così come da altrettanto facili equivalenze che ascrivono
un carattere eugenetico – inteso come stigma negativo – a tutte le pratiche di diagnosi
prenatale e di eutanasia. Sullo sfondo si staglia la questione per molti versi difficile del
rapporto tra l’eugenetica e il nazismo e la possibilità di distinguere forme di eugenetica
che non siano riconducibili per definizione a quelle estreme attuate nel Terzo Reich. In
questa prospettiva, il volume presenta in appendice la traduzione italiana dell’opuscolo
sull’eutanasia firmato da Karl Binding e Alfred Hoche nel 1920 e che fu uno dei testi più
noti sul tema; uno scritto, questo, assai denso e controverso, che viene associato direttamente alle esperienze estreme naziste – così, a esempio, in un’altra traduzione italiana
presso OmbreCorte (Precursori dello sterminio. Binding e Hoche all’origine dell’eutanasia
dei malati di mente in Germania a cura di E. De Cristofaro e C. Saletti, cfr. «Il mestiere
di storico», 2-2012) – ma che mostra aspetti di riflessione sul tema della qualità della vita
che richiamano le discussioni bioetiche contemporanee sul fine vita.
In undici capitoli il volume di Defanti ripercorre le tappe dell’evoluzione storica
dell’eugenetica, dalla prima formulazione di Francis Galton nel 1883, ai rapporti articolati con la riflessione darwiniana prima e con quella del darwinismo sociale e della degenerazione poi, per arrivare all’analisi dei singoli casi nazionali, dalla Francia all’Italia, dalla
Germania agli Stati Uniti. Attraverso questa parabola è possibile cogliere l’articolazione
del movimento eugenetico nelle sue varie declinazioni nazionali e religiose, il suo essere
un fenomeno storico composito e articolato che eccede l’esperienza estrema del nazismo.
In questi termini, gli ultimi capitoli del libro guardano alla prospettiva bioetica contemporanea, confrontandosi con il tema della biopolitica e con le riflessioni sulla cosiddetta
Liberal eugenics.
Il volume si appoggia su un’ampia ricognizione della letteratura secondaria – pur
con alcune assenze, quale il significativo caso svedese esaminato da Colla e Dotti – e
rappresenta un riuscito tentativo di confrontarsi con un tema per molti versi complicato
e di offrirne una efficace storica. Al contempo si mostra capace di restituire e discutere
in maniera chiara e compiuta le molteplici dimensioni della prospettiva eugenetica, nella
storia come nell’attualità.
Emmanuel Betta
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Alice De Toni, «Dolentissime donne». La rappresentazione giornalistica delle donne di mafia,
Bologna, Clueb, 149 pp., € 12,00
Esito di una ricerca dottorale, il saggio analizza con metodologia quantitativa e
qualitativa i 984 articoli che tre giornali (il milanese «Corriere della Sera», i palermitani «L’Ora» e «Giornale di Sicilia») dedicarono alla comparsa femminile nelle vicende di
mafia (giudiziarie e quindi oggetto di attenzione mediatica) nel 1963-1982, tra la prima
guerra di mafia e i prodromi della seconda, l’istituzione e le prime prove della Commissione Antimafia. Nel ventennio cruciale per gli assetti di Cosa Nostra non meno che per
l’attenzione del paese alle strategie di risposta, si sarebbero modificate anche le percezioni
delle figure femminili, tradizionalmente silenti e invisibili, mentre incubavano le dinamiche che avrebbero portato, con il pentitismo, al coinvogimento anche delle donne e a
nuove strategie comunicative; mentre pure il terrorismo offriva figure femminili inquietanti sulla scena nazionale. L’a. porta dunque, per il periodo poco studiato, l’attenzione
al genere che sarà stimolato dal pentitismo, verificando sin dagli anni ’60 una visibilità
delle figure femminili che accompagna la guerra di mafia, con inversioni discorsive che
nei ’70 enfatizzeranno sulla stampa (cronache del tribunale, interviste, fotografie) i nuovi
comportamenti, look e discorsi, di donne che affrontano un protagonismo pubblico più
ragionato che non le invettive delle precedenti vedove nere (madri mediterranee per antonomasia); non senza produrre nella comunicazione mediatica la suggestione fuorviante
di una «emancipazione». Benché non risulti esaustiva la disamina della categoria, non
applicabile ai totalitari contesti mafiosi (come gli studi hanno chiarito sia per il profilo
teorico che storico-sociale, e come il saggio non manca di recepire), la ricerca argomenta
adeguatamente come presentino continuità nel tempo le connivenze e la partecipazione
femminile ad attività mafiose, ma con perdurante dipendenza dagli uomini; e come la
comparsa pubblica delle figure femminili in ogni contesto parli di un’antropologia chiusa
della famiglia mafiosa. Al di fuori dunque di schemi evoluzionistici – che richiamerebbero
la vogue della dicotomia mafia tradizionale/imprenditoriale di Arlacchi –, l’attenzione al
mutamento culturale guida la tipologia di quattro frames rappresentativi (la donna muta
della tradizione, la belva che parla per la vendetta, la donna scrigno che si tiene a velate
minacce, l’emancipata più discorsiva), che corrono sulle testate con omogenei giochi mediatici ma anche con una significativa interazione tra le strategie comunicative dell’intervistata e quelle del giornalista di turno. Nella semantica sempre densa recitata dalle donne
di mafia (le dolentissime donne che oggi risultano le mafiose), valga l’esempio di una Liggio
che nel 1965 è la donna muta, ignara della latitanza del fratello, e nel 1975 adduce ragioni
di economia domestica nel rispondere da emancipata di utilizzo di denaro mafioso (p. 49).
Come l’a. si ripromette nelle conclusioni, semantica e biografie sono da approfondire nel
giudiziario, che solo di recente ha incluso nel 416 bis le donne, in passato protette dalla
infirmitas sexus.
Marcella Marmo
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Esther Diana, Santa Maria Nuova. Ospedale dei Fiorentini. Architettura e assistenza nella
Firenze tra Settecento e Novecento, Firenze, Polistampa, 629 pp., € 90,00
È un volume di grande pregio, ponderoso e con diversificati apparati iconografici
l’esito della fatica di Esther Diana. Affondando le sue origini nel lontano Medioevo, lo
sviluppo dell’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova si interseca prepotentemente con
la storia della città e del suo tessuto urbano. Al centro dell’interesse dell’a., architetta e
storica dell’assistenza e della sanità, vi è la ricostruzione dell’evoluzione per l’appunto architettonica, ma al tempo stesso anche sociale, funzionale e scientifica, del noto ospedale.
La storia di questo istituto diventa pertanto storia di un modello di sistema sanitario.
Due gli aspetti che a mio avviso maggiormente contraddistinguono l’opera: in prima
istanza lo sguardo originale dell’a. ci restituisce il rapporto osmotico che il Santa Maria
Nuova ha avuto con la città; tale rapporto è reso visivamente anche dalla particolare struttura architettonica: la città entra costantemente nello spazio ospedaliero attraverso tutte le
aperture (finestre, vetrate, cortili) o, se si preferisce, ogni apertura dell’ospedale si affaccia
su un luogo della città. In seconda istanza, le evoluzioni delle strutture architettoniche – i
vari progetti che si susseguirono nell’arco dei secoli sono dettagliatamente presentati e
analizzati – rendono conto dei cambiamenti che riguardano i rapporti tra corpi malati e
comunità, ceti dirigenti e medici, idee di benessere e standard di igiene.
Sul primo indirizzo, si snoda una lunga attenzione volta a separare lo «sconcio» e
il «puzzo», a contenere il fetore che proviene dall’ospedale, a gestire in modo nuovo i
cadaveri tra le esigenze scientifiche degli studi di anatomia e la più igienica sepoltura.
Sotto questo profilo, gli anni successivi al raggiungimento dell’Unità d’Italia, sulla scia dei
progetti di polizia medica messi a punto da Johann Peter Frank e dello sviluppo dell’igienismo, appaiono periodizzanti.
Sul secondo aspetto, la storia degli interventi di rinnovamento strutturale rivela
l’adeguamento alle nuove esigenze sociali e sanitarie: si ricostruisce pertanto con precisione, evidenziando anche l’origine – spesso privata – dei capitali, l’introduzione di tutte le
innovazioni, anche se nel complesso la storia di queste strutture è marcatamente segnata
dai troppi compromessi che testimoniano le difficoltà di rinnovarsi. Si moltiplicano le
cubature sopraelevando, conservando e non modernizzando le strutture, sottolinea Esther
Diana. Da questo punto di vista, senza trascurare le novità che giungono già nei primi
anni del XX secolo, legate all’ampliamento dei progetti sanitari e alle edificazioni di nuovi
ospedali (il Careggi ad esempio), il regime fascista darà nuovi assetti alla riorganizzazione
interna e al personale medico e infermieristico.
Vinzia Fiorino
i libri del 2012 / 1 - monografie
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John Dickie, Onorate società, Roma-Bari, Laterza, 432 pp., € 20,00
Il volume ha il merito di proporre alla comunità scientifica, come non avviene di frequente, un’analisi comparata della storia di mafia, ’ndrangheta e camorra. Esso si fonda,
infatti, su una proposta metodologica che va al di là della storia delle singole organizzazioni criminali, recuperando l’elemento della comparazione come chiave di lettura tanto
delle origini, quanto dello svolgimento dei fenomeni delinquenziali di cui tratta. L’a., pur
mettendo in relazione l’evoluzione delle tre organizzazioni al territorio ove ciascuna di
esse si è sviluppata, ne contestualizza la nascita e lo svolgimento entro la compagine istituzionale del giovane Stato nazionale italiano e la conclusione della seconda guerra mondiale, indicandone alcuni tratti comuni che potremmo riassumere, tanto nella capacità delle
«mafie» di disporre di apparati formalmente strutturati secondo una gerarchia ben precisa
e fondata su una ferrea disciplina, quanto su un uso abbastanza disinvolto della violenza,
sia nella regolamentazione dei conflitti interni, sia nei rapporti con il resto della società.
Di grande interesse poi sono le osservazioni svolte sulle pratiche omertose, non solo sul
versante dei silenzi e delle omissioni di cui godono le tre organizzazioni in ambito locale,
ma su quello, molto più ampio, degli intrighi e delle disinformazioni che ne costellano la
storia. Se l’a., infatti, da un lato osserva come molte volte il muro dell’omertà sia venuto
meno, rendendo esplicite alcune verità che, per esempio, come nel caso della collaborazione dei pentiti con le autorità di pubblica sicurezza, sono state verificate attraverso il vaglio
giudiziario, dall’altro evidenzia come la storia di queste organizzazioni criminali rimanga,
per alcuni tratti, ancora lacunosa, in quanto ricostruita attraverso fonti archivistiche di
per sé frammentarie e su racconti di persone che molte volte hanno avuto motivi per
nascondere o narrare i fatti in maniera diversa da come realmente si sono svolti. È giusto
dunque, come sostiene Dickie, che l’approccio a questi fenomeni tenga conto «della verità che emerge anche dai buchi e dalle incongruità delle testimonianze disponibili, oltre
che dai fatti contenuti in quelle testimonianze» (p. XVII). Non secondario è poi il fatto
che il testo si offra pure alla lettura di un pubblico di non addetti ai lavori. Sotto questo
versante, occorre evidenziare come, in alcuni casi, le ricostruzioni che tendono a divulgare
i risultati della ricerca scientifica risultino fondate su analisi eccessivamente schematiche, mentre i diversi temi trattati, piuttosto che essere esposti in maniera semplice, sono
enunciati in modo semplicistico e distorto. Certamente questi sono rischi che il volume
di Dickie non corre, intanto perché si fonda su una ricca documentazione d’archivio e
di testi editi a stampa, poi perché l’a. non cede mai alla tentazione di piegare il racconto
storico alle esigenze della trama ma, al contrario, restituisce al lettore, in maniera chiara e
attraverso una proposta interpretativa piana e accessibile a tutti, la sostanza e la complessità dei fenomeni criminali indagati.
Luigi Chiara
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Matteo Di Figlia, Israele e la sinistra. Gli ebrei nel dibattito pubblico italiano dal 1945 ad
oggi, Roma, Donzelli, 195 pp., € 25,00
Matteo Di Figlia ripercorre mezzo secolo di storia italiana, dalla Liberazione in poi,
con qualche apertura sugli anni del fascismo e dell’antifascismo/Resistenza e alcuni interrogativi sul periodo più recente. Il titolo dato al volume riesce bene a non far comprendere
il tema indagato, che è – come precisa l’autore all’inizio dell’introduzione – «la partecipazione degli ebrei e delle sinistre italiane al dibattito su Israele» (p. 3), con l’avvertenza che
egli studia soprattutto gli ebrei di sinistra, mentre gli altri ebrei sono per lo più presenti
solo perché chiamati in causa dalle elaborazioni e dalle parole dei primi. Pregiudiziale allo
studio è una de-demonizzazione di Israele; tale raro e apprezzabile approccio consente di
mettere in luce le tante altre cose di cui si parla quando si parla di Israele e il tanto Israele
di cui si parla quando si parla di ebrei, specialmente nella sinistra, ebraica e non. Di Figlia
impernia la navigazione più sull’agire/riflettere dei singoli militanti – ebrei e/o non ebrei
– che sulla catena frastagliata di pronunciamenti istituzionali, di linee politiche ufficialmente elaborate e propagandate; il lettore si trova così a seguire il successivo irrompere
ed eclissarsi o ricomparire di molti protagonisti, noti, dimenticati o non noti. Il volume
mette a fuoco le complesse svolte del 1967, del 1982 e quella di 10-15 anni fa, ancora
troppo fresca per poter essere ponderata. Israele è per l’a. qualcosa di più di un semplice
tema di geopolitica, è un nodo complesso che porta a galla tensioni più profonde (p.
55), in entrambi gli ambiti coinvolti; con ciò contribuisce a rompere il lascito dis-ebraico
del nazional-popolarismo novecentesco nostrale. Certo che il lettore non emancipato si
sorprenderà nello scoprire quanto gli ebrei di sinistra siano stati e siano tuttora capaci di
seguire strade reciprocamente polemiche! E quanto complesse siano queste strade che
coniugano, ciascuna a suo modo, il più sfegatato dei monoteismi (o la sua ereditarietà) e
una forte radicalità socialmarxista o sempre più progressista.
A mio parere nel volume è carente l’attenzione data all’ambito della sinistra «extraparlamentare», nella quale invece ricordo che si riversarono ansie rivoluzionarie ebraiche e
catto-antisraeliane, sì che mi pare che lì ebbe luogo sia una evidenziazione di tante specificità sociali sino ad allora annichilite, sia la (non sempre) tacita richiesta ai militanti ebrei
di tenere riposta la propria. Così come avrebbe meritato più attenzione la questione del
«lungo sonno» storiografico italiano sulla persecuzione fascista, rispetto al quale il Renzo
De Felice del 1960-61 costituì solo un’eccezione (sollecitata dall’ebraismo stesso). Vorrei
poi formulare un’ultima annotazione, che però concerne un altro studio, che deve essere
ancora intrapreso: cosa ha fatto sì che, dopo la Liberazione, non sia sostanzialmente più
accaduto che si formassero nuovi dirigenti nazionali della sinistra italiana aventi identità
o origine ebraica? Treves, Modigliani, Rosselli e Terracini furono eccezioni? O cosa è
mutato in chi?
Michele Sarfatti
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Ennio Di Nolfo, Il disordine internazionale. Lotte per la supremazia dopo la Guerra fredda,
Milano, Bruno Mondadori, 168 pp., € 16,00
Questo svelto ma denso saggio di Di Nolfo muove dal desiderio di «collocare l’attualità nella storia», ripercorrendo i fili che conducono al recente «passaggio da un mondo
globalizzato e dominato dall’egemonia degli Stati Uniti» a «un sistema internazionale entro
il quale il potere si regionalizza e compone nuovi equilibri, non stabilizzati» (p. 1). La focalizzazione è quindi sugli ultimi vent’anni, in particolare sul tentativo di ricomprenderli alla
luce della recente crisi finanziaria americana ed europea, nell’intento di allontanarsi dalle
letture unipolari e unilateraliste della globalizzazione quale semplicistico sinonimo di un
dominio americano visto specularmente come benevolo e necessario oppure tentacolare e
oppressivo. Guardando in primo luogo al terreno economico e finanziario, e in particolare
alla moneta, l’a. insiste sulla complessità e molteplicità – intrinsecamente multipolare – della globalizzazione, e cerca di dar conto delle sue irrisolte tensioni attuali riconducendole in
non piccola parte alla promessa finora mancata di un Euro che avrebbe dovuto costituire il
ponte indispensabile verso un sistema svincolato dalla centralità del dollaro. La discussione
di questa attualità è informata ed equilibrata pur se necessariamente prudente.
Più netta e forse sorprendente è invece la lettura dei processi storici precedenti,
ai quali è dedicata una buona metà del libro. L’a. parte da lontano, dall’espansione del
commercio e del credito durante la pax mongolica e poi nella Firenze dei Medici, per
evidenziare il nesso tra moneta, credito e autorità politica che egli pone al centro delle
trasformazioni internazionali di lungo periodo secondo un filtro di political economy che
riprende largamente l’impostazione di R. Findlay e K.H. O’Rourke (Power and Plenty,
2007). Arrivando in epoca contemporanea, l’asse di lettura diviene quindi quello del governo della globalità novecentesca tra grandi formazioni economiche e/o imperiali, lungo
il solco di J.A. Frieden (Global Capitalism, 2006). L’orizzonte è quello ampio dell’incerta
ascesa statunitense nella sua interazione con i conflitti europei, anche se stupisce l’assenza – difficilmente comprensibile in un linguaggio di political economy – del modello
sociale del capitalismo newdealista e consumista che accompagna l’affermazione globale
del dollaro.
E poi si giunge alla guerra fredda, che Di Nolfo ridimensiona a conflitto quasi virtuale – dovuto alla «allegoria della potenza» (p. 61) incarnata nelle armi nucleari – per
evidenziare invece le tensioni intra-blocchi e, in particolare, l’evoluzione gradualmente
più antagonistica delle «divaricazioni interne al sistema occidentale» (p. 75) che guida e
definisce le trasformazioni del capitalismo mondiale. Il pregio di questo sforzo di focalizzazione sui grandi processi che bypassano e trascendono la guerra fredda diviene qui anche il suo limite, perché alla radice della globalizzazione contemporanea c’è anche quella
legittimazione globale del capitalismo che fu il nocciolo della guerra fredda. È insomma
un libro stimolante e disuguale, che abbozza tesi più che risolverle, come gli appunti di
una riflessione in corso.
Federico Romero
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee. 1830-1861, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 229 pp., € 14,00
Attraverso una ricostruzione della storia della politica estera del Regno delle Due
Sicilie, il libro riesce a demolire l’immagine stereotipata di una Monarchia napoletana
priva di una propria personalità internazionale negli anni compresi tra il 1830 e il 1861,
e mera esecutrice dei dettati delle altre potenze europee in politica estera. Il profilo che
emerge dallo studio della documentazione diplomatica è invece quello di uno Stato che
non accettò di seguire al traino i vecchi e i nuovi alleati, fossero le politicamente vicine
Corti del Nord o le sempre più influenti Gran Bretagna e Francia. Soprattutto negli anni
del regno di Ferdinando II, la Monarchia borbonica dimostrò, infatti, un ragguardevole
spirito di iniziativa e una grande attenzione al mantenimento della propria autonomia e
della propria libertà di azione in politica estera, provocando d’altra parte l’esplicita ostilità
di chi avrebbe voluto fare della più grande compagine statale della penisola italiana una
propria pedina nel Mediterraneo.
Il volume, intrecciando alla narrazione stralci delle relazioni e delle corrispondenze
di capi di governo e ambasciatori napoletani, inglesi, francesi, russi, austriaci, restituisce
complessità alla storia del crollo del Regno delle Due Sicilie, mettendo in evidenza l’intricata trama di cause geopolitiche ed economiche che condannarono la Monarchia a una
lenta agonia e di cui i Borboni furono certamente in parte personalmente responsabili,
rifiutandosi di avviare un reale processo di modernizzazione delle strutture politiche, economiche e istituzionali. A decidere però le sorti del «grande Piccolo Stato» immerso «tra
l’acqua salata e l’acqua santa» furono gli interessi strategici della Gran Bretagna che, dalla
Sulphur War scoppiata nel 1837 per tutelare le prerogative acquisite dai commercianti
inglesi sull’estrazione e lo sfruttamento dello zolfo siciliano, rimodulò in diverse occasioni
la propria politica nei confronti del Regno delle Due Sicilie, fino a diventare, afferma De
Rienzo citando la corrispondenza tra Cavour e Disraeli, il vero motore propulsivo della
liberazione del Mezzogiorno nel 1860 con il proprio supporto economico e politico.
Uno dei meriti di questo libro è così quello di sgombrare il campo da ogni sufficienza
e pregiudizio interpretativo, mettendo in discussione considerazioni autorevoli e ormai
consolidate nella storiografia ufficiale, come quella di Rosario Romeo che stigmatizzò
come una «leggenda risorgimentale» l’azione di Londra a sostegno della campagna di
Garibaldi, rivendicata invece dallo stesso Palmerston che, in una lettera alla regina Vittoria, sottolineò l’importanza del Regno d’Italia nella costruzione di un nuovo equilibrio
europeo. L’a. riesce inoltre ad allargare le maglie della periodizzazione tradizionale della
storia degli Stati preunitari, evidenziando la continuità rispetto alla vicenda dell’Italia
unita e sottolineando la pesante eredità in termini di debolezza geopolitica che il Regno
delle Due Sicilie lasciò al Mezzogiorno.
Chiara Maria Pulvirenti
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Torquato Di Tella, Le forze popolari della politica argentina. Una storia, Roma, Ediesse,
120 pp., € 10,00
Il volume, pur nel suo approccio di sintesi, costituisce un interessante compendio
per tutti coloro che vogliono iniziare a comprendere l’intricato universo simbolico e politico di uno dei paesi più controversi del Sudamerica. L’arcano che attanaglia gli argentini
e tutti coloro che di quel paese si occupano è comprendere come una nazione dalle immense potenzialità sia stata teatro di innumerevoli crisi economiche, politiche, sociali e,
più d’ogni altra cosa, morali.
Il fil rouge individuato dall’a., che lega gli eventi della storia argentina, passa per due
aspetti principali: le crisi economiche e il terrorismo, proprio di una società civile strutturalmente conflittuale. Come il paese sia passato attraverso un continuo cambiamento di
politica economica e quali costi sociali e ripercussioni tutto questo abbia avuto è un tema
di un certo rilievo, impossibile da inquadrare facilmente. In poco più di cento pagine,
grazie a un’intelligente selezione dei temi, Di Tella riesce però a mettere a fuoco i tratti
salienti della storia del paese, ponendo l’accento, di volta in volta, sulle forze popolari che
ne hanno dipinto il volto. Tra le varie questioni si mette in luce in particolare la nascita di
una classe media dispiegata (in modo del tutto sui generis rispetto ad altri paesi latinoamericani) nella quale si innesta poi il movimento di massa principe della storia argentina: il
peronismo. L’a. prova però a sfatare alcuni miti, entrati di diritto anche nella storiografia:
Perón era incline a creare un partito-stato più simile al Pri messicano che al fascismo e la
sua ascesa al potere ha portato con sé tratti più simili ai nazionalismi autoritari e popolari
del terzo mondo piuttosto che di matrice europea.
Il volume sottolinea poi un altro leitmotiv della storia contemporanea argentina:
dal 1930 al 1976 il paese è stato protagonista di una serie di golpe che si sono sempre
innestati su contesti di vuoto di potere. Perché allora, si chiede l’a., l’Argentina non è mai
passata per una rivoluzione guerrigliera come accaduto a Cuba e in Nicaragua? Le risposte
individuate rimandano alla frammentazione delle espressioni di potere della composita
società civile, a fronte di una borghesia che è sempre stata più attenta alla rendita (fondiaria prima e finanziaria poi) piuttosto che a proporsi come élite illuminata in grado di
guidare il paese verso la modernizzazione.
In questa prospettiva il volume sottolinea che il ritorno alla democrazia ha certo
inaugurato un periodo di maggiore dinamismo e apertura, lasciando però spazi anche
all’ingovernabilità e all’entrata in campo del justicialista Menem che innescò le riforme
neoliberali aprendosi a un modello finanziario, progressivamente sempre più distante
dall’economia reale, fino all’esplosione del dicembre 2001 con il noto default. Proprio
in quell’evento vengono individuate le radici della possibile rinascita di un paese le cui
variabili macroeconomiche e sociali non sono mai completamente sotto controllo, ma
che, nonostante tutto, trova sempre la forza per provare a rigenerarsi in ogni tappa della
sua storia.
Veronica Ronchi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Lucia Ducci, Stefano Luconi, Matteo Pretelli, Le relazioni tra Italia e Stati Uniti. Dal
Risorgimento alle conseguenze dell’11 settembre, Roma, Carocci, 208 pp., € 16,00
Pochi temi hanno attratto l’attenzione e l’interesse degli studiosi quanto le relazioni
tra Italia e Stati Uniti. Mancano però opere sistematiche di sintesi, che coprano tutta la
storia dell’Italia unitaria. E vi è, inevitabilmente, uno squilibrio fortissimo fra la ricca
messe di lavori che prendono in esame il periodo della guerra fredda, e in particolare
l’immediato secondo dopoguerra, e i pochi studi dedicati invece al pre-1945 e ancor più
all’800.
Questo agile volume copre pertanto una lacuna. Lo fa scomponendo la storia degli
ultimi due secoli di relazioni italo-statunitensi in tre parti, ognuna a sua volta divisa in
tre capitoli. La prima parte, di Lucia Ducci, prende quindi in esame il periodo che va dal
congresso di Vienna alla prima guerra mondiale; la seconda, di Matteo Pretelli, si concentra sul periodo interbellico e sul secondo conflitto mondiale; la terza, infine, a opera di
Stefano Luconi, discute il dopoguerra giungendo fino ai giorni nostri.
Quattro mi sembrano essere i fili conduttori che uniscono le diverse parti del libro,
conferendogli una coerenza narrativa affatto scontata in un volume di questo tipo. Il
primo è rappresentato dal processo, faticoso e probabilmente mai pienamente compiuto, di scoperta e conoscenza tra le due parti; un processo condizionato da carenza d’informazioni, pregiudizi (si pensi solo alla questione religiosa) e stereotipi che informano
percezioni e rappresentazioni reciproche anche nell’ultima fase, dopo la seconda guerra
mondiale, quando i rapporti si fanno stretti e intensi come mai in precedenza. Il secondo
filo conduttore è rappresentato dall’ascesa della potenza americana e dalla rimodulazione
del rapporto bilaterale che ne consegue. Un rapporto che diviene inevitabilmente squilibrato e asimmetrico. E nel quale il termine più debole, l’Italia, reagisce con un mix di
paura, fascinazione, ammirazione, confusione di fronte al pieno dispiegarsi della potenza
americana. Il terzo elemento è costituito dai tanti transfer culturali che filtrano le relazioni
e le comunicazioni tra le due parti, dove un ruolo centrale viene svolto da mediatori più
o meno riconosciuti, su tutti quegli immigrati a cui Luconi e Pretelli hanno già dedicato
alcuni importanti studi. Quarto e ultimo: la centralità, nel post-1945, del rapporto con
gli Stati Uniti come fattore di legittimazione politica interna, che si manifesterà in modo
paradigmatico quando – nei primi anni ’60 con l’apertura a sinistra, nei primi anni ’80
con la vicenda degli euromissili, alla fine degli anni ’90 con l’intervento Nato in Kosovo – la sinistra socialista e post-comunista entra al governo e, prima con Craxi e poi con
D’Alema, ne assume la guida.
Forse sarebbe stata utile una comparazione con altre esperienze europee per verificare quanto davvero peculiare sia stata l’esperienza italiana. E talora la narrazione risulta
un po’ impressionistica, soprattutto nella prima parte. Nondimeno, si tratta di un volume
ben organizzato, basato su un’attenta ricognizione della letteratura e capace di offrire
un’introduzione utile ed esaustiva al tema.
Mario Del Pero
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Marcella Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, Roma-Bari, Laterza,
XVIII-467 pp., € 25,00
Dopo che per più di un decennio il solo testo di storia del Medio Oriente disponibile in italiano è stato quello di Peter Mansfield (Sei, 1993), negli ultimi anni sono stati
pubblicati numerosi libri su questo tema. Dopo quelli di Massimo Campanini (il Mulino, 2006) e James L. Gelvin (Einaudi, 2009) – per citare i migliori – esce ora il volume
di Marcella Emiliani, per anni docente alla Facoltà di Scienze politiche di Forlì. Forse il
segreto del libro risiede proprio nell’aver «testato» sugli studenti il materiale da cui questo è nato. Si tratta, infatti, di un testo estremamente chiaro con un evidente approccio
didattico, che guida il lettore – anche con l’aiuto di numerosi box riepilogativi – nella
complesse vicende mediorientali.
Come l’a. spiega nell’Introduzione, oggetto della trattazione è un Medio Oriente allargato, che va dal Marocco «all’Afghanistan compreso» (p. XI). Si tratta di una scelta che,
pur non comune, è convincente, tenuto conto del ruolo che l’Afghanistan ha avuto nella
storia della regione a partire dall’invasione sovietica del 1979. Il libro è diviso in undici
capitoli, il primo dei quali è dedicato all’800, identificato giustamente dall’a. come un
periodo cruciale. È infatti negli anni ’70 che l’Impero Ottomano iniziò con le tanzimat
[le riforme] quel processo di modernizzazione che era stato già intrapreso dall’Egitto nel
primo decennio del secolo e sarebbe stato seguito in Persia agli inizi del ’900. Ed è sempre
nel corso dell’800 che l’incontro tra islam e Europa diede vita agli alternativi processi di
«modernizzare l’Islam o islamizzare la modernità» (p. 12). D’altronde uno dei principali
fili rossi del volume è rappresentato dai processi di modernizzazione: imposto dall’alto
in Turchia e Iran, con conseguenze assai diverse per i due paesi; voluto dal nazionalismo
arabo di stampo socialista – all’interno di un Medio Oriente che veniva coinvolto nella
guerra fredda – in Siria, Iraq ed Egitto, prima che quest’ultimo si aprisse alle ricette liberiste (o supposte tali); inseguito con contraddizioni nei rentier states del Golfo, cui il volume
dedica pagine particolarmente interessanti. Così come trova ampio spazio l’analisi della
rilettura che della modernità ha fatto l’islam, con la nascita dell’«islamismo moderno»
(p. 100). Un altro filo conduttore è poi il conflitto israelo-palestinese, che «ha scandito
l’intera storia del Medio Oriente contemporaneo» (p. 62) e occupa una buona fetta del
volume, sebbene sia giustamente presentato come uno tra i vari conflitti di difficile soluzione – basti pensare alla guerra civile libanese e al conflitto Iran-Iraq – e non come «la
causa» dei mali del Medio Oriente.
Si tratta, in conclusione, di un ottimo volume, utilissimo per gli studenti universitari ma anche per tutti quei lettori che vogliano comprendere il background storico degli
avvenimenti mediorientali più recenti. Dispiace solo che – non sappiamo se per scelta
dell’a. o della casa editrice – non vi siano note e che l’apparato bibliografico, pur buono,
non tenga conto di tutta una serie di pubblicazioni straniere, soprattutto articoli di riviste
scientifiche, che avrebbero permesso un ulteriore approfondimento.
Arturo Marzano
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
190
i libri del 2012 / 1 - monografie
Marcella Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1991 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 328
pp., € 25,00
Questo volume di Marcella Emiliani completa e aggiorna fino al primo decennio del
2000 la storia di questa regione trattata in un altro saggio (se ne veda la recensione in questo stesso fascicolo). Contrariamente a quanto annuncia il titolo, il libro non abbraccia
solo la storia del Medio Oriente (in cui sono inclusi anche Afghanistan e Iran), ma tocca
anche quella recente del maghreb arabo. L’inizio della storia, il 1991, è l’anno del lancio
dell’operazione Desert Storm contro l’Iraq di Saddam Hussein. Questa è la cesura che l’a.
individua come l’inizio di una stagione di tensioni acutissime tra mondo occidentale e
mondo islamico, ma che ha visto anche l’avvio di un processo fallimentare di democratizzazione del mondo arabo, guidato dall’alto, che porterà a ciò che l’a. descrive come «la
disillusione di fine millennio» (cap. 1). Il secondo e terzo capitolo raccontano gli ultimi
due decenni del maghreb e del mashreq a partire dal rapporto tra islam e democrazia. La ricostruzione proposta, un’utile e colta sintesi degli ultimi vent’anni di storia mediorientale,
è di agevole lettura, pur non rinunciando alla precisione documentaria che è inquadrata
in box tematici e proposte di approfondimento bibliografico. Si tratta di una vicenda
complessa che la studiosa dipana con pazienza secondo alcuni temi, tra cui emergono
come fondamentali la questione palestinese e il fondamentalismo islamico. Il lettore non
specialista potrà ripercorre le tappe che hanno portato dagli accordi di Oslo fino all’assassinio di Rabin, individuato come il momento conclusivo di quel processo. Quanto al
fenomeno dell’islam politico, l’a. opera un’interessante e opportuna distinzione tra quello
maghrebino e quello mediorientale, sottolineando come negli anni ’90 del secolo scorso
l’Occidente non abbia saputo o voluto operare questa necessaria discriminazione tra i vari
movimenti islamisti. In particolare, Emiliani segnala l’atteggiamento europeo nella crisi
algerina di quegli anni che «ha condizionato pesantemente il giudizio su tutti i movimenti islamisti del Medio Oriente» (p. 88). Nel quarto capitolo, dedicato all’11/9, viene
spiegato il riassestamento geostrategico delle potenze regionali e mondiali rispetto all’operazione americana Enduring Freedom. Nel quinto capitolo si propone un bilancio della
lotta globale al terrorismo, analizzando con efficacia giornalistica le operazioni americane
in Afghanistan e in Iraq. Nell’ultimo capitolo, dedicato alle Primavere arabe, l’a. ribalta
la prospettiva corrente: il problema non è se l’islam sia o meno compatibile con la democrazia, ma se oggi esso possa farne a meno (p. 299), chiedendosi quali dei movimenti
politici islamici odierni possano rappresentare effettivamente «l’islam». A giudizio dell’a.,
le organizzazioni terroristiche che si richiamano all’islam sono incapaci di convincere le
masse e non hanno futuro (p. 300). La loro trasformazione in formazioni che accettano il
gioco democratico è un processo non semplice, ma nemmeno impossibile.
Paola Pizzo
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Peter Englund, La bellezza e l’orrore. La Grande Guerra narrata in diciannove destini, Torino, Einaudi, 586 pp., € 24,00
È decisamente improprio definire questo volume un’opera storiografica sulla Grande
guerra e tuttavia è una storia (o antistoria come la definisce provocatoriamente lo stesso
a., storico, accademico di Svezia e corrispondente di guerra) che lascia indubbiamente un
segno nella narrazione dell’evento che ha segnato il vero inizio del XX secolo e di cui ci
apprestiamo a celebrare il centenario. Siamo infatti di fronte a un formidabile diario del
primo conflitto mondiale scritto giorno per giorno non da una persona ma da diciannove «piccoli» protagonisti. Quasi tutti uomini, quasi tutti giovani, quasi tutti sconosciuti
(gli unici nomi noti sono quelli di Robert Musil e di Paolo Monelli), i testimoni presi
in esame dall’a. si trovarono in contesti diversi tra l’estate del 1914 e la fine del 1918 a
vivere direttamente la tragedia bellica e a raccontarla nei loro diari o nelle memorie. Dai
preparativi, accompagnati non di rado da un entusiasmo nazionalista, fino alla conclusione che comportò per alcuni di loro la morte o la malattia fisica o mentale, i giorni
della guerra sono qui scanditi in duecentododici brevi capitoli, veri e propri frammenti
del dramma collettivo. Dalle trincee del fronte occidentale ai deserti della Mesopotamia,
dallo scontro navale nelle acque del Mediterraneo al combattimento in montagna, lo
scenario di guerra cambia a ogni pagina riuscendo a restituire il racconto di un fronte di
guerra davvero mondiale e il senso di una tragedia che apparve già allora fuori da ogni
scala storicamente comprensibile. Incombe su questa narrazione fatta di e dagli umili il
rischio di una ricostruzione ideologica che ha o avrebbe cioè lo scopo di stigmatizzare gli
orrori della guerra, di tutte le guerre. E non potrebbe essere altrimenti nel momento in
cui l’a. assume punti di vista ed emozioni che appartengono più alla ovvia e sofferta psicologia di esseri umani buttati nella bufera bellica che a un quadro storico. Tuttavia il testo
(che non è e non vuol essere opera storiografica), riesce come pochi altri a far emergere le
specificità della Grande guerra. Illuminanti sono le pagine dedicate al coinvolgimento –
per molti aspetti inedito – dei civili nell’apocalisse bellica sul fronte serbo. Ma ancora più
coinvolgenti e pertinenti sono i continui riferimenti alla centralità del corpo, che è qui
luogo non di una generico quanto scontato patimento umano ma di una trasformazione di
senso del rapporto tra cittadino e Stato nella nascente società di massa. In questa «intimate
history», come recita il titolo inglese del volume, l’elemento unificante dello scenario
bellico sembra infatti costituito da una modernità che se da un lato si mostra negli effetti
devastanti delle nuove armi di distruzione, dall’altro si qualifica nell’ambizione ostinata
di Stati e eserciti a ricostruire – attraverso un’occhiuta sorveglianza disciplinare e medica – le principali macchine della guerra e cioè i corpi dei soldati. Devastare e riparare il
corpo è il centro della Grande guerra, quel centro che Paolo Monelli – come quasi tutti
i combattenti – non riuscì mai a trovare sentendosi come una marionetta «nelle mani di
un burattinaio ignoto».
Barbara Bracco
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Silvia Falconieri, La legge della razza. Strategie e luoghi del discorso giuridico fascista, Bologna, il Mulino, 321 pp., € 25,00
Il volume si inserisce all’interno di un filone di ricerca – il rapporto tra la cultura giuridica fascista e lo sviluppo di un’ideologia e di una prassi normativa razzista – che negli
ultimi anni ha già conosciuto solidi e convincenti apporti conoscitivi e interpretativi e sulla cui scia, di fatto, l’a. si colloca. L’obiettivo è quello di valutare quale sia stato «l’apporto
degli operatori del diritto al processo di costruzione della diversità giuridica dell’ebreo
[…] e di analizzare come la dicotomia cittadino italiano di razza ariana/cittadino italiano
di razza ebraica è stata accolta dalla dottrina degli anni Trenta e Quaranta» (p. 15). A tal
fine, il lavoro si basa su un’ampia e minuziosa analisi dei testi prodotti dai giuristi italiani
in materia razziale (e si intende con questo, sia legislazione coloniale che antisemita) e
sugli interventi comparsi sulle pagine del ricco e articolato universo delle numerose riviste
giuridiche italiane del periodo.
Le frequenti aperture comparative, alla Francia in particolar modo, costituiscono
uno degli elementi di pregio del lavoro e confermano come la cultura giuridica fascista,
per lo meno in tema di razza e per ciò che attenne alla definizione di una politica di
esclusione dei cosiddetti «sudditi» coloniali, abbia avuto come principale riferimento il
contesto francese. Nell’analisi proposta dall’a. è del resto lo stretto legame tra normativa coloniale e normativa antiebraica a uscire rafforzato o, per meglio dire, le pagine
del volume confermano ulteriormente lo sforzo che i giuristi fecero per considerare e
sistematizzare in maniera unitaria la politica di esclusione delle popolazioni colonizzate
e degli ebrei (p. 213). In tal senso, quello che appare particolarmente convincente nella
lettura avanzata dall’a. è l’interpretazione «di un movimento che [andò] dalla colonia alla
metropoli» (p. 15). Tale tesi trova una convincente dimostrazione nel caso delle norme
antisemita dedicate ai «misti» (i figli di «ariani» ed «ebrei»). La scelta del fascismo di non
fare dei «misti» una categoria giuridica a parte – al contrario di quanto fece il nazismo –
sembra, infatti, affondare le proprie radici proprio nella precedente legislazione coloniale
relativa ai meticci.
Come precisato dall’a., la ricerca su cui si basa il volume è focalizzata sul periodo
1938–1943. Tuttavia, proprio lo «schiacciamento» della ricerca a tale quinquennio, e un
tipo di lettura e di analisi dei testi che nel complesso rimane troppo interno alle pagine
esaminate (chi erano quei giuristi? qual era la loro formazione?) rischia di lasciare irrisolto
il quesito di fondo, ovvero se la partecipazione di molti di loro alle discussioni sulle politiche razziali del regime sia stata dettata e/o forzata da motivi contingenti e strumentali
oppure sia stata espressione di un clima culturale e di una riflessione di più lunga data.
Ilaria Pavan
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Giovanni Farese, Luigi Einaudi. Un economista nella vita pubblica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 154 pp., € 13,00
Secondo l’a., questo volume «è una biografia divulgativa, che può essere letta da
tutti» (p. 9). Si fonda quindi su materiali noti, su studi apparsi nel corso degli anni e,
esplicitamente, non ambisce a proporre una nuova interpretazione della funzione pubblica svolta da Luigi Einaudi nel corso del ’900. Il libro si propone di divulgare la conoscenza intorno a una figura di indubbio rilievo del nostro XX secolo, con un peculiare
percorso esistenziale che, dalle colonne dei quotidiani, dalle pagine delle riviste e dalle
aule dell’università, lo condusse prima a Palazzo Madama, poi a Palazzo Koch, infine
al Quirinale. La vita di Einaudi è scandita da Farese secondo lo scorrere delle stagioni:
sebbene fosse nato il 24 marzo, l’a. ne connota come inverno la prima fase dell’esistenza, fino all’avvio della collaborazione con «Il Corriere della Sera», quando ebbe inizio la
primavera. Essa si protrasse fino alla cacciata di Albertini dal quotidiano di via Solferino,
a cui seguì la secca e arida estate della dittatura fascista, fino al vivace autunno intriso di
impegno pubblico. Ciascuna delle quattro fasi fu contraddistinta, secondo l’a., da un
incontro decisivo: nella giovinezza con Giovanni Vailati, che fu «il maestro di un atteggiamento, di un puntiglio e di un abito critico in un Paese non immune dalla faciloneria»
(p. 29). In età adulta con Luigi Albertini, con il quale Einaudi collaborò al fine di «dare
pubblicità agli interessi della maggioranza dispersa e silenziosa, contrari a quelli della
minoranza organizzata e rumorosa» (p. 62). Nella maturità con Benedetto Croce, anche
per l’Einaudi della polemica su liberismo e liberalismo un fondamentale «punto di riferimento […] nei momenti difficili» (p. 85), come la scelta intorno al giuramento di fedeltà
imposto dalla dittatura ai professori universitari. Nella vecchiaia con Ernesto Rossi, vicino al maestro che lo aveva seguito negli anni del carcere e dell’esilio, tanto da esserne in
qualche misura il continuatore in età repubblicana, poiché Rossi fu il «nuovo sferzatore
del malcostume economico degli italiani» (p. 128). La presenza di Einaudi nella cultura,
nella società e nella politica del ’900, secondo l’a., può essere riassunta essenzialmente in
questo: nell’aver dato una spinta propulsiva al ruolo pubblico dell’economista. Se non fu
il primo (il terreno fu preparato a partire dagli anni ’60 del XIX secolo da un quotidiano
come «Il Sole»), è indubbio che l’incessante attività di Einaudi sulle pagine del «Corriere
della Sera», con la «centralità accordata alla formazione dell’opinione pubblica per la crescita economica e civile della società italiana», fa comprendere le ragioni per le quali «un
autentico intellettuale», «un apprezzato economista» riuscì a divenire un «grande statista»
nel tempo della costruzione democratica della Repubblica quando egli, che pure aveva
«mancato di cogliere la carica riformatrice di Keynes e del Welfare State» (p. 135), trovò
insostituibili interlocutori in quanti da quella fondamentale esperienza culturale erano
stati indelebilmente segnati.
Paolo Soddu
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Ferdinando Fasce, Le anime del commercio. Pubblicità e consumi nel secolo americano,
Roma, Carocci, 235 pp., € 17,00
Con questo libro Ferdinando Fasce offre la più completa storia della pubblicità e
dei consumi negli Stati Uniti disponibile in italiano. Il racconto dello storico genovese
procede in una prospettiva nazionale, con rare concessioni ad analisi transnazionali o
comparative. E tuttavia, come sottolinea l’a., l’esame del caso statunitense è indispensabile per la comprensione del costituirsi della pubblicità in sistema industriale anche in
Europa e in Italia. Il secolo «americano» è stato tale in misura importante in conseguenza
delle fortune globali di istituzioni e linguaggi del consumo di matrice statunitense, che
hanno contribuito a formare condizioni materiali e visioni del mondo di masse di persone
in tutto il pianeta. Fasce ha preso sistematicamente in esame la storiografia americana
sul tema (il saggio bibliografico che chiude il volume costituisce infatti uno strumento
di consultazione molto utile), ma la sua metodologia di ricerca sulle fonte primarie ha
consistito nella ricostruzione biografica di figure centrali della pubblicità e delle pubbliche relazioni d’oltreoceano (da Ernst Dichter a personaggi misconosciuti al di fuori degli
Stati Uniti) e nell’analisi delle agenzie pubblicitarie come centri operativi dove gli impulsi
provenienti dalla società sono stati rielaborati secondo tecniche e strategie comunicative
via via influenzate dall’arte, dalla psicologia, dalla psicanalisi e dalla demografia.
Cent’anni di storia dei consumi vengono rivisti attraverso la lente interpretativa
«biografica», a partire dalle origini della pubblicità moderna, coeve all’emergere di una
quasi sinonimia tra americanismo e capitalismo e a un nuovo «impero delle cose». A
inizio ’900 la promozione dei prodotti avveniva sulle riviste illustrate e sui cartelloni
pubblicitari, esteticizzando i beni di consumo e democratizzando l’accesso al «bello» e al
desiderio. Da subito, nota Fasce, le strategie pubblicitarie si divisero tra quelle descrittive
delle qualità del prodotto e quelle evocative, che alludevano al valore simbolico di una
merce o marchio (brand). Nel secondo dopoguerra, la tv sostituì la radio come media su
cui transitavano i messaggi di più larga presa, compresi quelli elettorali. Nell’epoca del
movimento per i diritti civili la pubblicità cominciò a coltivare in modo sistematico la
segmentazione del mercato, rispondendo alle identità razziali, etniche, di genere e generazionali dei consumatori.
Fasce evita di prendere esplicita posizione sulla «bontà» della pubblicità in quanto
lessico che ha plasmato il secolo americano: linguaggio mirato a imbonire le masse, sviandole dai propri veri bisogni e interessi, o codice interpretativo utile a rapportarsi a merci e
servizi e quindi costruire identità individuali e collettive, ben al di là delle intenzioni degli
stessi pubblicitari? Insieme a uno stile di scrittura accessibilissimo, l’analisi equilibrata e
omnicomprensiva rispetto a «sostenitori» e «detrattori» della pubblicità fa di Le anime
del commercio un libro consigliato per l’adozione in corsi sia specialistici che triennali di
Storia degli Stati Uniti e Storia dei consumi.
Simone Cinotto
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Emma Fattorini, Italia devota. Religiosità e culti tra Otto e Novecento, Roma, Carocci, 193
pp., € 16,00
Le molte e controverse facce delle devozioni e del devozionalismo come componenti
fondamentali della storia del cattolicesimo italiano costituiscono la traccia su cui si muove
il libro della Fattorini, prendendo le mosse dalla parziale rielaborazione del contributo
firmato dalla stessa autrice per l’opera collettiva diretta da A. Melloni, Cristiani d’Italia,
e originariamente intitolato Devozioni e politica. L’accostamento dei due termini stava a
indicare una delle cifre di lettura adottate dall’a. nei riguardi delle pratiche devozionali
nella storia dell’Italia unita sino ai nostri giorni, che ritroviamo, maggiormente articolata,
anche in Italia devota. Ciò non significa che Fattorini intenda «ridurre» la storia delle
devozioni a una storia politica, in senso, per dir così, banalmente strumentale, ma riflette
un atteggiamento storiografico portato a cogliere il rapporto complesso tra le forme e i
contenuti variabili delle devozioni – inclusi i loro specifici campi di diffusione – e i contesti in cui esse hanno preso forma, si sono sviluppate o sono declinate. In questo senso il
libro di Fattorini, pur dichiarando apertamente il proprio debito al magistero storico di
don Giuseppe De Luca e alla sua proposta di Storia della pietà, si inserisce positivamente
in più recenti tendenze della storiografia religiosa, ponendosi domande e cercando risposte non solo intorno al “perché” dei difformi andamenti della pratiche devozionali, ma
anche sul loro «significato» in ordine alle coeve trasformazioni socio-culturali e, in senso
lato, politiche.
I riferimenti alla storia delle devozioni mariane (santuari, pellegrinaggi, apparizioni
ecc.) costituiscono l’asse centrale del volume, intorno a cui vengono fatte ruotare tematiche senza dubbio più eccentriche: l’analisi delle «politiche di beatificazione» contemporanee, o lo studio delle relazioni tra eminenti personalità religiose, come don De Luca e
il convertito Clemente Rebora, e figure femminili a loro spiritualmente quanto intimamente legate, come Romana Guarnieri e Adelaide Coari, o ancora uno squarcio analitico
sulla questione religiosa in Gramsci. Nell’insieme si tratta dunque di un’opera che, senza
pretendere a una sua sistematicità essendo una raccolta di saggi e di assaggi, presenta molti
spunti di notevole acume analitico e suggerisce considerevoli piste di ricerca in direzioni
rimaste per lungo tempo ai margini della nostra cultura storica.
Francesco Traniello
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Vasco Ferretti, Padule di Fucecchio. La strage, il processo, la memoria di una comunità,
Ospedaletto (Pisa), Pacini Editore, 120 pp., € 15,00
Il volume di Vasco Ferretti si discosta dall’ormai vasta produzione storiografica sulle
stragi realizzate dall’esercito tedesco nella penisola italiana. Il libro racconta, con stile
giornalistico e divulgativo, la strage di Padule Fucecchio, vasta area pianeggiante tra le
province di Firenze e Pistoia, in cui, nell’estate del 1944, e più precisamente il 23 agosto, diversi reparti della ventiseiesima divisione corazzata uccisero 175 persone, comprese
donne e bambini, per lo più civili rifugiatisi nella zona per sfuggire ai bombardamenti
delle città vicine.
Se tuttavia i recenti studi sullo stragismo nazista si sono concentrati sulla ricostruzione degli eccidi, illustrando le giustificazioni antipartigiane dei militari tedeschi ma
anche le diverse prospettive dei civili italiani e dei volontari impegnatisi nella lotta resistenziale, il testo di Ferretti si concentra in particolar modo sul procedimento penale
aperto dalle autorità giudiziarie italiane nel 2004 e conclusosi, dopo non poche peripezie,
nel 2011 presso il Tribunale militare di Roma. La prima parte del saggio è quindi dedicata in particolare alla ricostruzione della stagione giudiziaria apertasi dopo la scoperta
del cosiddetto «armadio della vergogna». Portati avanti soprattutto dal Tribunale militare
di La Spezia, competente per Toscana e Liguria, molti dei nuovi processi contro soldati
germanici hanno subito un’interruzione per il riordino della giustizia militare disposto nel
2007. L’istruttoria sul massacro di Padule, condotta da Marco De Paolis, già procuratore
militare nella città ligure, ha trovato una sua conclusione positiva grazie all’assegnazione
del magistrato alla sede romana, a cui il processo era stato nel frattempo assegnato per
competenza.
La scelta di partire dal processo ha prodotto un significativo cambiamento: la strage
è raccontata a partire dagli atti processuali e grande risalto viene dato alle prove della
presenza sul luogo dei tre imputati. Parallelamente vengono ricostruiti i movimenti della
ventiseiesima divisione corazzata e l’utilizzo che ne fecero i vertici della Wehrmacht in
Italia in funzione antipartigiana, avvalendosi su questo punto dell’ampia storiografia esistente sul tema.
Si arriva dunque alla narrazione della strage seguendo questo percorso a ritroso e
servendosi sia dei testimoni italiani al processo, sia delle deposizioni raccolte subito dopo
la strage dalle unità investigative alleate create per documentare le atrocità tedesche. Lavorando su questi fonti, Ferretti dimostra l’esistenza di fratture nella memoria collettiva
dei sopravvissuti, che a distanza di anni confermano la sensazione di aver pagato sulla
loro pelle la presenza di partigiani armati. La recente sentenza della Corte Internazionale
di Giustizia dell’Aja che annulla i provvedimenti di risarcimento previsti dalla giustizia
italiana per le vittime della violenza tedesca riconoscendo alla Germania la potestà in
materia, lascia aperto il problema di dare una risposta condivisa alla sete di giustizia delle
vittime del secondo conflitto mondiale.
Tommaso Baris
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Matteo Fiorani, Follia senza manicomio. Assistenza e cura ai malati di mente nell’Italia del
secondo Novecento, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 410 pp., € 36,00
Consacrato alle vicende dell’assistenza psichiatrica nel grossetano, territorio caratterizzato dall’assenza di un manicomio provinciale e dalla necessità di ricoverare i propri
folli presso il manicomio di Siena, quello di Fiorani è un testo dalle dichiarate ambizioni.
Come sintetizza Patrizia Guarnieri nelle pagine introduttive, il punto di partenza sta «nel
contestare che la storia della psichiatria coincida con la storia delle istituzioni manicomiali» (p. 9). Ampliando notevolmente gli abituali orizzonti tematici, l’a. intende infatti
porre rimedio alla lacuna per cui «la storiografia italiana è rimasta prevalentemente fissata
sulla dimensione istituzionale [i.e.: asilare] della follia, non seguendo le tendenze internazionali, concentrate a indagare le esperienze extraospedaliere» (p. 21).
Cinque densi capitoli, sorretti da una minuziosa indagine documentaria e da una
solida erudizione bibliografica, concorrono a «fare storia della psichiatria del secondo
dopoguerra» (p. 32), il che senza dubbio eleva il volume a pietra di paragone ineludibile
per le future ricerche interessate a sviscerare «le molteplici relazioni che si instauravano sul
territorio fra i vari soggetti e istituzioni coinvolte nella gestione della malattia mentale» (p.
25). Segnalo brevemente alla discussione che, mi auguro, accompagnerà la pubblicazione,
due elementi critici.
Innanzi tutto - pur avendo il merito di solcare territori poco e male indagati dando
voce a figure professionali e attori sociali troppo spesso trascurati (infermieri, assistenti
sociali, educatori) - l’a. risolve la testualizzazione in una follia senza folli, in una tradizionale configurazione discorsiva centrata sulle istituzioni, sebbene alle carte della medicina
manicomiale siano sostituite, con la memorialistica, la documentazione prodotta dai o
relativa ai centri di igiene mentale, agli ambulatori dispersi nel territorio, alle case di
riposo sussidiarie del manicomio senese, alle case-famiglia. Fatti salvi i noti e, spesso, invalicabili ostacoli frapposti alla consultazione archivistica, lascia perplessi veder emergere
gli ammalati in oltre 400 pagine di esposizione soltanto in incidentali occasioni (per es. a
p. 296 e a p. 367). In secondo luogo è da evidenziare – in sintonia con la nouvelle vague
storiografica? – una sorta di eccesso culturalista, con il ricorso enfatico, in passaggi chiave
dell’interpretazione, a nozioni ambigue o dal palese sovraccarico metaforico. È sufficiente
anche un solo accenno ai dibattiti delle scienze umane degli ultimi decenni (Boon, Geerz, Clifford, Fabietti-Borutti) per percepire il lato epistemologicamente fragile di una
ricostruzione che, per un lasso di tempo serrato in 50/60 anni, invoca ripetutamente
dispositivi dalle opinabili pretese di referenzialità diretta al piano empirico come «svolta
culturale», «contaminazione culturale», «cesura mentale», «trasformazione del paesaggio
mentale».
Ciò detto nulla toglie, comunque, alla dimensione innovativa dell’analisi, e ai suggerimenti euristici che altri studiosi potranno fruttuosamente ricavare dalla lettura del
volume.
Andrea Scartabellati
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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Giovanni Focardi, Magistratura e fascismo. L’amministrazione della giustizia in Veneto
1920-1945, Venezia, Marsilio, 410 pp., € 37,00
Negli ultimi anni la storia della magistratura italiana è stata oggetto di una maggiore
attenzione storiografica e, soprattutto, è mutato grandemente l’approccio metodologico
rispetto ai primi studi, datati tra gli anni ’60 e ’70. Seguendo la lezione di Pietro Saraceno
– lo studioso che più di tutti ha influenzato il nuovo corso di studi – è aumentato l’interesse per la magistratura come corpo, per le biografie dei magistrati, per le loro caratteristiche sociali ed economiche, per il loro rapporto con la politica. Anche questo aspetto,
però, è oggi declinato in modo diverso rispetto al passato: sotto osservazione, piuttosto
che il dibattito politico dell’epoca, è il concreto funzionamento dell’amministrazione della giustizia e dei suoi meccanismi interni, analizzato insieme alla vicenda umana e professionale degli uomini che esercitavano lo juris dicere (per una rassegna storiografica, cfr.
F. Venturini, Vecchi e nuovi studi sulle magistrature, in «Le Carte e la Storia», n. 1, 2011,
pp. 115-132).
Il «viaggio», attraverso il quale ci conduce il bel libro di Focardi, parte dal 1920 (seguendo una periodizzazione diversa da quella politica, perché, come scrive l’a., le cesure
sono legate alla specificità della storia della magistratura) e termina nel 1945, a conti
ancora in parte da compiere con l’eredità del fascismo. Il terreno scelto è quello inusuale
(e per questo particolarmente interessante) di un’amministrazione periferica dello Stato,
come quella delle Corti d’appello del Veneto, che l’a. «fotografa» nei suoi momenti esteriori (gli altisonanti e retorici discorsi inaugurali dei procuratori generali, ad es.), ma che
soprattutto scandaglia nei sommovimenti interni. Sono, quindi, riportate non solo le
statistiche giudiziarie (che raccontano la realtà della giustizia), ma le storie dei magistrati
che compongono le Corti, i tribunali, le preture: dall’alto magistrato al più umile dei
giudici, che, però nelle pagine del volume, riacquista lo status che comunque (persino a
onta dello stipendio spesso non altissimo) aveva nella società gerarchicizzata dell’epoca.
Una notazione merita poi l’attento utilizzo delle fonti (non solo) archivistiche, purtroppo
in molti casi incomplete, ma che l’a. riesce a «far parlare» in modo molto convincente.
La domanda relativa a «quanto furono fasciste le istituzioni fasciste», su cui ruota
l’impianto del libro, è da tempo al centro del dibattito tra gli storici delle istituzioni, ma
non solo (cfr. G. Melis, Le istituzioni italiane negli anni Trenta, in Lo Stato negli anni Trenta, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 91-107). Dal suo osservatorio veneto Focardi conclude
per una forte fascistizzazione, perché «la magistratura fu posta sotto l’ala protettiva del
regime fin dagli esordi» e non ebbe «la possibilità di mantenere la propria autonomia» (p.
268). Ma in questa impossibilità giocò sicuramente la continuità con il regime liberale, in
cui la forte dipendenza dall’esecutivo era stata una costante indiscutibile.
Antonella Meniconi
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Domenico Fracchiolla, Un’ambasciatore della «nuova Italia» a Washington: Alberto Tarchiani e le relazioni tra Italia e Stati Uniti 1945-1947, prefazione di Piero Craveri, Milano,
FrancoAngeli, 288 pp., € 35,00
Basandosi su un’approfondita ricerca nelle fonti dell’Archivio storico del Ministero
degli Esteri e dell’Archivio centrale dello Stato (e seguendo le orme di Ilaria Poggiolini
e dello stesso Alberto Tarchiani), Domenico Fracchiolla ci fornisce un resoconto quasi
giornaliero delle attività del primo ambasciatore d’Italia a Washington del secondo dopoguerra. Temi di particolare interesse trattati nel libro sono l’intensa e spesso efficace
attività di lobbying di Tarchiani presso l’opinione pubblica, il clero e la classe politica
americana in favore della «nuova Italia» (formula coniata e usata da Tarchiani); il suo lavoro di analisi per provare a rendere la politica interna ed estera americana comprensibili
alla nuova classe politica romana; e infine il suo ruolo indispensabile nell’organizzare il
viaggio del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi negli Stati Uniti nel gennaio 1947.
Il libro potrebbe anche chiamarsi «l’educazione di un diplomatico». Sia per la sua indole
ottimista sia per la sua convinzione che l’Italia co-belligerante e anti-fascista meritasse un
trattamento più benevolo, Tarchiani si era illuso circa la natura del trattato di pace che
l’Italia avrebbe dovuto subire come conseguenza dei suoi imperdonabili errori. Fracchiolla
mette a confronto l’atteggiamento di Tarchiani col maggior realismo, almeno nella fase
iniziale del dopoguerra, dell’ambasciatore italiano a Mosca Pietro Quaroni, che scrisse
(agosto 1945): «noi non siamo più un soggetto, ma un oggetto, di politica internazionale,
questa è la triste verità della nostra situazione…» (p. 76). Da parte sua, Tarchiani aveva
capito abbastanza presto (anche se il punto non è sviluppato dall’a.) che l’oggetto Italia
avrebbe potuto trarre benefici concreti dal conflitto sempre più aspro fra i principali soggetti, gli Stati Uniti e l’Urss.
Il problema di fondo del libro è che si tratta di un resoconto eccessivamente particolareggiato, piuttosto che selettivo, del lavoro svolto dal suo instancabile protagonista.
Non abbiamo bisogno di sapere (per fare un esempio fra tanti) che «Tarchiani scriveva a
Nenni di aver ricevuto dal segretario del Consiglio dei Quattro due esemplari del testo
definitivo del trattato di pace in lingua francese, inglese e russa e una copia delle carte
geografiche. L’Ambasciatore anticipava anche un prossimo invio della traduzione italiana,
in corso di stampa» (p. 224). Ci sono molte cose che vanno da sé. Il testo avrebbe potuto
essere ridotto di almeno un terzo senza lesinare niente di essenziale al lettore.
John L. Harper
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Enrico Francia, 1848. La rivoluzione del Risorgimento, Bologna, il Mulino, 394 pp.,
€ 30,00
Circola aria nuova in questo ampio affresco sul Quarantotto italiano, di cui si sentiva
da tempo la mancanza, visto il carattere datato o il taglio poco più che scolastico delle
poche trattazioni d’insieme disponibili sull’argomento: una mancanza resa più acuta dalla
molteplicità e innovatività delle ricerche apparse soprattutto a partire da quando – nel
corso degli anni ’80 – il tema della nazione e della nazionalità è tornato alla ribalta, imponendosi come vera e propria chiave di volta per comprendere alcuni dei tratti portanti
del mondo contemporaneo. Aggiornato nella bibliografia, ricco di scavi archivistici, estremamente chiaro nella partizione dei temi e nella scrittura, il volume mette a fuoco tappe
e aspetti della «lunga rivoluzione» che, fra la salita al soglio pontificio di papa Mastai e
la resa di Venezia, scardinò ordinamenti e coscienze della penisola, infiammando per tre
anni pieni città e scritture, menti e cuori, e segnando un punto di non ritorno di tale
radicalità nella storia dell’Italia contemporanea da rendere difficile perfino parlare tout
court di sconfitta: e stupisce semmai che dopo aver sottolineato con forza la capillarità e
le profondità di quel prodigioso triennio «dei miracoli», l’a. si limiti a concludere l’opera
ricordando che con l’aprirsi dell’autunno del 1849 iniziò «una nuova fase del Risorgimento» (p. 383).
Di fatto, attraverso sei capitoli volti a restituire l’intreccio di tempi e di temi di
una rivoluzione «a dimensione plurale» ma dal profilo profondamente unitario (pp. 1213), il volume ci conduce per mano dalle travolgenti costruzioni mitopoietiche aventi
a protagonista Pio IX e una idea nazional-teocratica del futuro dell’Italia alla faticosa
appropriazione di massa di argomenti e linguaggi, strumenti e obiettivi della modernità
liberale e democratica, anche se percepiti e presentati sotto le mentite spoglie di redivive
«tradizioni autoctone». E lo fa grazie a un’accurata messa a fuoco di strumenti e luoghi,
retoriche ed esperienze attraverso cui si venne realizzando non solo un mutamento/ampliamento quanto mai significativo della classe dirigente, della sua mentalità e della sua
cultura, delle sue coordinate spaziali e delle sue reti di relazione, ma un incomprimibile
processo di politicizzazione sia di vasti ceti medi urbani e periferici, sia di spezzoni del
mondo popolare.
Detto tutto il bene possibile di questa ultima fatica di Enrico Francia, però, non si
può fare a meno di rilevarne due mende: la prima riguarda il fatto che mai viene davvero
messo a tema il fatto che il Quarantotto italiano è parte integrante di una rivoluzione europea; la seconda ha a che fare con la scarsa attenzione data alle ricadute delle dinamiche
economiche e sociali che innervavano la rivoluzione e di cui essa ci aiuta a vedere ambiguità e fecondità. Ma forse è ancora troppo presto per pretendere che modalità di lettura
chiaramente ispirate a paradigmi storiografici «culturalisti» riescano ad affrontare di petto
e a plasmare in nuove forme materie decisamente lontane da quelle che hanno presieduto
alla loro definizione e alla loro fortuna.
Simonetta Soldani
i libri del 2012 / 1 - monografie
201
Paolo Fragiacomo, L’industria come continuazione della politica. La cantieristica italiana
1861-2011, Milano, FrancoAngeli, 383 pp., € 43,00
In questo volume l’a. amplia le sue ricerche precedenti, dà un originale quadro complessivo dei rapporti tra l’industria delle costruzioni navali e le politiche marittime italiane,
e ne identifica i momenti di svolta. Proprio perché ogni cantiere navale è virtualmente convertibile dalle produzioni mercantili a quelle militari e qualsiasi nave (considerata territorio
nazionale, anche se naviga in acque estere) rappresenta anche uno strumento di espansione,
tale industria è storicamente legata a fattori extraeconomici e interessi strategici che ne hanno fatto, più che una semplice attività produttiva, uno strumento di potere. Tutto questo
almeno fino agli anni ’70 del secolo scorso, quando la diffusione delle bandiere-ombra ha di
fatto riconfigurato il mercato marittimo mondiale.
L’a. parte da metà ’800, quando l’identificazione tra forza marittima e potenziale nazionale era stretta e interessava anche gli stati preunitari; il Regno d’Italia eredita così numerosi «poli» cantieristici in concorrenza tra loro, riuscendo ad amalgamarli soltanto in parte,
ma finendo comunque con il finanziarli tutti. Nei decenni della «rivoluzione dei trasporti»,
ai molti difetti del sistema non corrispose infatti un generale piano di assestamento. Furono soprattutto la prima guerra mondiale e l’ingresso nel mercato italiano del complesso
marittimo-cantieristico della Venezia Giulia a mettere in crisi il precario equilibrio sul quale
si reggeva la navalmeccanica italiana. I periodo successivo è segnato da una rincorsa tra esigenze «politiche» e di «efficienza gestionale»: le tappe principali vengono collocate negli anni
1933-37 (costituzione dell’Iri e sua trasformazione in ente permanente), 1959 (costituzione
Fincantieri), 1966 (costituzione Italcantieri) e 1984, anno nel quale prese forma la struttura
attuale, con una Fincantieri rinnovata che controlla pressoché tutta la grande cantieristica
nazionale.
La tesi centrale del libro è che il perdurante intervento pubblico non abbia complessivamente giovato al settore, perpetuandone la frammentazione in realtà locali non armonizzate e rallentandone l’evoluzione verso una maggiore produttività. Nonostante i costi
elevati, la cantieristica italiana ha svolto una funzione tanto a livello generale, fornendo navi
di qualità, quanto all’interno dei diversi contesti di insediamento tradizionale. D’altro canto, soprattutto negli anni ’80, anche la Comunità europea ha introdotto una serie di misure
protettive per la cantieristica continentale, rivelatesi per lo più tardive e inefficaci.
Il saggio conferma che la cantieristica è un buon terreno di studio per testare le modalità attraverso le quali si è definito il rapporto tra economia e istituzioni, ne chiarisce i principali caratteri di sfondo, fornendo ai ricercatori un’ampia mole di informazioni e un’accurata
bibliografia. I confronti internazionali riguardo gli ultimi decenni aiutano inoltre a seguire
l’evolversi dei contesti all’interno dei quali si sono definiti sia il declino della cantieristica
europea, sia il succedersi dei vantaggi giapponese, coreano e cinese.
Giulio Mellinato
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
202
i libri del 2012 / 1 - monografie
Paolo Frascani, Le crisi economiche in Italia. Dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza,
284 pp., € 25,00
Sono ambiziosi i motivi di riflessione al centro di un libro che si dichiara spinto
dall’esigenza «di leggere lo svolgimento del “secolo breve” attraverso confronti e comparazioni che ne definiscano più precisamente il significato» (p. VIII). Postosi l’obiettivo di
studiare come tre grandi recessioni internazionali attraversano la vita sociale e culturale di
questo paese nel giro di un secolo, il volume sistematizza le acquisizioni della storiografia
italiana e ne offre una sintesi che privilegia fonti e prospettive precise: dal Mezzogiorno e
peculiarmente dal punto di vista istituzionale del governo e delle finanze locali.
Quello affrontato è un tema di evidente attualità. Eppure, l’a. dichiara di non essere
stato particolarmente influenzato dal momento presente, quanto piuttosto dal problema
del rapporto tra storia economica e storia generale, che proprio le crisi costringono a
ripensare. A interessarlo è la rappresentazione delle crisi stesse, campo che l’a. intende
sottrarre alla lettura esclusiva dell’analisi economica di tipo quantitativo e porre sul piano
dell’agone politico da una lato e dell’opinione pubblica dall’altro, tra politica economica,
formazione delle classi dirigenti, cultura e percezione della crisi.
L’esposizione viene articolata attorno a tre periodi, identificati come «rotture di sistema», nei loro mutevoli incroci tra piano domestico e internazionale: la depressione di
fine ’800 (a sua volta costellata da crisi molteplici), la recessione degli anni ’30, la crisi
innescata dagli shock petroliferi degli anni ’70.
Se la storia economica ha coltivato intensamente il tema delle crisi agrarie, industriali, finanziarie (nel volume sono ampi però anche i rimandi alle letture che ne ha dato la
sociologia attenta alle trasformazioni delle articolazioni sociali o dei consumi), è la storia
generale – sostiene l’a. – a rivendicare una più attenta analisi di quel confine tra politica
ed economia che le recessioni mettono ogni volta in discussione; individua la questione
centrale sia nelle sorti dello sviluppo, sia nelle «connessioni che, in una democrazia matura, si stabiliscono tra il funzionamento dei meccanismi del consenso e l’impoverimento
dei fondamenti della sua economia; […] il modo in cui simili eventi risultano percepiti e
rappresentati da classi dirigenti e opinione pubblica» (p. VIII).
Il fuoco del volume si concentra infatti sul modo in cui in tempi di crisi «la politica
reagisce alla spinta dei molteplici interessi in campo per effetto della rottura degli equilibri
che regolano la distribuzione di oneri e vantaggi tra i diversi settori della compagine sociale» (p. X), ma anche il modo in cui trasformano profondamente il quadro istituzionale
e sociale del paese e mettono in tensione la capacità della politica di farsene interprete e
governarne il ruolo nel contesto internazionale (p. XI).
Il libro reclama approcci che travalichino gli schemi «in cui sono stati incasellati
dall’analisi economica» (p. X), il lettore tuttavia si domanda perché eviti intenzionalmente di incrociare l’ampia letteratura anglosassone che si è più preoccupata, in prospettiva
storica, di letture comparative delle crisi.
Roberta Garruccio
i libri del 2012 / 1 - monografie
203
Emilio Gentile, E fu subito regime. Il fascismo e la Marcia su Roma, Roma-Bari, Laterza,
319 pp., € 18,00
A più di vent’anni di distanza dal primo volume sulla storia del Partito fascista, che
non ha avuto seguito (Movimento e milizia. Storia del partito fascista, Roma-Bari, Laterza,
1989), Emilio Gentile propone una nuova interpretazione dei fatti che condussero alla
marcia su Roma e al primo governo Mussolini. Rispetto a quell’opera, questo volume si
distingue per il tono descrittivo e narrativo e per il suo carattere di sintesi, malgrado l’a.
faccia esplicitamente tesoro, e riferimento, alle ricerche di una vita, anche dal punto di
vista documentario.
Il libro è organizzato in dodici capitoli, nove dei quali dedicati alle origini del fascismo e alla marcia su Roma; gli ultimi tre presentano invece una riflessione sulle reazioni
all’evento. Ognuno dei capitoli è aperto da una brevissima sintesi, di qualche riga e scritta
in corsivo, che offre un distillato dei passaggi fondamentali offerti in quella parte del
libro. Malgrado la scelta divulgativa, Gentile non rinuncia alla proposta di stralci anche
consistenti di documenti, specie dei prefetti, per chiarire e provare con forza le sue ipotesi
interpretative.
La tesi principale del volume si riassume tutta in quel «e fu subito regime» del titolo, anche se – contrariamente a quanto si sarebbe potuto sperare – non viene affrontato
che molto rapidamente il tema della costruzione del regime nei primi mesi del governo
Mussolini, un tema che, nella storiografia italiana, resta ancora ampiamente deficitario di
ricerche e che vede, per i primi anni di governo di Mussolini, la tesi «continuista» prevalere su quella della rottura.
La conoscenza profonda dei meccanismi del partito porta Gentile a valorizzare alcuni aspetti precedentemente poco trattati da altri studiosi, in particolare l’importanza
del partito nella conquista del potere, sottolineando in primo luogo il ruolo di Michele
Bianchi, che appare in questa lettura centrale sia nell’ideazione che nella realizzazione della marcia. Gentile, inoltre, riprendendo i suoi studi precedenti, enfatizza qui nuovamente
la rilevanza del «partito milizia» nel determinare l’inizio del governo fascista. La violenza,
lo si vede bene anche in questo volume, è un elemento essenziale della distruzione della
legittimità a governare dello Stato liberale che il Partito fascista ambisce a dissolvere. Tuttavia, essa appare nel volume talvolta imposta a Mussolini, più che parte della sua strategia, laddove invece essa è considerata un elemento strutturale dello squadrismo, oltre che
del disegno di conquista del potere fascista.
Con questo volume, Gentile inoltre ribadisce con forza – anche in contrasto con il
suo maestro, Renzo De Felice – che la marcia su Roma rappresenta già una frattura definitiva nella storia d’Italia e che anche quel primo governo di coalizione è già dittatoriale,
confermando così le interpretazioni che da alcuni anni hanno messo in discussione la
visione della marcia su Roma come messa in scena.
Giulia Albanese
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Emilio Gianni, Dal radicalismo borghese al socialismo operaista. Dai congressi della Confederazione Operaia Lombarda a quelli del Partito Operaio Italiano (1881-1890), Milano,
Pantarei, 447 pp., € 25,00
Nella premessa si spiega, opportunamente, come la vicenda operaia milanese vada
inquadrata in una prospettiva europea e nel contesto dello sviluppo produttivo, a cui il
libro dà molta attenzione nel I capitolo, anche se è discutibile definire Milano «capitale
operaia», per l’ancor labile definizione ottocentesca del termine. Nella tabella della popolazione attiva tra il 1881 e il 1901, le categorie di salariati sono molte e solo in parte
riconducibili al lavoro industriale. La stessa metallurgia e meccanica avrà forse visto un
cospicuo numero di dipendenti delle botteghe di fabbro e simili. Ma è indubbio che le
diverse categorie, nel complesso, costituivano un ragguardevole esercito di lavoratori, le
cui strutture organizzative non potevano non misurarsi con la crescente ideologizzazione
avviata fin dagli anni della dominazione austriaca. Oltre ai dati numerici che offre, il libro
coglie bene le dinamiche di formazione della classe operaia, in termini di immigrazione,
genere, differenze salariali, condizioni di vita nel contesto urbano, e sottolinea la corrispondenza tra il controllo sociale e il controllo dell’organizzazione del lavoro. Analizza anche i connotati dello sciopero, indicativi delle fasi di maturazione del movimento operaio.
L’esame analitico dei protagonisti delle lotte permette di cogliere elementi di raccordo con
la formazione politica precedente, che molto dovette alla cultura «risorgimentale» del mutuo soccorso. Il particolare interesse al fenomeno mutualistico, su cui altri autori avevano
riflettuto in precedenza, si manifesta nel II capitolo e porta necessariamente a considerare
il ruolo formativo della cultura radicale, organicamente espressa dalla Confederazione
operaia lombarda, ma, in definitiva, da quella Milano borghese che impegna un capitolo,
ma che potrebbe essere chiamata in causa fin dalle prime pagine. Lo sviluppo produttivo
lombardo aveva radici, come in altre aree avanzate della società italiana, nell’evoluzione
intellettuale che, dapprima attraverso i congressi degli scienziati italiani, fin dagli anni ’30
dell’800, aveva espresso un potenziale non trascurabile di rinnovamento di cui, del resto,
facevano parte pure gli studi sull’organizzazione mutualistica operaia. In poche pagine, le
Considerazioni di Maria Grazia Meriggi individuano i tratti fondamentali del complesso
insieme di quell’humus in cui si formò l’esperienza del Partito operaio italiano, valorizzando il metodo della ricerca prosopografica utilizzato dall’autore e condotto con la preziosa
appendice di figure dirigenti e operaie del movimento. La prosopografia, tradizionalmente applicata al background familiare delle aristocrazie, è particolarmente importante per la
ricostruzione di biografie proprie dell’albero genealogico del lavoro. In quel dizionarietto
compaiono sia nomi noti, Giorgina Schiff o Rinaldo Rigola, sia altre biografie esemplari
sotto il profilo della formazione di una coscienza, ma anche sotto quello del patrimonio
di valori con cui la classe costruì il suo profilo, sul piano italiano ed europeo.
Fabio Bertini
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Fabrizio Giulietti, Storia degli anarchici italiani in età giolittiana, Milano, FrancoAngeli,
368 pp., € 44,00
Il libro copre per intero un periodo fondamentale nella storia dell’anarchismo italiano, durante il quale, grazie agli spazi di espressione offerti dal nuovo corso liberale giolittiano, anche gli anarchici si apprestavano, per usare le parole del propagandista romano
Ettore Sottovia, «a combattere con le armi civili dell’organizzazione, della propaganda e
dell’azione popolare collettiva» (Contro gli equivoci, in «L’Avvenire sociale», 25 settembre
1901). Come emerge con chiarezza dalle pagine di tutto il volume, furono quelli gli anni
in cui si andarono precisando e strutturando all’interno della galassia libertaria le diverse e
variegate tendenze oscillanti fra le posizioni organizzative più convinte da un lato e quelle
individualiste più radicali dall’altro.
Seguendo le pagine del libro, che sul piano metodologico fa ampio ricorso a fonti
prevalentemente istituzionali (come i tanti rapporti stilati dagli organi di polizia e riprodotti nell’appendice a fine volume), emerge tuttavia l’impressione che l’anarchismo
italiano sia stato solamente un fenomeno politico consumatosi per intero in una serie di
Congressi nazionali, di discussioni politiche e di confronti su posizioni ideologiche. Lascia in altre parole perplessi l’assenza completa di ogni minimo riferimento al complesso
immaginario culturale del movimento anarchico, che finisce per far torto ai molteplici
interessi e ai variegati percorsi biografici di molti suoi leader e per mortificare il ruolo
svolto dai tanti comuni militanti che in quel periodo aderirono nella penisola al verbo
anarchico.
Se negli stessi studi italiani sul movimento non sono mancate alcune episodiche
aperture alla dimensione dell’immaginario e della mentalità, a partire soprattutto dai
tentativi operati da Maurizio Antonioli (si veda da ultimo la raccolta di saggi Sentinelle
perdute. Gli anarchici, la morte, la guerra, Pisa 2009), questo ponderoso testo non sembra
tuttavia recarne alcuna traccia. In tal senso, al di là dell’approfondito lavoro di scavo
archivistico compiuto dall’a., il volume risulta sintomatico di un’arretratezza che la storiografia italiana sulle classi subalterne e sul movimento operaio continua troppo spesso a
mostrare. Un’impermeabilità alle tendenze della più aggiornata storiografia internazionale
ben sintetizzata ad esempio dal fatto che il libro più originale e stimolante uscito negli
ultimi anni sul movimento anarchico non abbia meritato nelle oltre trecento pagine di
Giulietti neppure l’onore di una citazione. Il riferimento è al recente lavoro di Benedict
Anderson (Sotto tre bandiere. Anarchia e immaginario anticoloniale, Roma, manifestolibri,
2008, ed. or. 2005) che – ricostruendo il processo di formazione di un efficace immaginario internazionale anarchico fra fine ’800 e inizio ’900 attraverso molteplici canali di
comunicazione e mostrando la sua diffusione su ampia scala anche grazie al fenomeno
della mobilità degli esuli e delle prime grandi migrazioni – ha cercato di mettere in crisi
proprio le ricostruzioni storiche condotte su paradigmi interamente nazionali e su approcci esclusivamente politici.
Marco Manfredi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
206
i libri del 2012 / 1 - monografie
Sofia Gnoli, Moda. Dalla nascita della haute couture a oggi, Roma, Carocci, 376 pp., €
34,00
La pubblicazione del volume di Sofia Gnoli offre conferma del fatto che il mondo
della moda suscita un crescente interesse fra gli storici. Ricerche e studi su questo tema
non sono infatti più appannaggio pressoché esclusivo di quanti si occupano di storia del
costume, degli accessori, del design o dei tessuti; né l’argomento è più trattato secondo
una prospettiva che privilegia essenzialmente lo stile e l’aspetto estetico.
Il libro in questione rappresenta una utile sintesi, corredata da molte immagini e arricchita da una bibliografia corposa, per chi voglia comprendere il processo che ha portato
l’industria della moda a essere un settore economico di grande rilievo a livello mondiale e,
più in particolare, a capire come l’Italia sia giunta a occupare posizioni di leadership internazionale in questo stesso settore. Nato dalla lunga esperienza didattica dell’autrice, Moda
è di facile lettura per chi non ha conoscenze specifiche in materia e si presta agevolmente a
essere usato anche come manuale o testo di supporto per chi debba affrontare questi temi
in aula (dal punto di vista del docente così come dello studente).
Come recita il titolo, la ricostruzione storica dell’evoluzione del sistema della moda
internazionale parte dalla metà dell’800, con la nascita della haute couture. Il caso italiano
è inserito all’interno del contesto internazionale in modo da riuscire a coglierne specificità e similitudini rispetto alla situazione degli altri paesi. L’evoluzione del sistema moda
internazionale è trattato in dodici capitoli, ciascuno dei quali fonde in modo equilibrato
osservazioni di carattere stilistico e presentazione dei principali protagonisti dell’epoca
con l’accenno alle trasformazioni sociali e culturali sulle quali si innestano i cambiamenti
nel campo della moda.
Il volume concede spazio anche alla descrizione delle istituzioni e degli organismi
che hanno contribuito alla formazione del «sistema moda» italiano: l’Ente nazionale della
moda (capitolo quattro), le sfilate di Sala Bianca organizzate da Giorgini (capitolo otto).
Grande attenzione è dedicata al cinema, e al ruolo che gli studi di Cinecittà hanno avuto
per far conoscere la moda italiana all’estero (capitolo sei). Il capitolo nove parla invece
della nascita dello stilismo, e spiega perché a partire dagli anni ’70 Milano si sia affermata
come capitale della moda italiana. L’ultimo capitolo tratta delle tendenze della moda
nell’era della globalizzazione, con particolare attenzione al ruolo dei paesi emergenti.
Rispetto alla precedente rassegna pubblicata dall’autrice nel 2005 (Un secolo di moda
italiana, Meltemi), il presente volume presta una maggiore attenzione al contesto internazionale e agli sviluppi del sistema moda all’estero, pur mantenendo il medesimo intento
divulgativo.
Francesca Polese
i libri del 2012 / 1 - monografie
207
Mirko Grasso, Ernesto Rossi e il Sud Italia nel primo dopoguerra, prefazione di Simone
Misiani, Bologna, Clueb, 114 pp., € 12,00
Il meridionalismo di Ernesto Rossi, la sua attività e il suo forte interesse per i contadini e l’agricoltura nel primo dopoguerra costituiscono pagine poco conosciute, se non
inedite, rispetto all’idea prevalente che la storiografia ha di questa importante figura del
’900. La prima guerra mondiale, come sottolinea giustamente l’a., è il fatto storico principale da cui quella ispirazione trae origine.
Il volume è strutturato in tre capitoli, preceduti da un’utile nota biografica: la formazione, la permanenza in Basilicata nel 1921-1922, l’impegno giornalistico nel 1921-24.
Viene inoltre pubblicata in appendice una selezione di articoli giornalistici di Rossi, su «Il
Popolo d’Italia», «Il Popolo di Trieste», «Il Popolo romano», «Il Giornale degli agricoltori
toscani», esemplificativi delle collaborazioni tenute e dei temi da lui studiati: il latifondo,
l’istruzione dalla scuola media all’università, proprietà e progresso, disoccupazione e proprietà terriera, la funzione sociale della proprietà terriera, i contadini e le imposte, lo Stato
e i sindacati. In quegli anni, Rossi individua i suoi punti di riferimento metodologici e
costruisce una serie di relazioni personali che contribuiranno alla propria formazione, da
Gaetano Salvemini a un meno noto Umberto Zanotti Bianco dell’Animi, da Pareto a De
Viti de Marco, a Luigi Einaudi.
Lo studio di Grasso da un lato mette in rilievo aspetti rilevanti della biografia di
Rossi negli anni ’20, dall’altro permette di inserirlo, con una nuova luce, entro un dibattito storiografico recentemente riaccesosi sui protagonisti del meridionalismo italiano e,
più in generale, sul ruolo delle forze laiche nella costruzione della Repubblica. È quindi
un contributo sugli anni ’20, ma indirettamente stimola considerazioni anche sugli anni
successivi. È infatti finalmente possibile capire, ad esempio, perché Rossi partecipi attivamente al dibattito sulla «questione meridionale» e sulla riforma agraria nel secondo
dopoguerra, in un periodo in cui egli pure rivestiva ruoli tecnici rivolti prevalentemente
ai problemi dell’industria (come nell’Arar). Nello stesso senso, è possibile comprendere
meglio la profondità delle sue relazioni con alcune figure del meridionalismo, come Manlio Rossi-Doria.
Se l’idea del volume e la sua linea interpretativa appaiono convincenti, sostenute
come sono da un solido apparato bibliografico, meno convincente appare lo sporadico
ricorso alle fonti d’archivio e la decisione di fermare l’analisi e la ricostruzione alle soglie
del fascismo; decisione che dà la sensazione di un lavoro più complessivo forse ancora in
fieri. L’iniziale interesse di Rossi per il movimento combattentistico, che in poco tempo
volge a un convinto antifascismo (pp. 73-74), costituisce infatti la fine di un discorso che
lascia il lettore insoddisfatto per l’interruzione di fili e riflessioni che potranno forse trovare sviluppo in un ulteriore lavoro futuro. Si tratta di un contributo, a ogni modo, utile
per approfondire la figura di Ernesto Rossi e le coordinate del suo pensiero.
Emanuele Bernardi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
208
i libri del 2012 / 1 - monografie
Maura Hametz, In the Name of Italy: Nation, Family, and Patriotism in a Fascist Court,
New York, Fordham University Press, X-278 pp., $ 45,00
L’a. si propone di dimostrare le «inconsistencies» della fascistizzazione rispetto alle
«traditional political liberties» in vigore – come scrive nella seconda di copertina – nonché
la debole azione di riforma della dittatura attraverso un micro caso di studio, cioè l’italianizzazione dei cognomi a Trieste negli anni ’20. Grazie all’analisi di alcune sentenze,
Hametz sottolinea l’ondivaga azione di riforme giuridiche da parte del regime a cui resiste
con successo la protagonista del volume – Luigia Paulovich – che vede accettato il suo
ricorso dal Consiglio di Stato nel 1931. Questo significherebbe che il fascismo non riuscì
a creare una nuova società a causa della forza dei valori di quella precedente, difesi anche
dalla giurisprudenza amministrativa, e perché la vicenda si svolse ai limiti del Regno,
nella città già studiata dalla stessa autrice (Making Trieste Italian, 1918-1954, 2005). Osservando il comportamento della Paulovich, Hametz riflette su alcuni concetti, quali le
forme di cittadinanza, la famiglia, la donna, il patriottismo, arrivando a trarre la predetta
conclusione che è spesso originata e sviluppata da punti di partenza sbagliati.
Sfogliando le quasi 780 note (pp. 211-251) e i circa 300 titoli della bibliografia (pp.
253-269), notiamo la quasi assoluta mancanza di studi di storia delle istituzioni e delle
professioni dell’ultimo decennio apparsi in lingua italiana. Qualche esempio (tralasciando
la totale assenza di studi sulla magistratura): non si trova mai citato alcun articolo dalla rivista «Le Carte e la Storia», e questo esclude in partenza almeno una ventina di contributi
su tali istituzioni durante il fascismo; sul prefetto si cita un articolo di Giovanna Tosatti
del 2001, e non il suo libro del 2009; sugli avvocati un saggio di Francesca Tacchi del
1994, e non il suo libro del 2002 (e neppure quello del 2009 sulle donne nelle professioni
giuridiche); inoltre l’a. cita i lavori del Consiglio di Stato degli anni ’30, ma non le ampie
biografie dei magistrati de Il Consiglio di Stato nella storia d’Italia (2006) curato da Guido
Melis, né il recente lavoro Il Consiglio di Stato: 180 anni di storia (2011), opere in cui
avrebbe potuto trovare diversi contributi adatti a dare respiro alla sua ricerca. Stabilire la
natura del fascismo e i limiti alla sua azione in ambito giuridico attraverso l’uso delle sentenze emanate dalla Corte amministrativa (sette sono quelle rintracciate negli archivi) è,
infatti, cosa improponibile poiché l’a. avrebbe dovuto sapere che ciò accadde circa 6.000
volte su 16.000 ricorsi nel merito, in materie assai più «politiche» (razza, stampa) e in anni
ancor più «neri» (fino ai primi anni ’40).
In conclusione, il libro esce ora ma è assai datato. Un solo esempio: l’a. afferma a p.
9 che «little attention has focused on civil servants’ and public administrators’ interpretations of fascist policies». Senza aver cognizione di un’intera stagione di studi sul tema si
può anche scrivere questa frase, che però ci fa sorgere un dubbio (vista l’attuale stagione
di valutazione dei «prodotti»): prima che fosse dato alle stampe, chi ha «peer-revisionato»
questo libro?
Giovanni Focardi
i libri del 2012 / 1 - monografie
209
Isabella Insolvibile, Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-1946), Napoli,
Edizioni scientifiche italiane, 358 pp., € 38,00
Isabella Insolvibile, collaboratrice alla cattedra di Storia contemporanea presso la
Facoltà di Lettere e Giurisprudenza della Seconda Università di Napoli, scrive un vero e
proprio manuale della prigionia italiana in Gran Bretagna: l’a. infatti tocca tutti gli aspetti
di questa esperienza, dalle prime catture, avvenute in Libia a partire dal dicembre 1940,
al rimpatrio, terminato alla fine del 1946.
Gli italiani sono qui analizzati dal punto di vista del loro grado di politicizzazione:
le autorità britanniche vedono favorevolmente il loro utilizzo in madrepatria in quanto
li considerano, a differenza dei tedeschi, «politicamente innocui» (p. 318) e quindi democratizzabili. I prigionieri italiani in Gran Bretagna, giunti alla cifra complessiva di
158.000, dimostrano una buona propensione al lavoro, soprattutto in agricoltura, data
la loro origine sostanzialmente contadina. Sono alloggiati in campi ben organizzati e frequentemente monitorati dai delegati del Comitato Internazionale della Croce Rossa. L’a.
la definisce una «prigionia buona» (p. 313).
L’armistizio dell’8 settembre muta tuttavia questo quadro tanto semplice e lineare: i
prigionieri italiani si dividono in cooperatori e non cooperatori, ma soprattutto maturano diverse coscienze e percezioni. Insolvibile li divide in realisti, fascisti, filocomunisti e
silenziosi. L’aspetto interessante, che l’a. sottolinea, è che alle autorità locali non interessa
l’orientamento dei prigionieri al momento della cooperazione: i britannici cioè non operano una selezione in quanto necessitano del numero più elevato possibile di adesioni.
Come già è stato rilevato da studi precedenti, la nascita degli Italian Labour Battalions è
decisa in modo unilaterale dagli anglo-americani, che scavalcano totalmente il governo
Badoglio.
Ma l’accuratissima ricerca di Insolvibile non si esaurisce qui: l’a. prende anche in esame l’operato dell’ambasciatore Carandini a favore degli italiani in Gran Bretagna. Davanti
all’inerzia dei nuovi governi, succeduti a quello del maresciallo, che preferivano ritardare
il rimpatrio degli italiani – a causa della crisi economica del nostro paese all’indomani della guerra – Carandini assume una posizione assolutamente autonoma di trattativa con le
autorità britanniche, affinché gli italiani possano tornare a casa nell’anno 1946. Era infatti
interesse sia del governo britannico sia di quello italiano rimandare più avanti la questione
del rimpatrio. Il primo avrebbe potuto sfruttare per più tempo questa vantaggiosa forzalavoro, il secondo avrebbe invece procrastinato il problema dei prigionieri-reduci, non
integrabili a breve nella vita economica e sociale italiana.
Si tratta di una ricerca di grande pregio, che aggiunge un tassello importante alla
conoscenza della prigionia italiana in mano alleata. Rimane tuttavia in superficie una
questione che dovrebbe essere indagata e sviluppata, ovvero i tentativi di ricostituzione
dell’esercito del Sud e le trattative italo-alleate in materia.
Francesca Somenzari
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
210
i libri del 2012 / 1 - monografie
Pino Ippolito, Azionismo e sindacato. Vita di Antonio Armino, Soveria Mannelli, Rubbettino, 164 pp., € 16,00
Antonio Armino è una di quelle figure appartenenti alla galassia del Partito d’Azione
che pochi conoscono, un dirigente forse non dei più importanti pur avendo ricoperto
ruoli di responsabilità nell’Italia meridionale, ma soprattutto uno dei responsabili della
rinascita del sindacato nell’Italia liberata, dirigente sindacale della Cgil e successivamente
della Uil.
Il libro è una biografia politica di Armino scritta dal nipote Pino Ippolito. La ricerca
è stata condotta per lo più su fonti edite (in particolare la stampa sindacale e di partito)
con il sussidio di alcune testimonianze all’a. la cui versione completa si può leggere in
appendice al libro. La figura di Armino ne emerge vividamente, rendendo pienamente
comprensibile l’impegno di questo calabrese proveniente dalle file di Giustizia e Libertà e
che sarà uno dei fondatori del Pd’A nel Sud d’Italia.
Lo svolgimento della guerra, con la firma dell’armistizio e la fuga del re a Brindisi
fino alla liberazione di Roma da parte delle truppe alleate (giugno 1944), costituisce la
premessa di quello che sarà poi chiamato il «Regno del Sud»; in questo primo embrione
di vita democratica che porta alla ribalta forze politiche vecchie e nuove, Armino consumerà la parte più rilevante del proprio impegno politico. Già vicino ai circoli antifascisti
napoletani attivi attorno a Giovanni Amendola, nel 1929 aderisce al movimento Gl delle
cui idee si fa promotore nel Mezzogiorno; al momento della creazione del Pd’A transita
quasi automaticamente da Gl alla nuova formazione. Nel capoluogo campano, Armino
incarna da subito l’anima socialista del Pd’A insieme con Francesco De Martino, contrapposta alla componente liberaldemocratica che fa capo al rettore dell’Università Adolfo
Omodeo. Alla fine del 1943 viene fondata da comunisti, azionisti e socialisti la Camera
generale del Lavoro.
Il lavoro della Cgl riscuote grande successo: il nuovo soggetto sindacale cresce anche
a livello organizzativo: nascono, tra le altre, le confederazioni dei portuali e degli operai
metallurgici, in breve tempo, però, i principali partiti (Pci, Dc, Psi) trovano l’accordo per
ricostituire la Cgil con la presenza dei cattolici, emarginando progressivamente la Cgl –
riconosciuta come troppo classista – fino a decretarne la scomparsa. Armino passa allora a
dirigere il giornale azionista napoletano «L’Azione» (gli succederà in quest’incarico Guido
Dorso). Di fronte alla collaborazione con Badoglio imposta da Togliatti al Partito comunista, Armino non ha esitazioni a scegliere la strada dell’intransigenza e a sostenere l’unità
delle forze antifasciste. Anche il Pd’A napoletano si spacca: la scelta della collaborazione
prevarrà per un solo voto, ma la ferita non si rimarginerà più. Su posizioni socialiste anche al congresso di Cosenza (agosto 1944), Armino vi tiene la relazione sindacale. Dopo
essere stato designato alla Consulta dal Pd’A e dopo un’altra esperienza nel sindacato dei
lavoratori dell’industria estrattiva, Armino muore a Napoli il 23 ottobre 1956.
Chiude il libro un’appendice contenente documenti, immagini e testimonianze.
Andrea Becherucci
i libri del 2012 / 1 - monografie
211
Andrea Jelardi, Storia del viaggio e del turismo in Italia, Milano, Mursia, 675 pp., € 24,00
Il tema del viaggio ha da sempre alimentato una ricca letteratura, in molti casi di
genere spurio e non sempre collocabile in ambiti disciplinari, ma di buona fortuna presso
il pubblico. In tanti lavori il viaggio è utilizzato come una chiave di lettura fideistica del
progresso, perché la velocità con la quale le condizioni di viaggio sono divenute sempre
più agevoli rendono con efficacia la misura dell’avanzamento della tecnologia. Senza trascurare che il viaggio è un’esperienza pratica ed emotiva comune praticamente a tutti, e,
in quanto tale, argomento coinvolgente.
In questo filone può essere collocato il volume di Andrea Jelardi, che, nell’introduzione, chiarisce che egli intende analizzare abitudini, moda, costume, esaminando tutti
gli aspetti connessi al viaggiare e allo spostarsi. Segue una lunga narrazione, che, in uno
stile leggero e cronachistico, organizza un insieme vastissimo di episodi e avvenimenti.
Jelardi, spesso riprendendo la pubblicistica coeva – ad esempio «Le vie d’Italia» del Touring club italiano –, racconta come evolvono, anno dopo anno i mezzi di trasporto, i
sistemi di comunicazione, i gusti, la cultura, partendo dall’antichità e giungendo ai giorni
nostri. Questi caratteri definiscono il libro come un insieme di informazioni relative alle
tematiche del viaggio, organizzate per argomento e in ordine cronologico senza alcuna
nota interpretativa, così come precisato dallo stesso a.: «Le fonti principali di ricerca, oltre
alla pur vasta bibliografia esistente, sono state soprattutto vecchie riviste, guide turistiche, dépliant, cartoline e fotografie, scampate all’incuria o ai danni del tempo, dalla cui
rilettura si è potuta ricavare una testimonianza diretta di quanto accaduto in questo lasso
di tempo, senza alcun filtro interpretativo, dalla viva voce dei protagonisti, dei cronisti e
dei viaggiatori del passato» (p. 11). Non mancano comunque alcuni passaggi, nei quali
Jelardi propone delle sintesi e delle note relative alla storia del turismo, che tuttavia non
sempre tengono conto della storiografia più recente. Nell’ultimo quindicennio infatti
anche in Italia disponiamo di analisi dedicate ai caratteri e alla genesi del turismo nelle
società europee e in quella nazionale e alle tappe della sua evoluzione. Per il caso italiano
disponiamo di lavori, soprattutto in ambito storico e storico-economico, che hanno già
proposto definizioni del rapporto tra fenomeno turistico e viaggio, così come tra turismo
e Grand Tour: rapporti certamente complessi, che la storiografia europea e nazionale hanno affrontato in molti casi nell’ambito del dibattito sulla periodizzazione della storia del
turismo. Il volume invece rimanda in più punti a categorie e definizioni datate, e così i
dati, le informazioni e i riferimenti forniti nelle oltre 600 pagine del volume non sempre
trovano un convincente inquadramento storico.
Annunziata Berrino
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
212
i libri del 2012 / 1 - monografie
Martin Kuder, Italia e Svizzera dal 1945 al 1970. Commercio, emigrazione, finanza e trasporti, Milano, FrancoAngeli, 383 pp., € 39,00
La storia dei rapporti economici tra Italia e Svizzera è tra le più affascinanti. Al di
là dei miti e delle banalità che il senso comune distribuisce equamente tra i due paesi,
anche rimanendo solo nella storia italiana post-unitaria, appare evidente che tali relazioni
hanno segnato non poco le vicende della penisola. Paese dalle piccole dimensioni ma dalle
grandi risorse economico-finanziarie, la Svizzera è stabilmente, dalla fine del XIX secolo,
nei primi tre-quattro posti dell’interscambio commerciale italiano, oltre a essere un punto di riferimento per operazioni di carattere finanziario, alcune legittime, altre, come è
noto, non propriamente tali. Kuder ricostruisce con grandi capacità analitico-descrittive
l’insieme dei rapporti economico-commerciali, i flussi migratori italiani verso la Svizzera,
i rapporti finanziari, l’intricato sistema di trasporti tra i due paesi per il periodo che va
dal 1945 al 1970, l’epoca del maggiore sviluppo economico dell’Europa occidentale e
dell’Italia in particolare. Lo fa al termine di una ricerca archivistica durata parecchi anni
e che si è svolta in numerosi archivi pubblici italiani, svizzeri, francesi e americani, a
conferma che anche l’esame dei rapporti bilaterali tra due paesi ha bisogno di supporti
e valutazioni che possono, anzi, devono arrivare anche da «osservatori» esterni. Entrare
nelle dinamiche di fondo delle relazioni economiche tra due paesi significa comprendere
e analizzare due strutture economiche, le logiche nazionali e internazionali entro cui i
due paesi si muovono, le spinte dei numerosi gruppi di interessi, pubblici e privati, le
risultanti nate dalla convergenza di interessi diversi (sul piano delle complementarietà tra
economie con profili strutturali e tecnologici diversi, con esigenze e spinte differenti nel
mercato del lavoro, con sistemi finanziari e bancari «diversamente performanti», con vincoli, ma anche possibilità offerte dalla vicinanza geografica, come nel caso dell’oleodotto
costruito dall’Eni di Mattei tra anni ’50 e ’60). In ciascuno dei diversi segmenti in cui è
articolato il percorso di Kuder, il lettore trova una solida base documentaria, prospettive
d’analisi molto approfondite sia nelle parti relativamente più tradizionali, ma di grande
rilievo – pensiamo all’interscambio commerciale – per cogliere le dinamiche di fondo tra
i due paesi; sia nelle parti decisamente più innovative, come le pagine dedicate alle questioni del contrabbando (una vera e propria economia parallela, visto che esso era illegale
in Italia, ma perfettamente legale in Svizzera, dove, ad esempio, gli introiti per le casse
del sistema pensionistico federale derivanti dal contrabbando delle sigarette raggiunsero
circa il 25 per cento del totale negli anni ’60), oppure quelle in cui si dà conto del flusso
in senso inverso di denaro che si riversò nelle banche svizzere, specialmente (ma non solo)
all’indomani della nascita dei primi governi di centro-sinistra nel 1963-64, un’operazione
che comportò, tra l’altro, la formazione di una nuova piazza finanziaria in Svizzera, quella
di Lugano, che si aggiunse a quelle storiche di Zurigo, Basilea e Ginevra.
Luciano Segreto
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Nicola Labanca, La guerra italiana per la Libia. 1911-1931, Bologna, il Mulino, 294 pp.,
€ 24,00
Sul grande quadrante della Storia, talvolta, certi anniversari forse per effetto di congiunture astrali, presentano strani allineamenti che, se non fossero (almeno fino a prova
contraria) casuali, potrebbero apparire anche inquietanti. Nel 2011 il vento della primavera araba in Libia si è subito trasformato in tempesta di fuoco e fiamme con l’esplosione di una guerra civile crudele e sanguinosa (con pesante quanto interessato intervento
occidentale) culminata con l’uccisione di Gheddafi e la liquidazione del suo regime. Il
2011 è coinciso non solo con il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, ma
anche con il centesimo anniversario della guerra italiana per la Libia e, in particolare, con
il meno noto ottantesimo anniversario dell’impiccagione del venerato capo della resistenza anti-italiana, Omar al-Mukhtar, che segnò, nel 1931, la conclusione delle operazioni
militari. Erano passati vent’anni dal primo sbarco nell’ottobre 1911, a Tobruk. La guerra
si concluse l’anno seguente con il Trattato di Losanna, che riconosceva all’Italia il possesso
della Tripolitania e della Cirenaica. All’epoca il controllo italiano era però limitato solo
al Litorale. L’occupazione dell’intero territorio fu rallentata dalle nuove priorità militari
imposte dal susseguente scoppio della prima guerra mondiale e, in seguito, fu a lungo
ostacolata dalla insidiosa guerriglia messa in campo dalla resistenza libica, la cui dura
repressione italiana (protrattasi fino agli anni ’30) ferì in maniera profonda le popolazioni
locali, generando risentimento e rancore difficili da dimenticare.
La guerra italiana per la Libia, finalmente inquadrata nella sua corretta dimensione
temporale (dal 1911 al 1931), è al centro del volume di Nicola Labanca, uno dei più
autorevoli studiosi dell’espansionismo coloniale. Questo libro sistema in maniera unitaria le varie fasi della lunga guerra libica analizzate, in genere, separatamente dagli storici
coloniali. L’ininterrotta narrazione delle vicende (dagli sbarchi del 1911 alla definitiva e
violenta normalizzazione fascista del 1931), inserite in un organico quadro d’insieme,
consentono all’a. di analizzare in profondità, «con occhio nuovo», i venti anni del conflitto (un conflitto asimmetrico, a geometria e intensità variabili) e di coglierne gli elementi
di continuità finora sfuggiti a buona parte degli studiosi. «Fra liberalismo e fascismo –
scrive Labanca – i mezzi e gli scopi furono ovviamente diversificati, ma per entrambi la
Libia non fu solo una questione periferica e africana» (p. 11). Si trattava infatti di una
«questione più grande», che l’a. affronta tenendo ben presenti i complessi risvolti diplomatici, economici e militari. Infine un altro merito di questo libro è rappresentato dal
suo impianto di note bibliografiche: una rassegna ragionata della sterminata bibliografia
sull’argomento. Una sorta di «libro nel libro», che accresce il valore complessivo del lavoro
in maniera significativa.
Matteo Pizzigallo
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Paolo Leone, I campi dei vinti. Civili e militari nei campi di concentramento alleati in Italia
(1943-1946), Siena, Cantagalli, 199 pp., € 16,00
La storia dei campi di prigionia per militari della Repubblica sociale italiana (Rsi) e dei
campi d’internamento per civili considerati attivisti del Partito fascista repubblicano – che
l’a. definisce, con una strizzata d’occhio alle note tesi di Pansa, «campi dei vinti» – cominciò con l’occupazione alleata del territorio italiano, quando, nel percorso che portò
all’avanzata graduale verso il Nord, statunitensi e britannici internarono in campi di concentramento allestiti nell’Italia centrale e meridionale i civili compromessi col fascismo
sentiti come «pericolos[i] per le forze armate» (p. 38) e i militari della Rsi. Leone mette a
fuoco una vicenda relativamente poco nota al grande pubblico e alla storiografia, che ha
coinvolto all’incirca 55.000 prigionieri, la cui memoria è rimasta imbrigliata nella produzione reducistica dei nostalgici del fascismo repubblicano. La narrazione si articola in
due nodi tematici: da un lato vengono enucleate le vicende dei civili e, dall’altro, quelle
dei militari della Rsi. La storia dei campi è in entrambi i casi anticipata dall’excursus legislativo, nonché dall’atteggiamento governativo e degli alleati che portarono alle misure di
detenzione e allo status giuridico specifico degli internati. Tra le questioni più dibattute vi
fu quella di comprendere se i catturati potessero essere considerati alla stregua di prigionieri di guerra, protetti in quanto tali dalle norme di diritto internazionale. E se per i civili
la questione dirimente stava nell’impossibilità di assimilarli tout court ai combattenti, per
i militi della Rsi, invece, il vulnus consisteva nella illegittimità stessa della Repubblica sociale, considerata «sedicente» e in quanto tale irriconoscibile. Dopo lunghe disquisizioni
si giunse, infine, a trattare come «prigionieri di guerra» sia gli uni, sia gli altri, rispettivamente nel dicembre e nel settembre 1944.
La parte del testo centrata sui campi si focalizza sugli esempi di Padula e di Terni
per i civili e soprattutto su quelli di Taranto, Miramare, Coltano, Casellina, Laterina e
altri centri minori, in Toscana, per i membri della Rsi. Pur dovendosi riconoscere a Leone la capacità di intrecciare documentazione di vario tipo, non si può non rilevare uno
schiacciamento a volte assai evidente sulle posizioni della memorialistica, inquadrabile in
quella memoria separata della Rsi a cui si è fatto cenno, che lamenta il duro trattamento
riservato ai detenuti dagli alleati. Il volume si sarebbe potuto giovare di un maggiore
rigore nell’affrontare alcune tipologie categoriali – per esempio quelle della «defascistizzazione» e delle «sanzioni contro il fascismo» – e di maggiori approfondimenti bibliografici.
Tuttavia, esso ha il merito di mettere al centro della riflessione il modo in cui alleati e
governo italiano si rapportarono alla Rsi nel secondo dopoguerra. Un tema tutt’altro
che marginale, ma che la storiografia attuale – soffermandosi maggiormente sul ruolo
attribuito da quegli stessi soggetti al regime monarchico-fascista – lascia spesso in ombra,
finendo per non affrontare il nodo cruciale dei conti della Repubblica con i due volti del
fascismo mussoliniano.
Giovanna D’Amico
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Federico Lucarini, La carriera di un gentiluomo. Antonio Salandra e la ricerca di un liberalismo nazionale (1875-1922), Bologna, il Mulino, 378 pp., € 29,00
È quasi scontato ricordare che non c’è oggetto della ricerca rispetto al quale non
siano auspicabili nel tempo più e continue rivisitazioni che, come sappiamo, alimentano
e tengono vivo il dibattito storiografico. A condizione però che gli interrogativi enunciati
non pretendano di essere posti come originali rispetto alle ricerche precedenti e al bilancio
degli studi, quando – come in questo caso – non si indichino le motivazioni, gli strumenti
di lavoro in grado di rovesciare o offrire in ogni caso nuove letture e stimolanti interpretazioni. Sono questi in sostanza i limiti del volume di Lucarini, a iniziare dal titolo: il termine «gentiluomo» accompagna spesso nell’800 la connotazione di «notabile», categoria
entro la quale non può essere compendiata e circoscritta una personalità come Salandra,
che pure viene (questo sì) da una famiglia di personalità rappresentative del territorio pugliese. In quanto all’indicazione delle linee del volume nel sottotitolo, non mi pare che la
narrazione dia risposte convincenti. L’«ambizione» dichiarata dell’a. è quella – attraverso
Salandra – di «cercare di analizzare quasi in vitro almeno due cose: la crisi dell’edificio
liberale italiano e la fase discendente dell’età giolittiana», tematiche rispetto alle quali
«nell’ultimo quarto di secolo» si sarebbe «registrata un’autentica eclissi storiografica rispetto ai decenni precedenti» (p. 14). E sulle quali invece mi permetto di richiamare a partire
dagli ultimi anni ’90 (e mi scuso per le omissioni) gli studi da diverse angolazioni di Gentiloni Silveri, Carusi, Scornajenghi, Fiori, Schininà; la pubblicazione nel 1996 degli atti di
un convegno su Antonio Salandra dell’anno prima e quelli dei due confronti su «Sonnino
e il suo tempo» per un arco temporale fino al 1922 pubblicati a cura di Ballini nel 2000 e
nel 2011. In cui ci si interroga sul fatto che il partito conservatore nell’Italia postunitaria
fosse in più stagioni vagheggiato nei disegni politici e di fatto mancato. Tra ’800 e ’900,
rispetto ai progetti e ai contenuti, si inserisce Salandra che propone il partito liberale da
Destra (fin dagli anni ’80 con una centralità della questione agraria e del problema meridionale) come realtà che intercettasse il consenso dei cattolici, facendo diminuire le possibilità di successo e la forza programmatica di una loro formazione autonoma. E non è
un caso che alla vigilia delle elezioni del 1913, dai vescovi venga chiesta l’autorizzazione a
sospendere il non expedit a favore di Salandra. Parabola interessante quella del liberalismo
con particolare riferimento agli anni che vanno dalla crisi del sistema giolittiano al primo
dopoguerra, poiché aprono il capitolo sulle ragioni della mancanza della forma/partito
e sulle conseguenze sistemiche di tale deficit. Tutti importanti nodi rispetto ai quali l’a.
finisce piuttosto con il dedicare buona parte del volume alle responsabilità dell’esecutivo
dalla neutralità all’intervento. E lo fa (come per il resto del racconto) utilizzando fonti a
stampa che soffrono del mancato incrocio con carte d’archivio e altro.
Maria Marcella Rizzo
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Massimo Lunardelli, Dieci pericolosissime anarchiche, Torino, Blu Edizioni, 255 pp.,
€ 16,00
Il volume restituisce il percorso umano e politico di dieci militanti libertarie, in un
periodo compreso fra gli ultimi anni dell’800 e la fine della seconda guerra mondiale.
La ricerca prende le mosse dagli anni della repressione crispina che portò molti esponenti politici a riparare all’estero, giungendo in gran parte negli Stati Uniti d’America,
dove formarono comunità di emigranti socialmente omogenee e politicamente orientate.
All’interno di questi ambiti, come a Paterson o a New York, Ersilia Cadevagni e Ernestina
Cravello vissero a lungo, apportando un loro contributo, attraverso scritti e conferenze,
ma anche ponendosi al centro della tessitura di reti di solidarietà e corrispondenza. Dagli
Stati Uniti, l’a. ci conduce nella Milano di primo ’900, dove Leda Rafanelli, Clotilde
Peani e Maria Rygier erano animatrici degli ambienti libertari cittadini con i quali collaborarono a diversi livelli. La ricostruzione dei profili biografici prosegue negli anni del
Biennio rosso, in cui troviamo Elena Melli implicata nella strage del «Diana» del ’21,
Virgilia D’Andrea alla direzione dell’Unione sindacale italiana e Nella Giacomelli alla
redazione di «Umanità Nova». La ricerca conduce attraverso le peripezie della diaspora
dell’antifascismo europeo, approdando, con Fosca Corsinovi e Maria Bibbi, alla guerra
civile spagnola cui presero parte attivamente, per poi proseguire negli anni del secondo
conflitto mondiale e il primo periodo della Repubblica italiana.
Dal testo emerge un racconto corale di donne dalle condizioni materiali assai misere,
costantemente controllate dalla pubblica sicurezza – in Italia come in esilio – e sottoposte
a pedinamenti, controlli domiciliari, censura postale e spesso costrette al carcere, al confino o al manicomio. Affiorano anche i profili di donne in rivolta contro le varie forme
assunte dal principio di autorità, accomunate da un impegno pratico e da una frequentazione intellettuale di varia inclinazione dottrinaria e dalla mutevole modalità espressiva.
Da questo punto di vista, i loro contributi si misurano con le fiabe per bambini scritte
da Rafanelli, per il «Corriere dei Piccoli», o gli acuti articoli di Giacomelli per la stampa
sovversiva o il tentativo estremo di Elena Melli di conservare e ordinare, senza successo,
gli ultimi scritti di Errico Malatesta.
Oltre le vicende specifiche, l’a. offre una panoramica generale su alcuni tratti del movimento anarchico italiano, in particolare sugli ambienti del fuoriuscitismo. Ma il merito
maggiore del volume risiede nel porre al centro dell’indagine una dimensione femminile,
spesso oltremodo offuscata in ambiti a netta prevalenza maschile.
Nel sostenere l’impianto della ricerca, sebbene l’a. indichi alcuni riferimenti archivistici, come il Casellario politico centrale dell’Archivio centrale dello Stato e il fondo
«Ettore Molinari» conservato dalla Biblioteca «Angelo Mai» di Bergamo e una bibliografia
essenziale, la genericità dei richiami sulle origini delle notizie, però, tende a rendere fragile
l’insieme del lavoro proposto.
Roberto Carocci
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Fiamma Lussana, Il movimento femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie, Roma,
Carocci, 243 pp., € 19,00
Ancora oggi l’interrogativo lanciato da Paola Di Cori se sia possibile o meno tracciare una storia dei femminismi continua a sollecitarci. La difficoltà sta infatti nel tratteggiare la politicità di percorsi che per molti aspetti si sono posti ai margini e in contrasto con
le forme della politica e dei saperi del ’900, in primis proprio del discorso storico, aprendo
un piano di confronto ancora oggi non facile da percorrere ma sicuramente stimolante.
Non è un caso che negli ultimi anni il lavoro di ricostruzione storica si sia articolato intorno a una costellazione di soggettività che spinge a parlare al plurale di femminismi, di
esperienze varie e a tratti irriducibili e in conflitto tra loro, in una dimensione che non
si limiti a quella nazionale con il rischio di penalizzare l’articolarsi del movimento, nel
confronto con la letteratura internazionale sul piano metodologico.
Fiamma Lussana si propone di conciliare queste difficoltà con una narrazione «forte», nella quale la storia dia forma e contesto alle memorie, avvalendosi della maggiore
disponibilità documentaria degli ultimi anni grazie alle recenti acquisizioni e al lungo
lavoro dei centri di documentazione e degli archivi delle donne, con l’intento di «usare la
forza impetuosa del movimento, le sue utopie, visioni, contraddizioni, per leggere più a
fondo la crisi italiana» (p. 15).
Le scelte tematiche e metodologiche riprendono l’approccio già individuato da Lussana in passato nel saggio sul neofemminismo negli anni ’70 (1997), a partire dal nodo
della modernizzazione.
Riassumendo alcuni tratti caratteristici dell’esperienza italiana, l’a. divide in tre fasi
l’articolarsi del movimento, con un continuo contrappunto tra la storia politica e sociale
del paese negli anni ’60 e ’70 e quella del movimento delle donne: «[…] cercheremo di
riportare il movimento femminista dentro la storia di quegli anni perché, al di là della
sua negazione della tradizione emancipazionista e delle riforme sociali per la parità e
uguaglianza fra i sessi, il femminismo è stato un pezzo importante di quella stagione. Ma
di più. A dispetto del suo furore antisistemico ha in realtà contribuito ben oltre il “lungo
’68” a illuminare le zone d’ombra e le distorsioni del nostro tempo» (pp. 20-21).
Ne emerge un grande affresco, importante per sistematizzare molti avvenimenti,
dalle origini in un intreccio di autonomia e vicinanza con il ’68, per continuare con la
cesura politica e culturale del referendum sul divorzio, la lunga battaglia per la depenalizzazione e la liberalizzazione dell’aborto, nel mutare delle pratiche tra autocoscienza e
psicanalisi e il lungo percorso sulla violenza, e un ritratto del femminismo sindacale, un
tema meno attraversato sul piano storiografico e che offre numerosi spunti interessanti.
Il volume si conclude con dei brevi approfondimenti su alcuni gruppi e un affaccio sugli
anni ’80, lasciando l’impressione che la ricostruzione del contesto e gli obiettivi che l’a.
si pone risultino in alcuni passaggi preponderanti rispetto alla storia politica e culturale
dei femminismi.
Elena Petricola
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Paolo Macry, Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi, Bologna, il Mulino, 155 p., € 13,50
In questo saggio Macry ha ricostruito con grande lucidità il sempre controverso
rapporto tra il Nord e il Sud dell’Italia collocandolo nel più complesso intreccio del rapporto centro-periferia che ha caratterizzato la nostra storia unitaria, di cui il problema del
Mezzogiorno è solo una variante e forse nemmeno la principale, giacché il problema delle
molteplici realtà regionali e locali attraversa orizzontalmente il tema dell’equilibrio politico del paese. Verticalmente inoltre si pone anche a esso la questione sociale, quale venne
a svilupparsi a partire dagli ultimi due decenni dell’800. Certo la questione del meridione
è quella più fortemente connotata, fin dalle origini, dal rapporto sviluppo-arretratezza.
Non solo quella economica, ma quella civile e politica, le due cose anzi si intrecciano.
Nel Mezzogiorno la struttura resta arretrata e connotata da una logica politica prevalentemente clientelare, ma sarà proprio il Mezzogiorno a costituire l’asse moderato su
cui il ceto politico di governo troverà costantemente il suo sicuro fattore di stabilità. La
dinamica socio-politica interna al Mezzogiorno non si impronta mai a evoluzione e cambiamento. L’idea, coltivata fin dagli inizi del secolo scorso da Sturzo e Salvemini, che l’autonomia locale avrebbe innescato una dinamica positiva alla prova dei fatti si è rivelata un
fallimento. L’istituzione delle Regioni, in particolare, ha determinato una riapertura della
forbice tra Nord e Sud che i primi trent’anni della Repubblica avevano preso a sanare,
esito assai negativo e difficilmente reversibile, su cui Macry ha parole inequivoche.
Questa vicenda, ricostruita con equilibrio storiografico, dalla conquista garibaldina del Regno borbonico, alla stabilizzazione piemontese e allo sviluppo successivo dello
Stato unitario, non trascura alcuno dei contributi offerti dalla vasta letteratura, pur così
contrastanti tra loro, e nel giudizio di fondo va controcorrente nel riproporre dunque,
come fattore di sintesi, il problema del rapporto tra centro e periferia, attraverso il quale la
classe politica italiana, con criteri di distribuzione che variavano nel tempo, ha mantenuto
sempre l’equilibrio.
È raro leggere un saggio su questi temi che riduca all’essenziale i problemi e li riconduca in modo convincente a unità nel loro percorso storico. E la politica distributiva verso
le diverse realtà regionali, così analizzata, produce un equilibrio politico che si sovrappone
e convive con i contrasti più che secolari tra le classi sociali, senza tuttavia risolvere per
intero il problema dell’unità del paese, sia territoriale, sia sociale, sia politica. Per questa
via l’Italia è stata fino a ieri, come nota Macry, «un’impresa di successo», pur con le contraddizioni che hanno poi caratterizzato anche la democrazia repubblicana, costituendo
una delle sue profonde e permanenti anomalie. Ora non ci sono più risorse per sostenere
questo metodo, e quelle che ci sono andrebbero concentrate a sostenere la complessiva
tenuta sociale ed economica del paese. Le antiche fratture restano irrisolte e i problemi si
pongono in termini del tutto nuovi.
Piero Craveri
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Stefano Maggi, Mutuo soccorso Cesare Pozzo. 135 anni di solidarietà (1877-2012), Bologna, il Mulino, XI-182 pp., € 18,00
Nata originariamente come Mutua macchinisti e fuochisti, la Società di mutuo soccorso «Cesare Pozzo» è uno dei sodalizi di categoria più antichi e gloriosi del nostro paese,
che nel corso del tempo è divenuta, come viene chiaramente spiegato nel volume, un
soggetto assicurativo aperto a tutti e ancora oggi brillantemente funzionante. Stefano
Maggi, autore qualche anno fa di una densa biografia di Cesare Pozzo, protosindacalista
ferroviere finito tragicamente suicida nel 1898 per le pressioni psicologiche subite, è uno
dei pochi studiosi rimasti pervicacemente affezionati a uno dei segmenti del movimento
operaio più bellicosi come quello dei ferrovieri ormai quasi dimenticati dalla storiografia.
Locomotive e tender erano luoghi pericolosi nel secolo del vapore: di qui il bisogno, già
all’alba della costituzione dello Stato unitario, di garantire sostegno economico ai familiari di caduti, feriti e ammalati sul lavoro; l’idea del mutuo soccorso e della solidarietà trovano la propria spiegazione in un contesto di grande durezza delle condizioni lavorative e
di acuta conflittualità fra le società ferroviarie private e i loro dipendenti.
Il libro si basa in gran parte sui documenti d’archivio conservati presso una delle più
rilevanti realtà italiane per quanto concerne gli studi sul movimento dei ferrovieri e delle
ferrovie e dei lavoratori dei trasporti. Archivio e biblioteca della «Cesare Pozzo», che si
trovano a Milano e di cui Maggi rappresenta l’anima culturale, costituiscono, per le fonti
che mettono a disposizione, un passaggio obbligato per gli specialisti di trasporti e un dinamico crocevia per le tante iniziative realizzate nell’ambito di questa materia. Il volume
di Maggi è una ricostruzione minuziosa della vita della Mutua, di cui riporta con grande
precisione documenti vitali come gli Statuti e gli elenchi dei soci e di cui commenta con
abbondanza di considerazioni le mutevoli funzioni e trasformazioni, inserita nella più
ampia storia del mutuo soccorso italiano. A partire grosso modo dagli anni ’70 la Mutua
prendeva la decisione di andare al di là dello storico corporativismo, che ne costituiva di
fatto l’ubi consistam, per aprirsi nei confronti dell’esterno ai lavoratori dell’intero settore
dei trasporti, estendendo progressivamente le tutele familiari. Vent’anni più tardi il percorso era in pratica completato. L’a. segue il pasaggio dal mutualismo al sindacato e puntualizza con grande efficacia le tappe del cammino previdenziale e assistenziale. Mettendo
adeguatamente in luce sia gli aspetti relativi agli orientamenti politici generali e alle scelte
di fondo della Mutua, sia quelli relativi alla spesso complicata gestione politica, così come
alle questioni organizzative e di bilancio, il libro riassume brillantemente un secolo di vita
della Mutua, durante il quale non sono certo mancate trasformazioni anche radicali.
Andrea Giuntini
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Marta Margotti, La fabbrica dei cattolici. Chiesa, industria e organizzazioni operaie a Torino (1948-1965), a cura della Fondazione Vera Nocentini, Torino, Edizioni Angolo Manzoni, 295 pp., € 15,00
Questa interessante ricerca affronta un tema ampiamente dissodato all’interno del
variegato settore di studi che si è occupato del travagliato rapporto fra cultura cattolica,
presenza sociale cristiana e ruolo della Chiesa di fronte alla rapida e profonda modernizzazione post-bellica e al concilio Vaticano II. Lo fa da un punto di vista territoriale particolare, ma significativo e altamente emblematico, la Torino degli anni ’50 e ’60, e lo fa in
maniera originale attraverso un uso ricco e diffuso di fonti e testimonianze di prima mano
che rende più complessa la lettura del collateralismo rispetto alle tradizionali coordinate.
Il libro affronta la percezione cattolica della «questione operaia» laddove essa si è svelata
nel pieno di tutte le sue implicazioni, passando da una visione un po’ semplificata e minoritaria alla «ricerca dell’equilibrio»: il conflitto politico e sociale, il confronto ideologico,
la secolarizzazione morale e dei costumi, la trasformazione delle relazioni familiari e delle
mentalità, i consumi di massa, l’immigrazione e l’espansione metropolitana.
Il punto di vista prescelto non affronta direttamente la dura competizione sindacale
seguita alla rottura dell’unità nel 1948, anche se ovviamente lo scontro con le organizzazioni di classe del movimento operaio è ben presente e tale da giustificare, in una prima
fase, l’imputazione a esse del declino della religiosità popolare e dell’interclassismo fra gli
operai. D’altro canto, l’affermazione di un significativo sindacalismo aziendale in Fiat
dalla metà degli anni ’50 inciderà pesantemente sul dibattito interno non solo della Cisl,
ma anche delle organizzazioni cattoliche e delle istituzioni religiose torinesi, spostando
l’attenzione verso analisi più complesse del lavoro industriale (ad es. con l’inchiesta sul
lavoro festivo).
La chiave di lettura è orientata, da una parte, verso la peculiarità con cui la Chiesa
torinese affronta la questione sociale in termini pastorali e di apostolato senza discostarsi
dalle indicazioni più generali provenienti da Roma nel dopoguerra, ma declinandole in
forma propria, adattandole a una tradizione cittadina sedimentata, coltivandole in esperienze la cui peculiarità emergerà successivamente in forma spesso controversa durante gli
anni ’60 (ad es. la diffusione dei «cappellani del lavoro» che, pur distinta dalla coeva vicenda francese dei «preti-operai», con questa si incrocerà poi problematicamente). Dall’altra,
verso il cuore dell’associazionismo di matrice cattolica, non solo sul piano ricreativo e
assistenziale, e il suo arcipelago che coinvolge congregazioni e istituzioni religiose, ma
soprattutto varie forme di laicato, anche qui con specificità torinesi rispetto agli equilibri
proposti a livello nazionale e di cui il libro dà ampiamente conto. Tratti tipicamente
torinesi, segnati da una dialettica interna a volte anche vivace dalla fine degli anni ’50,
che germoglieranno poi a fianco della vicenda conciliare e alle trasformazioni emerse nel
mondo del lavoro e fra i lavoratori industriali già nella prima metà degli anni ’60.
Pietro Causarano
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Maria Chiara Mattesini, La Base. Un laboratorio di idee per la Democrazia cristiana, prefazione di Carlo Felice Casula, Roma, Studium, 262 pp., € 22,50
Il volume analizza, attraverso un ampio spettro di fonti, le vicende della corrente democristiana di Base nel periodo 1953-1958. Viene ben ricostruito il periodo in cui salì alla
ribalta una nuova generazione cattolica e democristiana che aveva letto Maritain e Mounier,
citava poco la dottrina sociale cattolica e aveva presente la lezione gramsciana sull’egemonia. La Base era un laboratorio di azione politica e culturale che prospettò presto la via
dell’apertura a sinistra e ambiva a spingere la Dc verso un rapporto col Psi non interpretato
solo come emarginazione del Pci, ma come ampliamento della base popolare del governo.
Secondo la Base, alla Dc mancava «quel concetto di partito moderno come forza politica capace di interpretare e tradurre sul piano politico le esigenze del paese» e soprattutto «capace
di inserire nello Stato le masse proletarie che ancora ne erano escluse» (p. 72).
La nuova corrente aveva una impostazione laica e l’avversione all’integralismo era
«il comune denominatore di quel laicato cattolico che richiedeva maggiore spazio e autonomia nel campo della politica e rappresentava l’incunabolo culturale del centrosinistra
inteso come progetto riformista e innovatore» (p. 73). Per la sua componente che era
stata protagonista della Resistenza, la Base aveva una caratterizzazione antifascista e una
leadership plurale, come plurale era la provenienza dei gruppi che la compongono. I
basisti hanno avuto rapporti difficili con la segreteria Fanfani e con la gerarchia ecclesiastica, che li considerava agenti di secolarizzazione del partito. È nota la preoccupazione
del cardinale Montini riguardo alla candidatura di Luigi Granelli a Milano nelle elezioni
del 1958 (p. 203).
In campo economico i punti di riferimento dei basisti, che avversavano i monopoli e
la borghesia capitalista, erano Enrico Mattei ed Ezio Vanoni. In politica estera erano sensibili al movimento di liberazione afro-asiatico e a un europeismo capace di distinguersi
dall’atlantismo. Nella Dc condannavano l’anticomunismo miope espresso da settori della
destra politica ed economica del partito, e promuovevano sui loro periodici la battaglia
contro il «fascismo aziendale».
La minoranza basista viveva tuttavia un forte senso di unità politica del Partito,
come condizione necessaria per il cambiamento della società (si veda lettera di Granelli in
appendice, p. 244). In questo senso il volume fa riflettere sul poco spazio dedicato dalla
storiografia allo studio delle correnti Dc. Anzi, come nota nella prefazione Casula, si è
radicata negli ultimi tempi «un’infondata leggenda nera» sulle correnti. In qualche lavoro
recente si suggerisce che la Dc genuina non sia stata anche quella che ha accompagnato la
crescita italiana, ma solo quella di De Gasperi, poi deterioratasi con le correnti. Ai meriti
dell’a. va aggiunto, dunque, anche quello di indicare l’esigenza di studiare, senza pregiudizi, come le correnti siano state strumenti efficaci nella costruzione del consenso, nella
rappresentanza degli interessi e nella gestione del maggiore partito di massa dell’Italia
repubblicana.
Augusto D’Angelo
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Tito Menzani, Valdo Magnani cooperatore. Un intellettuale reggiano e il suo contributo per
un’impresa differente, Milano, Unicopli, 262 pp., € 19,00
L’esperienza politica di Valdo Magnani (1912-1972) è nota ai più per le vicende
che lo videro protagonista nel gennaio 1951 di una clamorosa rottura all’interno del Pci
reggiano e nazionale, con l’espulsione dal Partito e la nascita dell’Unione socialista indipendente (Usi), sdegnosamente ribattezzata come «Magnacucchi» (unendo a quello di
Magnani il nome della medaglia d’oro Aldo Cucchi che lo seguì nello «strappo»). «Valdo»,
come era familiarmente chiamato da amici e militanti, rappresentò una figura tipica di
una generazione approdata alla scelta antifascista e comunista attraverso l’esperienza bellica. Ufficiale prima e partigiano poi in Jugoslavia, rientrato in Italia e subito inserito fra i
dirigenti più promettenti del Pci, guidò la forte Federazione di Reggio Emilia dal 1947 a
quel gennaio di quattro anni dopo quando pose fine, suo malgrado, alla prima parte della
sua esperienza pubblica politica e intellettuale.
Dopo lo «strappo» Magnani seguì prima l’esperienza dell’Usi nella sua confluenza nel
Psi nel 1961 per poi rientrare l’anno successivo nel Pci. Ma l’esperienza di dieci anni prima
aveva lasciato tracce profonde proprio fra i militanti della sua città che respinsero nel 1963
la proposta, avanzata dalla segreteria nazionale, di una sua candidatura alle elezioni politiche. Chiusa l’esperienza politica in senso stretto, Magnani fu nominato nel 1965 presidente
dell’Associazione nazionale delle cooperative agricole ed entrò nel Consiglio di Presidenza
della Lega delle cooperative, fino a diventarne presidente nel 1977. Un’esperienza che occupò gli ultimi diciassette anni di vita e che rappresentò un momento importante del suo
percorso, strettamente connesso e coerente con tutta la sua visione politica.
Di questo tratto finale della sua attività il volume di Menzani riesce a fornire un
quadro denso e approfondito, colmando in modo efficace una lacuna storiografica non
di piccolo peso. Se infatti la bibliografia su Magnani «politico» si è arricchita anche in
occasione del centenario della nascita, la fase di dirigente cooperativo rimaneva in secondo piano, già a partire dal Convegno del 1989 sui «Magnacucchi», promosso a Reggio
Emilia proprio dalla Lega delle Cooperative. Con la pubblicazione di una ricca appendice
antologica degli scritti di Magnani dal 1965 al 1980 risulta invece evidente il contributo
teorico e di metodo che egli diede all’esperienza cooperativa non solo nazionale ma anche internazionale, confermata dalla sua presenza come membro del Central committee e
dell’Executive board dell’International cooperative alliance dal 1972 fino alla morte. Sia nel
settore agricolo che in quello finanziario, Magnani svolse un ruolo di altissimo profilo,
come sottolinea l’a., «distinguendosi come una delle menti più brillanti della cooperazione italiana dell’epoca» (p. 61), interpretando il suo impiego nella cooperazione non certo
come un ripiego o un «contentino» (p. 57), ma come una pratica applicazione del suo
pensiero che Menzani riporta come incipit del volume: «Il movimento cooperativo nasce
da un pensiero utopistico variamente espresso, ma sempre ispirato alla valorizzazione totale dell’uomo e del suo lavoro» (p. 7).
Massimo Storchi
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Maurizio Molinari, Governo Ombra. I documenti segreti degli Usa sull’Italia degli anni di
piombo, Milano, Rizzoli, 265 pp., €18,00
Il volume è un racconto che si snoda seguendo quasi 200 documenti che il Dipartimento di Stato Usa ha dedicato all’Italia del 1978 e che l’autore, corrispondente del quotidiano «La Stampa» da New York, ha consultato avvalendosi del Freedom of Information
Act con una domanda presentata nel corso del 2010. Si tratta di una documentazione
concentrata su un anno cruciale della storia della Repubblica, con una serie di spunti e risvolti interessanti. La ricchezza principale del volume sono proprio i documenti che lo sostengono pur se non inseriti in una trama convincente ed efficace. Troppe lacune e soprattutto troppi giudizi di quadro che non corrispondono alla complessità di una dialettica
tra l’Italia e gli Usa tanto in chiave interna quanto sullo scenario internazionale. Anche la
successione dei temi individuata da Molinari raccoglie alcune suggestioni che andrebbero
collocate in un contesto più ampio e valutate all’interno di una documentazione ben più
ricca e articolata. Si conferma la necessità di andare al di là della statica differenziazione
dialettica tra l’Italia e gli Stati Uniti per verificare i livelli di interazione tra governi, strutture e uomini della diplomazia a lavoro dalle due sponde dell’Atlantico. Il volume riflette
l’andamento delle principali questioni che investono il difficile equilibrio interno: la sfida
sul compromesso storico, la situazione nella Democrazia cristiana, il ruolo del Vaticano
(per la verità eccessivamente amplificato dall’utilizzo della documentazione statunitense),
l’affaire Moro e le sue ripercussioni, la trama di relazioni e rapporti con il Pci fino alle
vicende legate alla difficile concessione del visto per il viaggio di Giorgio Napolitano,
l’interesse per l’ascesa di Craxi e la possibile ricerca di nuovi interlocutori. La crisi italiana
da Washington appare un puzzle di difficile composizione, i canali tradizionali di analisi e
valutazione sembrano insufficienti e condizionati da vecchi e nuovi poteri. La riflessione
storiografica degli ultimi anni ha già evidenziato i nessi di continuità e cesure tra la politica
estera americana del tempo e le dinamiche del vecchio continente. Ciò che più colpisce è
la quantità di documentazione che viene riversata in canali dai quali difficilmente si riesce
a trovare il bandolo della matassa, e anche le sfumature della politica italiana non trovano
interlocutori attenti e capaci. Sarebbe fondamentale riuscire a verificare identità e ruoli
dei firmatari indagando così nelle strutture di comando e nelle dinamiche interne all’amministrazione diretta da Jimmy Carter. Il filo conduttore di chi scrive, dall’Ambasciata di
Roma o dalle stanze del Dipartimento di Stato, appare l’inquietudine per una situazione
incerta: il cammino della Repubblica non è preventivabile, il peso della contrapposizione
bipolare traccia delle linee di confine oltre le quali non è possibile spingersi.
Umberto Gentiloni Silveri
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Mauro Montis, La memoria della guerra civile. Spagna (1936-1939), Cagliari, Cuec, 156
pp., € 10,00
Mauro Montis è un ricercatore dell’Università di Cagliari che ha approfondito il
tema della memoria della guerra civile già con la sua tesi di dottorato. Con questa monografia ci presenta i risultati della sua attività di ricerca, offrendo al lettore italiano un’interessante rassegna sulla storiografia e sulla cultura sulla guerra di Spagna. Il punto di
partenza è il dibattito generatosi negli ultimi decenni sul tema del «patto del silenzio» e
sull’oblio della memoria storica legata alla guerra e alla dittatura di Franco, come elementi utili alla stabilità delle istituzioni democratiche spagnole. Le particolari modalità del
processo di democratizzazione spagnolo, che videro come protagonisti anche esponenti
del vecchio regime, non resero possibile un’analisi serena del passato, per il timore che le
lacerazioni della guerra civile e della dittatura tornassero a galla, ricacciando il paese in
una situazione di grave instabilità. In altre parole, si guardò avanti per evitare pericolose
ricadute all’indietro. Montis costruisce su queste premesse la sua panoramica sull’arte e
sulla storiografia sulla guerra civile, mettendo in evidenza come queste fatichino «a essere
accettate e divenire contestualmente oggetto di riflessione e discussione per la maggior
parte dei cittadini della Spagna attuale» (p. 20). Il risultato è un volume agile e interessante che presenta al lettore italiano non solo la storiografia, ma anche la letteratura e il cinema su guerra e dittatura senza trascurare le ricorrenze decennali (1986-1996) e il dibattito
pubblico che attorno a esse si è generato. La rassegna approfondisce alcune opere e alcuni
temi, evidenziando al contempo lacune e debolezze di una produzione iniziata negli anni
’70, soprattutto per quanto riguarda la storiografia, ma che non ha ricevuto dalla democrazia governata dai socialisti quell’impulso che si sarebbe potuto immaginare.
Nel fare questo, però, l’a. finisce con il trascurare le particolari esperienze catalana e
basca, che proprio sulla memoria hanno fondato i loro ben riusciti processi di ri-nazionalizzazione, a partire dal recupero degli idiomi locali e delle letterature, fino a giungere
alla cancellazione di tutti i simboli del passato regime. Probabilmente Montis segue un
dibattito spagnolo che a sua volta ha sottovalutato questi aspetti e una storiografia che
solo oggi si sta ponendo il problema di ricostruire i processi di democratizzazione in
queste regioni e le loro peculiarità rispetto al resto del paese. Un’altra possibile lacuna del
lavoro di Montis è rappresentata dalla scarsa attenzione ai lavori di storici italiani come
Ranzato o Botti o di studiosi come Salvati che hanno affrontato il tema della memoria
spagnola, animando un dibattito nostrano apparso anche su importanti quotidiani e su
periodici italiani. Questa scelta di Montis appare discutibile per l’indubbia validità di
quei contributi, e perché priva il lettore italiano di riferimenti realmente importanti per
chi voglia approfondire la questione. A ogni modo La memoria della guerra civile è una
buona lettura.
Andrea Miccichè
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Roberto Morozzo della Rocca, Passaggio a Oriente. La modernità e l’Europa ortodossa,
Brescia, Morcelliana, 210 pp., € 18,00
L’a. parte dalla «convinzione che una diversità tra Occidente e Oriente europeo in
buona misura sussista» (p. 56) e che «l’esclusione dell’Oriente europeo dalla civiltà occidentale ha radici antiche», risalenti ai tempi della nascita dell’Europa romano germanica
(p. 60): a diversificare le due Europe sono la storia e il modo di concepirla, l’approccio
all’economia e alla democrazia, la tradizione artistica, l’atteggiamento verso la scienza.
«Generalmente, l’Oriente europeo è considerato parte del continente, e però questo è
sdoppiato, diviso in due distinte civiltà» (p. 60): l’accettazione di questa diversità per
molti degli intellettuali dell’Est europeo negli ultimi due secoli, lungi dal far maturare
in loro un senso di inferiorità, ha sviluppato invece la persuasione della superiorità della
civiltà europea orientale su quella occidentale. Per parte sua «la mentalità occidentale
stenta a comprendere quella orientale. C’è un’alterigia occidentale, che stabilisce istintivamente primati e gerarchie, chi siano i civili e chi i bàrbaroi» (p. 84): «Non si tratta […]
di rovesciare il giudizio e di attribuire all’Oriente maggior gloria dell’Occidente, bensì di
accettare l’alterità dell’Oriente» (p. 85). Per fare questo occorre partire dall’assunto che
alla radice della diversità sta la questione confessionale (p. 57): il Sud-Est europeo così
come le terre russe e ucraine sono la casa delle Chiese dell’Ortodossia. Individuare l’atteggiamento diverso dell’Ortodossia rispetto alla Chiesa di Roma e alle Chiese protestanti
di fronte ai processi di modernizzazione economica, sociale, istituzionale e scientifica è
funzionale alla comprensione del mondo est europeo e all’accettazione della sua diversità.
Se «i protestanti per lo più hanno stretto alleanza con la modernità, i cattolici vi si sono
confrontati con la preoccupazione di perdere o diluire la propria identità. Gli ortodossi
l’hanno apparentemente ignorata ma anche si sono prefissi di trasfigurarla» (p. 23). L’a.
ricostruisce la posizione dell’Ortodossia sui processi di modernizzazione attraverso gli
scritti dei maggiori teologi e dignitari delle chiese ortodosse, da P. Florenski e S. Bulgakov
a P. Evdokimov a O. Clément, dai patriarchi di Costantinopoli Atenagora e Bartolomeo
I al patriarca di Antiochia Ignazio IV o al metropolita di Smolensk e Kaliningrad Kiril
(ora patriarca della Chiesa russa), per ricordarne solo alcuni. Sottolinea l’atteggiamento
ambivalente dell’Ortodossia rispetto a problemi e soluzioni adottate dal mondo contemporaneo sul piano giuridico e istituzionale (diritti umani, democrazia), socio-economico
(globalizzazione, ecologia), scientifico. Questo atteggiamento discende dalla tradizionale
resistenza dell’Ortodossia a stabilire norme vincolanti sul mondo in cui opera a differenza
della Chiesa romana, per questo accusata di «scolasticismo»: la sua realizzazione avviene
nel servizio divino, nella liturgia, là dove il tempo di Dio prevale su quello della società
umana: «Nulla di più lontano dall’ottimizzazione del tempo come fattore economico, e
nulla di più contrastante con la concentrazione nel proprio lavoro civile, come richiede
l’Occidente» (p. 187).
Armando Pitassio
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Teresa Muratore, Il medico scalzo. Pasquale Marconi nella storia del Novecento italiano,
Roma, Aliberti, 229 pp., € 15,50
Singolare figura quella del medico e politico Pasquale Marconi, il cosiddetto «medico scalzo», descritta da Teresa Muratore, docente di Reggio Emilia. Marconi era nato
nel 1898 sull’Appennino emiliano segnato da antica arretratezza socio-economica; figlio
di contadini, aveva iniziato gli studi in seminario, per poi continuare al liceo di Reggio.
Dopo la guerra, cui partecipò dal 1917 in qualità di aspirante ufficiale, studiò medicina a
Modena, appassionandosi nello stesso tempo alla politica e costruendo con i fratelli Dossetti il Partito popolare in una città dai forti connotati socialisti. Laureato nel 1923, iniziò
a lavorare nell’ospedale cittadino, che dovette ben presto lasciare per il suo dichiarato antifascismo. Maturò pertanto l’idea di aprire un piccolo ospedale nella zona d’origine, mettendo al servizio di quella popolazione, povera e disagiata, la sua professione. L’ospedale
venne inaugurato nel 1931 a Castelnovo ne’ Monti e incominciò a curare gli ammalati
dei comuni montani, assistendo anche, nel reparto detto «Il piccolo Cottolengo», molti
handicappati fisici e psichici. Nel lavoro Marconi rimase fedele alla convinzione secondo
cui compito del medico è quello di prendersi cura dell’uomo ammalato e non solo curare
la malattia. Un atteggiamento di grande sensibilità, che considera la medicina non come
fredda prescrizione di terapie, ma come personale rapporto con il paziente per alleviarne
le sofferenze. Il tutto accompagnato da quella pietà umana che a Marconi derivava dalla
fede, e che lo portò a curare in tempo di guerra partigiani e fascisti, tedeschi, inglesi, russi
e tutti quelli che bussavano alla porta della sua clinica.
Più problematica è stata la storia politica di Marconi, di cui Muratore descrive i
momenti di innovazione e, all’opposto, quelli di chiusura rigida e conservatrice, intrecciandola alla storia del paese – qui l’a. poteva omettere i paragrafi alquanto manualistici di
storia generale. Partecipò alla Resistenza, entrando nel Cln della sua città, e alle riunioni
per la costituzione della Democrazia cristiana, con Giuseppe Dossetti e altri; sia Dossetti che Marconi furono in seguito eletti all’Assemblea costituente. Ma mentre Dossetti
espresse profonda sensibilità per la giustizia sociale e un anticapitalismo non comunista,
venati di religiosità, all’opposto Marconi, politico e parlamentare, cattolico e filantropo,
«a livello locale fu il rappresentante della cosiddetta destra Dc e per certi aspetti il suo
pensiero fu quello di un conservatore. Fu sempre un acceso anticomunista, negli anni
Sessanta lottò contro ogni ipotesi di avvicinamento della Dc alle forze di sinistra, si batté
contro la nazionalizzazione dell’energia elettrica, tuonò contro l’avanzare del processo di
secolarizzazione in Italia (legge sul divorzio, sull’aborto)» (p. 178).
Un «uomo di fede», lo definisce in conclusione l’a., che ne ripercorre in modo corretto ed esauriente l’esistenza, «fatto di debolezze, contraddizioni, difetti, fragilità» (p.
216), ma comunque ben fermo nei principi acquisiti fin dall’adolescenza.
Giacomo L. Vaccarino
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Sönke Neitzel, Harald Welzer, Soldaten: le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri
degli alleati, Milano, Garzanti, 360 pp., € 24,50 (ed. or. Frankfurt am Main, 2011)
La traduzione di questo volume è importante per diversi aspetti. In primo luogo Soldaten s’inserisce nella cosiddetta «storia culturale della guerra», un approccio che si è diffuso ampiamente nella storiografia internazionale ma non qui in Italia. In secondo luogo
in questo libro sfociano vent’anni di storiografia e di discussione pubblica sul ruolo della
Wehrmacht nella dinamica della violenza nazista, un’esperienza di cui in Italia si è venuto a
sapere ben poco e per lo più grazie a traduzioni dall’inglese (O. Bartov, C. Browning). Gli
aa. mettono a frutto le migliori ricerche sull’argomento come ad es. gli studi di T. Kühne
sul cameratismo e la notevole letteratura sulla storia della violenza. In più essi basano il
loro studio su una fonte nuova e di notevole interesse: le intercettazioni dei colloqui tra
militari tedeschi realizzate segretamente dagli Alleati nei campi di prigionia. Queste registrazioni, consultabili presso i National Archives di Londra e di Washington, sono delle
attestazioni dirette del modo in cui i soldati percepivano e verbalizzavano l’esperienza di
guerra parlando con i propri commilitoni, una fotografia nitida che consente di «vedere la
guerra con gli occhi dei soldati». Su questa base gli aa. costruiscono un’analisi complessa
del quadro valoriale che strutturava la percezione della realtà dei soldati tedeschi, ciò che
gli autori definiscono «cornice di riferimento» (Referenzrahmen).
Una delle questioni centrali cui intende rispondere il libro è fino a che punto si possa
parlare di guerra nazionalsocialista. Dall’analisi delle fonti essi concludono che il quadro
di riferimento al quale il Lanser (il soldato semplice) si ispirava nell’interpretare e giustificare la violenza da lui stesso praticata non era sostanzialmente diverso da quello esistente
in altri paesi e in altre epoche. In questo senso essi riconfermano risultati già raggiunti
dalla sociologia militare americana nel secondo dopoguerra e contestati da studi successivi. Valori come eroismo, obbedienza all’autorità, senso del dovere, cameratismo ed etica
del lavoro funzionavano anche come giustificazione della violenza estrema e contraria alle
norme del diritto internazionale cui giunse la Wehrmacht. L’analisi mostra che il quadro
valoriale di riferimento dell’esercito non si adeguò in modo decisivo ai dettami ideologici
del regime ma mantenne una forte autonomia. Lo evidenziano ad es. i criteri di assegnazione delle onorificenze: non si premiava il sacrificio per la comunità, quanto l’eccellenza
al fronte, dunque il criterio tradizionale dell’efficienza. La violenza – concludono gli autori riprendendo risultati cui era giunto Welzer in precedenti studi – non va «esternalizzata»,
interpretandola come un’anomalia e un elemento esclusivamente distruttivo. Essa va piuttosto vista come un fattore «costruttivo» di relazioni sociali e un’opzione sempre aperta.
Proprio a questo intento di «normalizzare» la nostra percezione della violenza mi sembra,
però, non faccia giustizia la scelta di lasciare la parola Soldaten nel titolo italiano, cosa che
presso il grande pubblico rischia di confermare lo stereotipo del tedesco cattivo.
Paolo Fonzi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Grazia Pagnotta, Dentro Roma. Storia del trasporto pubblico nella capitale (1900-1945),
Roma, Donzelli, XI-399 pp., € 27,00
Questo libro colma un vuoto perché non esisteva una ricostruzione puntuale dello
sviluppo del trasporto pubblico a Roma nella prima metà del ’900. Ma non solo per questo il volume merita attenzione. Anzi, a giudizio di chi scrive, l’aspetto più interessante è
un altro: il tentativo di utilizzare la storia del trasporto come chiave interpretativa dell’intera storia della città, letta in una prospettiva sia socio-economica sia ideologico-culturale.
Pagnotta, già autrice di numerosi studi sulla Roma contemporanea, riesce a intrecciare
registri e stimoli metodologici provenienti dalla storia urbana e dalla storia economica
per delineare le trasformazioni della capitale negli anni del giolittismo e del fascismo, qui
accomunati da alcune significative continuità, tra cui soprattutto una persistente inadeguatezza di gran parte della classe politica locale davanti alle necessità della città. Una
storia, dunque, che non si esaurisce, come spesso accade negli studi sui trasporti, in un
erudito racconto tecnico-economico, ma che viceversa ambisce a offrire un’interpretazione generale dello sviluppo di Roma.
Il libro è articolato in nove capitoli e segue un’ordinata successione cronologica,
interrotta soltanto da un approfondimento dedicato alle vicende degli autobus, che assumono un ruolo centrale negli anni ’30, e da una parte conclusiva, dove si ricostruisce
la storia dei tranvieri romani lungo tutta la prima metà del ’900. Gli snodi principali del
racconto sono due: la municipalizzazione dei servizi con la giunta Nathan e la riforma
della rete con il Governatorato fascista. Sulla prima vicenda, l’a. ricostruisce con ricchezza
di dettagli i passaggi e le difficoltà di una decisione che scatena un dibattito politico di
grande interesse, rivelatore di diverse e contrastanti idee sul governo urbano e sul futuro della capitale. Spiccano, tra l’altro, il convinto sostegno dei cattolici alla riforma e i
contrasti tra Montemartini e Nathan sugli obiettivi finali della municipalizzazione. Per
quanto riguarda la seconda vicenda, invece, emergono gli effetti radicali di una riforma,
basata sull’eliminazione dei tram dal centro e sul potenziamento degli autobus, che avrebbe profondamente condizionato lo sviluppo successivo di Roma. Qui risaltano i pregiudizi di Mussolini e gli ambiziosi progetti urbani del fascismo legati, secondo Pagnotta, a
un’evidente strategia di segregazione sociale.
Al riguardo, spicca quello che appare come un elemento decisivo nell’interpretazione
dell’a.: la mancata realizzazione di una metropolitana come prova di una modernizzazione
incompiuta. Oggetto di riflessioni già negli anni ’10, la costruzione di una rete sotterranea rimase sulla carta fino agli anni ’50. Questa assenza, secondo Pagnotta, non avrebbe
soltanto ostacolato la trasformazione di Roma in una capitale moderna, ma sarebbe stata
anche funzionale ai progetti urbani del regime, poiché la metropolitana «non rispondeva
alla tipologia d’insediamento del fascismo, che voleva dividere invece di unire, che gerarchizzava la futura metropoli invece di democratizzarla» (p. 263).
Francesco Bartolini
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Graziano Palamara, Patrioti a confronto. Carlo Pisacane, Benedetto Musolino e Giovanni
Nicotera, Soveria Mannelli, Rubbettino, 135 pp., € 13,00
Attraverso un’ampia ricerca d’archivio l’a. ritorna sulla storia politica del Risorgimento, dialogando costantemente con la vasta bibliografia sull’argomento e discostandosi
in parte dalle recenti interpretazioni del processo di unificazione come fenomeno culturale e di massa, fino ad approdare alla conclusione che i miti propulsivi della mobilitazione
«circolassero in canali comunicativi sostanzialmente ristretti» (p. 102).
Grazie alle biografie di Carlo Pisacane, Benedetto Musolino e Giovanni Nicotera,
Palamara centra l’obiettivo di riportare in primo piano il Mezzogiorno come base progettuale dello State e del Nation-building, ma anche come punto d’incontro per personalità
ed esperienze dissimili. Viene così tratteggiata una vicenda che si snoda tra continuità e
rotture: se i tre patrioti condividono l’idea dell’iniziativa meridionale come unico strumento per il riscatto della penisola, l’a. riesce a far emergere anche le diverse sfaccettature
che questo concetto assume in ciascuno di loro, fino a trasformarle nella cartina di tornasole per la comprensione delle spaccature che pervadono il democratismo italiano alla
vigilia dell’Unità. Se in Pisacane, infatti, il rifiuto di un intervento esterno nel processo
di unificazione convive con la costante attenzione al tema della «nazione in armi», tale
esaltazione è alquanto smorzata in Musolino, meno permeabile alle promesse del mazzinianesimo e ai miti romantici e giacobini, e più orientato a un realismo politico la cui
portata è restituita dal suo Memorandum del 1859, in cui Francia e Regno di Sardegna
sono invitati a organizzare e sostenere un’insurrezione nelle Due Sicilie. Giovanni Nicotera rappresenta, in questo quadro, il personaggio più radicale, votato all’azione più che alla
riflessione, e intenzionato a fare del Sud la «polveriera d’Italia».
Sono proprio queste differenze a condizionare l’adesione al 1848, che l’a. considera
uno spartiacque nella storia di tutta la generazione di patrioti italiani e in particolare dei
protagonisti di questo saggio: tutti e tre partecipano alla difesa della Repubblica romana,
ma approdano a questa decisione con background diversi, che oscillano tra la militanza nel
Parlamento napoletano di Musolino e la diffidenza di Pisacane nei confronti dell’iniziativa sabauda, passando per il volontariato militare di Nicotera.
Anche l’esilio accomuna e discosta allo stesso tempo i tre uomini, che condividono
la dura critica alla leadership piemontese, ma con sbocchi divergenti: l’impresa del ’57,
osteggiata da Musolino, coinvolge invece gli altri due patrioti, e il suo tragico esito rappresenta un ulteriore motivo di crisi del mazzianesimo, aprendo le porte alla soluzione
garibaldina.
Tra Sapri e Marsala si snoda così la trama complessa della «rivoluzione nazionale»,
che Palamara racconta da una prospettiva particolare ma non marginale, cogliendo la
centralità di una questione – quella meridionale – che finirà per caratterizzare buona parte
della storia italiana dopo l’unificazione.
Alessia Facineroso
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Paolo Palma, Randolfo Pacciardi. Profilo politico dell’ultimo mazziniano, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 221 pp., € 15,00
Pacciardi è stata una delle figure più complesse della storia politica italiana del ’900.
Antifascista militante sin dal primo dopoguerra, fu comandante del Battaglione Garibaldi
nella battaglia di Guadalajara durante la guerra civile spagnola. Il rigore antifascista non
gli impedì nel secondo dopoguerra di diventare uno degli esponenti più intransigenti del
centrismo nella lotta contro il comunismo. La sua idea di democrazia protetta lo spinse a contrapporre alla formula del centro-sinistra una riforma delle istituzioni in senso
presidenziale: soltanto un rafforzamento sensibile del potere di governo avrebbe potuto
invertire, a suo giudizio, la degenerazione partitocratica, vero e proprio cavallo di troia del
comunismo in Italia. Teorizzatore del «governo di emergenza» nei giorni del Piano Solo,
animatore di riviste e movimenti ispirati alla battaglia presidenzialista («La Folla», «Nuova
Repubblica»), Pacciardi ha dovuto difendersi a più riprese dalle accuse di golpismo.
In questo agile profilo – corredato di un’articolata cronologia e un interessante inserto fotografico – Pacciardi è descritto come «l’ultimo mazziniano», latore cioè di una
concezione nazionale della democrazia, contrapposta agli estremismi di destra e sinistra,
critica infine delle degenerazioni dei partiti in nome di uno stretto legame tra politica e
morale. Si tratta di un’ipotesi interpretativa senz’altro suggestiva, anche se il riferimento
a Mazzini richiederebbe forse una maggior cautela, trattandosi di un’eredità contesa, con
varia legittimità, da attori politici assai diversi, fascisti e antifascisti in testa. Il richiamo
alla coerenza mazziniana non è del resto sufficiente a restituire unità interna al percorso
esistenziale e politico di Pacciardi: più che il frutto di un’ispirazione originaria di carattere culturale, esso è forse da mettere in relazione alla drammaticità degli eventi ai quali
partecipò, guerra civile spagnola in testa. Se infatti la passione antifascista di Pacciardi
conobbe il momento più alto a Guadalajara, d’altra parte il rifiuto che poco dopo egli
oppose alla repressione dell’anarchismo catalano costituisce il battesimo vero e proprio
del suo anticomunismo.
Nel corso della vicenda della nostra Repubblica, l’anticomunismo di Pacciardi è stato giudicato come la premessa di un’azione politica a carattere autoritario, se non proprio
fascista. Adesso che le equazioni più caratteristiche della guerra fredda in Italia hanno
esaurito la loro carica di delegittimazione politica, il lavoro di Palma ha il merito di restituire dignità a una delle figure più osteggiate della vita repubblicana. L’a. valorizza in
particolar modo il contributo che il politico grossetano ha dato nel corso degli anni ’60
alla critica della «partitocrazia»; la stessa critica che, su piani e con obbiettivi diversi, fu
alimentata da figure quali Giuseppe Maranini e Luigi Sturzo. La valorizzazione è dunque
più che legittima, anche perché, a quanto pare, l’a. non si è lasciato suggestionare dall’attualità politica di idee e passioni che animarono una stagione politica ormai lontana.
Luca Polese Remaggi
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Giuseppe Palmisciano, L’Università di Napoli nell’età della Restaurazione. Tra amalgama,
moti e repressione, Bologna, il Mulino, 417 pp., € 31,00
«Quella di Palmisciano è una ricerca informata, minuta, paziente, che cerca, disperatamente, di trovare e cogliere ogni germe di novità in un progetto, deliberato e ottuso,
di regressione» (p. 9). Così Fulvio Tessitore presenta questo corposo volume, che l’a. a sua
volta apre con l’auspicio che la storia dell’università veda sempre più, in futuro, cooperare
storici dell’insegnamento e storici delle istituzioni. Il volume si occupa soprattutto del periodo compreso tra la Restaurazione borbonica e il 1825, e – dopo un ampio capitolo dedicato a questioni storiografiche e alla disamina del mondo studentesco e dei regolamenti
in vigore – si addentra nella vita dell’Ateneo partenopeo facendo tesoro soprattutto dei
testi prodotti dai più insigni docenti. Sullo sfondo, un mondo – Palmisciano lo dimostra
in maniera esaustiva – dove il giro di vite reazionario agisce in profondità, staccando l’insegnamento dalla ricerca e lasciando smarrire la migliore eredità tanto dell’illuminismo
quanto del Decennio francese. Tre i casi di studio: la giurisprudenza, l’economia politica,
la cultura letteraria e filosofica. Nel primo caso emerge l’appiattimento dei docenti alla
pratica della repressione e alla liquidazione di ogni eredità contrattualistica. Nel secondo,
si agita l’inquietudine di chi, come Cagnazzi De Luca e Columella Onorati, tentò di trovare una via per lo sviluppo meridionale che nel lontano futuro lasciasse intravedere qualche
segno di avvicinamento ai più avanzati modelli europei. Nel terzo, si presenta il mondo
arcadico e intriso di retorica degli umanisti accademici, in ritardo rispetto all’avanzamento delle loro discipline, sprovvisti di manuali affidabili e lontanissimi anche dalla cultura
della storia che faceva allora la cifra dei più rilevanti movimenti intellettuali.
È un panorama desolato e desolante, quello dipinto dall’a., che narra anche del
connubio tra Stato e Chiesa per il controllo degli studenti, del fallimento del tentativo
di amalgama, dell’habitus da ligi funzionari assunto dai docenti in luogo dell’autonomia
della ricerca. Un panorama che molto risentì – negativamente – della repressione successiva ai moti liberali e di cui Palmisciano non arriva a trattare i timidi segni di ripresa
successivi all’ascesa di Ferdinando II al trono e di Niccola Santangelo nel settore della
politica culturale. Un panorama di cui molto si sapeva – o si immaginava – e che permette
di spiegare ulteriormente la fortuna dell’insegnamento privato da un canto, la fioritura
della cultura meridionale extrauniversitaria dall’altro. Palmisciano affida alla lettura dei
manuali la parte più consistente, al fine di illustrare appieno i ritardi e le incongruenze
del panorama intellettuale insediato nell’Ateneo. La sua lettura è assai puntuale, anche se
a volte fin troppo minuziosa e corredata di note lunghissime che rischiano di appesantire
la comprensione. Come affermato da Tessitore in apertura, si tratta comunque di un testo
utile perché, pur giungendo a conclusioni prevedibili, ha il merito di aprire le porte di
una università la cui decadenza non era stata finora illustrata in sede storiografica con
altrettanta puntualità.
Maria Pia Casalena
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Massimiliano Paniga, Welfare Ambrosiano. Storia, culture e politiche dell’Eca di Milano
(1937-1978), Milano, FrancoAngeli, 300 pp., € 38,00
Il volume di Paniga si inserisce in una stagione abbastanza fortunata della storiografia sul welfare e in particolare sulle sue istituzioni. L’Ente comunale di assistenza (Eca)
rappresenta, infatti, una delle istituzioni locali più longeve e caratterizzanti del sistema
socio-assistenziale italiano ereditato dal fascismo e proiettato nella Repubblica. Questo
organismo, istituito nel 1937 con lo scopo di gestire in ciascun Comune l’organizzazione
della beneficenza pubblica e l’assistenza di tutti gli individui e le famiglie che versavano in
particolari condizioni di necessità, nacque in sostituzione delle ottocentesche Congregazioni di carità e dell’Ente opere assistenziali (Eoa), quest’ultimo voluto dallo stesso regime
qualche anno prima – e oggetto di uno studio di Silvia Inaudi del 2008. L’Eca rimase, in
tal modo, la più importante organizzazione dell’assistenza pubblica generica di stampo
comunale fino al 1978. La ricerca si è servita di parte della cospicua documentazione di
cui si compone l’archivio dell’ente, oggi conservata presso l’Azienda di servizi alla persona
«Giorgio Redaelli», corredata da alcune fonti «collaterali» tra cui si rilevano per importanza i fondi di pubblica sicurezza e della Direzione civile, assistenza e beneficenza pubblica
del Ministero dell’Interno e i verbali delle sedute del Consiglio comunale di Milano.
L’analisi si snoda lungo l’intero quarantennio di vita dell’ente e risulta bene incardinata
al tessuto sociale e politico cittadino, ma dialoga meno con i dati e le esperienze, seppur
pochi, di altri Eca sul piano nazionale. Dopo una prima analisi dell’organizzazione e del
funzionamento dell’Eca meneghina durante gli anni del regime, l’a. passa ad analizzare
il drammatico periodo di guerra e in particolare i mesi della Repubblica sociale italiana
caratterizzati dal tentativo di una radicale ma di fatto irrealizzata riforma dell’ente. In
questo lasso di tempo l’operato dell’ente si tradusse in «una mediocre attività elemosiniera» (p. 81). Bisognerà attendere gli anni della ricostruzione e del miracolo economico
per assistere, invece, alla «fase più significativa e densa dell’Eca ambrosiano» (p. 267), a
cui seguì l’avvio di un lento declino coincidente con la nascita delle Regioni e il confuso
passaggio di consegna delle funzioni assistenziali a questi nuovi enti. Il volume si sofferma anche sull’analisi della gestione di alcune delle principali attività messe in campo
dall’ente, tra cui i ristoranti, le mense popolari e il soccorso invernale, e lascia emergere
interessanti questioni come il dibattito sull’apoliticità dell’assistenza e la nascita di nuove
professionalità (assistenti sociali). Merita di essere segnalata, infine, l’attenzione prestata
dall’a. alla figura di Ezio Vigorelli, indiscusso protagonista dell’Eca milanese e dell’intero
mondo assistenziale post-bellico, sebbene il suo tentativo di rinnovamento della gestione
della carità pubblica, che puntava ad attribuire proprio all’Eca un ruolo cardine, si arenò
insieme ai tanti progetti di riforma del mondo assistenziale promossi in quegli anni.
Domenica La Banca
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Massimo Papini, Alessandro Bocconi. Una vita per il socialismo, Bologna, Clueb, 169 pp.,
€ 18,00
L’a., sulla base di fonti solide, affronta il percorso di un socialista riformista che,
ancorato al contesto marchigiano, fu deputato tra il 1909 e il 1924 e si trovò al fianco di
Turati e Modigliani in lotte «nazionali», dalla nascita del Psi a quella del Psu passando per
l’età giolittiana, il periodo più fecondo del suo impegno. Avvocato, allora Bocconi fu un
«moderato» per i socialisti massimalisti e per i repubblicani, che ebbero in Ancona (dove
egli fondò la Camera del Lavoro) una roccaforte. Il suo riformismo «non fu mai estraneo
a una chiara e decisa scelta di classe e a un’adesione convinta alla lezione marxista», pur
nell’accezione della II Internazionale; «la propensione a una risoluzione non conflittuale
delle vertenze (e non solo quelle sindacali) fu sempre legata alla necessità di educare e di
far maturare sul piano della coscienza di classe il mondo operaio e contadino» (p. 10).
Formatosi tra Ancona e Pisa (con Enrico Ferri), conobbe Andrea Costa a cui si legò
all’epoca dei moti del ’98, quando fu arrestato (come Malatesta) e condannato. Lavorò
poi per «far comprendere a degli operai troppo dediti allo spontaneismo la fondamentale
importanza dell’organizzazione e, in questo ambito, del primato della politica» (p. 35).
Anticlericale, ma apprezzato in ambienti del cattolicesimo democratico legati a Murri,
con l’ingresso alla Camera diede un peso minore al piano teorico delle battaglie politiche,
in un’epoca in cui la rivoluzione e l’agitazione violenta si facevano strada tra le masse. Prima con la guerra di Libia poi nella «Settimana rossa», che precedette i rivolgimenti interni
alla sinistra figli della Grande guerra, durante la quale si ritrovò vicino a Turati e Treves.
Il biennio rosso e il fascismo mutarono gli equilibri nel Psi: Bocconi, perseguitato dagli
squadristi, non tradì la sua vocazione riformista. Critico col Pcd’I, aderì al Psu stringendo
con Matteotti «un legame umano oltre che di affinità politica» (p. 102). Dopo una fase
di smarrimento, successiva alle elezioni del ’24 e all’assassinio di Matteotti, espatriò in
Francia dove rimase tra il ’27 e il ’43, mantenendo rapporti con Turati, Pertini, Buozzi,
Modigliani, Cianca. A capo della sezione parigina della Lidu, di fronte alla svolta del
Comintern che abbandonò la linea del «socialfascismo» per i fronti popolari, entrò in
polemica con i socialisti «perché troppo presi dalla denuncia del regime e poco impegnati
nell’attività antifascista in Italia» (p. 120). Pur senza aderirvi guardò con interesse a Gl,
fu critico verso la Concentrazione scavalcando il Psi nel dialogo col Pcd’I, pur rimanendo
diffidente rispetto alle sue proposte. Guardò «all’unità operativa tra le masse (più che tra
i partiti). Alle alleanze aclassiste preferisce quelle classiste» (p. 123). Partecipò alla costituzione dell’Upi, che provò a mantenere in vita dopo il ’39. Tornato in Italia, presiedette
il Cln delle Marche. A Roma dal ’44, nel Psiup ruppe presto con Nenni e si avvicinò a
Saragat. Esponente di Iniziativa socialista, costituente, nel ’47 aderì al Psli, ma non cessò
di incarnare uno «spirito libero andando anche contro alle decisioni prese dai suoi compagni» (p. 155).
Andrea Ricciardi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Claudio Pavese, Un fiume di luce. Cento anni di storia della AEM, Milano, Rizzoli, 297
pp., € 24,90
Fra i grandi protagonisti dell’odierna globalizzazione vanno sicuramente annoverate
anche le multiutilities, frutto maturo di progressive fusioni societarie e di servizi urbani
prima gestiti da soggetti diversi, che in molti casi le hanno guidate all’approdo della
Borsa, provenendo in prima istanza da esperienze di natura municipale. In occasione del
compimento dei cento anni, l’azienda municipale elettrica milanese ha affidato alla penna
di Claudio Pavese, uno dei maggiori esperti del settore in Italia, l’incarico di ricostruire le
tappe della propria crescita. Il risultato è un saggio di storia d’impresa di grande interesse
e di ottima fruibilità, che ricostruisce le vicende elettriche – e anche quelle relative alla
distribuzione del gas – nel capoluogo lombardo con un taglio cronologico classico, che
giunge fino ai nostri giorni, alla creazione di A2A. Milano fu, innanzitutto, la culla dei
primi esperimenti elettrici in Italia e successivamente ha ospitato la principale società
elettrocommerciale del paese, la Edison, fino alla nazionalizzazione dei primi anni ’60.
Non solo, ma il capoluogo lombardo costituisce anche un banco di prova di assoluta
rilevanza sotto il profilo del cammino storico della municipalizzazione, avviata nel caso
in esame proprio nell’epoca d’oro del massimo sviluppo dell’istituto creato dalla legge del
1903 promossa da Giolitti. In quel quadro economico e politico, cittadino e regionale,
Pavese colloca le vicende dell’azienda elettrica, affatto sganciate dal contesto complessivo,
anzi organico capitolo di una storia più ampia che si snoda nell’arco di un secolo in quella
che è tuttora una delle aree più dinamiche del paese. Va subito sgombrato il campo da
possibili dubbi: benché concepito per la circostanza ricordata, Un fiume di luce non è un
mero libro celebrativo, come ne sono stati realizzati tanti in passato in occasioni consimili
e talvolta anche con buoni risultati, ma una sorta di summa delle numerose e corpose
ricerche, che l’a. ha condotto con rigore nel corso degli anni e che adesso trovano una debita composizione nel volume. Non è il primo esempio virtuoso di un’impresa del genere,
che sceglie una strada scientifica per festeggiarsi, cui, come in altre occasioni analoghe, si
accompagna la definitiva sistemazione archivistica. Al tempo stesso il saggio rappresenta
anche un punto di arrivo di una storiografia tripartita – quella sull’industria elettrica,
quella sui servizi urbani e quella sulla municipalizzazione – che nel corso di un ventennio
ha acquisito consistenza e qualità grazie all’impegno di un numero crescente di studiosi e
in virtù del costante raffinamento degli strumenti e delle metodologie. In coda alla trattazione di Pavese sono collocati alcuni appunti sull’archivio storico fotografico dell’azienda
e un’appendice di schede biografiche sui personaggi influenti dell’azienda.
Andrea Giuntini
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Gaetano Pecora, Socialismo come libertà. La storia lunga di Gaetano Salvemini, Roma,
Donzelli, 208 pp., € 16,00
La scelta interventista è stata vista da parecchi studiosi come il suggello del completo
e definitivo distacco di Salvemini dal socialismo. In verità lo storico pugliese aveva abbandonato il Psi, nel quale da tempo si trovava a disagio, già nel 1911, ma la decisione di battersi per l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale pareva collocarlo decisamente
in un’altra dimensione. È vero che gran parte dei partiti socialisti europei, diversamente
da quanto avrebbe fatto quello italiano, avevano scelto di appoggiare lo sforzo bellico dei
rispettivi paesi, ma una cosa era piegarsi alle necessità della guerra in nome dell’appartenenza nazionale, un’altra chiedere che la propria patria uscisse dalla neutralità e si gettasse
nell’avventura sanguinosa del conflitto. Molti hanno ritenuto che allora Salvemini avesse
rotto con il suo passato in modo irrimediabile, volgendo le spalle a Marx per abbracciare,
pur con qualche riserva, il credo di Mazzini. Pecora contesta questa interpretazione sulla
base di un’ampia panoramica della produzione salveminiana, che padroneggia con indiscutibile competenza. E invita a distinguere tra i partiti socialisti e gli ideali del socialismo.
Verso i primi lo storico pugliese fu sempre critico, spesso polemico, a volte spietato. Ma in
linea di massima, sostiene l’a., egli mantenne l’impostazione teorica di un riformista della
Seconda Internazionale, convinto che si dovesse gradualmente andare, sia pure con mezzi
pacifici e nel quadro del sistema parlamentare, verso un assetto più egualitario dei rapporti economici, fino a considerare plausibile anche il superamento della proprietà privata a
vantaggio di un regime collettivista, che a suo avviso non era di per sé incompatibile con
la democrazia. Quanto a Mazzini, Salvemini era senza dubbio affascinato dalla personalità
e dalla statura morale del patriota genovese, ma opponeva alla sua dottrina religiosa, non
priva di aspetti paternalistici, una visione empirica e conflittuale dei processi storici. D’altronde Pecora rileva come su questi temi Salvemini ci abbia lasciato «pagine che stentano
a intendersi e a collegarsi tra loro» (p. 172), nel senso che a volte sembra invece ritenere
poco praticabile e neppure desiderabile l’estinzione del capitalismo. Convivono insomma
negli scritti salveminiani, osserva giustamente l’a., due riformismi: uno rivolto semplicemente a migliorare le condizioni dei ceti umili, l’altro teso a trasformazioni radicali dei
rapporti di produzione. Che il primo si possa considerare «socialismo» dipende dall’ampiezza che si attribuisce a tale concetto (perfino il fascismo è stato a volte presentato come
una forma di «socialismo nazionale», per non parlare del «socialismo arabo» di Nasser e di
altri consimili ibridi). Inoltre occorre considerare l’influenza, enorme per ammissione del
diretto interessato, che su Salvemini ebbe Cattaneo: un pensatore ostile ai liberali moderati, positivista ed estraneo alla metafisica mazziniana, eppure nient’affatto socialista. La
sua lezione in favore di tutte le libertà individuali lasciò sullo storico pugliese un segno di
cui non vanno sottovalutate la portata e la profondità.
Antonio Carioti
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Stefano Petrungaro, Balcani. Una storia di violenza?, Roma, Carocci, 187 pp., € 17,00
In Imagining the Balkans (1997), Maria Todorova denunciava lo stereotipo occidentale dei Balcani primitivi, rozzi e violenti e le conseguenze negative che esso aveva nella
cultura dei popoli balcanici. Petrungaro si chiede in quale misura tale stereotipo abbia un
riscontro oggettivo nella percezione che il mondo occidentale ha dei Balcani (suggestiva
in proposito è la sua osservazione di come de Il ponte sulla Drina di Ivo Andrić il capitolo
più citato sia il terzo, quello dell’impalamento, pp. 47-48). Egli è consapevole che «La
“violenza” è certo una categoria ampia e generica, quindi […] di scarsa utilità per l’analisi.
Ma è proprio questo generico fantasma quello cui si pensa quando si menzionano i paesi
balcanici […] in questo volume ci si è focalizzati anzitutto sulla violenza fisica, prevalentemente collettiva e istituzionale» (p. 161). Generico può essere anche il termine di
«Balcani», che l’a. comunque restringe ai paesi del Sud-Est europeo soggetti più o meno
a lungo al dominio ottomano: vi include così anche le terre croate (ma perché non anche
quelle valacche e moldave?). Sua intenzione non è quella di fornire «una storia della violenza nei Balcani» quanto ripercorrere «le pagine buie di quella storia» e su quelle riflettere
(p. 97) per coglierne l’eventuale specificità. L’a. si occupa soprattutto del periodo che va
dalla formazione degli Stati-nazione ai giorni nostri, con particolare attenzione al difficile
rapporto tra città e campagna e tra pianura e montagna, ma anche alla sua mitizzazione
come fonte di violenza, alla brutalità o meno dell’amministrazione ottomana, alla carica
di violenza espressa dai costruttori dei nuovi Stati-nazione («Non furono dei reazionari a
immaginare gli Stati-nazione balcanici. Non furono nemmeno dei cavernicoli a guidare le
violenze a essi legate. Furono piuttosto moderni innovatori, intellettuali liberali», p. 41),
al fenomeno del banditismo balcanico e alle sue possibili connessioni con i corpi paramilitari del ’900, alle guerre che insanguinarono la regione e che si svolsero non solo tra stati,
ma tra popolazioni, con il corollario della pratica dello stupro. Costante è la sua domanda
su cosa vi sia di prettamente balcanico in queste manifestazioni di violenza per concludere
che specifico della regione sono le situazioni in cui si sono verificati i «fenomeni violenti, pur connessi al contesto generale delle loro epoche». Questi fenomeni hanno quindi
bisogno di trattazioni e periodizzazioni specifiche: «In questo senso, allora, una violenza
“balcanica” esiste, poiché presenta delle tempistiche, delle motivazioni, delle caratteristiche proprie, distinte da fenomeni analoghi a volte anche contemporanei, avvenuti altrove.
Non è quindi solo una questione di percezione distorta, di pregiudizi negativi» se si parla
di una violenza balcanica (p. 171). In questo contesto si può affermare che «sì, i balcanici
sono crudeli. Più o meno, però, come tutti gli altri» (p. 170). La tesi è convincente; ma
forse occorrerebbe ricordare quanto la celebrazione della violenza presente nelle opere di
culto nei Balcani, come quelle di Paisij, Njegoš o Mazuranić, abbia contribuito alla fama
dei Balcani violenti.
Armando Pitassio
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Laura Piccardo, Agli esordi dell’integrazione europea. Il punto di vista sovietico nel periodo
staliniano, Pavia, Polo interregionale di eccellenza Jean Monnet-Università degli Studi di
Pavia, 225 pp., e-book gratuito
Il nuovo lavoro di Laura Piccardo, già autrice di varie pubblicazioni sul tema dell’integrazione europea, ricostruisce le varie fasi che caratterizzarono l’atteggiamento della
leadership sovietica nei confronti dell’avvio dell’integrazione continentale. L’analisi, che
ha uno svolgimento per ordine cronologico, prende avvio dalle differenti interpretazioni
ideologiche che i principali esponenti del pensiero marxista rivoluzionario russo avevano
elaborato sull’ipotesi di un’unificazione europea, per poi rivolgersi alle riflessioni sorte
durante la seconda guerra mondiale nei progetti «europeistici» di Stalin, e infine concludersi con delle considerazioni – che forse avrebbero meritato una trattazione più dettagliata – sulle reazioni della dirigenza del Cremlino e di altri ambienti sovietici all’avvio del
processo di integrazione.
L’idea di fondo dell’a. è che al Cremlino, soprattutto sotto Stalin, non si riuscì mai
a comprendere fino in fondo la vera natura del processo di integrazione europea, denunciando di volta in volta i progetti europeistici in modo funzionale alla contestazione della
politica occidentale nel suo complesso (p. 190). Tale chiave interpretativa trova una sua
conferma nel filone di studi che nell’ultimo decennio hanno messo in luce come l’Urss
durante la guerra fredda avesse preferito il più delle volte relazioni bilaterali con i singoli
paesi occidentali, più che rapporti con alleanze economiche o politiche. La prospettiva di
un’unificazione europea, infatti, era ritenuta da Mosca una potenziale minaccia della sicurezza nazionale più che una chance economica e politica: l’Urss doveva rimanere «l’unica
potenza sul continente» (p. 178).
Le pagine del volume di Piccardo sono in alcune parti appesantite dall’inserimento
di ricostruzioni storiche o di lunghe citazioni di documenti già noti che avrebbero potuto
essere messi in nota: ciò riguarda in particolare la descrizione delle vicende relative al patto
Molotov-Ribbentrop (pp. 50-52), all’operazione Barbarossa (pp. 72-80), e all’avvio del
piano Marshall (pp. 131-136). Le note biografiche sono corredate di un ampio apparato
bibliografico.
Se numerosi sono gli studi che hanno affrontato il tema dell’integrazione europea
dal punto di vista degli Stati Uniti e di altri paesi del blocco occidentale, come è messo in
luce anche dalla copiosa bibliografia che l’a. cita, molto più scarso è il numero di contributi scientifici dedicati all’argomento in cui si prende in analisi il punto di vista di Mosca
a partire dai documenti sovietici. In questo senso la monografia di Laura Piccardo, che ha
consultato la documentazione proveniente da vari archivi russi, tra i quali l’Archivio del
Presidente della Federazione russa (Aprf ), l’Archivio di politica estera della Federazione
russa (Avprf ) e l’Archivio statale russo di storia sociale e politica (Rgaspi) offre un contributo apprezzabile sulla materia e inizia a colmare le lacune storiografiche su questa tema.
Alessandro Salacone
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Massimo Piermattei, Crisi della Repubblica e sfida europea. I partiti italiani e la moneta
unica, Bologna, Clueb, 209 pp., € 20,00
Il libro, basato su fonti a stampa, atti parlamentari e alcuni fondi archivistici, ricostruisce il decennio cruciale che va dal 1988, quando la Comunità europea rilanciò
l’obiettivo dell’Unione economica e monetaria (Uem), al 1998, quando fu stilato l’elenco
dei paesi che avrebbero adottato la moneta unica e l’Italia aveva vinto la sfida di entrare nel
gruppo di testa. Il volume consente sia di avere una visione complessiva dell’atteggiamento delle forze politiche italiane sull’Europa, sia di cogliere l’evoluzione dell’europeismo
italiano. Il cammino che ha portato agli impegni assunti a Maastricht si intreccia infatti
con la crisi del sistema dei partiti che avevano determinato la politica europea dell’Italia
e con l’affacciarsi di nuove formazioni politiche, che affrontano i temi europei con un
approccio diverso rispetto ai partiti che avevano in precedenza delineato la politica estera
del paese. Il volume mette in risalto come il processo di convergenza verso la moneta
unica abbia finito per squarciare il velo di «europeismo retorico» che avvolgeva la politica
italiana. Maastricht è stato il catalizzatore del cambiamento, perché sull’Europa hanno
cominciato a emergere visioni contrapposte. È stato però anche un’occasione perduta. È
mancato infatti un dibattito approfondito sulle motivazioni che avevano portato l’Italia a
sottoscrivere il trattato, e sulla stessa partecipazione dell’Italia al processo di integrazione.
Si sono così creati i presupposti perché l’opinione pubblica «iniziasse a percepire l’Europa
non più come la soluzione ai mali del paese e alle lacune della classe politica, ma come
la sorgente stessa dei problemi» (p. 105). Ciononostante, dopo Maastricht è cambiato il
modo di guardare all’integrazione europea. Finita l’epoca del sostegno acritico all’Europa,
Piermattei sottolinea come sia emerso un europeismo più attento. A partire dalle elezioni
del 1994 sull’Europa si è prodotta una frattura tra le forze politiche. Destra e sinistra
sostenevano due diverse idee d’Europa: a un’idea «minimalista dell’unificazione europea»
prevalente nel centro-destra, si contrapponeva quella di «un’Europa forte in termini politici e democratici» della sinistra (p. 117). In realtà, il libro mette in luce la strumentalità
con cui tutte le forze politiche usano i temi europei e risulta particolarmente utile per
comprendere le posizioni della Lega Nord, che passa dall’iniziale sostegno all’adesione
all’Unione Europea, arrivando a sostenere «la secessione della Padania» come passaggio
per agganciarsi all’Europa della moneta unica, a una svolta che la porta a posizioni apertamente euroscettiche. Quando fu chiaro che l’Italia avrebbe avuto le carte in regola per
entrare nella terza fase dell’Uem, «Bossi si scagliò contro quella UE e quella moneta unica
che in precedenza aveva difeso a spada tratta» (p. 185). In entrambe le coalizioni che si
candidavano a governare il paese l’Europa era diventata un tema fonte di conflittualità.
Il libro si chiude con l’invito ad avviare uno studio comparato sull’impatto di Maastricht
nelle varie realtà politiche europee, ormai sempre più interdipendenti.
Marinella Neri Gualdesi
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Pietro Pinna, Migranti italiani tra fascismo e antifascismo. La scoperta della politica in due
regioni francesi, Bologna, Clueb, 391 pp., € 27,00
Il volume tratta la condizione dei migranti italiani in Francia negli anni ’20 e ’30 e
il loro rapporto con la politica italiana e francese. In particolare studia i casi di due aree
del paese, la Lorena e il Sud-Ovest, di insediamento diverso rispetto alla più nota Parigi.
In Lorena giunsero prevalentemente lavoratori nel settore industriale e minerario, mentre
il Sud-Ovest attrasse contadini alla ricerca di terre non troppo costose. I migranti divennero terreno di battaglia delle contrapposte fazioni, ma furono anche soggetti attivi delle
organizzazioni partitiche, sindacali e politiche che si vennero costituendo, avendo anche
come obiettivo quello di utilizzare gli spazi politici che si aprivano loro per conquistare
l’integrazione nella società francese. Mentre il regime fascista cercava, attraverso i canali
consolari, di propagandare tra i migranti gli ideali nazionalisti, aiutato in questo anche
da alcuni ambienti missionari cattolici interessati a contrastare le naturalizzazioni, gli
antifascisti erano impegnati su più fronti e avevano come preziosi alleati i partiti francesi.
In Lorena il Partito comunista francese si aprì ai migranti italiani, intercettandone i bisogni e ingrossando le proprie file. Nel Sud-Ovest prevalsero invece i socialisti e le altre
formazioni di ispirazione democratica. Furono costituite anche delle organizzazioni che
avevano lo scopo di coinvolgere politicamente gli italiani senza il marchio partitico. La
Lega italiana dei diritti dell’uomo svolse un prezioso ruolo di coinvolgimento culturale
e di assistenza. L’altra grande organizzazione fu l’Unione popolare italiana, ispirata dai
comunisti ma più interclassista, che si radicò soprattutto in Lorena. Un ruolo significativo
fu svolto anche dai sindacati francesi (Confédération générale du travail e Confédération
générale du travail – unitaire), mentre nacquero anche organizzazioni cooperative, modellate sull’esempio emiliano. Tutte queste esperienze, come evidenzia l’a. nelle conclusioni, mostrano l’esistenza di un grande pluralismo tra le componenti antifasciste, e un
attivismo politico estremamente vivace e di gran lunga precedente la vittoria del Fronte
popolare alle elezioni transalpine del 1936. Sembra emergere, secondo l’a., un modello di
integrazione particolarmente efficace, che bilanciava un’assimilazione di fatto in termini
politici e civili, e un mantenimento dell’italianità negli aspetti più intimi e privati delle
famiglie. Pregio di questo volume, a cui purtroppo manca un indice dei nomi, è l’ampia
documentazione consultata, tra archivi e stampa, e la capacità dell’a. di comprendere lo
studio di due realtà regionali molto diverse, che facilmente avrebbero potuto portare a un
lavoro frammentato e che qui sono riunite in un’analisi coerente.
Enrico Palumbo
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Armando Pitassio, Storia della Bulgaria contemporanea, Passignano s.T., Aguaplano, 274
pp., € 20,00
Scrivere un libro di sintesi, tanto più la storia di un paese in età contemporanea, non
è opera facile. Richiede una conoscenza approfondita del tema, una vasta competenza storiografica che sappia orientarsi nei dibattiti della letteratura specialistica, chiavi interpretative maturate in anni di ricerche e studio. È per questi motivi che in genere l’iniziativa
per opere di tale natura viene saggiamente riservata dagli studiosi alla stagione della loro
maturità scientifica. Conferma della bontà di tale scelta è il pregevole volume di Armando
Pitassio, che giunge a compimento di una lunga e feconda stagione di studi sui Balcani
in età contemporanea. L’a. inizia la sua narrazione dalla nascita dello Stato bulgaro con
il Congresso di Berlino nel 1878 e la conclude con le elezioni presidenziali dell’ottobre
2011. Egli ripercorre le varie fasi della storia del paese, dal processo di costruzione dello
Stato alla prima guerra mondiale, dai governi Stambolijski al secondo conflitto mondiale,
dal regime di democrazia popolare alla nuova Bulgaria, con attenzione alle dinamiche
politiche, alle vicende dell’economia, alle trasformazioni della società, ricostruite nelle
loro interconnessioni senza superficialità e senza pedanteria. Il pregio del libro consiste
soprattutto nell’avere individuato alcune chiavi interpretative che costituiscono altrettanti
fili rossi della narrazione, rendendola scorrevole e coesa. Le intersezioni tra costruzione
dello Stato-nazione, coabitazione con le minoranze nazionali (turcofoni, pomaci, armeni,
ebrei, rom e altre), aspirazioni di un mai sopito irredentismo bulgaro, in modo particolare
nei confronti della Macedonia, costituiscono uno degli elementi di continuità, individuato con finezza negli snodi più significativi della storia della Bulgaria. Le dinamiche di una
società rurale, espressione tipica dell’universo agrario dell’Europa centro e sud-orientale,
con i suoi processi economici e le sue esigenze politiche di rappresentanza del mondo
contadino, sono colte nella loro centralità, in connessione con il travagliato itinerario di
modernizzazione che la Bulgaria ha percorso tra modelli occidentali e modello sovietico,
tra richiesta di fusione con l’Unione Sovietica negli anni di Živkov e adesione alla Nato
e all’Unione Europea. I processi economici, sociali, politici sono considerati opportunamente dall’a. non in una angusta prospettiva localistica autoreferenziale, ma nel quadro
della proiezione geopolitica di uno spazio che è stato terreno di confronto concorrenziale
e spesso conflittuale tra Russia ed Europa occidentale. L’analisi accurata delle vicende
successive alla caduta del regime comunista, cui è dedicato un terzo del volume, arricchisce la qualità del libro. Con rigore analogo a quello utilizzato per i periodi precedenti
l’a. approfondisce aspetti problematici della transizione alla democrazia parlamentare e
all’economia di mercato, quali i processi di trasformazione delle élites, l’influenza delle
reti di criminalità organizzata dotate di connessioni internazionali, il fenomeno pervasivo
della corruzione, i nuovi movimenti nazionalisti di marca xenofoba e razzista, le derive
populiste e la sfiducia nella politica.
Adriano Roccucci
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Giancarlo Poidomani, Fare l’Italia. Destra e Sinistra (1861-1887), Acireale-Roma, Bonanno, 195 pp., € 22,00
Il focus del libro è centrato sull’analisi dello sforzo compiuto dalla prima classe dirigente italiana per dotare il nuovo stato unitario di un involucro politico istituzionale in
grado di avviare l’intero paese verso il suo percorso di modernizzazione. I processi di State
e nation-bulding ricostruiti per il caso italiano in questo libro offrono l’occasione per ritornare su temi considerati oramai «classici» della storiografia contemporaneistica; temi che,
tuttavia, sembrano non avere ancora disvelato compiutamente tutte le loro potenzialità
conoscitive. Poidomani, sulla base di una ricognizione ampia e ragionata della letteratura
secondaria esistente, con la quale intesse un fitto dialogo a distanza ravvicinata all’interno dei vari capitoli e negli opportuni Approfondimenti finali (anche se vanno segnalate
alcune lacune riguardanti una parte della più rilevante storiografia degli ultimi anni sul
tema), ricostruisce in modo equilibrato, in un volume che si fa leggere assai bene, i più
rilevanti problemi affrontati dai notabili della Destra e della Sinistra storiche nel primo
venticinquennio unitario. Per la finalità didattica che prioritariamente sembra proporsi
– opportuni in questo senso appaiono i titoletti a lato del testo – il volume ci consente
di ripercorrere tutte le difficoltà incontrate dalla classe dirigente del tempo per superare
la frammentarietà politico-istituzionale e la debolezza dei legami sociali di un territorio
che per troppo tempo era rimasto in ritardo rispetto allo sviluppo conosciuto dai più progrediti stati europei alla fine dell’età moderna. In questo senso, il capitolo finale dedicato
alle «agenzie della nazionalizzazione» – esercito, burocrazia e scuola su tutte – recupera gli
strumenti operativi posti in essere in vista di coinvolgere una più ampia fascia di cittadinanza nel processo di nazionalizzazione identitaria. Compiendo quella che all’inizio sembrava una mission impossible (così l’a.), con risultati che, considerati i punti di partenza
e i tanti ostacoli e le numerose resistenze all’innovazione e al cambiamento, giustamente
sono definiti assai importanti, alla fine anche l’Italia vide edificate le strutture portanti
del suo Stato-nazione. «Luci e ombre» di questo percorso sono affrontate con giudizio
sereno. Alla fine della lettura del libro, rimane la consapevolezza che l’avvio della nostra
storia unitaria, comunque la si voglia giudicare, fu guidato da classi dirigenti consapevoli
dell’arduo compito che avevano innanzi. E la scelta di confrontarsi realisticamente con
una società molto al di sotto degli standard europei che pure si volevano raggiungere (già
con Crispi si apriranno subito gli spazi verso traguardi troppo ambiziosi) resta il metro
di giudizio più adeguato per coglierne i successi e i fallimenti su un piano storicamente
contestualizzato.
Riccardo Piccioni
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Michela Ponzani, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico»
1940-45, Torino, Einaudi, 314 pp., € 25,00
Sono ormai numerosi, anche in Italia, gli studi volti a indagare le peculiarità del
coinvolgimento delle donne nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, anche per
effetto dell’assoluta centralità assunta dall’attacco ai civili nei conflitti che stanno infiammando il mondo in questi ultimi decenni, e che proprio per questo prendono particolarmente di mira i corpi delle donne e i valori che esse rappresentano: un retroterra di cui
l’a. riconosce tutta l’importanza anche per la ricerca da lei condotta, benché la miriade
di donne comuni a cui la sua ricerca dà voce risulti essere spesso assai meno passiva e
inerte rispetto alla guerra e ai disastri della guerra di quanto il titolo lasci supporre. È
vero semmai che il diverso livello di consapevolezza delle ragioni della guerra si traduce
in differenze significative nel modo di viverla e di ricordarla, come confermano le ormai
numerosissime testimonianze depositate in opere a stampa, in lettere e documenti familiari, in archivi pubblici e privati: ivi compreso quello – davvero straordinario – costituito
dalle lettere inviate nel 1990 a Rai3 su sollecitazione dei promotori del programma La
mia guerra, e ora depositate all’Insmli a Milano.
Di questa costellazione di memorie, cercate e assemblate con partecipe solerzia, l’a.
fa un uso intelligente e accorato, anche se talora un po’ troppo appiattito sul punto di
vista delle «vittime»; e lo fa ripercorrendo in dieci capitoli esperienze e processi di maturazione, ambiguità e contraddizioni, rimozioni e scelte, iniziative e connivenze delle donne
italiane in tempo di guerra: una costruzione per nuclei tematici e argomentativi che accresce il pathos e l’empatia del lettore, ma che non aiuta a delineare una mappa temporale e
spaziale articolata dei fenomeni (e dei sentimenti), di cui volta a volta si parla.
Uno degli obiettivi primari della ricerca è quello di confermare l’uso consapevole
delle violenze alle donne come strumento terroristico e pianificato per annientare il nemico: «tattica militare», non «pura malvagità» (p. 213), usata per annientare le capacità di
resistenza dei/delle più deboli, e per ribadire l’onnipotenza del più forte: un discorso che
vale per i «cattivi tedeschi» non meno che per le tolleranze alleate sulle «belve marocchine»: come a dire che il concetto di «guerra giusta» è quanto mai ambiguo, e da maneggiare
con estrema cautela. E certo non è un caso – commenta l’a. – che proprio l’attenuarsi di
una interpretazione tutta ideologica della seconda guerra mondiale in chiave di eterna
lotta fra Bene e Male, abbia agevolato il riemergere, soprattutto sul versante femminile,
della memoria di tragedie personali tenute a lungo nascoste, e tanto più indicibili in
quanto poco gradite ai nuovi potentati dell’Italia repubblicana, oltre che difficilmente
omologabili al discorso pubblico sulla Resistenza come riscatto collettivo e di alto profilo
ideologico dai soprusi ventennali del fascismo e come reazione solidale alle «macerie della
civiltà» (p. 283) prodotte dalla guerra nazifascista.
Simonetta Soldani
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Daniele Pozzi, Una sfida al capitalismo italiano: Giuseppe Luraghi, Venezia, Marsilio, 317
pp., € 30,00
Giuseppe Luraghi è stato uno dei manager più brillanti che l’Italia abbia mai avuto.
Al suo nome è legata anche una delle esperienze più rilevanti e innovative del panorama
culturale italiano, rappresentata dalla rivista «Civiltà delle Macchine», di cui fu indefesso
animatore, dopo che nella precedente esperienza per la casa milanese aveva contribuito
al successo della rivista «Pirelli». L’a. traccia con mano sicura una biografia professionale
di questo manager, basando il suo lavoro principalmente sulle carte di Luraghi, che la
famiglia ha messo a disposizione dell’Università Bocconi dopo averne curato il riordino.
Il volume ricostruisce tutti i momenti topici della carriera di questo grande organizzatore
della produzione. Non sono molti i casi di manager studiati fino a oggi. La storiografia
economica e dell’impresa ha bisogno di lavori come questo, proprio perché l’approccio
biografico consente di scavare a fondo su alcuni dei temi più rilevanti della storiografia
settoriale, permettendo nel contempo di adeguare anche le conoscenze su un terreno
più generale. Pozzi individua gli snodi essenziali del percorso professionale di Luraghi:
la sua formazione in Bocconi, le prime esperienze nell’industria tessile, il primo salto di
qualità, ma anche i primi problemi con la Pirelli. La pagine dedicate al conflitto e infine
alla rottura tra il manager e la famiglia Pirelli sono una sorta di caleidoscopio attraverso
cui osservare il sistema imprenditoriale italiano. Qui, in effetti, si può saggiare la rilevanza dell’approccio, grazie al quale è possibile fare emergere alcuni dei limiti maggiori
del capitalismo familiare italiano, la sua incompleta disponibilità a una vera e propria
managerializzazione dell’impresa, i freni – culturali e umani – che impedirono la piena
maturazione di quel processo. Lasciata la Pirelli e dopo una breve parentesi alla Lanerossi,
per circa una ventina d’anni, fino alla metà degli anni ’70, Luraghi è stato uno dei manager più autorevoli delle partecipazioni statali, dapprima alla Finmeccanica e poi all’Alfa
Romeo. Le vicende più rilevanti della storia dell’industria automobilistica italiana degli
anni ’60 e ’70 trovano un posto centrale nelle loro diverse dimensioni, dall’ideazione
dei modelli più noti del marchio, che lo resero uno dei più noti in tutto il mondo, alle
discussioni circa la nascita di Alfasud, una vicenda nella quale Luraghi seppe muoversi
più ancora che come manager come un vero e proprio imprenditore. Il confronto-scontro
dentro il sistema Iri tra Luraghi e il gruppo dirigente con in testa Giuseppe Petrilli viene
analizzato come parte di un processo di trasformazione dell’impresa pubblica negli anni
in cui da una parte il governo e la Dc cercavano di stringere ancora di più il controllo sul
mondo delle aziende pubbliche, dall’altra le tensioni sociali stavano introducendo fattori
extraeconomici nella tenuta complessiva delle aziende statali. Non meno rilevanti sono gli
impegni successivi, una volta fuori dal mondo delle aziende pubbliche, nella Necchi, alla
Marzotto e soprattutto alla Mondadori, dove Luraghi coniugò le sue doti di manager con
quelle di organizzatore culturale.
Luciano Segreto
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Pietro Ramella, Dalla despedida alla resistenza. Il ritorno dei volontari antifascisti dalla
guerra di Spagna e la loro partecipazione alla lotta di liberazione, Roma, Aracne, 254 pp.,
€ 15,00
Scopo del volume, ci ricorda l’a. nella premessa, è quello di ripercorrere le vicende
degli antifascisti italiani reduci dalla guerra civile spagnola nell’arco dei settantacinque
mesi trascorsi tra il ritiro delle Brigate Internazionali (autunno 1938) e la fine della seconda guerra mondiale in Italia (primavera 1945). Il progetto alla base dello studio è
sicuramente ambizioso: i legami tra l’esperienza spagnola e quella partigiana, così come
le continuità, e le fratture, tra l’antifascismo «storico» e quello «resistenziale», non sono
ancora stati studiati con la necessaria attenzione. Si sente il bisogno di lavori che affrontino questi temi.
Il testo potrebbe essere diviso in quattro parti. I primi due capitoli sono dedicati agli
ultimi mesi del conflitto e al difficile passaggio degli ex volontari in Francia; in queste
pagine l’a. si concentra sull’accoglienza riservata agli esuli spagnoli da parte delle autorità
transalpine e sull’organizzazione dei primi campi sorti sulle spiagge (Argelès-sur-Mer e
Saint-Cyprien). Nei capitoli terzo e quarto si passa a un’analisi più specifica delle condizioni di vita nei due principali campi «dell’interno» (Gurs e Vernet) da cui passarono
circa ottocento ex volontari italiani. I due capitoli seguono le tante traiettorie percorse dai
reduci italiani nei mesi a cavallo tra l’inizio del 1939 e il giugno del 1940 e ci offre una
carrellata che va da chi scelse di arruolarsi nella Legione straniera francese a chi finì nelle
Compagnies de Travailleurs Étrangers passando da chi invece riuscì a evadere dai campi.
Con la firma dell’armistizio tra Italia e Francia del 24 giugno 1940 si aprì un’altra fase
nelle vicende degli ex volontari che viene analizzata nei capitoli quinto, sesto e settimo;
in molti scelsero, pur di lasciare i campi, di rientrare in Italia per esser qui generalmente
condannati al confino. Il passaggio successivo fu, per molti ma non per tutti, la partecipazione alla lotta di liberazione italiana, o francese per chi non era rientrato. L’ottavo
e ultimo capitolo potrebbe essere una sorta di appendice. Sono infatti qui riprodotte le
memorie del garibaldino Mario Sangiorgio conservate in originale presso l’archivio della
Fondazione Isec; si tratta di una testimonianza interessante, sicuramente utile per inserire
il fenomeno del volontariato di Spagna sul lungo periodo.
L’impostazione del volume nel suo complesso – l’apparato delle note è ridotto al
minimo e l’a. cita raramente le fonti – oltre a rendere spesso frustrante la lettura lascia
perplessi: la grande mole di dati presentati risulta, infatti, inutilizzabile da parte della
comunità scientifica. Se a questo si aggiunge una bibliografia poco aggiornata e ridotta
all’osso, una stesura a tratti confusa e più di un eccesso di «passione» dell’a., non si può
non terminare la lettura avendo qualche dubbio sull’effettivo rigore scientifico dell’opera.
Siamo davanti a un volume che avrebbe potuto contribuire ad aprire nuove interessanti,
e necessarie, linee di ricerca ma che, purtroppo, lascia in bocca il sapore amaro di un’occasione persa.
Enrico Acciai
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Irene Ranaldi, Testaccio. Da quartiere operaio a Village della capitale, Milano, FrancoAngeli, 92 pp., € 24,00
Il volume costituisce un nuovo tassello della collana dedicata alla Roma novecentesca a cura di Lidia Piccioni, e ne ribadisce il metodo, manipolando utilmente fonti di
tipologia diversa – archivi, cronache giornalistiche, interviste, osservazione sul campo,
citazioni letterarie, musicali, cinematografiche, il tutto confluito anche in un parallelo
spettacolo teatrale.
Un ampio capitolo rilegge il quartiere attraverso lo sguardo di Domenico Orano,
massone, filantropo, attivo fra ’800 e ’900 con un minuzioso e avanzato lavoro di indagine, condotto negli anni ’10 sulla dozzina di isolati originari. Il riformatore vi offriva (inascoltato dal Blocco popolare del sindaco Nathan) uno spietato quadro delle condizioni
socio-abitative dei primi diecimila insediati, sostanzialmente teso a dimostrare la correlazione tra marginalità e incidenza dei comportamenti micro-criminosi. Il suo profuso e incessante impegno personale attivava poi una serie di strutture di servizio per la comunità
in grado di competere, nel campo dell’assistenza pubblica e dell’educazione giovanile, con
una debole presenza delle istituzioni salesiane ed effimeri esperimenti montessoriani.
Nel prosieguo l’a. delinea l’evoluzione più ampia di questo quartiere peculiare, tradizionalmente vissuto come periferico da abitanti e outsider, benché incluso nella cerchia
Aureliana e prossimo al Centro. La genesi è quella di un’antica zona annonaria del porto
fluviale, da cui l’etimo latino dovuto all’accumulo di anfore olearie inutilizzate. Nel 1891
il varo della grande attrezzatura del Mattatoio è perno di un mai decollato progetto di
sviluppo industriale della capitale che porta alla progressiva concentrazione in loco di un
certo numero di opifici (tra cui la Mira Lanza e la centrale Montemartini). Nell’ultimo secolo Testaccio si stabilizza come quartiere residenziale operaio; è attraversato dai fermenti
dell’arditismo in seno al fascismo, prima, e dalla borsanera e altre forme di «resilienza»
popolare durante la guerra; il suo declino giunge negli anni ’70, con il traffico di droga
legato alla banda della Magliana e ai fatti di cronaca della lotta armata. Il lungo dibattito
sulla riqualificazione delle molte e pregevoli emergenze di archeologia industriale si concretizza tardivamente grazie all’esperienza dell’Estate romana, e porterà a stabilirvisi le
nuove sedi di Roma Tre e del Macro.
Il profilo attuale è stato plasmato dal formarsi recente di una comunità parallela ai
«nativi», composta da un’emergente classe media di giovani creativi, con correlato associazionismo di terzo settore, modelli di consumo biologico ed equo-solidale, una riconoscibile comunità gay e flussi occasionali di utenti attratti dalla movida by night, con effetti
probabilmente irreversibili di gentrification immobiliare e sociale. Esiti imprevisti, dovuti
essenzialmente, secondo l’a., al forte profilo identitario delle origini e al fascino non estinto di un vivido microcosmo di vicinato, paesano e bonario, storicamente favorito da trame di edilizia popolare a cortili aperti e dal mercato ortofrutticolo della piazza centrale.
Michela Morgante
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Cristina Renzoni, Il progetto ’80. Un’idea di Paese nell’Italia degli anni Sessanta, Firenze,
Alinea, 148 pp., € 18,00
«Non è vero che sia stato tutto “un libro dei sogni”, è una sciocchezza dirlo: è stata
un’esperienza che in qualche modo ha fertilizzato la legislazione italiana in molte direzioni» (p. 120). Con queste parole Giorgio Ruffolo, intervistato dall’a. in appendice al
testo, stigmatizza il semplicismo cinico con cui si riassunse l’unica esperienza di programmazione economica che impostò il problema dello sviluppo del paese su un’organica
lettura della sua realtà territoriale e ambientale. Su questa interpretazione si è pigramente
attestata molta letteratura urbanistica, e la storiografia dell’Italia repubblicana – che ha
più citato che compreso il Progetto ’80 – se n’è spesso servita per avallare l’idea del fallimento dell’esperienza riformista. Il primo merito del libro è ripartire dal progetto come
da un oggetto nuovo da descrivere in dettaglio nella genesi e nei contenuti. Il secondo
è mettere a confronto testo e carte come parti inscindibili di un’unica narrazione. Era
questo, infatti, un elemento innovativo del Progetto ’80 che mostrava la precisa volontà
di misurare la programmazione economica sulla realtà territoriale del paese e di porre il
governo del territorio a perno del progetto dell’Italia futura: un paese in cui lo sviluppo
si sarebbe declinato attraverso l’impegno del pubblico a perseguire il benessere non solo
come ricchezza ma anche come diritto all’abitare, ai servizi, alla mobilità, al tempo libero,
all’ambiente. L’immagine delineata, di un territorio policentrico e plurale, articola risorse e squilibri oltre i dualismi classici Nord/Sud, città/campagna, industria/agricoltura,
segnalando una dimensione locale dello sviluppo che influenzerà le letture del decennio
successivo. L’analisi della vicenda, se da un lato mette in risalto la qualità dell’expertise
nazionale impegnata nella stesura del progetto, dall’altra mostra le debolezze strutturali
del paese che ne inficiarono la piena attuazione. Frutto di una cultura tecnocratica che
aveva trovato interlocutori politici illuminati ma i cui orientamenti non potevano dirsi
rappresentativi di tutto il ceto nazionale e ancor meno locale, il Progetto ’80 rivelò inoltre
le debolezze della pubblica amministrazione italiana, producendo risultati disomogenei e
condizionati dalle locali culture di governo.
Il libro, centrato su una puntuale interpretazione del testo, lascia ampi spazi a ulteriori ricostruzioni della rete di relazioni formali e informali, politiche e disciplinari,
nazionali e comunitarie che innervò l’esperienza della programmazione. Studi italiani di
storia dell’integrazione europea, superata una certa refrattarietà disciplinare a indagare
i rapporti fra politica e culture tecniche hanno, infatti, messo in evidenza il peso del
pensiero riformista italiano nella costruzione delle politiche comunitarie degli anni ’60,
tracciando un percorso tutto da esplorare. Su questo tema e sui modi in cui le neonate
Regioni elaborarono l’eredità culturale e politica del Progetto ’80 si attendono nuovi
lavori che superino la metafora del «libro dei sogni» a favore di una più attenta analisi dei
frutti di quella fertile stagione.
Melania Nucifora
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Davide Rodogno, Contro il massacro. Gli interventi umanitari nella politica europea 18151914, Roma-Bari, Laterza, 406 pp. € 35,00
Forse nella speranza di renderlo appetibile a un numero più ampio di lettori, l’editore italiano ha scelto un titolo più breve e parzialmente fuorviante rispetto a quello della
contemporanea edizione americana, apparsa presso Princeton University Press, Against
Massacre. Humanitarian Interventions in the Ottoman Empire, 1815-1914. The Emergence
of a European Concept and International Practice. Il titolo dell’edizione inglese restituisce
con maggiore chiarezza il contenuto del volume che scaturisce da un’accurata ricerca sulla
pamphlettistica e la letteratura giuridica coeva e sui documenti diplomatici e parlamentari britannici e francesi. Rodogno si occupa degli interventi delle potenze europee nelle
numerose situazioni di conflitto e tensioni politiche a carattere religioso (oggi aggiungeremmo anche etnico) nell’Impero ottomano (scomparso dal titolo italiano); ricostruisce
quindi la discussione e le posizioni all’interno dei governi, delle cancellerie e dell’opinione
pubblica britannica e francese attorno alla minore o maggiore legittimità dell’intervento
umanitario armato, che, come il libro documenta, diventa pratica delle potenze europee,
molto prima di quanto non si sia soliti pensare.
L’Impero ottomano e la «questione d’Oriente» sono centrali nel libro perché è questo lo spazio geopolitico sul quale (e contro il quale) si esercita (o non si esercita) l’umanitarismo delle potenze europee e si mette alla prova il concerto europeo post Vienna. Agli
interventi in Grecia (1821-33), Libano e Siria (1860-61), Creta (1866-69 e 1896-1900),
Macedonia (1903-1908) e ai non-interventi nei Balcani (1875-78) e in difesa degli armeni (1886-1909) sono dedicati altrettanti capitoli attraverso i quali Rodogno fa emergere
la genesi, i caratteri e la natura dell’intervento umanitario armato prima che esso fosse
giustificato dalle teorie (e dalla pratica) dei diritti umani e fosse giuridicamente legittimato dalle convenzioni e dal diritto internazionali. L’umanitarismo che emerge da questa
ricerca per nascere e legittimarsi ebbe innanzitutto bisogno di fondarsi su una «presunzione di superiorità degli europei» (p. XV) e quindi sulla netta contrapposizione tra «noi»
(i cristiani, il novero delle nazioni «civilizzate») e «loro» (i «barbari», i «non civilizzati», i
«musulmani»). Esso, ci dice Rodogno, si affermò in stretta connessione con l’imperialismo, non fu «il risultato dell’ineluttabile trionfo della democrazia o dei valori democratici, della stampa libera o dell’importanza crescente del principio di autodeterminazione»
(p. XVIII). Gli interventi umanitari diedero luogo, a loro volta, ad altre violenze e ad
altri massacri e furono dettati più che dal desiderio di difendere le popolazioni oggetto di
violenza dalla «natura e [dalle] condizioni del sistema internazionale» (p. XVIII).
La tesi è provocatoria, ma fondata su una solida, minuziosa e molto ben argomentata
ricerca. Forse l’ultimo capitolo che passa in troppo rapida rassegna la storia dell’intervento
umanitario nell’ultimo secolo e che punta a istituire una linea di continuità tra quelle
pratiche e quelle odierne rischia di indebolire la portata di così rilevanti risultati.
Daniela Luigia Caglioti
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Angelo Romano, «Mirare tutta la vastità del mondo». Maria Luisa Prosperi monaca benedettina (1799-1847), Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 182 pp., € 15,00
Nella storiografia sull’Umbria, regione di difficile definizione, almeno fino al momento dell’Unità, sembra consolidata l’opinione che solo marginalmente i processi di
modernizzazione siano riusciti a intaccare l’immagine di un territorio in cui le permanenze e la continuità offrono la cifra maggiore della sua identità. Alla fine dell’800, quando
in tutta la penisola stava radicandosi il movimento cattolico, gran parte della stampa
nazionale cattolica e anche qualche visitatore apostolico, parlavano di una realtà apatica,
di un popolo umbro più orientato alla contemplazione che all’azione. Indubbiamente la
storia di quella che oggi definiamo Umbria è stata segnata in modo indelebile da santi,
come Benedetto e Francesco, che hanno diffuso modelli di comportamento che hanno affascinato laici e religiosi; basta solo ricordare che Aldo Capitini, il filosofo della
non violenza, anticlericale convinto, a suo modo riconosceva nel francescanesimo una
radice dell’identità umbra. La vicenda narrata nel volume di Angelo Romano richiama
in modo puntuale tale atmosfera spirituale con la narrazione della vicenda umana di
Maria Luisa Prosperi, monaca benedettina e poi badessa del monastero di Santa Lucia a
Trevi. Utilizzando soprattutto la documentazione raccolta per la causa di beatificazione,
e conservata in gran parte presso l’Archivio ecclesiastico diocesano della Archidiocesi di
Spoleto-Norcia, l’a. ricostruisce l’infanzia di Geltrude, il suo ingresso in monastero, dove
diventa Maria Luisa Angelica del Cuore di Gesù, la sua vicenda spirituale, in un periodo
storico, la prima metà dell’800, che sembra preannunciare la fine della cristianità. La
Rivoluzione francese e il conseguente processo di secolarizzazione della politica e della
cultura rendono problematica la sua esperienza mistica, poco o affatto compresa anche
da una Chiesa in preda a una crisi profonda, che sembra aver assorbito, suo malgrado,
elementi della visione materialistica che ufficialmente affermava di voler combattere. La
Prosperi, per la sua storia personale, non sembra adatta a confrontarsi con tematiche
così complesse, eppure sorprende l’apertura verso il mondo; le sue visioni la proiettano
nel grande orizzonte dell’umanità, prega per gli infedeli, per gli ebrei, per i turchi e per
l’Armenia, ammonisce tutti gli uomini, ma non risparmia neanche la Chiesa e richiama il
clero e le massime gerarchie alla responsabilità. Il pregio maggiore del volume è quello di
saper dimostrare, con metodo storico, senza concessioni agiografiche, come una monaca
benedettina, rinchiusa tra le mura di un monastero di un solitario borgo dell’Umbria,
abbia la capacità di esercitare una specifica influenza anche al di fuori delle mura e delle
grate. Ricco di suggestioni e di puntuali indicazioni bibliografiche per la storia della spiritualità e della pietà, il volume non appare altrettanto informato sulla realtà economica e
sociale dell’Umbria e dello Stato pontificio nel periodo considerato, anche se l’indagine,
incentrata soprattutto sull’universo della mistica, alla fine non sembra risentirne.
Mario Tosti
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Maurizio Romano, Alle origini dell’industria lombarda. Manifatture, tecnologie e cultura
economica nell’età della Restaurazione, Milano, FrancoAngeli, 336 pp., € 40,00
Il volume si propone – e in ciò il titolo non è pienamente fedele al suo contenuto
– di ripercorrere il dibattito giornalistico sulle relazioni tra agricoltura e industria nella
Lombardia della Restaurazione, principalmente ricorrendo al contenuto dei nuovi periodici sorti entro un’area rivelatasi, come è noto, anche dal punto di vista «letterario»,
particolarmente dinamica già in epoca preunitaria. Si tratta di un taglio di ricerca che l’a.
esplicita nel primo capitolo, assumendo, come condivisibile, che la stampa periodica della
Restaurazione abbia svolto una funzione importante nella formulazione e trasmissione
delle idee entro il ceto alfabetizzato, investendo abbondantemente la sfera agricola, industriale, commerciale-finanziaria ed educativo-tecnologica. Dopo un primo capitolo che
svolge sostanzialmente la funzione di introduzione al lavoro, e un secondo, lungo capitolo
che ripercorre la storiografia in tema di Manifatture lombarde nell’età della Restaurazione,
all’effettiva analisi dei periodici si giunge solo a metà volume, nel cuore del terzo capitolo,
dedicato al noto dibattito economico coevo tra la supposta vocazione agricola della Lombardia del tempo e le aperture culturali verso lo sviluppo industriale europeo, affrontate
anche attraverso interessanti incursioni sul terreno creditizio. Il quarto e ultimo capitolo
s’incentra infine sull’importazione di nuove tecnologie e capitale umano dall’estero, chiudendosi con una riconsiderazione delle prime iniziative tecnico-professionali che presero
corpo nell’area nell’ultimo ventennio preunitario.
Il libro rappresenta un’utile e aggiornata riconsiderazione dell’ampia produzione storiografica dedicata, negli ultimi decenni, a un’area centrale dello sviluppo economico italiano e continentale contemporaneo. La sua parte propositiva sconta tuttavia la mancanza
di una strumentazione interpretativa autenticamente incisiva e l’indecisione circa il taglio
metodologico adottato. L’autore oscilla tra l’impiego dei periodici per trarne informazioni
dirette, qualitative e quantitative, su alcuni oggetti d’analisi (le imprese, gli artefici, i capitali, le tecnologie), operazione che se coerentemente perseguita avrebbe tuttavia richiesto,
a fini di piena originalità, la reimmersione negli archivi, e una meta-lettura di quegli
stessi periodici – che avrebbe potuto costituire il lato autenticamente innovativo del libro – finalizzata a trarre un quadro articolato dei loro argomenti economico-culturali.
È auspicabile che questa seconda direzione di ricerca possa essere percorsa in futuro con
maggiore decisione e attraverso una strumentazione concettuale più sofisticata, atta a cogliere appieno la complessità della trasformazione epistemologica e cognitiva che sottese,
sebbene con significativi limiti e contraddizioni, le trasformazioni culturali animate dalle
élites economiche e sociali ottocentesche.
Germano Maifreda
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Ilenia Rossini, Riottosi e ribelli. Conflitti sociali e violenze a Roma (1944-1948), Roma,
Carocci, 159 pp., € 17,00
Quasi trenta anni fa Nicola Gallerano curava un volume intitolato L’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945 (Milano, FrancoAngeli, 1985). Le ricerche sulla città di
Roma nel periodo post-bellico non sono mancate, ma il lavoro di Ilenia Rossini coglie lo
spirito che animò già quella ricerca, e cioè un’indagine che, insieme alla storia politica,
cogliesse i dati sociali più rilevanti per ricostruire un quadro generale di quel momento
storico. L’a. punta l’obiettivo su Roma ormai liberata, apparentemente lontana dal tumulto della guerra, ma di cui si sentono ancora distinti gli echi e se ne vivono da vicino
le conseguenze. Liberata prima della Liberazione, la capitale vive certamente la speranza
di una prossima stabilizzazione politica ma, pur abbattuta la dittatura mussoliniana e
allontanata l’oppressione dell’occupazione tedesca, quel limbo che accompagna gli ultimi
mesi della guerra spostatasi a Nord, non è ancora il tempo della soluzione degli urgenti
problemi materiali. Il primo anno senza tedeschi e senza fascisti ridisegna, nella miseria,
i confini tra lecito e illecito, e anche negli anni che seguono si crea una sorta di terra di
nessuno tra una legalità ancora non completamente ridefinita e uno stato di disagio che
spinge il bisogno ben oltre gli immaginabili steccati della legge.
Leggendo il volume di Ilenia Rossini si può ben dedurne che il dopoguerra romano
sia, al contempo, simile ad altri e abbia tratti del tutto peculiari. Se le difficili condizioni
materiali, la diffusa circolazione delle armi, le precarie condizioni alimentari, igieniche e
di salute, l’alto tasso di disoccupazione, il difficile reinserimento dei reduci sono le stesse
in cui vive gran parte della popolazione italiana del dopoguerra, certamente essi possono
incidere di più in una città che nella sua storia ha richiamato braccia per l’aspettativa
concreta o l’illusione di un lavoro. Una prima differenza sostanziale riguarda, quindi, le
dimensioni della città e le illusioni che essa reca con sé come approdo di sopravvivenza.
Una seconda sostanziale differenza è data dall’uso delle armi: esse non servono tanto per
regolare i conti quanto per compiere atti da criminalità comune e in occasione delle esplosioni di malcontento popolare. Nelle borgate, ufficiali, abusive, spontanee, la popolazione
sente di essere stata abbandonata e l’autorità compare soprattutto nelle vesti repressive
delle forze dell’ordine. Quelle parti della città conoscono un’attività repressiva fatta di
scontri e di rastrellamenti in cui anche le forze di sinistra finiscono per svolgere un ruolo
di contenimento della violenza, pur continuando a denunciare le condizioni miserrime
delle popolazioni delle borgate.
Rossini ci offre quasi una topografia documentata della Roma «riottosa e ribelle» (la
definizione è del questore Saverio Pòlito), cogliendo i tratti salienti della vita nelle periferie a partire dai dati del disagio quotidiano e passando attraverso l’analisi delle forze che si
contrappongono. Si tratta di un lavoro ben documentato che suscita ulteriori domande.
Marco De Nicolò
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Federico Ruozzi, Il Concilio in diretta. Il Vaticano II e la televisione tra informazione e
partecipazione, Bologna, il Mulino, 566 pp., € 40,00
È un volume interessante e ben scritto quello scaturito dalla ricerca di Ruozzi sulle
fonti audiovisive relative al concilio Vaticano II, che va a colmare una parziale lacuna storiografica pur nell’abbondanza di studi dedicati al concilio. L’a. ha infatti utilizzato come
fonti principali le immagini televisive, circa 200 ore di trasmissione conservate presso le
Teche Rai, oltre alla produzione cinematografica, radiofonica, alla stampa e alle carte dei
padri conciliari. L’intento era quello di far emergere la «televisione del concilio» e il suo
ruolo fondamentale nel trasmettere la memoria di quell’evento, nel plasmare i rapporti
tra tv e Chiesa, nel segnare il passaggio da un’informazione più istituzionale ed elitaria a
una più ecclesiale e vasta.
La «televisione del concilio» si venne a trovare all’incrocio di una serie di trasformazioni cruciali per la storia italiana, quella dei media audiovisivi e quella della Chiesa cattolica.
L’Italia era nel pieno del boom economico e stava sperimentando la nuova formula politica
dell’alleanza di centro-sinistra; la Rai stava vivendo una stagione straordinariamente ricca
e grazie alla sua vocazione pedagogica costituiva un potente strumento di acculturazione
popolare. Il pontificato di Giovanni XXIII rappresentò, anche per fattori legati proprio
alla comunicazione, una rottura netta con quello pacelliano, mentre la convocazione del
Vaticano II avrebbe aperto una fase nuova sia sul versante del dialogo interreligioso, sia
nei rapporti tra la Chiesa romana e i processi di secolarizzazione in atto. Il volume tiene
abilmente insieme questi diversi fili, facendo della «televisione del concilio» l’angolatura
privilegiata da cui osservare i molteplici cambiamenti di quel decisivo tornante.
Il primo dei cinque capitoli si focalizza sulla lunga durata dei rapporti fra Chiesa,
concili, comunicazione, iconografia, a riprova della sollecitudine con cui il mondo cattolico ha sempre utilizzato le immagini, oltre alla parola, per la diffusione del messaggio
evangelico; i tre capitoli successivi sono dedicati rispettivamente agli anni preparatori del
concilio, al 1962, anno di inizio dei lavori, e alle sessioni successive. L’ultimo fornisce una
sintesi interpretativa dei diversi piani in cui agì la televisione conciliare: trasformò il concilio in un evento anche «mediatico» (p. 459); servì a «mostrare al mondo l’eccezionalità
di quel momento di comunione» tra i vescovi di tutto il mondo (p. 491); favorì il «processo di de-romanizzazione» della Chiesa (p. 488); stimolò l’avvicinamento dei padri conciliari ai «nuovi pulpiti offerti dai media elettronici» (p. 487).
Ma se la Rai, che mostrò a tutti il Vaticano II, si sentiva «in totale sintonia con il
progetto giovanneo di aggiornamento della Chiesa» (p. 506), con la chiusura del concilio
nel 1965 anche per la tv pubblica sarebbe iniziata una fase più difficile e controversa: la
sua missione educativa entrò in crisi, così come il controllo democristiano sull’azienda.
E anche l’esperienza della «televisione del concilio» non si sarebbe più riproposta «nelle
forme e nei modi sperimentati in quegli anni» (p. 510).
Giulia Guazzaloca
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Salvatore Santuccio, Un protagonista del Risorgimento siciliano. Emanuele Francica Barone
di Pancali (1783-1868), Siracusa, Verbavolant, 238 pp., € 18,00
Il libro si inserisce nella ricca messe di volumi dedicati a vicende e personaggi del Risorgimento che hanno visto la luce in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità.
Il volume, promosso dalla Società siracusana di storia patria e dall’Istituto per la Storia del
Risorgimento italiano, Comitato di Siracusa, è dedicato a un illustre personaggio locale,
il barone Emanuele Francica di Pancali, che, anche per motivi anagrafici, ha attraversato
l’intero arco delle lotte risorgimentali in Sicilia. Il barone, sensibile ai venti della Rivoluzione francese, a inizio ’800 si avvicina alla massoneria e nel 1820 partecipa attivamente
da posizioni radicali ai moti contro i Borbone. La spaccatura intervenuta all’interno della
locale Carboneria non favorirà le iniziative di Francica, altresì renderà il capo della fazione
avversaria, Mario Adorno, suo irriducibile avversario. Divenuto sindaco, Francica si troverà a esercitare un freno ai ben più complessi moti capeggiati da Adorno nel 1837, quando
la prima epidemia di colera in Sicilia aveva favorito l’insorgere del popolo, convinto della
presenza di messi regi mandati ad avvelenare le acque. Nel 1848 troviamo Francica ancora
tra i promotori della rivoluzione, egli siede nel Parlamento regionale e, al prevalere della
reazione, è costretto a riparare a Malta, dove tra traversie e difficoltà economiche dovrà
attendere lo sbarco dei Mille per tornare in patria. Qui egli morirà pochi anni dopo, felice
di veder realizzato il suo sogno unitario, ma insoddisfatto degli equilibri politici, lontani
dai suoi ideali mazziniani.
L’a. dichiara di occuparsi di un personaggio già noto sotto lo stimolo del ritrovamento di alcuni scritti autografi, integralmente riportati nella seconda parte del volume,
che permettono di chiarire punti della vita del Francica, rimasti sinora oscuri, e, più
indirettamente, testimoniano l’oscillare di convincimenti e scelte tra gli antiborboni. I
testi pubblicati sono: Siracusa nel colera del 1837; Uomini che hanno sempre tradito la
causa giusta del popolo servendo il tiranno; L’anniversario della rivoluzione Polacca. Discorso
di Victor Hugo. Brani di lettere, scritti e discorsi del Francica o sul Francica punteggiano,
altresì, l’intero saggio, fornendo una costante documentazione. L’a. mette in evidenza
come fatti privati abbiano inciso sull’iniziale amicizia tra Francica e Adorno, elemento che
contribuirà a dividere la direzione del movimento rivoluzionario nel siracusano. L’imperizia e il poco interesse di Francica nell’amministrare il proprio patrimonio terriero, uno
dei più cospicui della provincia, determinerà un costante stato di precarietà economica
che segnerà profondamente la sua vita, in particolare negli anni dell’esilio.
Una postfazione redatta da Salvatore Adorno traccia un quadro storiografico su democratici e iniziativa meridionale, sul confronto tra «rivoluzionari» e conservatori filo
piemontesi, fra indipendentisti e autonomisti, all’interno delle lotte risorgimentali al Sud,
contribuendo a inquadrare le vicende del Francica in un dibattito più complessivo.
Luciana Caminiti
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Federico Scarano, Tra Mussolini e Hitler. Le opzioni dei sudtirolesi nella politica estera fascista, Milano, FrancoAngeli, 245 pp., € 34,00
La storia dell’Alto Adige dopo l’annessione all’Italia ha più volte suscitato l’interesse
di storici normalmente non impegnati su temi di storia regionale. Si pensi a Renzo De
Felice, Mario Toscano, Pietro Pastorelli e ai loro lavori incentrati sugli aspetti diplomatici
della questione altoatesina tra fascismo e Repubblica. Tale interesse si spiega con i caratteri
peculiari dell’area in questione, posta ai confini settentrionali del paese, abitata in larghissima parte da popolazione di lingua tedesca e interessata da diffuse aspirazioni irredentiste. Per questo l’Alto Adige e il trattamento della minoranza tedesca hanno rappresentato
a lungo un motivo di frizione nei rapporti tra Italia da una parte, Austria e Germania
dall’altra, divenendo temi aventi una rilevanza sovraregionale, attinenti più propriamente
ai rapporti internazionali.
Il libro di Scarano si ricollega esplicitamente alla tradizione storiografica sopra richiamata, concentrandosi sul tema delle opzioni, inquadrato nell’ambito della politica
estera fascista e dei rapporti con la Germania nazista. Le cosiddette opzioni, frutto di un
apposito accordo firmato tra le due dittature nel 1939, misero la popolazione sudtirolese
davanti all’obbligo di scegliere tra l’acquisizione della cittadinanza tedesca, con conseguente trasferimento nel Reich, e il mantenimento della cittadinanza italiana, con contestuale abbandono di qualsiasi richiesta di conservazione della propria identità linguisticoculturale. L’autore ricostruisce il modo in cui si giunse a tale accordo, prendendo avvio
dalle origini del problema, immediatamente dopo l’annessione della regione all’Italia e
l’avvento del fascismo e della sua politica di snazionalizzazione. Non costituisce invece
oggetto dello studio la fase successiva all’opzione dei sudtirolesi, con la valutazione e la
liquidazione dei beni degli optanti, le partenze e i sempre più difficili rapporti tra Italia e
Germania intorno al nodo altoatesino.
Anche Scarano, come la storiografia che l’ha preceduto, individua nell’Anschluss il
momento che segna un salto di qualità nella questione altoatesina. Il fatto che la Germania di Hitler si ritrovi al Brennero, a diretto contatto con l’Alto Adige, moltiplica la
forza e il radicamento dell’irredentismo sudtirolese, che inizia a considerare concreta la
possibilità di un ritorno al mondo tedesco. Le opzioni appaiono così come il tentativo di
disinnescare un problema esplosivo nelle relazioni tra due Stati in procinto di stringere
un’alleanza politica e militare.
Il libro è il risultato di una ricerca condotta sulle principali fonti archivistiche disponibili, sulla ricca memorialistica e sull’ancor più ricca bibliografia di lingua italiana e
tedesca. Pur non apportando significative novità e soffrendo talvolta di una narrazione
troppo cronachistica, che riporta giorno per giorno l’evolversi dei contatti diplomatici,
il volume rappresenta una sintesi equilibrata delle acquisizioni già conseguite dalle due
storiografie e mette in luce i nodi aperti e i punti di discussione.
Andrea Di Michele
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Marco Scavino, La svolta liberale. 1899-1904. Politica e società in Italia alle origini dell’età
giolittiana, Milano, Guerini e Associati, 266 pp., € 26,00
Il volume ripercorre alcuni passaggi della storia politica e sociale italiana legati all’avvento del governo Zanardelli-Giolitti di inizio ’900, con l’intento di individuare le ragioni
per le quali la cosiddetta «svolta liberale» si sia progressivamente esaurita per cedere a una
stabilizzazione moderata, avviatasi secondo l’a. già nel 1902 e incarnatasi poi nel governo
Giolitti del 1903. Scavino, pur dichiarando di considerare ancora aperta la questione se
la «svolta liberale» rappresenti una reale rottura in direzione di una democrazia moderna
oppure un’occasione mancata, pare propendere soprattutto per questa seconda interpretazione.
Il testo, di piacevole lettura (particolarmente riuscita è ad esempio la descrizione del
regicidio di Umberto I e il clima conseguente), ben richiama in tal senso quegli elementi
storiografici consolidati che attestano l’incapacità e immaturità della classe dirigente italiana di fronte alla nuova dimensione di massa della politica (riformismo empirico e non
legislativo e strutturale; limiti della nuova concezione della neutralità del governo nei
conflitti del lavoro; perdurante centralismo). Due ampi paragrafi, inoltre, sono dedicati ai
ritardi e alle divisioni e contraddizioni del movimento socialista e di quello cattolico. La
«svolta liberale», in sostanza, riducendosi al pur importante mutamento del clima politico
generale, avrebbe lasciato quasi del tutto immutati gli equilibri di fondo del paese.
Dispiace che il testo non tenga conto delle recenti ricerche sulla storia del Mezzogiorno che hanno quanto meno disarticolato la vecchia immagine basata sull’esclusivo
appoggio governativo delle vecchie clientele locali e sull’immobilismo del sistema politico
meridionale. Se è vero, come si afferma, che la «svolta liberale» nel Meridione sia stata
affidata ai notabili, resta ad esempio da chiarire di quali notabili si tratti, considerato che
l’avvento del governo Zanardelli-Giolitti coincide con un’intensa stagione di inchieste e
scioglimenti di consigli comunali che stimolano la sostituzione di gruppi di potere locali
e la modernizzazione economica dei Comuni (e dunque vanno distinte nell’analisi le
elezioni parlamentari da quelle amministrative). A noi pare che una componente essenziale della «svolta liberale» sia infatti il nuovo approccio seguito nei rapporti tra centro
e periferia, una nuova versione cioè del «centralismo debole», rappresentata dallo Stato
amministrativo, nell’ambito del quale la strategia mediatrice giolittiana puntava a rigenerare una certa sintonia tra istituzioni e società, che l’autoritaria «crisi di fine secolo» aveva
ulteriormente ridotta. Tornare a riflettere sull’Italia politica e sociale dei primi anni del
’900, dopo una fase di ripiegamento storiografico, anche approfondendo le singoli fasi e
magari rendendole più autonome rispetto alla cosiddetta «età giolittiana», come propone
Scavino, è indubbiamente utile, se non necessario, per reinterpretare le origini e l’attualità
dell’Italia contemporanea e il volume considerato ci aiuta in tal senso.
Giovanni Schininà
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Giovanni Scirocco, L’intellettuale nel labirinto. Norberto Bobbio e la «guerra giusta», prefazione di Pietro Polito, Milano, Biblion Edizioni, 123 pp., € 10,00
Il labirinto è senz’altro l’immagine che meglio coglie il carattere fondamentale
dell’attività intellettuale di Bobbio. Nonostante la sua scrittura cristallina e la pacata razionalità delle sue argomentazioni, l’intellettuale torinese è stato infatti lacerato da dilemmi sofferti, il suo pensiero è stato attraversato da tensioni irrisolte. Ha fatto bene quindi
l’a. a ricondurre il senso della sua riflessione sulla «guerra giusta» alla rappresentazione di
«una prigione dalla quale i prigionieri non possono uscire» (p. 117). La «prigione», nella
fattispecie, è il rapporto tra la dottrina classica della «guerra giusta» e la realtà della guerra
contemporanea. Che cosa restava di quella dottrina nell’epoca della distruzione nucleare?
E come si riformulava rispetto agli altri conflitti convenzionali, moltiplicatisi soprattutto
dopo la fine della guerra fredda? Questo piccolo libro segue da vicino l’evoluzione dei fili
del pensiero di Bobbio, raccogliendoli intorno ad alcuni snodi essenziali (testuali e contestuali), entro un arco temporale compreso tra il 1961 e il 1999: il suo confronto con il pacifismo etico-religioso di Günther Anders e Aldo Capitini e con quello giuridico di Hans
Kelsen; la guerra del Vietnam; la sua partecipazione alla sezione italiana della Fondazione
Russell; il ruolo dell’Onu; la prima guerra del Golfo; le guerre «umanitarie» nei Balcani.
Il punto di partenza di Bobbio fu la scelta dell’obiezione di coscienza, che pareva negare ogni legittimità alla teoria della «guerra giusta» in un contesto in cui l’uso della bomba atomica rischiava di abolire ogni distinzione tra aggressori e aggrediti nella distruzione
totale. Tuttavia, l’a. osserva come l’equilibrio del terrore non impedì la proliferazione di
conflitti periferici, riproponendo l’attualità di una dottrina in cui Bobbio distingueva
legalità e legittimità della guerra. Questa posizione trovò un momento di drammatica verifica in un quadro inedito in cui, con la dissoluzione dell’Urss, emersero la possibilità di
un nuovo ruolo internazionale dell’Onu e la realtà del primato mondiale degli Usa. Non
senza aspre polemiche, accuratamente ricostruite dall’a., se Bobbio nel 1991 si schierò a
favore dell’intervento di «polizia internazionale» nel Golfo in nome della sua legalità e
legittimità, nel 1999 manifestò una disponibilità a comprendere la guerra «umanitaria»
nei Balcani, in nome di un principio di efficacia quale fondamento di legittimità di una
guerra illegale.
Ponendosi a ragione «il problema della coerenza» del pensiero di Bobbio, l’a. richiama l’attenzione sulla discontinuità tra il 1991 e il 1999. Tuttavia, la sua rigorosa analisi di
merito lascia sullo sfondo due questioni più generali: in quale rapporto sta la prospettiva
della «guerra giusta» con l’evoluzione più complessiva del suo pensiero intorno a socialismo e liberalismo? In quale misura fu complicata dalle memorie della seconda guerra
mondiale, con il continuo richiamo alla Resistenza, o con la costante sovrapposizione
del profilo di Hitler al nuovo tiranno di volta in volta da combattere – che fosse Saddam
Hussein o Milosević?
Marco Bresciani
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Antonio Scornajenghi, L’Italia di Giovanni Paolo II, Cinisello Balsamo, San Paolo, 182
pp., € 15,00
Il volume, che si inserisce nell’ambito di un progetto di ricerca sul pontificato di
papa Wojtyla, prende le mosse dallo shock per l’elezione di Giovanni Paolo II ricostruito
attraverso i commenti sui media italiani. Ne emergono elementi quali la novità di un papa
giovane, straniero, che per la sua provenienza può incidere sul futuro degli scenari geopolitici (p. 25). Il nuovo papa ha una visione dell’Italia che, per la sua storia cristiana e per la
presenza nel Mediterraneo, rappresenta «una entità decisiva per costruire quella sinfonia
di nazioni, tenute insieme dall’impegno per il bene comune e dal rispetto dei diritti e delle
libertà individuali e sociali, e su cui impostare un nuovo ordine internazionale, nel segno
della pace e della giustizia» (pp. 29-30).
Il «non abbiate paura» dell’inizio del pontificato è una risposta a carattere universale,
ma corrisponde anche alla situazione della penisola, ferita dall’attacco delle Brigate Rosse
e da una crisi economica fuori controllo. I primi anni si caratterizzano per il dibattito
giornalistico sulla definizione del nuovo pontificato secondo l’antinomia progressista/
conservatore. Il clima cambia con l’attentato del 13 maggio 1981: il papa ferito, che si ristabilisce e affronta nuove sfide, conquista la simpatia della popolazione italiana. È accolto
con grande affetto nelle parrocchie romane e nelle città italiane meta di suoi innumerevoli
pellegrinaggi. I viaggi del papa e l’incontro con i fedeli rappresentano un modo concreto
con cui Giovanni Paolo II mostra la sua vicinanza al Paese e alle sue difficoltà (p. 60 e ss.).
L’a. ricorda i discorsi contro la mafia, contro il terrorismo, e le parole di accoglienza per
gli immigrati in un paese che cambia velocemente pelle, divenendo approdo di chi fugge
da guerra, miseria e disperazione. Uno dei luoghi simbolo della costruzione del messaggio
del papa è Assisi, meta del suo primo viaggio extra-romano, e scenario in cui Giovanni
Paolo II convoca, con un gesto inedito nella storia della Chiesa, i leader di tutte le grandi
religioni mondiali (p. 82 e ss.), riproponendo la città di San Francesco all’attenzione mondiale come rappresentazione di una metodologia di dialogo. La visione del papa dell’Italia
si intreccia con alcune delle vicende più critiche di quel momento: a fronte delle proposte
di secessione di parte del paese è il papa polacco a lanciare l’«Appello a una grande Preghiera del popolo italiano» teso a sottolineare il valore storico dell’unità nazionale. Ed è
Giovanni Paolo II a gestire la fine dell’unità politica dei cattolici, delegando al cardinal
Ruini, prima segretario e poi presidente della Cei, la guida di una rinnovata presenza
cattolica nella società.
Il volume è frutto della consultazione in alcuni archivi (Archivio del Pci, Carte Andreotti, Carte Craxi) e dello spoglio di testate giornalistiche. Rappresenta uno tra i primi
tentativi di ricostruzione dello specifico tema del rapporto di Wojtyla con l’Italia.
Augusto D’Angelo
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Gianluca Scroccu, Alla ricerca di un socialismo possibile. Antonio Giolitti dal PCI al PSI,
Roma, Carocci, 221 pp., € 23,50
Il volume, diviso in tre capitoli, si configura come una biografia politica di Giolitti,
limitata alla militanza comunista e a una parte di quella socialista, fino a quando egli
fu ministro del Bilancio nel I governo Moro. Il libro è supportato da un solido apparato scientifico incentrato sulle carte del suo archivio privato, che egli stesso custodì con
cura. Le carte sono state efficacemente incrociate dall’a. con documenti di altri fondi (in
particolare dell’archivio del Pci) con l’obiettivo di dar conto della vicenda, stimolante
e complessa, di uno dei politici più duttili della sinistra italiana, anche perché sempre
attento agli scenari internazionali. Il cuore del volume è costituito dal periodo che va
dai profondi rivolgimenti del ’56 (XX Congresso del Pcus, invasione dell’Ungheria, VIII
Congresso del Pci) al centrosinistra, passando per il sofferto distacco dal partito in cui
Giolitti aveva militato dal ’40. Espressione di «un antifascismo più etico che politico,
certamente facilitato dalla vicenda del nonno Giovanni e che comunque portava a una
distanza priva però di connotato di fiera opposizione» (p. 30), il giovane Giolitti passò
all’azione durante la guerra con il gruppo romano e fu arrestato nell’ottobre ’41. Commissario politico della II divisione Garibaldi, dopo un grave incidente automobilistico fu
costretto a riparare in Francia, da cui rientrò dopo la Liberazione divenendo un «pupillo»
di Togliatti. Deputato alla Costituente e in Parlamento, fino al ’55 Giolitti sostenne la linea del «partito nuovo», mantenendo saldo il legame con l’antifascismo della formazione.
Puntuale negli interventi in aula, informato, critico verso il piano Marshall e il modello
capitalistico, oppositore della socialdemocrazia e di ogni cedimento verso la «democrazia
borghese», egli divise il suo impegno tra questioni nazionali e temi locali. La rottura con
Togliatti sopravvenne nel ’57 dopo la pubblicazione di Riforme e rivoluzione (contro cui
si scagliò soprattutto Longo), da cui emerse un contrasto inconciliabile sulle modalità di
costruzione del socialismo (per Giolitti inscindibile dalla libertà) e sulla fedeltà all’Urss.
Fin dagli anni giovanili, Giolitti manifestò una particolare sensibilità nei confronti della
cultura, caratteristica che lo portò a divenire uno dei più influenti consiglieri dell’Einaudi
e un parlamentare apprezzato pure dagli avversari, per il suo stile impeccabile e le sue
competenze in materia economica e finanziaria. Competenze che, una volta nel Psi (fitto
il dialogo con Nenni, Basso e Foa), dopo l’esperienza di «Passato e Presente» e la direzione
di «Mondoperaio» con Arfè, ne fecero uno dei dirigenti più determinati nel promuovere
le riforme di struttura e la programmazione, in linea con il La Malfa della Nota aggiuntiva
e al fianco di Lombardi. L’esperienza di ministro fu «una sostanziale sconfitta, ma troppo
breve era stata la parentesi per tentare davvero di lasciare un’impronta» (p. 214). Giolitti
avrebbe definitivamente sposato il riformismo socialdemocratico dopo il ’68, non solo
come azione di governo ma anche come fine politico di una sinistra in cerca di identità.
Andrea Ricciardi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Antonio Senta, A testa alta! Ugo Fedeli e l’anarchismo internazionale (1911-1933), Milano,
Zero in Condotta, 271 pp., € 17,00
L’a. è un giovane storico che utilizza l’ampio lavoro di archivista condotto presso
l’Iisg di Amsterdam, il più importante archivio europeo per le ricerche sull’anarchismo. Il
suo incarico consisteva nell’ordinare la notevole raccolta personale di Ugo Fedeli acquisita
dall’Iisg nel 1964, anno della sua morte. Il Fondo Fedeli, che occupa più di venti metri
lineari, attendeva da decenni di essere catalogato e il materiale (documenti manoscritti,
diari, lettere, resoconti di convegni, appunti, bollettini,volantini, fogli dattiloscritti sparsi, ecc.) giaceva assai poco utilizzato. Una sintetica guida è ben delineata nel testo (pp.
22-26). Naturalmente per redigere il presente volume, Senta ha attinto pure a una ricca
bibliografia sull’anarchismo, specifica e generale (pp. 232-257), sviluppata considerevolmente negli ultimi anni.
Ugo Fedeli iniziò giovanissimo a impegnarsi nel movimento a cui collaborerà per
tutta la vita. Non fu solo un raccoglitore di documenti, ma cercò anche, da autodidatta,
di redigere brevi biografie di alcune importanti figure: da Luigi Fabbri, l’«erede» di Errico
Malatesta, a Luigi Galleani, il «critico» di Malatesta e dell’organizzazione libertaria. Di
sicuro la vita agitata e convulsa, con esili e fughe, duri lavori manuali e precarietà giudiziaria, non gli permise di svolgere un lavoro organico fin quasi agli ultimi anni. Infatti
nel 1952 fu nominato bibliotecario a Ivrea, presso il centro culturale fondato da Adriano
Olivetti, dove riuscì a mettere un qualche ordine ai suoi materiali.
Senta segue con attenzione le fasi alterne dell’esistenza di Ugo Fedeli offrendo per
ogni periodo una buona contestualizzazione dei problemi contemporanei del movimento
operaio e delle tendenze anarchiche. Si considera perciò l’ambiente sovversivo milanese,
molto influenzato dalle istanze individualiste, l’antimilitarismo precedente e successivo
alla prima guerra mondiale e poi gli scontri quasi quotidiani contro le squadre fasciste e le
istituzioni repressive anche in seguito ad attentati dimostrativi e simbolici. Dopo i tragici
«fatti del Diana» e lo scatenamento della reazione fascista, si apre la via della Russia. Qui
Fedeli raccoglie documenti sul movimento armato di Nestor Machno, il capo guerrigliero
ucraino che opera con intenti antiautoritari prima contro le truppe zariste e poi contro
l’Armata Rossa. Nel 1923 lo storico autodidatta si trasferisce a Parigi dove è attivissimo
nell’emigrazione anarchica italiana. L’espulsione del 1929 lo spinge fino a Montevideo,
sul Rio de la Plata, a un passo da Buenos Aires. Sono due centri di grande fermento libertario e qui spera di «realizzare il suo sogno: la creazione di un archivio anarchico» (p.
208). Però nella capitale uruguaiana termina una fase della sua vita, e quindi del tema di
questo libro: nel 1933 Fedeli viene deportato in Italia.
Le succose pagine di Senta costituiscono un filo conduttore per seguire due decenni
vissuti da un individuo diviso tra lotta di classe e passione storica. L’indice dei nomi offre
una serie di riscontri concreti per orientarsi in una complessa militanza libertaria che
attraversa un periodo cruciale.
Claudio Venza
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Marco Severini, Dieci donne. Storia delle prime elettrici italiane, Macerata, Liberilibri, 201
pp., € 15,00
In accordo con la International Woman Suffrage Alliance fondata a Washington nel
1902, a partire dal 1904 sorsero anche nelle principali città italiane numerosi Comitati a
sostegno del voto femminile, seguiti poi dalla formazione di un Comitato nazionale. Nello stesso anno, dopo la presentazione da parte del repubblicano Roberto Mirabelli di un
progetto di legge per il voto alle donne, venne avviata una vasta campagna, confluita nella
Petizione delle donne redatta da Anna Maria Mozzoni nel 1906, anno in cui il progetto di
legge approdava in aula per la discussione. L’iniziativa si guadagnò un largo seguito e il
sostegno di Maria Montessori che esortò le donne italiane a chiedere l’iscrizione nelle liste
elettorali. Alla fine di luglio del 1906, mentre la Corte di Appello di Venezia esprimeva un
netto rifiuto, la Corte di Appello di Ancona, presieduta dall’illustre giurista mantovano
Lodovico Mortara, concedeva, inaspettatamente, l’iscrizione alle liste elettorali, e quindi il
diritto di voto politico, a dieci maestre marchigiane che ne avevano fatto richiesta. Poiché
nessuna crisi di governo si sarebbe verificata tra maggio 1906 e dicembre 1909, il diritto
di voto non venne effettivamente esercitato prima di essere annullato da una successiva
sentenza della Cassazione. È consentito immaginare che il mancato esercizio del diritto
abbia sottratto rilevanza a un evento denso, invece, di notevoli implicazioni. Quella che
l’a. sceglie di approfondire è la storia di queste dieci donne «che avevano impresso una
svolta impensata alla lotta per il suffragio» (p. 14). Delle dieci maestre, alcune di sedi
cittadine, altre di scuole rurali, Severini ricostruisce le necessarie biografie, in particolare
attraverso i fascicoli professionali conservati presso l’Archivio comunale di Senigallia. L’a.
fornisce informazioni preziose ma solleva, al tempo stesso, una fitta serie di domande che
potrebbero spingere verso ulteriori ricerche. In quali network erano inserite? A parte la
formazione professionale, di quali consumi culturali si erano nutrite? Quale il reale rapporto con la politica?
Nel contesto della «nuova congiuntura che la storia marchigiana conobbe a partire
dall’età giolittiana» (p. 109), legata alla presa di coscienza di un’irrisolta arretratezza e al
risveglio di «una coscienza regionale» (p. 120), la vicenda ha almeno altri due protagonisti: la sentenza stessa e il suo estensore. La prima, senza precedenti, sollevò più critiche che
lodi tanto nel dibattito giuridico quanto nelle pagine dei maggiori quotidiani nazionali.
Il secondo, personalmente contrario al voto alle donne «perché non ancora matura la preparazione della maggioranza di esse» (p. 27), dal punto di vista giuridico aveva esaminato
la spinosa questione sotto un profilo «strettamente esegetico» (p. 29), ritenendo legittima
l’iscrizione delle donne nelle liste elettorali politiche perché conforme al dettato dello
Statuto Albertino. Mortara, già docente di Procedura civile a Pisa e a Napoli, «assertore
convinto della centralità della figura del giudice» (p. 23) sarebbe certamente meritevole –
anche secondo l’opinione dell’a. – di «una critica e moderna biografia» (p. 15).
Alessandra Gissi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Alexander V. Shubin, Nestor Machno: bandiera nera sull’Ucraina. Guerriglia libertaria e
rivoluzione contadina (1917-1921), Milano, Elèuthera, 231 pp., € 15,00
Il volume ha certamente il pregio di fare luce su una pagina poco nota della guerra
civile esplosa nell’ex Impero russo a seguito della rivoluzione del 1917: la rivolta contadina, con centro in Ucraina, capeggiata da Nestor Machno. Latore di un programma
politico anarchico, avversario sia dell’ideologia bolscevica, sia del disegno di restaurazione monarchica dei Bianchi, il bat’ko – «piccolo padre», come veniva chiamato dai suoi
seguaci – è una figura controversa, oggetto di giudizi contrastanti: alcuni ne esaltano la
fisionomia di combattente coraggioso, che seppe tener testa sia all’Armata rossa che alla
bianca; altri lo bollano come bandito e criminale, autore di numerose uccisioni di ufficiali
bolscevichi e di appartenenti ai ceti benestanti, incursioni nelle città, massacri di ebrei.
Non ha facilitato il compito di formulare una valutazione storica condivisa la contrapposizione ideologica – sorta negli anni ’20 e perdurata fino alla perestrojka – tra gli storici
di matrice marxista, per i quali Machno non era che un nemico del potere sovietico, e la
storiografia del movimento di parte anarchica, apologetica e tendente a idealizzare l’esperienza machnovista.
L’approccio di Shubin è senza dubbio quello dello studioso, che attinge tanto a fonti
archivistiche di prima mano, quanto alla memorialistica e alla bibliografia finora prodotte. Al tempo stesso, però, egli si colloca apertamente nel filone storiografico anarchico.
Dice di sé: «I ricercatori anarchici [degli anni ’80] hanno intrapreso un’analisi dell’ideologia propria del leader del movimento collocandola all’interno dell’esperienza storica del
Novecento. E anche l’autore del presente libro ha reso omaggio a quella tradizione» (p.
12). Tale posizione si concretizza in una serie di giudizi non proprio obiettivi, ad esempio
quando l’a. definisce Machno «stratega geniale» (p. 7), o quando ne sovrastima il ruolo
svolto nelle vicende russe e ucraine («è difficile immaginare quanto diversa sarebbe stata
la storia della Russia e dell’Ucraina se Nestor Machno fosse stato giustiziato nel 1910»,
p. 22), o, ancora, quando definisce l’esperimento di autogestione contadina realizzato a
Guljaj Pole, la roccaforte di Machno, una «straordinaria esperienza di lotta rivoluzionaria
e di creazione di una nuova società» (p. 186). Inoltre, per confutare le tesi dei detrattori di
Machno, l’a. spesso si avvale come unica fonte delle memorie redatte in esilio dallo stesso
bat’ko con l’intento di giustificare le proprie azioni passate.
Il merito principale del lavoro sta nell’inserimento del movimento machnovista nel
più generale contesto delle intricate e travagliate vicende che sconvolsero l’Ucraina negli
anni 1917-1921, allorché questo territorio fu dilaniato dagli scontri tra i bolscevichi, i
Bianchi di Denikin, i nazionalisti di Petljura, i cosacchi del capopopolo Grigor’ev e i
seguaci del bat’ko, in un crescendo di esecuzioni sommarie, saccheggi, pogrom antisemiti
e violenze di ogni tipo. Grazie alla dettagliata ricostruzione di tali avvenimenti, l’a. contribuisce a rendere meno sconosciuto un importante segmento della storia ucraina del
’900.
Simona Merlo
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Renate Siebert, Voci e silenzi postcoloniali. Frantz Fanon, Assia Djebar e noi, Roma, Carocci, 270 pp., € 21,00
Questo libro mi ha fatto tornare alla mente un volume di Marc Bloch (in italiano La
guerra e le false notizie, Roma 1994) che assemblava un breve saggio postumo e un articolo del 1921. Il nesso non dipende dal fatto che Bloch abbia scritto parte di quel lavoro
durante la convalescenza in Algeria, ma da alcune domande che, da storico e reduce, si
poneva sulla guerra contemporanea come «esperimento di psicologia sociale» (p. 105) e
sulla sua narrazione, spesso intrappolata nelle secche del «vaglio storico della testimonianza» (p. 21).
Renate Siebert non è una contemporaneista ma una sociologa dotata di profondità storica. Nata a Kassel in piena seconda guerra mondiale ma da decenni radicatasi
in Calabria, allieva di Adorno, scossa dalla stagione delle «lotte di liberazione», è nota
come studiosa del razzismo e dei rapporti di genere. Come Bloch, con questo volume ha
deciso di rimettersi in gioco personalmente, affrontando di petto l’incrocio tra grande
storia e biografia personale. Per farlo si è affidata a un singolare contrappunto musicale,
ricorrendo a due narrazioni intrecciate: da un lato quella di Fanon, lo psichiatra caribico
(afroamericano della Martinica) che in Algeria avrebbe aderito alla causa rivoluzionaria,
scrivendo uno dei più importanti volumi della stagione terzomondista: I dannati della
terra (in Italia, Torino 1961), pubblicato all’indomani della sua morte per leucemia. La
seconda voce è invece quella della scrittrice e cineasta berbera Assia Djebar. Due figure
scoperte e amate dall’a. in circostanze diverse (il primo oggetto di tesi nel 1970, la seconda
conosciuta in Francia nei bui anni ’90 algerini). In un gioco di dicotomie, le due voci (la
prima spesso filtrata dall’interlocutore italiano Giovanni Pirelli) offrono prospettive differenti, alternando uno sguardo maschile e femminile, collettivo e famigliare, intessuto di
ideologie e silenzi, per dipingere un quadro vivente non solo dell’indipendenza algerina (e
delle sue scie di lungo periodo) quanto di un crocevia storico (il passaggio dagli anni ’50
ai ’60), ricolmo di progetti e contraddizioni.
La storia dell’Algeria diventa quindi l’occasione per riprendere il filo del discorso
su razzismo, totalitarismo (qui applicato alle categorie coloniali), violenza (materiale e
immateriale, attiva e negativa), percezione della morte e dei corpi. Manca la dimensione
storiografica ma il ricorso alle arti della semiotica e dell’etnografia evita i rischi di certo
culturalismo oggi di moda. Un passaggio che resta irrisolto riguarda semmai la dimensione più ampia dei silenzi postcoloniali evocati dal titolo, attraverso il concetto di terzo
mondo di Fanon in cui l’orizzonte euro-algerino sembra fagocitare l’esperienza americana, portatrice di altri problemi e nessi identitari. Questo libro rappresenta però una prova
del valore di un serio approccio interdisciplinare alle fonti e uno stimolo per gli storici,
in linea con l’appello finale di Bloch: «le osservazioni veramente preziose sono quelle che
vengono da persone abituate a metodi critici e a studiare i problemi sociali» (p. 105), fuori
dall’erudizione gratuita, lontano dagli spazi impermeabili.
Massimo De Giuseppe
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Antonio Soggia, La nostra parte di noi stessi. I medici afro-americani tra razzismo, politica e
riforme sanitarie, Milano, FrancoAngeli, 430 pp., € 48,00
Arrivato in libreria mentre negli Stati Uniti continuavano le polemiche sulla riforma
sanitaria obamiana, questo libro aggiunge un utile tassello alla cosiddetta storia «lunga»
dei diritti civili, una storia che ha trovato di recente in italiano una efficace sintesi nell’ampio lavoro di Nadia Venturini (Con gli occhi fissi alla meta. Il movimento afroamericano per
i diritti civili 1940-1965, FrancoAngeli, 2010). Tutor della tesi di dottorato dalla quale
La nostra parte è tratto, Venturini è autrice della prefazione al volume. Ne è oggetto la
National Medical Association (Nma), un’associazione professionale afroamericana costituita nel 1895 da un gruppo di medici neri esclusi, per motivi razziali, dall’organizzazione
professionale bianca dell’American Medical Association (Ama). Sulla base di una ricca
documentazione inedita, costituita dalle carte di figure di punta dell’associazione, l’a. ricostruisce in tre densi capitoli tematici la storia della Nma. Nel primo capitolo tratteggia
la questione dell’identità dei medici afroamericani, sospesi tra razza, classe e professione.
Nel secondo ripercorre la complessa vicenda dei diritti e dell’integrazione nel sistema sanitario d’oltre Atlantico. Nel terzo colloca la Nma nel quadro della battaglia per il diritto
alla salute.
Il risultato è un lavoro articolato e ben argomentato, che ruota attorno alle tensioni
che attraversano la Nma, i cui aderenti sono combattuti fra ruolo professionale e comunità nera. Come scrive l’a. infatti, essi, come il resto della classe media afroamericana,
si trovano stretti nei primi decenni del ’900 in un dilemma: da un lato, la segregazione
garantisce loro «un controllo monopolistico sulle attività economiche e sociali della comunità»; dall’altro, «le discriminazioni imposte dalla maggioranza bianca limitavano le
loro opportunità di espansione e frustravano le loro ambizioni di ascesa sociale» (p. 383).
S. delinea con attenzione la tensione fra le spinte all’integrazione e quelle al «parallelismo», cioè alla costituzione di istituzioni «parallele» nere, senza le quali «non sarebbe stato
possibile sfidare con successo la supremazia bianca» sul duplice terreno di «uno spazio
privato per sostenere una dignità ferita» e di «un processo di costruzione comunitaria»
(pp. 135-136). Restituisce il ruolo più esplicitamente politico che la Nma assume dal
secondo dopoguerra mondiale in poi. Ma non manca di mostrare come l’associazione si
spacchi rispetto al progetto trumaniano di assistenza sanitaria federale, che, a sua volta,
crolla sotto i colpi delle divisioni interne alla compagine democratica, dell’opposizione
repubblicana e delle martellanti campagne mediatiche dell’Ama.
L’a. avrebbe forse potuto meglio chiarire il ruolo esercitato dalla guerra fredda su
questo specifico aspetto della discriminazione razziale, o gettare luce sul rapporto fra medici, pazienti e infermieri neri. Ma il suo è un lavoro originale, che merita attenzione.
Ferdinando Fasce
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Stefanella Spagnolo, La Patria sbagliata di Giuseppe Bottai. Dal razzismo coloniale alle leggi
razziali (1935-1939), Roma, Aracne, 188 pp., € 12,00
Il volume affronta il tema del nazionalismo di Bottai secondo la prospettiva dell’evoluzione dell’ideologia fascista dal razzismo coloniale al razzismo antisemita. Il libro è diviso in tre parti. La prima è dedicata alla contestualizzazione del colonialismo fascista nella
tradizione coloniale italiana: sono pertanto ripercorse le vicende del colonialismo italiano
dell’epoca liberale, fino al periodo dell’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale e
all’avvento del fascismo. Qui Spagnolo afferma la continuità tra la politica coloniale liberale e quella fascista, 1922-1926, insistendo sul tema della missione di civiltà, sulla questione dell’emigrazione, sull’antitesi rispetto agli ideali del Risorgimento e sul legame che
s’instaura, verso la fine di questo periodo, con il nazionalismo e il futurismo. La seconda
parte ripercorre la parabola del colonialismo fascista attraverso la conquista della Libia e
dell’Etiopia nell’ambito dello scenario internazionale, inserendovi l’analisi del Quaderno
affricano di Bottai (1939). La terza parte mostra la continuità tra razzismo coloniale e
razzismo antisemita del fascismo nell’ambito del mito dell’impero e della nuova romanità
(sebbene l’a. non insista sull’esperimento antropologico dell’uomo nuovo fascista, per
utilizzare le parole di Emilio Gentile, pure citato e pur trattando dell’ambizione del rinnovamento della razza italiana). La tesi centrale del volume, presentata anche come «una
delle chiavi interpretative dell’integralismo ideologico» di Bottai, è che il suo libro sulla
guerra contro l’Etiopia esprime il nazionalismo e il razzismo come «elemento fondante
della ideologia fascista, indipendentemente dall’alleanza con la Germania e dalla politica
razzista del nazismo che comunque esercitò la sua influenza» (p. 14).
L’a. privilegia quindi quelle interpretazioni storiografiche che sottolineano, nell’ideologia fascista, la continuità del razzismo e la discontinuità dell’antisemitismo. Su ciò, va
detto che la definizione di pseudo-scienziato a proposito di Lidio Cipriani contraddice la
posizione assunta da Spagnolo riguardo al rilievo di una parte della scienza italiana orientata verso il razzismo (e al contesto scientifico internazionale); come pure va sottolineata
la confusione tra biologico e biologista riguardo alle forme del razzismo italiano. Il volume, dal taglio giornalistico-divulgativo, si basa su una vasta bibliografia che recepisce le
definitive acquisizioni sulle stragi italiane in Africa; anche se, al di là delle scelte e di qualche citazione non sempre adeguata, non mancano alcune lacune. Ad esempio, sarebbe
stato opportuno un riferimento e un confronto con i lavori di Banti (per la ricostruzione
della nozione di nazione risorgimentale), di Rodogno (per l’ideologia imperiale fascista
e le politiche di occupazione), di Brichetto (sulla propaganda del «Corriere della Sera»
rispetto alla guerra contro l’Etiopia), di Albanese (sulla marcia su Roma), di Charnitzky e
altri (sulla scuola fascista), di Ipsen e altri (sulla demografia nel regime), di De Michelis o
Zumbini (sulla genesi dei Protocolli).
Tommaso Dell’Era
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Jens Späth, Revolution in Europa 1820-23. Verfassung und Verfassungskultur in den Königreichen Spanien, beider Sizilien und Sardinien-Piemont, Köln, SH Verlag, 517 pp., € 54,00
Pubblicato all’interno della collana «Italien in der Modern», che da alcuni anni ospita ricerche originali di storia italiana contemporanea realizzate da giovani ricercatori e
ricercatrici tedeschi, questo volume rilancia un tema classico nella storiografia sul Risorgimento, quello della parabola della costituzione di Cadice del 1812 nei moti italiani del
1820-1821, che fu oggetto, ormai oltre sessanta anni fa, di un celebre studio di Giorgio
Spini.
Ma qui il discorso sul mito, che era stato al centro di quell’opera, cede il passo a un
approccio che da un lato privilegia la storia comparata (e, infatti, oltre ai due casi italiani
viene considerato anche quello spagnolo coevo, al quale è dedicata una buona metà del
volume), dall’altro cerca di porsi in sintonia con le suggestioni di una prospettiva transnazionale declinata in chiave di histoire croisée o entangled history. Così che a emergere, dalle
pagine che presentano i risultati di un lavoro di scavo protrattosi per anni negli archivi
di Napoli, di Torino, di Monaco di Baviera, e che per quanto riguarda la parte spagnola si appoggia invece prevalentemente sullo spoglio della stampa periodica dell’epoca, è
soprattutto l’analisi delle modalità di contaminazione intellettuale tra le tre esperienze,
scandita dalla circolazione di scritti e di uomini nel Mediterraneo occidentale di quegli
anni. Peccato, a questo proposito, che l’autore abbia potuto tenere conto solo delle ricerche preparatorie del libro dedicato da Agostino Bistarelli agli esuli (in gran parte proprio
quelli napoletani e piemontesi del 1820-1821), che è stato pubblicato quando quello
di Späth era già in stampa. L’attenzione dello studioso tedesco, per altro, si concentra
prevalentemente su temi di storia costituzionale. Dalla lettura analitica che egli conduce
del testo gaditano ne emerge, da un lato, l’impronta fortemente antinapoleonica, prima
ancora che antiassolutistica, e la conseguente sensibilità al tema dei poteri locali e delle
loro prerogative; dall’altro, la natura di Costituzione, per così dire, «di movimento e di
lotta», che rese quella di Cadice radicalmente alternativa alle costituzioni octroyées caratteristiche dell’epoca.
Si spiegano anche così i paradossi derivanti dall’appropriazione da parte di milieux
sociopolitici notoriamente alquanto diversi di un testo che combinava in modo ambiguo
democrazia e corporativismo tradizionale, enfasi sui diritti e attenzione ai privilegi.
Nella messa a fuoco di questi e altri temi, oltre ad applicare con efficacia il metodo
della Begriffsgeschichte e a mettere dunque in luce le metamorfosi dei concetti nella circolazione dalla sponda giuridica a quella della pubblicistica di più ampia diffusione, l’a. ha
sviluppato una ricognizione parallela su fonti iconografiche, restituendo efficacemente le
poliedricità dell’immaginario di una opinione pubblica protoliberale che si veniva caoticamente allora addensando proprio a partire dalla pervasività del discorso costituzionale
e delle sue figurazioni.
Marco Meriggi
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Lorenzo Speranza, Medici in cerca d’autore, in collaborazione con Claudia Misasi, Bologna, il Mulino, 328 pp., € 25,00
Lorenzo Speranza insegna Sociologia economica e Sociologia del diritto all’Università di Brescia. All’interno di un ampio interesse per lo studio delle professioni, egli non
è nuovo alla frequentazione della professione medica. Questo volume si presenta, infatti,
come l’appendice più qualitativa di una precedente ricerca a sei mani – condotta assieme
a Vicarelli e Tousijn – i cui risultati sono stati pubblicati dalla stessa casa editrice nel 2008.
Se la prima si proponeva di costruire una tipologia di profili motivazionali dei medici in
Italia, la ricerca corrente è rivolta a calare parte di quei profili nel vissuto biografico degli
intervistati, con l’intenzione di fare emergere il filo che lega vite private e professionali.
L’ambizione dell’a. è quella di arrivare a «distinguere le motivazioni della scelta di medicina (essere medico) dai modi concreti in cui viene esercitata la professione (fare il medico)
e di analizzare l’impatto di entrambi sull’identità dei medici» (p. 13).
Il volume ci consegna la trascrizione di 15 delle 39 interviste rivolte ai medici di
una provincia di medie dimensioni del Mezzogiorno, di varia specialità, collocazione lavorativa ed età. Una breve ma densa analisi di ciò che andremo a leggere ci si presenta
nelle prime cinquanta pagine, dopodiché, uno dopo l’altro, fanno la loro comparsa in
scena i protagonisti: il cardiologo, la ginecologa, il gastroenterologo, la neurochirurga,
il medico di base, l’anestesista, il medico manager e così via. Il presentatore, questo è
il ruolo che pare attribuirsi Speranza nella «messa in scena», si limita a commentare e a
evocare in nota altri récits de vie, questa volta, di medici della letteratura. I racconti di
Conan Doyle, Bulgakov, Kundera, Cronin, Pennac si intersecano con le memorie personali degli intervistati, evidenziando un processo di socializzazione che mette in dialogo
l’auto-rappresentazione e l’immaginario collettivo. Speranza cita una sola volta Bourdieu,
ma il suo è indubbiamente un lavoro volto alla decifrazione di un habitus: cosa ha portato
queste persone a fare medicina? Quali sono i loro hobby? Perché hanno scelto quella specializzazione? Sono state influenzate dai genitori o hanno influenzato i figli? Il riferimento
diretto e non celato va invece a Dubar e alla sociologia delle identità professionali, volta a
cogliere mutamenti e persistenze dell’habitus all’interno della traiettoria sociale del gruppo professionale di riferimento.
La struttura del libro è curiosa: ci si aspetterebbero delle conclusioni, un’analisi expost di quanto letto e invece l’autore si premura solo di aprire il sipario. È un modo inconsueto di fondere analisi e dati e i tentativi di generalizzare le storie di vita «al di là dei
tempi e dei luoghi in cui sono nate» (p. 9) destano alcune perplessità. Ma è un’intervistata
a fornirci la chiave di lettura: «La riflessione è partita dal lavoro del medico normale o, se
si vuole, dal lavoro normale del medico, dall’anamnesi, dalle storie cliniche. […] A me,
invece, più che le analisi, interessa capire chi era una persona e che cosa è diventata, che
poi è l’essenza del problema, è lì che si giocano le chances di capire» (p. 219).
Valentina Cappi
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Andrea Spiri, La svolta socialista. Il Psi e la leadership di Craxi dal Midas a Palermo (19761981), Soveria Mannelli, Rubbettino, 180 pp., € 12,00
Il volume ricostruisce la breve, ma intensa, fase, che portò Bettino Craxi all’elezione,
per molti inaspettata, a segretario del Partito socialista italiano nel 1976 e al consolidamento della sua leadership, nel corso del congresso di Palermo del 1981. Al Comitato
centrale svoltosi presso il Midas, dopo la sconfitta elettorale del 1976 e dopo la scomposizione della maggioranza in mano al segretario Francesco De Martino, Craxi venne
eletto segretario. I lombardiani si astennero. «L’astensione – dichiarò Signorile, esponente
appunto di quella corrente – non è un atto di disimpegno, ma un giudizio d’attesa che
ha alla sua origine le vicende politiche, anche recenti, interne al partito» (p. 69). Da quel
momento, tuttavia, il nuovo segretario iniziò una intensa ed efficace opera che avrebbe
dovuto portarlo a una più consistente maggioranza, ma soprattutto a un più efficace controllo del Partito. Cercò, quindi, da una parte, di seguire strategie interne che attraverso
alleanze, accordi provvisori, e scambi non avrebbero più permesso ad alcuno di contestargli la Segreteria, e, dall’altra, di rafforzare una identità culturale. Al Comitato centrale del
1978 presentò un progetto che differenziasse il Partito socialista dal Partito comunista.
Egli intendeva attuare una vera e propria svolta socialdemocratica. Il ruolo voluto per la
rivista «Mondo Operaio» e la funzione di Luciano Pellicani dovevano servire a tale scopo.
E sarebbe stato proprio Pellicani a scrivere l’articolo per «L’Espresso» dal titolo Il Vangelo
socialista, che faceva di Proudhon il vero riferimento ideologico del nuovo Psi. Tra il 1979
e il 1980 si giunse alla definitiva «resa dei conti» tra Craxi e i lombardiani e, in particolare,
tra Craxi e Signorile. La sconfitta di una tendenza favorevole a quest’ultimo nella Dc e la
morte di Moro del 1978, che aveva precluso strategie diverse per l’intero sistema politico
del paese, di fatto resero Signorile incapace di una vera e propria alternativa. Il Congresso
di Palermo dell’aprile 1981 non solo rese Craxi unico leader politico, ma trasformò il
partito in senso leaderistico, attraverso il cambiamento dello statuto e l’elezione diretta
del premier.
Queste, sintetizzate, sono le tappe principali ripercorse dal volume di Spiri, che si
sforza di definire soprattutto la trasformazione del Partito. In pratica, attraverso queste
pagine, si può comprendere il passaggio da un partito di correnti a uno personale, dove
la leadership acquista anche una valenza carismatica. E, forse, essendo Craxi un uomo
formatosi politicamente in un sistema di partito classico, potrebbe essere anche questo
passaggio a spiegare una delle ragioni della sua definitiva sconfitta. Non c’è dubbio, infatti, che con l’affermarsi anche in Italia del sistema dei partiti individuali e della forma
del cartel party, per uomini «funzionari» come Craxi, comunque, non ci sarebbe stato più
spazio. La ricerca di Spiri si fonda essenzialmente su fonti a stampa, utilizzando, laddove
è possibile, i materiali dell’archivio della Fondazione Craxi. Non mancano significative
interviste a protagonisti del tempo.
Luigi Musella
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Maria Grazia Suriano, Percorrere la nonviolenza. L’esperienza
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politica della Women’s International League for Peace and Freedom (1915-1939), Roma, Aracne, 228 pp., € 14,00
Le attività del Comitato esecutivo della Women’s International League for Peace
and Freedom (Wilpf ) costituiscono l’argomento centrale del libro. La Wilpf è la prima
organizzazione transnazionale di pacifiste che ha imposto alle istituzioni internazionali e
ai governi nazionali di ascoltare la voce delle donne in politica estera, con finalità e metodi
«politici» nati dalla cultura delle donne stesse. Varie studiose ne hanno mostrato il ruolo
in politica internazionale e il contributo alla nascita di una identità di genere «transnazionale». Anche in Italia sono apparsi saggi sulla Wilpf e sulla sua sezione italiana sin dal
2004. Il lavoro di Suriano si inserisce in tale filone di studi.
L’a. si propone di dimostrare come la Wilpf fosse «prevalentemente europea» e come
la sua esperienza «debba considerarsi emancipatoria», sia per l’affermarsi delle sue aderenti
nello spazio pubblico internazionale, sia per aver «promosso un modello di cittadinanza
internazionale attiva», allora nuovo, e poi ripreso dalle organizzazioni non governative
(pp. 21-22). Suriano utilizza prevalentemente i documenti originali della Wilpf. Diviso
in cinque capitoli, il volume ha un’Appendice di documenti e biografie e una «selezione
bibliografica». Nei primi capitoli l’a. dà conto degli inizi e delle novità dell’organizzazione, individuando nel Congresso di Zurigo del 1919 il momento di elaborazione di una
politica transnazionale di pace delle donne. Per l’a. qui avvenne «il passaggio dalla fase
della rivendicazione a una fase più moderata e stabile, conforme ai tempi lunghi della
politica e della diplomazia» (p. 67). Nel III capitolo si descrive il difficile lavoro del Comitato Esecutivo per conciliare le sue diverse anime nazionali su temi quali il rapporto
con le minoranze, la nonviolenza, la rappresentanza nell’esecutivo, il comunismo. Nei
capitoli finali vengono delineati la reazione del Comitato esecutivo ai totalitarismi e il
suo rapporto con la Società delle Nazioni. Temi troppo complessi per essere racchiusi in
poche pagine, tanto che le discussioni fra sezioni non emergono con chiarezza.
Suriano dà la giusta rilevanza al dialogo nella Wilpf con l’Europa dell’Est, che allargò
la coscienza europea. Appare quindi condivisibile l’ipotesi dell’a. su una Wilpf «europea»,
aspetto sottovalutato dagli studi. Questo spunto interessante non appare però sufficientemente sviluppato. Infatti che cosa vuol dire in termini politici e di genere definire la
Wilpf «europea»? Anche la tesi «emancipatoria» avrebbe meritato una trattazione più articolata. Non emergono inoltre con chiarezza «le attività svolte dal Comitato Esecutivo
Internazionale» (p. 193). Queste furono il frutto di dibattiti interni e di riflessioni nati da
quel «realismo morale» considerato da A. Dawley una delle novità del pensiero politico
internazionale della Wilpf, che qui non viene discusso.
Comunque Suriano offre nel panorama storiografico italiano una prima sintesi per
una più ampia riflessione sul pacifismo femminile.
Maria Susanna Garroni
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Ian Talbot, Gurharpal Singh, La spartizione, Bologna, il Mulino, 257 pp., € 26,00
Il lavoro di Talbot e Singh è incentrato sul tragico evento – noto in lingua inglese
con il termine «Partition» – che ha accompagnato la fine della dominazione coloniale
britannica sul subcontinente indiano e la nascita degli Stati indipendenti dell’India e del
Pakistan nell’agosto 1947. La spartizione del subcontinente, attraverso cui si ricavò dal
territorio indiano una madrepatria musulmana, coincise con l’intensificarsi della violenza
comunitaria che aveva cominciato a lacerare l’India settentrionale già nel corso del 1946 e
con il parallelo dispiegarsi di un imponente flusso migratorio bidirezionale, concretizzandosi in un processo drammatico, dai costi umani di proporzioni impressionanti.
L’analisi proposta da Talbot e Singh della spartizione, e delle sue implicazioni di
medio e lungo termine nella vita delle due nazioni di nuova indipendenza, muove da
una prospettiva che rifugge da spiegazioni semplicistiche, quanto essenzialiste, secondo
cui la nascita del Pakistan avrebbe costituito l’inevitabile esito di divergenze inconciliabili
fra comunità religiose. Al contrario, gli aa. sottolineano la centralità delle scelte politiche
compiute dalla potenza coloniale, nonché dai diversi gruppi dirigenti indiani nel secondo
dopoguerra, nel giungere alla divisione del subcontinente. In quest’ottica, il volume propone un’analisi complessa della spartizione, capace di cogliere importanti sollecitazioni
provenienti dal dibattito storiografico. Il nodo cruciale della violenza viene dunque affrontato mettendone in luce il carattere moderno e pianificato, in contrapposizione a una
narrazione incentrata sulla spontaneità dell’aberrazione (cosa che permette di tracciare
importanti analogie con drammi successivi, fra cui il pogrom anti-musulmano perpetuato nel 2002 in Gujarat). Attingendo ai lavori di studiose quali Urvashi Butalia e Ritu
Menon gli aa. restituiscono anche la dimensione di genere della violenza divampata con
la spartizione, dando altresì conto di quell’importante insieme di ricerche che hanno
gettato luce sul carattere socialmente non omogeneo dei processi di migrazione forzata e
reinsediamento dei profughi. In questo senso, il volume fornisce una sintesi preziosa per
una comprensione articolata della spartizione, che forse avrebbe potuto trarre ulteriore
vantaggio da un confronto con l’opera dello studioso Sumit Sarkar, in cui la ricostruzione
del quadro d’insieme che ha condotto a un tale drammatico fenomeno tiene conto anche
della presenza e dei limiti dei movimenti contadini radicali nel subcontinente. Muovendo
da un’analisi comunque complessa e stimolante della «Partition», gli aa. ne analizzano
quindi l’eredità politica, dando conto dell’emergere della cruciale questione del Kashmir e
delle tensioni che ancor oggi attraversano India e Pakistan, ma anche del modo in cui tale
evento ha contribuito a forgiare le modalità di confronto delle due nazioni con le rivendicazioni di autonomia territoriale sorte al loro interno. Nel complesso, pertanto, questo
lavoro costituisce un importante contributo per la comprensione dell’evento traumatico
che ha accompagnato la nascita di India e Pakistan, e delle sue implicazioni politiche.
Matilde Adduci
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Marcello Tarì, Il ghiaccio era sottile. Per una storia dell’Autonomia, Roma, DeriveApprodi,
214 pp., € 16,00
Il volume è la versione italiana di un testo francese del 2011. Più che una storia dell’arcipelago di strutture semi-organizzate che definiamo Autonomia, il libro è una dissertazione
pamphlettistica sulle lotte e sugli attori politico-sociali antisistemici degli anni ’70 (operai,
studenti, giovani delle borgate, femministe e militanti clandestini), tutti rappresentati come
«autonomi». Se il pregio del saggio è quello di raccontare l’Autonomia e i suoi repertori
d’azione senza glissare sugli aspetti oggi ritenuti più «imbarazzanti» (gli espropri e le autoriduzioni, la violenza armata di piazza, ecc.), il principale difetto – oltre alla declinazione
della categoria di autonomo in senso inclusivo (se non omnicomprensivo) – consiste in una
lettura a senso unico della vicenda che non lascia spazio a variabili interpretative.
Confortato dalla propria memoria e da una documentazione proveniente quasi
esclusivamente da un filone dell’Autonomia (quello «movimentista»), l’a. sentenzia su ciò
che egli ritiene fossero (o dovessero essere) «il Movimento» e l’«area dell’Autonomia». A
corollario di ciò v’è un manicheismo lessical-narrativo presumibilmente – data la provenienza foucaultiana dell’a. – consapevole. Se l’elemento positivo è costituito dagli autonomi trasversali che operano nella metropoli (giovani dei quartieri, femministe, omosessuali,
indiani metropolitani, espropriatori e pistoleros) e, pur con qualche distinguo, pure da
quelli operai (tacciati tuttavia di vetero-consiliarismo), il polo negativo è rappresentato
dai difensori del «sistema», categoria che include tutti gli altri soggetti: da neofascisti e
poliziotti fino alla sinistra extraparlamentare, passando ovviamente per il duo Dc-Pci
(valutato dall’a. quasi come un’entità unica).
L’utilizzo di cliché interpretativi cari a una sinistra antagonista che ama autorappresentarsi come innovatrice, antiautoritaria e scanzonata è reiterato. Le contraddizioni
interne (sociali, generazionali, di genere, base/vertice, centro/periferia) degli attori politici giudicati come concorrenti, avversari o nemici sono misconosciute. Così come sono
minimizzate assonanze e convergenze dell’Autonomia con tali soggetti, verso i quali si
esprimono giudizi tranchant spesso frutto di iperbolizzazioni. Gli esempi sono numerosi:
dalla rappresentazione delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria come lugubri sodalizi di apprendisti burocrati caratterizzati da machismo, all’interpretazione del processo
di convergenza tra Dc e Pci come sinergia finalizzata «alla normalizzazione totalitaria della
vita quotidiana» (p. 152). Se, nel febbraio del 1977, l’intento di Lama e dei dirigenti del
Pci sarebbe stato quello di «trasformare l’università occupata in un goulag [sic]» (p. 154),
il proto-operaista Asor Rosa, poi approdato al Pci, è liquidato come un «professore socialdemocratico», un «Noske» che si candidò a divenire, con altri intellettuali, la «polizia
politica del capitale collettivo» (p. 137).
L’assenza di verifiche sulle fonti coeve conduce, infine, a «scivoloni» e/o pressappochismi, come quella sulla supposta scomparsa delle «150 ore»: una conquista esistente «a
quel tempo» (p. 145).
Eros Francescangeli
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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Giovanni Tassani, Diplomatico tra due guerre. Vita di Giacomo Paulucci di Calboli Barone,
Firenze, Le Lettere, 515 pp., € 28,00
Giacomo, nato Barone Russo, non fu un personaggio che fece la storia d’Italia tra
le due guerre mondiali, bensì si adeguò al suo corso. Originario di Caltagirone, orfano,
con il sostegno degli zii e di un cugino poté laurearsi e vincere, nel 1915, il concorso per
l’ingresso in diplomazia. Durante la sua prima missione, a Berna, operò sotto la guida
dell’aristocratico forlivese Ranieri Paulucci di Calboli, del quale sposò la figlia ricevendone in dote il cognome. Dal novembre 1922 fu capo di Gabinetto di Mussolini. Pur
arrivando all’appuntamento del regime con le proprie idee di liberal-nazionalista e monarchico, interessato anche all’esperimento politico di Sturzo, Giacomo entrò presto nel
clima fascista di adulazione verso il capo. Tassani spiega che Paulucci fu infatti d’accordo
con la linea di politica estera di Contarini, segretario generale del Ministero degli Esteri ed
esponente di spicco della diplomazia liberale; ma quando quest’ultimo fu posto da parte
e iniziò la fascistizzazione della diplomazia, Giacomo non ebbe particolari ripensamenti,
salvo lamentarsi che, dinanzi all’immissione in carriera di fascisti della prima ora, sarebbero potuti risultare penalizzati coloro che, come lui, avevano vinto un regolare concorso.
Dal 1927 al 1932, Paulucci fu sottosegretario generale della Società delle Nazioni.
Pur con la moderazione dovuta al ruolo, a Ginevra fu difensore degli interessi italiani
contro la possibilità che la Società si ergesse a super-stato diretto dagli anglo-francesi. Dal
1933 al 1939, ricoprì la carica di presidente dell’Istituto Luce. Il suo obiettivo fu sviluppare la cinematografia nazionale quale strumento per la creazione del consenso al regime.
Egli effettuò anche il risanamento finanziario del Luce, ma, stando alla commissione per
l’epurazione dei fascisti, sembra che distrasse fondi per il suo arricchimento personale.
Prima di incappare nella commissione, terminò la sua carriera come ambasciatore a Bruxelles nel 1940 e soprattutto, dal 1943 al 1944, fu ambasciatore nella Spagna franchista.
Qui, tentò di portare la Spagna in guerra al fianco dell’Asse. Dopo l’8 settembre, nel tentativo di risalire la china insieme alla «nuova» Italia, Paulucci rifiutò il posto di ministro
degli Esteri della Repubblica di Salò e mantenne l’ambasciata madrilena sotto le direttive
del Regno del Sud. Collocato a riposo nel dicembre 1944, lottò con successo contro le
accuse della commissione per l’epurazione. Rientrato nel 1946 in patria, passò gli ultimi
anni di vita a coltivare la posizione di nostalgico della monarchia e difensore dell’Occidente cristiano contro il comunismo.
Il libro di Tassani informa dunque appieno sull’operato di un membro di una famiglia, quella dei Paulucci di Calboli, della quale egli è un profondo conoscitore, avendone studiato le carte private. Il volume, tuttavia, è rilevante non tanto perché fornisce,
attraverso lo studio della figura di Giacomo, originali interpretazioni della politica estera
italiana dal 1915 al 1944; ma piuttosto perché analizza la misura in cui la dittatura riuscì
ad assorbire i diplomatici della scuola liberale.
GianPaolo Ferraioli
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Anna Tonelli, Falce e tortello. Storia politica e sociale delle Feste dell’Unità (1945-2011),
Roma-Bari, Laterza, XVI-220 pp., € 15,00
Oltre che un efficacissimo mezzo di finanziamento, le feste dell’Unità sono state
in primo luogo un rito comunitario basato sulla cultura popolare, capace di costruire e
consolidare l’identità e il senso di appartenenza dei militanti comunisti attraverso l’uso
di spazi pubblici, coreografie e simboli. Le dimensioni del fenomeno sono state davvero
rilevanti, se ad es. tra il 1972 e il 1975 si svolsero 24.000 feste, a cui parteciparono 30
milioni di persone.
Questo e molto altro si legge nel bel volume dedicato da Anna Tonelli a un evento
imprescindibile per comprendere il modello di partito incarnato dal Pci, basato sull’attiva
partecipazione di una larga base di massa capillarmente organizzata sul territorio. Adottando un approccio di storia al tempo stesso politica e sociale, l’a. sottolinea sia la forza del
modello organizzativo centralistico del Partito, sia il ruolo fondamentale dei protagonisti
delle feste: i «compagni che lavorano» (p. 63), cioè i volontari. Le due dimensioni (l’una
top/down, l’altra bottom/up) convivono sempre e Tonelli ne sbalza il rapporto di ambivalenza, ravvisando nella loro tensione – oltre che in quella fra ideologia e mercato, impegno
e svago – il «nucleo fondativo» delle feste (p. 81).
Gli equilibri fra le diverse componenti mutano peraltro nel corso del tempo, come
anche quelli fra generi e generazioni, che pure l’a. mette in luce. Assegnate dapprima soprattutto alle cucine o (se avvenenti) valorizzate come «stelline», le donne acquistano un
ruolo più incisivo solo negli anni ’60, mettendo in discussione la cultura maschilista del
partito. A loro volta i giovani divengono soggetti attivi delle feste dopo il ’68, portandovi
non solo i loro capelli lunghi, ma anche gusti nuovi (la disco music rispetto al «liscio» di
sempre), che tuttavia non alleviano la perdurante difficoltà del Partito a fare i conti con la
modernizzazione dei costumi e della società.
Occasioni di autoriconoscimento, con il tempo le feste divengono meno autoreferenziali e si configurano come uno spazio via via più aperto, non coincidente con quello
del Partito e più ricettivo ai mutamenti della società, nonché come un mezzo di comunicazione verso l’esterno. È così che nella fase di riflusso degli anni ’80, quando il Pci
deve fare i conti con il diffondersi di una cultura «liberale» che antepone l’individuo alla
società (e al Partito), le feste dell’Unità «costituiscono l’unico baluardo capace di reggere
all’urto, con una risposta che si distacca dall’elaborazione teorica per trovare una propria
autonomia proprio nell’essere “le feste di tutti”» (p. 169).
È un’osservazione di notevole interesse, suscettibile di arricchire la riflessione sul
periodo successivo, caratterizzato da una crisi tuttora irrisolta del rapporto fra il partito
(i partiti) e la società. In verità il libro tratta anche delle feste «senza il Pci», ma questa
fase richiederebbe uno studio a sé. In attesa del quale è prudente sospendere il giudizio su
quanto scrive l’a. alla fine del libro, e cioè che dirà il futuro se un nuovo modello di festa
potrà «affermarsi per riscrivere una nuova storia» (p. 204).
Tommaso Detti
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Valentina Vantaggio, La seduzione del pavone. Quando Stati Uniti e Iran erano amici, prefazione di Farian Sabahi, Milano, L’Ornitorinco, 268 pp., € 25,00
Mentre in Italia usciva questo testo, sugli schermi internazionali si proiettava il film
di Ben Affleck, Argo, che racconta il rocambolesco salvataggio di sei fra i diplomatici in
forza all’ambasciata americana a Tehran all’inizio della Rivoluzione islamica. In questi
34 anni, l’episodio degli ostaggi americani ha continuato a essere celebrato dalle autorità
iraniane quale parte del mito della vittoria della Rivoluzione e a essere ricordato da quelle
americane come una ferita sempre aperta nell’orgoglio nazionale. La Rivoluzione islamica ha privato Washington del suo più fedele alleato nel Golfo, dopo che per decenni la
monarchia dei Pahlavi aveva rappresentato il «gendarme» dell’equilibrio e degli interessi
americani in quell’area.
Il coinvolgimento americano in Iran era iniziato nel 1911, allorché la languente
monarchia dei Qajar aveva ottenuto l’invio da parte di Washington di un esperto di finanza, William Shuster, con l’incarico di provvedere alla riorganizzazione delle entrate dello
stato. Nell’immaginario iraniano si trattava di trovare un valido contraltare all’ingerenza
esercitata per decadi dai britannici da una parte e dai russi dall’altra, entrambi odiati in
quanto sfruttatori delle risorse nazionali (i britannici, soprattutto) e fomentatori di rivolte
e guerre civili (i russi). L’impegno sempre più pressante degli Stati Uniti si concretizza già
all’inizio della seconda guerra mondiale e si cementa sotto il regno del secondo, e ultimo,
sovrano Pahlavi, Mohammad Reza, che legherà totalmente il proprio destino e quello del
suo paese alla potenza americana, compiendo una serie di operazioni politico-economicoculturali discutibilissime. Così, la montante rabbia e lo sdegno per la gestione totalitaria
dello shah che si respirano progressivamente fra gli iraniani si uniscono al disprezzo e
all’odio per gli Stati Uniti, rei di aver sottoscritto un patto scellerato con lo shah, cui
assicurano sostegno d’ogni tipo (inclusa la consulenza per approntare sistemi di tortura),
ricevendo in cambio mano libera nello sfruttamento delle risorse energetiche iraniane.
Questa è la parte di storia conosciuta. Meno conosciuto, invece, è il periodo in cui
l’asse monarchia Pahlavi-Stati Uniti si è formato e cementato. All’uopo, giunge questo
libro che approfondisce proprio il periodo iniziale dell’engagement americano in Iran
all’alba della seconda guerra mondiale e fino al novembre 1949, quando Mohammad
Reza Pahlavi compie una visita negli Stati Uniti per assicurare l’appoggio statunitense al
suo progetto di leadership in chiave illiberale e totalitaria.
Il saggio è basato su raccolte di documenti per lo più edite, come quella del Dipartimento di Stato americano, su alcune fonti inedite del US National Archives & Record
Administration e del Dipartimento di Stato. La studiosa, accanto alla bibliografia per
lo più in lingua inglese, ha inoltre considerato fonti prodotte negli Stati Uniti da alcuni
fuoriusciti iraniani. Il libro costituisce una tessera utilissima per chi voglia ricomporre la
storia dell’Iran pre-rivoluzionario e meglio capire le radici della diffidenza tra Tehran e
Washington.
Anna Vanzan
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Valerio Varini, Impresa, enti locali, welfare company in Lombardia. Intervento municipale e
iniziativa privata tra XIX e XX secolo, Milano, FrancoAngeli, 220 pp., € 28
Parte della collana «Geostoria del territorio», questo volume raccoglie alcuni contributi esemplificativi del percorso di ricerca compiuto dall’a. negli ultimi anni e, nelle
sue parole, sostanzialmente «indirizzato alla comprensione della mutazione economica e
sociale avvenuta tra XIX e XX secolo» (p. 7). Tale mutazione viene qui analizzata nel suo
compiersi all’interno della regione lombarda, protagonista, nel periodo osservato, di una
riuscita transizione dall’equilibrio agricolo commerciale alla compiuta società industriale.
In questa transizione un ruolo centrale viene assegnato all’impresa, ampiamente presente
in Lombardia con ciascuna delle sue tipologie e dimensioni e capace di adottare le scelte
organizzative e strategiche volta per volta più adatte ad affrontare con successo la concorrenza internazionale. Scrive l’a.: «proprio questa pluralità di forme e di soggetti trova una
ulteriore ricchezza di componenti nei casi di studio qui raccolti, dove si dà prova di come
le aspirazioni e i bisogni collettivi trovino la loro soddisfazione nel combinato agire di
istituzioni pubbliche e di iniziative imprenditoriali capaci di costruire equilibrate risposte
ai solleciti provenienti dalla società» (p. 8).
I saggi che strutturano il volume sono quattro. Il primo è incentrato sull’avvento,
nella seconda metà dell’800, dell’innovazione rappresentata dall’energia elettrica, e analizza in particolare l’intervento dei comuni di Bergamo, Brescia, Cremona e Como nei
mercati energetici a cavallo tra ’800 e ’900. Nell’inadeguatezza dell’offerta privata, dovuta
anche all’insufficiente ritorno degli investimenti, fu l’ente locale a dettare le regole del
nascente mercato e poi addirittura a farsi impresa. E queste nuove imprese, peraltro fortemente connesse alle necessità delle comunità in cui operavano, furono contraddistinte
da marcate motivazioni sociali. Il secondo saggio è dedicato alla Campari, esperienza
identificata come esito dell’affermarsi di modi di agire collettivi, e per il quale si indaga
e sottolinea il legame tra l’istituzione, l’impresa e la società. L’attenzione prestata nei due
capitoli successivi al welfare aziendale deriva invece dalla convinzione, espressa dall’a., che,
nella sua essenza, l’impresa sia chiamata a rispondere in primis alle esigenze delle persone
che vi operano: un capitolo è così dedicato alla company town di Sesto San Giovanni,
mentre il seguente avanza una circostanziata riflessione circa il valore attribuito al welfare
aziendale nella storiografia d’impresa.
I saggi proposti, soprattutto se considerati singolarmente, sono di sicuro interesse.
Rafforzati da un buon apparato statistico, si fondano su un approfondito lavoro di scavo
su documenti e archivi d’impresa e della pubblica amministrazione. Non pare invece sempre così forte il nesso organico che dovrebbe tenere insieme i diversi contributi.
Luigi Vergallo
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Giorgio Vecchio, Un «Giusto fra le Nazioni». Odoardo Focherini (1907-1944) dall’Azione
cattolica ai lager nazisti, Bologna, Edizioni Dehoniane, 189 pp., € 16,00
Il libro ha il merito di portare alla luce la storia di un «giusto» che ha salvato numerosi ebrei tra il 1943 e il 1944, tempo in cui molti perseguitati ebbero salva la vita grazie
all’eroismo di persone comuni, oggi onorate nel memoriale di Yad Vashem. La storia dei
«salvatori» nella temperie della Shoah è ancora in parte da scrivere e da collocare come
merita nella più ampia storia dell’Europa in guerra. La vicenda di Odoardo Focherini,
cattolico carpigiano, dirigente locale dell’Azione Cattolica, va dunque accolta come un
tassello importante in quel mosaico composito che è la storia dell’opposizione non armata
al nazismo. L’a. ricostruisce con accuratezza la vita e l’opera di salvataggio di Focherini,
cattolico «normale», senza ruoli apicali nell’Azione Cattolica, dedito soprattutto al lavoro
e al mantenimento della sua numerosa famiglia. Focherini si iscrive al Pnf nel 1935 senza
particolare slancio, più per non avere problemi che per reale adesione al fascismo (p.
50). Ha pregiudizi antiebraici ma non esita a rischiare la sua vita per salvare ebrei. Il suo
atteggiamento verso gli ebrei e l’ebraismo è quello della maggior parte dei cattolici del
tempo, ancorati a una mentalità antigiudaica tradizionale ma a disagio di fronte all’antisemitismo razziale e le persecuzioni. L’epilogo della sua vita è invece diverso da quello della
maggioranza, è la storia di un «Giusto fra le Nazioni» che muore per salvare altri: dopo
aver aiutato numerosi ebrei a riparare in Svizzera, con una rete di salvataggio attiva tra
Carpi, Modena e Bologna, viene arrestato, rinchiuso in carcere a Bologna, poi deportato a
Flossembürg e infine a Hersbruck, dove muore nel dicembre 1944. «Uno dei 467 morti di
Hersbruck del mese di dicembre 1944» (p. 165). L’a. racconta l’eroismo straordinario di
un uomo «normale» e il libro risulta interessante per più motivi: mostra la scelta coraggiosa di un «giusto» e intreccia la sua storia a quella di altri salvatori, a partire dall’organizzazione ebraica Delasem; tocca il tema, storiograficamente «caldo», del rapporto tra cattolici
e antisemitismo; accenna alla multiforme resistenza di tanti cattolici al nazifascismo dopo
l’8 settembre ’43; descrive la vita (e la morte) quotidiana nel lager nazista di Hersbruck.
Manca nel libro l’antefatto di questa storia di persecuzione e di salvataggio: il varo delle
leggi razziste nel 1938 e la fase della «persecuzione dei diritti», strettamente collegata
alla successiva fase delle deportazioni. Non sappiamo cosa Focherini pensò di fronte alle
leggi del ’38. L’a. ipotizza che le avesse accettate, sulla base di un articolo del ’39 in cui
il carpigiano, con i suoi colleghi della giunta diocesana, proclamava la propria adesione
al regime (p. 63). Un po’ poco, ma forse altro non si è potuto trovare e la vicenda delle
leggi razziste resta nel libro sullo sfondo. A ogni modo il volume è di grande interesse e
l’a., pur simpatetico con Focherini, evita toni agiografici e mantiene sempre la narrazione
sul piano storiografico.
Valerio De Cesaris
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Angelo Ventrone, «Vogliamo tutto». Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione
(1960-1988), Roma-Bari, Laterza, 382 pp., € 24,00
Nella narrazione di Ventrone lo Stato, il contesto in cui prende corpo il crescendo
della contestazione studentesca e operaia di un ventennio, rimane sullo sfondo. In primo piano c’è la ricostruzione puntuale e precisa del movimento studentesco e delle sue
progressive diramazioni e organizzazioni puntando il teleobiettivo su quelle che furono le
colonne portanti della lotta contro lo Stato che si propagò in una scia prima nebulosa poi
sempre più rossa del sangue delle vittime fino ad arrivare oltre quel confine rappresentato
dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro, e ricordare gli epigoni di quella stagione con
gli assassinii di Ruffilli, D’Antona e Biagi.
L’analisi di Ventrone è centrata sul ruolo che la violenza, parlata e agita, ha avuto in
quegli anni in un continuum che non vede, secondo l’a., soluzione di continuità. E qui
sta anche la tesi centrale del libro: non c’è un movimento che, dapprima non violento, lo
diventa quando dopo il ’68 reagisce alla repressione messa in atto dallo stato. Contestando la lettura più recente di Giovanni De Luna (Le ragioni di un decennio, 2009) e quella
più datata di Marco Revelli (Movimenti sociali e spazio politico, 1995), Ventrone sostiene
che è fin dall’inizio connaturata al movimento e in modo sempre più marcato nelle sue
successive e diverse ramificazioni e organizzazioni la convinzione che «se si voleva la pace,
e quindi, “una società senza violenza, senza sfruttamento, senza miseria” non c’era che
una via: seguire l’insegnamento di Lenin e “fare guerra ai padroni”. Anzi la condotta di
questa guerra […] avrebbe dovuto prendere le forme della guerriglia per dar vita a “due,
tre, molti Vietnam in giro per il mondo e sconfiggere il capitalismo”» (p. 103).
Partendo da qui, l’a. arriva poi a sottolineare come l’Italia rappresentasse nella galassia
del mondo capitalistico l’anello debole e quindi quello in cui la lotta armata, ben riassunta
nello slogan caro a Lotta Continua, «lotta di lunga durata, lotta di popolo armato, lotta
continua sarà», si sarebbe con maggior forza radicata trovando un humus favorevole.
In questa logica si conferma nello studio di Ventrone che, a partire dalla costruzione
del partito nuovo di Togliatti fino ad arrivare, in un progressivo adattarsi al cambiamento
dei rapporti di forza, al compromesso storico di Berlinguer, il Pci rappresentava per le
diverse anime della contestazione di quegli anni il nemico la cui progressiva adesione a
logiche riformiste veniva additata, rispolverando una lettura della Terza Internazionale,
come il nuovo «social-fascismo».
Nello scorrere delle pagine, emerge sempre più chiara la tragedia di una generazione
impersonata dal ragazzo con la pistola, immortalato durante la manifestazione del 14
maggio ’77 a Milano, icona non semplicistica di una stagione che voleva tutto, ma sta
ancora chiedendosi che cosa abbia ottenuto.
Maria Serena Piretti
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
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i libri del 2012 / 1 - monografie
Aniello Verde, Ungheria 1944-1957. Guerra Fredda, rivoluzione, restaurazione, Roma, GB
Editori, 440 pp., € 20,00
Non è facile trasformare una tesi di laurea magistrale, per quanto ben ricercata, in
un volume di elevato spessore scientifico. Per ricostruire le drammatiche e complesse
vicende dell’Ungheria nel primo decennio della guerra fredda, l’a. parte dal catastrofico
1944 – segnato dall’occupazione nazista, dalla deportazione degli ebrei e infine dal fallito
tentativo di uscire dal conflitto operato dal reggente Horthy, al quale seguì il lungo assedio di Budapest e la liberazione/occupazione del paese da parte dell’Armata rossa – per
giungere al soffocamento della rivoluzione del 1956 e all’avvio del regime kádáriano.
A Verde interessano particolarmente due aspetti della vicenda comunista nell’Ungheria
post-bellica. Da un lato, le dinamiche politiche interne al regime stalinista, dalla graduale presa del potere nel 1945-48 alla piena stalinizzazione del triennio successivo, con il
suo lugubre contorno di denunce, purghe e assassini; ma anche la graduale emersione
di un dissenso intellettuale che avrebbe trovato, durante il disgelo post-staliniano, una
sponda «istituzionale» in Imre Nagy. Dall’altro, la percezione della situazione ungherese
da parte delle potenze occidentali e in particolare degli Stati Uniti. L’a. utilizza una vasta documentazione americana recentemente declassificata, che consente di ripercorrere
con precisione l’evoluzione della posizione di Washington rispetto al regime comunista
di Budapest. Già nel 1955 la Cia definisce l’Ungheria l’anello più debole dell’«impero
esterno» sovietico a causa del tradizionale «nazionalismo» e dell’avversione popolare verso
gli Stati alleati confinanti, Romania e Cecoslovacchia (p. 129). Il comunismo ungherese
impersonato da Rákosi e dai suoi seguaci emerge dall’analisi di Verde come un prodotto
sostanzialmente alieno alle tradizioni storico-culturali del paese; la crisi dello stalinismo
viene dunque illustrata come un’ovvia risposta della società e delle stesse «teste pensanti»
del Partito sopravvissute alle purghe degli anni più bui. Particolarmente ampia (oltre metà
dell’intero volume) la trattazione della rivolta popolare del 1956. Proprio qui emerge
tuttavia il principale limite di un libro probabilmente troppo ambizioso. L’a. utilizza quotidiani e documenti coevi, come anche una corposa massa documentale di provenienza
statunitense: un lavoro che gli consente di documentare il cinismo dell’amministrazione
Eisenhower, decisa a sfruttare a fini propagandistici di politica interna l’eroica lotta di un
piccolo popolo, senza tuttavia porre a repentaglio gli equilibri della guerra fredda. Mancano tuttavia dai riferimenti bibliografici e dall’orizzonte concettuale dell’a. molti degli
studi fondamentali apparsi in materia sul mercato internazionale nell’ultimo ventennio:
per citare qualche nome László Borhi, Peter Kenez, Martin Mevius e soprattutto Charles
Gati, autore di una discussa opera sul significato storico della rivoluzione del 1956. Una
più attenta revisione del manoscritto avrebbe forse consentito di eliminare, oltre ai numerosi refusi di stampa, qualche dettaglio poco significativo in favore di una discussione
della letteratura già disponibile sull’argomento.
Stefano Bottoni
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Carlo Verri, Guerra e libertà. Silvio Trentin e l’antifascismo italiano (1936-1939), Roma,
Edizioni XL, 218 pp., € 15,00
L’interesse per la figura di Silvio Trentin si era finora manifestato prevalentemente
nei confronti del pensiero politico del giurista veneto, fermandosi raramente sulla sua
vicenda biografica; risalgono ormai ai primi anni ’80 gli studi di Frank Rosengarten e
Moreno Guerrato. Il lavoro di Carlo Verri rientra tra i titoli che cercano di esaminare più
da vicino le esperienze di vita e di militanza di Trentin. Il lavoro, che si avvale di una solida
ricerca documentaria, riguarda specificamente il periodo in cui Silvio Trentin – proprietario di una libreria a Tolosa – fa di questo esercizio commerciale oltre che la ragione del
sostentamento della sua famiglia, un vero e proprio centro d’informazioni, di propaganda
antifascista e di smistamento dei volontari italiani che transitano da Tolosa per accorrere
in difesa della repubblica spagnola.
Ampio spazio è riservato – nella prima parte del libro dedicata a Trentin e la guerra
di Spagna – ai rapporti intrattenuti dal giurista di San Donà di Piave con Carlo Rosselli,
Camillo Berneri e Pietro Nenni. Particolare interesse riveste – a giudizio di chi scrive –
l’analisi dei contatti fra Trentin e Berneri che, incrociata con i risultati dello studio di
Carlo De Maria sull’anarchico lodigiano, permette di ricostruire, con dovizia di particolari, gli stretti rapporti di stima e di amicizia, pur nella diversità delle rispettive posizioni,
che legavano Trentin a Berneri. Più conosciuti, ma non per questo meno interessanti, i
riscontri concernenti i rapporti di Trentin con Rosselli e Nenni.
L’a. mette a fuoco la strategia di Gl nella guerra civile spagnola confrontandola con
l’evoluzione del pensiero di Trentin e concludendo come anche per il giurista veneto essa
abbia rappresentato una tappa fondamentale del suo percorso esistenziale e politico.
Nella seconda parte del libro, Verri ricostruisce i passaggi che segnano la riflessione
di Trentin sul tema dell’unità delle forze antifasciste. Quando, nel marzo 1937, Trentin
dà la sua adesione – a titolo personale – all’Unione popolare italiana (Upi) organizzata
dal Partito comunista per favorire la penetrazione della propaganda antifascista tra le
fila dell’emigrazione italiana in Francia, è già profondamente convinto della necessità di
una stretta collaborazione tra le forze in esilio che si oppongono al fascismo: l’iniziativa
comunista che s’inscrive nella svolta politica dei fronti popolari sancita dalla Terza Internazionale. Trentin – scrive l’a. – «credeva molto nell’Upi o, meglio […] alle sue potenzialità nel campo dell’azione e dell’organizzazione delle masse immigrate»; nonostante
l’ampia apertura di credito verso l’Upi, il giurista veneto mantiene verso di essa e il suo
organo di stampa «La voce degli italiani» una posizione di cauta disponibilità consapevole del rischio, sempre presente, di schiacciare sulle posizioni comuniste l’identità di
Gl; mantenendo questo atteggiamento «aperturista», Trentin persegue l’obiettivo, per lui
prioritario, di appoggiare l’unità delle forze antifasciste in esilio, senza per questo cedere
all’immagine che di lui si è voluto offrire come di un «amico dei comunisti».
Andrea Becherucci
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
278
i libri del 2012 / 1 - monografie
Andrea Zanini, Un secolo di turismo in Liguria. Dinamiche, percorsi, attori, Milano, FrancoAngeli, 167 pp., € 23,00
Di recente si è aperto in Italia, in ambito istituzionale, un confronto sull’efficacia
delle competenze esclusive in materia di turismo assegnate alle Regioni. È quanto mai
utile dunque che la ricerca si interroghi sulle storie turistiche delle singole regioni e che
ne tenti un primo bilancio. Per alcuni aspetti, il volume di Andrea Zanini può essere
letto in questo contesto. L’a. scrive nell’introduzione che con questo lavoro risponde alle
sollecitazioni formulate nell’ambito della più recente storia economica del turismo: di
prestare attenzione agli investimenti effettuati nelle singole località, cercando di individuare il ruolo di privati e di enti pubblici, e di leggere gli effetti di tali investimenti su una
dimensione territoriale più ampia, vale a dire regionale. Ecco dunque un contributo alla
storia economica del turismo in Liguria dalla metà dell’800 alla seconda guerra mondiale.
Il volume, di impostazione sostanzialmente compilativa, è organizzato in due parti. Nella
prima parte l’a. ripercorre le origini del turismo in Riviera, il radicamento del fenomeno
e la formazione dei principali poli, le prime forme di assetto istituzionale, il mutamento
delle pratiche turistiche e il primo dopoguerra. Nella seconda parte Zanini propone l’approfondimento di tre modelli di sviluppo, attraverso l’analisi di alcune località. La prima
è Pegli, nel Genovesato, una delle prime stazioni climatiche internazionali, che diviene
poi quartiere residenziale di Genova; seguono Sanremo e Alassio, nelle quali il profilo
di stazioni climatiche invernali cosmopolite si intreccia con la pratica della balneazione
italiana; infine Varazze e Spotorno, dove il turismo sperimenta una non facile coesistenza
con l’industria. I tre casi sono illustrati con ricchezza di dati: seguendo l’andamento della
domanda, l’organizzazione dell’offerta, la diffusione, la qualità, il profilo dei flussi e le
politiche locali, e soprattutto leggendo le diverse vicende in un’ottica comparata. Va solo
rilevato che per l’arco cronologico che Zanini assume per il suo lavoro, la dimensione
regionale del turismo non è ancora significativa, se non forse per l’assetto dei trasporti.
Lo sarà sicuramente a partire dal secondo dopoguerra, anche se già negli anni ’30 del
’900 il regime fascista tenta proprio in Liguria di disegnare regioni turistiche. La sintesi di
Zanini fornisce dunque le basi, i caratteri originari delle singole località, che ci auguriamo
vengano utilizzati per comprendere non solo l’evoluzione della storia regionale ligure nel
successivo periodo – che vede la massificazione del turismo – bensì anche l’importante
contributo che la Liguria darà nell’Italia repubblicana proprio al dibattito nazionale sul
ruolo delle Regioni nel turismo.
Annunziata Berrino
i libri del 2012 / 1 - monografie
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Paolo Zanini, «Aria di crociata». I cattolici italiani di fronte alla nascita dello Stato d’Israele
(1945-1951), Milano, Unicopli, 255 pp., € 17,00
In anni recenti la storiografia interessata a ricostruire le politiche sia culturali che
politiche della Chiesa cattolica italiana e della Santa Sede nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale ha prodotto contributi originali, documentati e articolati su piani
in parte diversi da quelli tradizionali. Il volume di Paolo Zanini è un esempio di come
sia possibile coniugare la ricerca storica, solidamente fondata su un apparato documentario ampio e inedito, a un quadro interpretativo che non si limita a citare le fonti ma le
valorizza dialogando con esse e ponendole nel giusto contesto storico in cui sono state
prodotte.
Il libro si struttura in cinque densi capitoli corredati di riscontri documentari fino a
questo momento sconosciuti o scarsamente battuti dalla storiografia di settore. Il volume
prende avvio dall’analisi della lunga tradizione antiebraica della cristianità, certamente
non scomparsa all’indomani dell’Olocausto, e si snoda in una disamina accurata dei motivi politici, religiosi e intellettuali che determinarono e condizionarono le posizioni della
Chiesa italiana e della Santa Sede rispetto al tema centrale posto in essere dal volume:
quello del confronto e scontro con la realtà dello Stato d’Israele cui si connette il problema, mai sciolto, della tutela dei Luoghi santi cristiani.
La ricerca che sta dietro a questi capitoli è patente a ogni nota o riga che si legge. Un
lavoro che ha portato l’a. a considerare fonti a stampa, documentazione proveniente da
archivi pubblici e privati, diari e carteggi di personalità di spicco nel panorama del mondo
cattolico italiano, stabilendo con esse un confronto mai banale ma sempre critico e vigile.
L’a. illustra e discute i percorsi che hanno visto il mondo cattolico italiano e la Santa Sede
confrontarsi con la realtà dello Stato d’Israele, rilevando non solo le opposizioni di natura
politica ma anche le resistenze culturali e religiose che hanno segnato la storia dei rapporti, o meglio dell’assenza di rapporti, fra cattolicesimo italiano e Israele.
L’universo giornalistico prodotto dalla cattolicità in quanto sistema culturale e dalla
Santa Sede in quanto corpo politico è ben maneggiato da Zanini che dà prova di saper
tenere insieme questa pluralità di voci; operazione, questa, tutt’altro che scontata e tanto
meno di facile assimilazione.
È infatti proprio questa pluralità di voci che rende il volume valevole di essere annoverato in quella schiera di studi innovativi e originali che sanno ricostruire gli sconnessi
cammini della storia evitando giudizi apodittici e dunque vuoti, ma rendendo piuttosto
al lettore la piacevolezza di chiudere un libro con domande aperte e con quesiti non del
tutto sciolti.
Elena Mazzini
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
280
i libri del 2012 / 1 - monografie
Francesco Zavatti, Mutilati ed invalidi di guerra: una storia politica. Il caso modenese, Milano, Unicopli, 222 pp., € 15,00
Il recente riordino dell’archivio storico della Sezione di Modena dell’Associazione
nazionale fra mutilati e invalidi di guerra (Anmig) ha consentito a Zavatti, dottorando
presso la Baltic and East European Graduate School di Stoccolma, di ricostruirne l’articolata vicenda, fornendo un utile contributo a un campo di ricerca ancora poco esplorato.
Ricerche come queste, scrivono nell’introduzione Bertella Farnetti e Bertucelli, «ci inducono a credere che sia ancora possibile scrivere una storia sociale dal basso, una storia che
non abbia l’arroganza di imporre verità e valori, ma l’umiltà di offrire un racconto storico
in grado di confrontarsi con ricerche analoghe, per dare solide basi alla comprensione del
presente» (p. 11).
La Sezione modenese fu fondata nel 1918, un anno dopo la nascita a Milano dell’Associazione nazionale, all’insegna dell’apoliticità. Proprio grazie a ciò, il primo fascismo
che si proclamava apolitico riuscì a infiltrare l’Associazione fino a raggiungerne i vertici
e a farne uno strumento di propaganda filofascista privo di ogni concreta rispondenza ai
bisogni e alle istanze del combattentismo. L’innesto del fascismo nell’Associazione cittadina procedette a tappe forzate: nel 1927 l’Anmig divenne parte del sistema corporativo
italiano, entrando nei sindacati fascisti, nel 1929 venne costituita la Legione Mutilati
modenese, inquadrata dal regime nella Mvsn, e nel 1931 si avviarono le discussioni per la
costruzione della Casa del Mutilato di Modena, in linea con quanto accadeva nelle altre
istituzioni socio-assistenziali fagocitate dal fascismo.
Nel secondo dopoguerra l’Associazione si arroccò dietro uno «splendido isolamento»
rispetto alla vita reale del paese. In questo periodo i nuovi amministratori della Sezione,
provenienti in gran parte dalle fila della Resistenza, dell’antifascismo e dei sindacati si
dedicarono alla politica del dialogo (con altre associazioni, partiti e sindacati) e della mediazione (all’interno delle sezioni e con le altre sezioni). In particolare, nel caso modenese
«le istanze politiche di rinnovamento, che avevano superato la costrizione del fascismo,
seppero collaborare con le altre associazioni combattentistiche e con gli amministratori
del territorio per risolvere non solo i problemi dei mutilati, ma anche quelli dell’intera
categoria degli ex-combattenti» (p. 204).
Solo negli anni ’70 l’Associazione inizia a prestare attenzione ai problemi del paese.
Questa apertura condurrà alla creazione, tra il 1997 e il 2002, della Fondazione Anmig,
nata col fine di contribuire allo sviluppo della coscienza civile e democratica dei cittadini
più giovani.
Nel complesso, dal volume emerge una prima ricostruzione della storia del combattentismo italiano che, proprio per essere, come sostiene l’a., una «storia di marginalità»,
induce a riflettere da un angolo prospettico inedito sui numerosi e differenti snodi dell’accidentata storia italiana dell’ultimo secolo.
Domenica La Banca