Il problema della burocrazia alla luce del principio di sussidiarietà
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Il problema della burocrazia alla luce del principio di sussidiarietà
Scuole di Sussidiarietà Francesco Gentile IL PROBLEMA DELLA BUROCRAZIA ALLA LUCE DEL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ 1.- Della sussidiarietà come principio generale dell’ordinamento giuridico europeo. Che il principio di sussidiarietà si sia prepotentemente imposto nell’esperienza giuridica europea contemporanea, vale a dire nell’esperienza dell’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive in Europa, è un dato di fatto incontrovertibile, da cui il giurista europeo oggi non può prescindere quale che sia l’argomento egli intenda trattare. Esso è stato formalmente istituzionalizzato, innanzi tutto, nel “Preambolo” del Trattato dell’Unione Europea, dove le Alte Parti contraenti si dichiarano formalmente “decise a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio di sussidiarietà”. La sottolineatura è nostra. L’impegno è poi ribadito nel Titolo I. “Disposizioni comuni”, all’art. A, 2° comma, che recita: ”Il presente trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini”. Anche questa sottolineatura è nostra. Viene in tal modo stabilito il principio generale del Diritto comune europeo, principio del tutto nuovo e per certi aspetti “rivoluzionario”, della pluralità delle fonti normative, almeno nel campo degli interventi pubblici in economia, sulla base non di competenze astrattamente e convenzionalmente definite, cioè sulla base di competenze puramente formali, ma in funzione dell’adeguatezza effettiva e reale dell’intervento ai fini del conseguimento dell’obiettivo fissato. In altri termini, la competenza delle istituzioni pubbliche è determinata in ragione della loro reale capacità di raggiungere gli obiettivi di rilevanza comune. Sicché l’istituzione “minore”, nel senso di quella “più vicina al cittadino”, risulta accreditata del titolo originario ed insindacabile dell’azione giuridica finché questa risulta adeguata al raggiungimento dell’obiettivo; in caso contrario, cioè nel caso della sua inadeguatezza, per sussidiarietà, in modo ausiliario ed integrativo, è 2 chiamata ad intervenire la “maggiore”, quella “più lontana dal cittadino”, la cui competenza, quindi, è determinata dalla reale capacità di conseguire l’obiettivo meglio di quanto non fosse nelle possibilità della prima. (Tra parentesi, la stessa definizione delle istituzioni, come “maggiori” o “minori”, in base al principio di sussidiarietà, dipende non da parametri astratti o convenzionali, né emotivi o ideologici, ma da quella che è testualmente definita come “dimensione” e dagli “effetti” dell’intervento; qualcosa di molto concreto, nel senso di sostanziale). Nel Titolo II. “Disposizioni modificative del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea in vista dello stabilimento della Comunità Europea”. Parte prima, “Principi” all’art. 3/B, 2° comma, la cosa è precisata: ”Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere realizzati dagli Stati Membri e possono, dunque, per le dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”. Va da sé notare, a questo punto, come ci si trovi agli antipodi del formalismo giuridico proprio delle “geometrie legali”. E come il principio di sussidiarietà, introducendo ratione materiae il criterio della pluralità delle fonti normative incrini e al limite tenda ad annullare il monopolio normativo che ha costituito lo zoccolo duro e il nodo nevralgico del sistema giuridico costruitosi in base e intorno al principio di sovranità. Ma qui cominciano i problemi, per i quali si spiegano anche le difficoltà che il principio generale della sussidiarietà ha incontrato operativamente, nonostante tutti i proclami solenni del Trattato dell’Unione Europea. Proprio per una prima risposta a questi problemi, col Trattato di Amsterdam è stato aggiunto ai protocolli del Trattato istitutivo della Comunità europea uno specifico “Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità”, nel quale sono ribaditi gli impegni a “garantire che le decisioni siano prese il più possibile vicino ai cittadini dell’Unione”. In esso viene precisato che 3 “ciascun’istituzione assicura, nell’esercizio delle sue competenze, il rispetto del principio della sussidiarietà”, ribadendo in tal modo la natura generale del principio e la sua estensione a tutti i livelli dell’esperienza giuridica comunitaria. E ancora che “l’applicazione del principio di sussidiarietà avviene nel rispetto delle disposizioni generali e degli obiettivi del trattato, con particolare riguardo al completo mantenimento dell’acquis comunitario e dell’equilibrio istituzionale”, significando in tal modo la volontà di “non ledere i principi elaborati dalla Corte di giustizia relativamente al rapporto tra diritto nazionale e diritto comunitario”. E infine è proposto un primo chiarimento concettuale: “La sussidiarietà è un concetto dinamico e dovrebbe essere applicata alla luce degli obiettivi stabiliti nel trattato. Essa consente che l’azione della Comunità (…) sia ampliata laddove le circostanze lo richiedano e, inversamente, ristretta e sospesa laddove essa non sia più giustificata”. Come sempre, il legislatore è più astratto e ingessato del giudice ma nonostante questo il “legislatore comunitario” riesce a rendere il senso profondo della modalità operativa del principio. Anche se d’altri chiarimenti teorici si avverte ancora il bisogno. Per concludere sulla rilevanza assunta dal principio di sussidiarietà nell’esperienza giuridica europea contemporanea, nell’esperienza cioè dell’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive in Europa almeno tre considerazioni ci sembrano necessarie. Prima considerazione. Taluno intende la sussidiarietà come una formula burocratica di gestione del potere. Preferisco questa definizione a quella, che riconosco tuttavia come prevalente tra i cultori del Diritto pubblico, di “sussidiarietà verticale”. Tra questi potremmo mettere quei negoziatori del Trattato di Maastricht che pensavano di difendere, in tal modo, la sovranità del loro Stato nei confronti dell’ingerenza dell’Unione Europea negli affari domestici. Com’è a tutti noto, le disposizioni normative dell’Unione, già peraltro quelle della Comunità Economica, sono immediatamente e indifferentemente vincolanti negli Stati membri, tanto che i giudici nazionali sono tenuti a farle valere anche in difformità della legge 4 nazionale. Contra legem. Ora, stabilendo che l’azione comunitaria si giustifica quando gli obiettivi prefissati non possono essere sufficientemente realizzati con l’azione degli Stati nazionali, nel quadro del loro sistema giuridico, mentre possono essere conseguiti mediante quella comunitaria, i “commis d’Etat” hanno creduto di difendere la sovranità degli stati nazionali, peraltro ormai fortemente intaccata dalla globalizzazione mercantile e dalle convenzioni internazionali, fronteggiando il crescente, e sempre più capillare, potere dell’Unione. Insomma hanno preso la sussidiarietà come strumento per mantenere la sovranità, o quello che resta della sovranità, dello stato. Ma tra costoro potremmo mettere anche quanti, politici, giuristi o amministratori locali, sono impegnati ad ampliare il potere degli enti locali minori (regioni, province, comuni) nei confronti di quello dello stato nazionale, sulla base della constatazione ineccepibile del cattivo funzionamento dell’amministrazione centrale del potere. Per stare alla nostra esperienza, così come s’è andata costituendo con l’organizzazione burocratica dell’Italia dopo il 1861. E facendo leva sul convincimento elementare, scusate la grossolanità, che “l’occhio del padrone ingrassa la bestia”. Per costoro, un più diretto controllo dell’amministratore da parte degli amministrati è visto come una garanzia di migliore amministrazione, più economica e insieme più adeguata alle esigenze degli utenti dei servizi pubblici. Ecco come leggono, e non si può negare una certa verosimiglianza nella lettura, la disposizione del Trattato di Maastricht, per la quale è compito delle istituzioni “garantire che le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio di sussidiarietà”. Come negare che il comune sia più vicino al cittadino della provincia, e la provincia della regione, e la regione dello stato? Sicché, per costoro, secondo il principio di sussidiarietà, si tratterebbe di dislocare il centro di gestione del potere dallo stato alle regioni, dalla regione alle province, dalla provincia ai comuni e ... perché no dal comune ai consigli di quartiere? La sussidiarietà, 5 insomma, viene invocata come strumento per la moltiplicazione dei centri di potere. Ora, proprio il riferimento all’obiettivo di garantire che le decisioni siano prese “il più vicino possibile ai cittadini” mette in luce la povertà e insieme l’insufficienza di una concezione meramente amministrativa della sussidiarietà. Perché non si può non riconoscere come questa vicinanza non possa ridursi ad una dimensione meramente burocratica, considerando altresì il fatto che non è il “luogo”, più o meno vicino, in cui la decisione viene presa a garantire di per sé che questa sia vicina, nel senso di opportuna, conveniente, adeguata alle esigenze della comunità chiamata a darvi attuazione. In altri termini, si pone così il problema di riconoscere come la sussidiarietà costituisca uno strumento politico per superare quella lontananza del “paese legale” dal “paese reale”, per superare la scissione tra “vita delle istituzioni” e “vita dei cittadini” che ogni giorno di più ci appare come il segno dell’attuale crisi della vita sociale. E qui il discorso deve cambiare di registro, perché non si tratta più d’amministrazione, d’organizzazione e gestione del potere, ma di politica, di definizione degli obiettivi o meglio del riconoscimento dei beni aggreganti la comunità. Non si tratta d’alchimia o di meccanica o d’ingegneria gestionale ma d’orientamento, di riconoscimento, d’intelligenza del bene comune. Del Bene cioè che accomuna una molteplicità di soggetti diversi facendone, appunto, una comunità. Seconda considerazione. Per intendere come il principio della sussidiarietà costituisca lo strumento politico per riavvicinare la vita delle istituzioni alla vita dei cittadini, il paese legale al paese reale, quello che per lo più i cultori del Diritto pubblico individuano con la formula della “sussidiarietà orizzontale”, è necessario riflettere sul concetto di sussidiarietà così come si è andato definendo nell’ambito suo originario, cioè nel pensiero sociale della Chiesa Cattolica degli ultimi cent’anni, per il quale, sono parole del Pontefice Pio XI, quello della sussidiarietà è principio 6 importantissimo, gravissimum. L’assunto è elementare: “Come è illecito togliere ai singoli ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria proprie, per affidarlo al collettivo, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori si può fare. Perché la ragione naturale di qualsiasi intervento nella società è di dare aiuto (subsidium donde sussidiarietà) alle membra del corpo sociale non già distruggerle ed assorbirle” (Quadragesimo anno, 1931). Ma già Leone XIII, nella Rerum novarum del 1892, aveva fissato la questione icasticamente: “Non è giusto che il cittadino, che la famiglia siano assorbiti dallo stato: è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altri diritti”. Nel più importante saggio recente, dedicato a L’Etat subsidiaire. Ingérence et non-ingérence de l’Etat: le principe de subsidiarité aux fondaments de l’histoire européenne (1992), Chantal Million Delsol mette in evidenza peraltro come l’idea di sussidiarietà abbia ispirato la filosofia politica europea sin dalle sue origini aristoteliche. Attirerei l’attenzione su due metafore, mediante le quali il magistero del Papa rappresenta l’alternativa tra concezioni politiche. Quella dell’assorbire, significativa di un’idea di politica come dominio, come controllo, al limite, come riduzione del personale al tipico. Quella dell’aiutare, significativa di un’idea di politica come sostegno, come incremento, al limite, come integrazione, nel senso di piena realizzazione del personale nel sociale. Ora, la metafora dell’assorbire, con tutto quanto v’è implicito, rappresenta efficacemente la concezione della politica e dell’ordinamento giuridico canonizzati dalla Rivoluzione Francese e dal Codice Civile di Napoleone, mediante la sovrapposizione della volontà sovrana del collettivo sulla supposta inclinazione anarchica degli individui. E quindi mediante l’assorbimento della persona reale dei singoli nella persona virtuale dello Stato, come sola condizione di vita ordinata in società. 7 D’altra parte, la metafora dell’aiutare, con tutto quanto v’è implicito, rappresenta efficacemente la concezione della politica e dell’ordinamento giuridico della tradizione classica e cristiana d’Europa, di cui nell’ultimo secolo il magistero del Papa si è fatto promotore in prima persona attraverso la formula politica della sussidiarietà. Teorizzando il carattere suppletivo e ausiliario dell’intervento dello Stato, e in genere d’ogni istituzione pubblica, nel regolamento delle relazioni interpersonali, le quali affondano le radici, e quindi trovano il loro autentico fondamento, ben prima che nelle leggi dello Stato, nelle consuetudini sociali, nel costume domestico e tramite questi nella natura dell’uomo, nella sua originaria autarchia. A questo proposito debbo dire che condivido la considerazione critica avanzata da Miguel Ayuso Torres a proposito del fatto che “la Chiesa, dopo aver esplicitato e formulato il principio di sussidiarietà, per difendere un certo ordine sociale rispetto ad un interventismo statale oltranzista, per molto tempo non lo ha più sviluppato nella sua integrità e nelle sue molteplici implicazioni”. Tanto che a far riemergere la sussidiarietà da uno stato di sonno sono stati proprio i laici redattori dei trattati di Maastricht e di Amsterdam. Terza considerazione. Nonché mera formula burocratica, la sussidiarietà non è nemmeno solo un modello politico. Radicando l’ordinamento giuridico nell’originaria autonomia dell’uomo, nella sua natura, la sussidiarietà, o meglio con la sussidiarietà torna prepotentemente in gioco il problema radicale dello statuto personale dell’uomo, caratterizzato dalla sua attitudine ad essere “padrone di se stesso, mettendo la parte migliore della sua anima sulla peggiore”. Come hanno detto variamente ma nel medesimo senso Platone e Aristotele, Cicerone e Sant’Agostino, San Tommaso e Dante. Ecco perché ciò di cui bisogna rendersi conto, quando si cita la sussidiarietà, e di cui non sempre ci si rende conto, è che si tratta di 8 un’alternativa radicale rispetto al modo corrente d’intendere sia l’individuale sia il sociale. La radicalità dell’alternativa risulta scoperta se si considera che la richiesta di riportare “il più vicino possibile” ai singoli la decisione istituzionale, politico-giuridica, non può non andare di pari passo con l’impegno di ciascuno di attuare la disposizione personale all’autodisciplina, per la quale, platonicamente ma concretamente, “quando la parte per natura migliore dell’anima ha il governo della peggiore, ecco che si usa l’espressione essere padrone di sé che suona lode: e quando, invece, per colpa di una cattiva educazione o di non buone compagnie, la parte migliore ma più debole è vinta dalla peggiore, più forte, ecco allora che si usa l’espressione essere schiavo di sé, che suona biasimo e rimprovero”. Non si può, infatti, sostenere la funzione suppletiva ed ausiliaria, sussidiaria, dell’ente pubblico, della sua politica economica, del suo diritto, sancito mediante la legge espressione della volontà sovrana, se non si riconosce preventivamente che l’ordinamento delle relazioni interpersonali comincia prima e indipendentemente dalla legislazione statale. E quindi, se non ci si affida, per l’ordinamento politico, giuridico ed economico, prima che allo stato, alle innumerevoli società naturali o, come sarebbe più corretto dire, alle naturali forme dell’associazione interpersonale. A scanso d’equivoci vorrei citare, senza commenti, un passo della Gaudium et spes del Concilio Vaticano II: “Si guardino i governanti dall’ostacolare i gruppi familiari, sociali o culturali, i corpi o istituti intermedi, né li privino della loro legittima ed efficace azione, che al contrario devono volentieri e ordinatamente favorire. Si guardino i cittadini dall’attribuire troppo potere all’autorità pubblica, né chiedano inopportunamente ad essa eccessivo vantaggi, col rischio di diminuire così la responsabilità delle persone, delle famiglie, dei gruppi sociali”. Ogni commento sarebbe superfluo. Invero la potenza rigeneratrice del principio di sussidiarietà, se autenticamente ed integralmente inteso, si misura in relazione ad ogni problema politico-giuridico ed è appunto quanto ci 9 proponiamo, oggi, di fare relativamente al problema della burocrazia. 2.- Della burocrazia come “stato che si è fatto società civile”. L’utilizzo della formula marxiana per definire il fenomeno della “burocrazia” non significa condividerne immediatamente le implicazioni bensì corrisponde alla necessità di ristabilire filologicamente i termini della questione in vista della quale, per chi non sia sprovvisto di una qualche dimestichezza con il molto, forse il troppo, che è stato scritto in proposito, potrebbe bastare la semplice citazione dalla fonte originaria, la Einleitung del saggio Zur Kritik der hegelschen Rechtsphilosophie, apparso sugli “Deutsch-Französische Jahrbücher”del 1844. Che quello dell’amministrazione delle risorse disponibili sia problema cardinale della convivenza umana è un dato immediatamente evidente, che si accompagna ad ogni forma di società dalla più semplice, come potrebbe essere la comunità familiare, alla più complessa, come potrebbe essere la comunità civile. Così come da sempre il problema amministrativo, in quanto problema dell’organizzazione degli strumenti, deve misurarsi, nel senso di confrontarsi senza confondersi, con il problema politico, in quanto problema dell’orientamento al fine, in ogni forma di società dalla più semplice alla più complessa. Ma quello burocratico non è problema meramente amministrativo, né problema meramente politico, essendo politico e amministrativo insieme, così come non è problema generico della convivenza umana ma specifico di una particolare concezione della società, quella definita dalla sovranità statale, secondo i canoni della moderna “geometria politico-legale”. Ecco perché, per intenderlo propriamente, è necessario collocarlo nel momento cruciale della sua elaborazione, storica e teorica insieme, là dove cioè esso è stato posto in termini elementari, nel senso d’essenziali. Ed è per questo che è utile, certamente opportuno e forse necessario, muovere da una considerazione critica delle lezioni hegeliane sul diritto statale interno, a partire 10 dall’affermazione perentoria, per l’esattezza al § 129, che “il concetto di Stato è l’universale come tale”. Venendo a specificare l’assunto, al § 131, Hegel scrive: “Nel concetto di Stato sono contenuti tre momenti: 1.- la volontà universale, razionale, in parte come costituzione e leggi costituzionali, in parte come leggi in senso proprio: la costituzione stessa ed il potere legislativo, 2.- la particolarizzazione della volontà universale, i. e. la sussunzione del particolare sotto di essa come deliberazione e riflessione, in parte elevando il particolare alla forma dell’universalità e preparandolo per la medesima, in parte applicando l’universale al singolo: il potere governativo, 3.- la riflessione dell’intero in sé, la volontà individuale come decisione ultima e comando: il potere del principe”. Il testo hegeliano non è di facile lettura, ma lascia intravedere inequivocabilmente quelli che si possono considerare gli elementi portanti della concezione dello stato come “universale”, ossia il sovrano, “la soggettività dell’intero per mezzo della quale l’intero diventa un soggetto, questo culmine estremo della piramide”, la costituzione, “l’universale in quanto universale essente in sé e per sé è la costituzione e l’universale in relazione al particolare è la legge”, ed il governo, “l’applicazione dell’universale al particolare e l’elevarsi del particolare all’universale”. Rispetto alla teorica dello stato moderno, alla teoria cioè “di quel gran Leviatano”, per cui, con parole di Hobbes, “una moltitudine è unita in una sola persona” ed alla teoria della legge come “voce celeste” che, per usare parole di Rousseau, “detta a ciascun cittadino i precetti della ragione pubblica ed insegna ad agire secondo le massime del suo giudizio”, sinteticamente riassunte nell’indicazione della monarchia costituzionale come “forma suprema del popolo che si è sviluppato a società civile” (§ 137), il contributo più innovativo e insieme più radicale, offerto da Hegel, è quello dell’identificazione del potere governativo, il terzo elemento portante dello “stato come universale”, nel “ceto dei funzionari” che viene indifferentemente chiamato “ceto medio” e “ceto universale” in quanto, come si legge nel § 145, “costituisce la coscienza della 11 libertà e del diritto del popolo” poiché “gli individui in esso accolti pongono l’interesse della loro esistenza ed attività, spirituale e materiale, nel rapporto di dedizione al servizio dello Stato, e l’ufficio in cui entrano è un ramo degli affari generali, autorizzato dalla Costituzione”. Senza utilizzare la parola, e potrebbe essere interessante chiedersene il perché considerato che essa era già stata usata a metà del XVIII Secolo dall’economista francese, vicino alla Fisiocrazia, Vincent de Gournay, Hegel ha delineato quelli che possono essere considerati come i tratti caratteristici della burocrazia, il formalismo, la gerarchia, la separazione radicale del pubblico e del privato, la professionalità, lo stipendio fisso, la scrittura documentale, sulla trattazione dei quali poi si sarebbero diffusi tutti quanti, giuristi e sociologi, vi hanno dedicato specificamente il loro studio, da Marx a Weber, da Michels a Crozier. Celebrandone in qualche modo la grandezza, con la canonizzazione della centralità del ruolo ad essa spettante nella vita dello stato, “così i funzionari vengono costretti ad essere veri funzionari statali, i. e. ad essere sia funzionari della cittadinanza, sia funzionari del principe”, ed il panegirico della funzione esercitata, “in essa risiedono l’intelligenza e la coscienza giuridica colta di un popolo”. Ma anche anticipandone la potenziale involuzione. “Quando la paga costituisce la cosa principale e solo in questa il funzionario trova la sua esistenza e quella della sua famiglia, è facile che egli consideri il suo posto come qualcosa di esistente per lui, non veda che è lì per i cittadini, e creda di avere doveri solo nei confronti del superiore che lo può promuovere. (…) Se questo ceto non ha l’interesse dei cittadini, esso diventa simile ad una rete gettata sui cittadini per opprimerli, poiché in particolare l’intero ceto, avendo un interesse, costituisce un tutto”. Chi abbia presenti queste acute, e premonitrici, considerazioni del massimo teorico della “forma Stato”, non potrà non riconoscere quanto sia ingannevole ridurre il problema della burocrazia al problema tecnico del funzionamento della macchina statale e più 12 precisamente a problema dell’elefantiasi delle funzioni amministrative. Che l’incremento dei servizi cui lo stato moderno deve provvedere, da quando è divenuto una specie di “compagnia di assicurazione” per ogni rischio derivante dalla convivenza degli individui, implichi l’aumento esponenziale del numero degli amministratori pubblici, è un dato di fatto incontrovertibile. Così com’è innegabile che la presenza di pubblici amministratori, tanto numerosi e capillarmente diffusi nel corpo sociale, possa esercitare una sorta di condizionamento, se non di dominio, sulla comunità degli assicurati. Ma si tratta d’inconvenienti di carattere operativo, inerenti ad ogni tipo d’organizzazione, cui far fronte operativamente, riportando le pretese settoriali e particolari all’interno del sistema definito dagli scopi unitari e generali dell’organizzazione stessa. Il fatto è che, nella prospettiva delle “geometrie politico-legali” moderne, sinteticamente riassunta dalla teoria del diritto statale interno di Hegel, quello degli amministratori pubblici si presenta come un ceto, per di più definito “medio” e “universale”, e in quanto tale costituisce un pilastro politico, con il sovrano e la costituzione, della “forma Stato”. In realtà, la burocrazia, nella prospettiva delle “geometrie politico-legali” moderne è un soggetto politico se non il principale soggetto politico. Benché coperto o forse tale proprio perché coperto. D’altronde, l’etimologia del termine, se correttamente intesa, lo ha sempre significato senza infingimenti, collegando ambiguamente il francese “bureau”, che indica l’ufficio in cui si pratica la gestione degli strumenti propria dell’amministrazione, al greco κράτος, che indica la funzione d’indirizzo politico propria del governo. Un grande equivoco si nasconde nel termine, e nel concetto, di burocrazia, l’equivoco derivante dalla confusione tra governo politico e pubblica amministrazione ossia la confusione tra quello che è il rapporto amministrativo, per il quale un insieme di persone e di cose, equiparate nella funzione strumentale, viene organizzato in vista di un fine predeterminato, e il rapporto politico che 13 costituisce la comunità orientandola al suo fine proprio, quale emerge dalla considerazione dialettica di ciò per cui ogni suo membro è se stesso, e quindi è diverso dagli altri, ma anche di ciò per cui ciascuno è membro della comunità, e quindi unito agli altri costituisce un insieme. Invero, se si confonde il governo politico con l’amministrazione pubblica o peggio, com’è nel caso della burocrazia, se si assume l’amministrazione pubblica a soggetto del governo politico, non c’è forma di esercizio del potere che non sia dispotica, nel senso aristotelico del termine, poiché per essa tra chi comanda e chi obbedisce s’instaura il rapporto che c’è tra il libero e lo schiavo, tra il soggetto e l’oggetto di dominio, tra il fine e lo strumento dell’azione. Come si sia giunti a questo è la costruzione geometrica della moderna teoria dello stato a dirlo. Con la presupposizione dell’uomo dello stato di natura, “tutto per sé (…) unità numerica (…) intero assoluto che non ha rapporto altro che con se stesso (…) i cui desideri non eccedono i bisogni fisici (…) la cui anima, che nulla agita, si abbandona al puro sentimento dell’esistenza attuale” (Rousseau). Per esso “bene e male sono nomi e non significano se non appetiti e avversioni che nei differenti e diversi soggetti differiscono per il loro giudizio, al cui senso una cosa o l’altra è piacevole o spiacevole per il gusto, l’odorato, l’udito, il tatto e la vista (…), ché anzi lo stesso soggetto, in tempi diversi, differisce da se stesso, e in un tempo loda, cioè chiama buono, quello che in altro tempo disprezza, e chiama cattivo: onde sorgono dispute, liti e, alla fine, guerra” (Hobbes). Poi con la stipula del contratto sociale, che “consiste nell’investire di tutto il proprio potere e di tutta la propria forza un uomo o un’assemblea d’uomini che sia in grado di ridurre tutte le varie opinioni, per mezzo della pluralità dei voti, ad una sola volontà; il che è come dire di dare incarico ad un uomo od a un’assemblea d’uomini di rappresentare la persona dei singoli cittadini e riconoscersi, ciascuno per quanto riguarda se stesso, come l’autore di qualsiasi cosa che colui che è stato eletto a rappresentarli farà, o farà in modo che sia fatta, in quelle cose che 14 conservano la pace e la sicurezza comune, ed in questo, ridurre le proprie volontà alla volontà di lui, ed i loro giudizi al suo giudizio” (Hobbes). E in fine con la consacrazione del sovrano statale come “un che d’universale in quanto universale” (Hegel) per il quale ancor oggi conviene l’immagine usata dai primi “geometri del diritto e dello stato”, sulla base della scienza anatomica dugentesca: l’immagine suggestiva del “cuore (…) che regola e misura con la sua influenza o azione le altre parti del corpo in modo tale da non essere mai regolato da esse e da non riceverne alcun’influenza” (Marsilio). Che la scienza anatomica più evoluta abbia poi mutato d’avviso, poco importa. Per l’acquisita paradossalità, l’esempio del cuore risulta oggi ancor più stringente e significativo, predicando in maniera inequivocabile la totale dipendenza dei singoli cittadini, in quanto parte del corpo sociale, dallo stato, che ne costituisce il solo ed autentico principio. A muovere da questi canoni teorici una deriva burocratica e totalitaria era in pratica inevitabile. Posto che “il passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell’uomo un cambiamento radicale, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto e dando alle sue azioni la moralità di cui prima erano prive”, posto che con quel passaggio “di un animale stupido e limitato si è fatto un essere intelligente e un uomo”, una volta costituitosi il corpo sociale nella “forma Stato”, era necessario cercarne la leva motrice o, se si vuole, l’anima politica il più lontano possibile da tutto quanto poteva ancora sapere dell’animale stupido e limitato dello stato di natura, dell’individuo istintivo ed amorale, e, per il gioco degli opposti, era inevitabile pervenire ad individuarla in un collettivo, in un ceto “medio” e “universale”, la cui intelligenza e moralità fossero garantite proprio dalla distanza che esso sapeva porre tra sé e tutto quanto poteva aver a che fare con l’individuale, o il personale, come sarebbe più esatto dire. Hegel bene evidenzia la cosa, quando afferma che “gli individui in esso accolti pongono l’interesse della loro esistenza ed attività, spirituale e materiale, nel rapporto di totale dedizione al servizio dello Stato”. 15 Ma tutti i tratti caratteristici della burocrazia stanno a significarlo, dal più epidermico al più profondo. L’assunzione per concorso pubblico, che elimina ogni considerazione delle specifiche attitudini personali. La stabilità del posto e lo stipendio fisso, che rendono indipendente la retribuzione dal rendimento della prestazione personale. L’incompatibilità tra l’esercizio di una funzione pubblica e quello di una professione privata. Soprattutto l’ufficialità della funzione, perfettamente rappresentata dalla formula hegeliana: “La nomina ad un posto spetta al potere del principe, il singolo soggetto è per esso un che d’accidentale”. Donde la gerarchia delle funzioni, che implica un sistema di dominio e di subordinazione, e l’inamovibilità dall’ufficio, che porta all’identificazione della persona, quel “che d’accidentale”, con la funzione, il “che d’universale”. E d’altronde, quale altra possibilità era data all’animale stupido e limitato dello stato di natura, all’individuo istintivo ed amorale quale pur sempre è in partenza anche quel poveruomo che diverrà funzionario pubblico, di “elevarsi dal particolare all’universale” se non quella d’essere “sussunto nell’universale” mediante l’assorbimento nel ceto e l’identificazione col collettivo? Tutto questo spiega anche, benché non lo giustifichi, perché la tendenza alla burocratizzazione, fenomeno come abbiamo visto connesso inscindibilmente alla concezione geometrica della comunità politica e specificamente alla “forma Stato”, si sia progressivamente estesa ad ogni tipo d’aggregazione sociale. Dal partito, dove la cosa è più immediatamente spiegabile per la contiguità con gli affari pubblici, al sindacato, dove il più immediato collegamento ai problemi quotidiani della sopravvivenza personale avrebbe dovuto esercitare una sorta d’antidoto, ma in genere ad ogni tipo di corporazione. Con quali esiti, è sotto gli occhi di tutti. Venendo alla deriva totalitaria della burocrazia, ben più subdola di quella teorizzata in passato da opposti angoli ideologici perché in pratica strisciante sotto le più diverse bandiere, potrebbe bastare la citazione di un testo insospettabile: affatto distante dalle basse 16 diatribe sullo stato moderno, non fosse altro perché lontano di secoli, ma anche veramente lucido nella sua logicità elementare. Mi riferisco a quello che molti politologi considerano come l’antesignano del moderno stato democratico, a Marsilio da Padova, a cui si deve la celebre definizione: “La città, o Stato (la maiuscola è proprio di Marsilio), non è una per qualche sua forma naturale (…) Roma, Magonza e le altre comunità sono infatti uno Stato o impero numericamente uno, solo perché ciascuna di esse è ordinata per la sua volontà a un governo numericamente uno (…). Gli uomini di una città, o provincia, sono chiamati una città, o Stato, perché vogliono un governo numericamente uno”. Orbene, definita in modo lineare la “forma Stato”, Marsilio si deve confrontare con il più complesso problema della condizione del singolo all’interno di essa e non può non riconoscere che “gli uomini non sono numericamente una parte dello Stato per la stessa ragione onde sono uno Stato, o una città, numericamente una. Poiché anche se essi vogliono un governo numericamente uno, e per questo appunto vengono detti una città o Stato, vengono riferiti a questo governo numericamente uno mediante una diversa istituzione attiva e passiva che è poi soltanto il diverso comando impartito loro dal governante. Ed è appunto mediante questo diverso comando che vengono destinati a diversi uffici. Proprio per la differenza di questo comando, essi costituiscono formalmente le parti e gli uffici diversi dello Stato”. In altri termini, una volta costituitasi la “città, o Stato”, i singoli che con il voto lo hanno posto in essere, ne divengono parte solo per la sua volontà, il che significa che in quando cittadini da esso dipendono come dalla propria “causa efficiente” e ad esso debbono la “propria essenza o differenza”. Per riuscire in proposito più efficace, Marsilio avanza un parallelo sconcertante, e incomprensibile se non vi si colgono i tratti dell’incipiente secolarizzazione, confrontando il rapporto fra i singoli privati e la persona pubblica con il rapporto fra gli enti e l’Essere. “Gli enti – scrive sempre nel Defensor Pacis – costituiscono un mondo numericamente uno in funzione dell’unità numerica dell’Essere 17 primo, perché ogni ente è naturalmente inclinato verso l’Essere primo e ne dipende. Il predicato, per cui diciamo che gli enti tutti costituiscono un mondo numericamente uno, non è il predicato formale di una certa unità numerica presente in tutti gli enti o di un certo concetto universale di unità, ma piuttosto il predicato di una molteplicità di cose che noi diciamo una perché ordinata in funzione di e da un ordinatore”. Anche in questo caso la chiarezza del testo dispensa da ogni commento: basta sottolineare le due preposizioni in funzione di e da per rilevare l’inevitabile esito totalitario di una concezione burocratica dell’ordinamento politico. Se infatti la molteplicità dei singoli componenti il corpo sociale può dirsi una comunità solo “perché ordinata in funzione di e da un ordinatore”, nel caso in funzione della e dalla volontà sovrana, è inevitabile che ciascuno di essi dipenda totalmente dallo Stato (per il quale non si potrà usare se non la lettera maiuscola riservata alla Divinità) come dalla propria “causa efficiente” e allo Stato debba la “propria essenza o differenza”, totalitariamente. Rousseau, con l’acume psicologico che contraddistingue il suo genio, scriverà: “Colui che osa prendere l’iniziativa di fondare una nazione (che qui sta per Stato) deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana; deve essere capace di trasformare ogni individuo, che in se stesso è un tutto perfetto e isolato, in una parte di un tutto più grande, da cui quest’individuo riceva in qualche modo la vita e l’essere (…). Bisogna insomma che egli tolga all’uomo le forze che gli sono proprie, per dargliene altre che siano estranee e di cui non possa fare uso senza gli altri. Quanto più le forze naturali sono morte e annullate, quanto più quelle acquisite sono grandi e durature, tanto più l’istituzione è solida e perfetta. Così, quando ogni cittadino è niente e niente può se non per mezzo di tutti e quando la forza acquisita dal tutto è uguale o superiore alla somma delle forze degli individui, si può dire che l’ordinamento ha raggiunto il massimo grado di perfezione”. 18 3.- Come la sussidiarietà fronteggia la burocrazia. “Il problema politico della burocrazia è uno dei più gravi tra quelli che si presentano agli Stati moderni”. Con questa perentoria affermazione Roberto Lucifredi, maestro insigne di diritto amministrativo, apre la voce “burocrazia” nel Novissimo Digesto Italiano delle edizioni UTET. Con analoga preoccupazione si chiude la voce “burocrazia” nell’Enciclopedia delle edizioni Einaudi, curata in prospettiva sociologica da Janina Zakrozewska, che annota come siano divenuti eccessivi, al limite dell’insopportabilità, i costi di funzionamento dell’apparato statale, “sia per quanto concerne l’organizzazione del lavoro (problema di rendimento) sia per quel che riguarda l’organizzazione della società (problema della partecipazione effettiva)”. Non è per pigrizia che abbiamo scelto di muovere dalla lettura di alcune voci d’enciclopedia ma perché, a leggervi tra le righe, si scopre un paradossale motivo conduttore comune, degno d’attenzione e stimolante più delle diverse notazioni particolari, pur di per sé interessanti e suggestive. Trattando della burocrazia, i diversi autori affrontano, com’è naturale, in modo diverso il problema dell’organizzazione statale ma ben presto si trovano tutti invischiati sulla medesima questione, quella generalmente definita della “riforma burocratica”. Anche quanti non ritengono che il fenomeno burocratico debba essere giudicato in modo assolutamente negativo, “poiché alcuni dei suoi elementi possono servire a proteggere i diritti dell’individuo, in particolare quando l’attività dell’apparato burocratico è fondata esclusivamente sulla legge”, al dunque devono riconoscere che il problema attuale e imprescindibile della burocrazia è quello della sua riforma. Paradossalmente, a leggere quello che si scrive, sembra che la definizione della burocrazia coincida con la sua riforma. Da questo punto di vista emblematica è la voce “burocrazia” dell’Enciclopedia del Diritto delle edizioni Giuffré, curata da Marcello Amendola, il quale, dopo avere acutamente distinto un significato oggettivo da uno soggettivo del termine, s’impegna nell’approfondimento del 19 primo, l’oggettivo, prospettando le diverse fasi legislative, e non solo, della riforma dell’amministrazione in Italia a partire dalla comparsa, nel 1950, fra i membri del Consiglio dei ministri, di un ministro segretario di stato incaricato della riforma dell’amministrazione “i cui compiti non sono limitati all’elaborazione delle norme relative allo stato giuridico dei pubblici dipendenti ed alla loro applicazione ma anche allo studio della migliore ripartizione delle attribuzioni degli organi dello Stato, della razionalizzazione delle procedure, della semplificazione e chiarificazione della legislazione amministrativa e, in genere, dell’introduzione e dell’estensione della tecnica organizzativa nelle pubbliche amministrazioni”. Per poi affrontare l’approfondimento del secondo significato, quello soggettivo, mediante uno studio analitico sul numero, il rendimento, la selezione e la preparazione professionale dei dipendenti statali. Se poi si pensa, rimanendo all’esperienza giuridica italiana, che dal lontano 1950 la riforma dell’amministrazione si è vista destinata sempre, o quasi, un ministero, magari senza portafoglio ma sovente con chiarissimi titolari come un Massimo Severo Giannini o un Sabino Cassese, senza che se ne siano sciolti in maniera risolutiva i nodi, la cosa risulta ancor più singolare e sconcertante. D’altra parte, sarebbe sbagliato e insieme fuorviante sostenere che in questo lasso semisecolare di tempo non siano intervenute delle importanti riforme dell’apparato amministrativo. Sennonché il carattere episodico e spesso meramente congiunturale dei singoli interventi, o se si vuole usare un gergo militaresco la loro mancanza di prospettiva strategica, ne ha compromesso, anche là dove c’era, l’autentica potenzialità riformatrice. Il fatto è che, com’è stato opportunamente osservato, l’organizzazione burocratica può essere studiata da più punti di vista “ma per capirla bisogna considerarla sia dal punto di vista della teoria dell’organizzazione sia da quello della politica. E questo non soltanto in considerazione di certe tendenze convergenti, analogie o disfunzioni burocratiche che si osservano in sistemi d’organizzazione diversi, ma soprattutto in 20 considerazione delle condizioni sociali che in ultima analisi decidono di tutto questo. La burocrazia, infatti, è in primo luogo un fenomeno del potere, e solo in seconda istanza dell’organizzazione”. Se si ha ben presente questo, al di là della pochezza singolare e sconcertante dei risultati immediati, si scopre che è possibile riconoscere in atto seppure incerta, contrastata e in fase embrionale una vera riforma della burocrazia. Ed è possibile riconoscerne i tratti essenziali se ci si colloca nella prospettiva aperta dall’inopinato affermarsi nell’esperienza giuridica europea del principio di sussidiarietà, cosa peraltro anche cronologicamente verificabile, se si nota, come non si può non notare, che il processo di riforma della burocrazia in Italia ha subito un’accelerazione significativa proprio dal momento in cui sotto la pressione delle “carte europee”, con la Legge n. 439 del 1989, si è introdotto nell’ordinamento giuridico nazionale il principio che “l’esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere di preferenza alle autorità più vicine ai cittadini”. Per prospettare questo processo, sotterraneo e sommerso ma irresistibile, che ha avuto un passaggio chiave nella Legge 142 del 1990, la prima legge generale che in attuazione dell’enunciato costituzionale dell’art. 128 Cost. ha dettato i principi informatori dell’ordinamento delle autonomie locali, può essere opportuno e forse utile fissare l’attenzione su due momenti indicativi. L’uno segnato dalla Legge n. 241 del 1990 che ha avviato il processo di semplificazione dell’azione amministrativa al fine di pervenire congiuntamente all’attuazione del principio costituzionale di buon andamento dell’amministrazione ed al miglioramento dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione. L’altro segnato dal Decreto legislativo n. 29 del 1993 recante “Norme in materia di razionalizzazione dell’organizzazione amministrativa e revisione della disciplina del pubblico impiego”, con cui si è realizzata una vera e propria rivoluzione culturale oltre e prima che giuridica, successivamente rivisitato dai Decreti legislativi n. 396 del 1997, n. 80 del 1998 e via via sino al n. 165 del 2001. Due momenti 21 significativi che nell’immaginario collettivo si sono presentati e ancora si rappresentano in modo ambiguo, tale da ingenerare pericolosi equivoci, sotto la categoria disorientante della “privatizzazione”. Ed è proprio per evitare i tranelli impliciti in questa formula che muoveremo dalle acute e incisive considerazioni fatte da quel fine teorico generale del diritto che è Lucio Franzese, in particolare negli studi “oltre privato e pubblico” per il ritorno ad un diritto unitario, e senza dimenticare ciò che abbiamo più sopra riconosciuto vale a dire che il principio di sussidiarietà non è solo una brillante formula procedurale per l’organizzazione amministrativa dell’apparato statale ma corrisponde ad un preciso e ben definito modello politico sostanziale e soprattutto si radica in una concezione classica dello statuto personale dell’uomo. In generale, riflettendo sugli interventi legislativi cui abbiamo fatto riferimento, è possibile trovarvi un unico motivo conduttore nella ricerca di configurare un nuovo rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione, specificamente in relazione allo svolgimento dell’attività amministrativa, caratterizzato dalla parità e dalla simmetria. Per misurarne il potenziale innovativo basta ricordare come in precedenza l’attività amministrativa fosse considerata prerogativa esclusiva della pubblica amministrazione, come l’interesse pubblico s’identificasse con la manifestazione della volontà sovrana, come il provvedimento amministrativo, atto unilaterale, autoritativo ed esecutorio del soggetto pubblico, costituisse il modo ordinario e fondamentalmente unico per la cura degli interessi della comunità. In questa prospettiva il singolo cittadino non poteva trovarsi se non in una condizione di passività: mero destinatario di un’attività perfezionatasi per volontà sovrana dei pubblici funzionari, senza diritto proprio e al più portatore di un interesse legittimo, quando, per caso, avesse potuto eccepire l’invalidità del procedimento perché in contrasto con il disposto normativo. Nel rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione insomma si riflettevano la disparità e l’asimmetria che abbiamo visto caratterizzare il rapporto prefigurato dai geometri del diritto e 22 dello stato tra “l’animale stupido e limitato”, che sarebbe il singolo uomo dello stato di natura , e il “ceto universale”, che è l’apparato burocratico dello stato. Per rappresentare icasticamente la situazione Franzese propone di considerare che cosa accadeva “quando un soggetto si rivolgeva alla pubblica amministrazione per ottenere, ad esempio, l’autorizzazione all’esercizio di un’attività commerciale. L’istanza metteva in moto un procedimento che poteva concludersi con il rilascio del provvedimento richiesto ovvero con il suo diniego. In entrambi i casi, la segretezza connotava lo sviluppo procedimentale. La pubblica amministrazione istruiva la pratica come fosse un affare proprio, nel senso che era essa ad individuare unilateralmente quali erano gli interessi che andavano valutati in vista della scelta finale. All’interessato, e agli eventuali contro-interessati all’emanazione dell’atto, non era consentito se non d’impugnare la decisione dell’amministrazione per far valere, con un ricorso amministrativo o giurisdizionale, le proprie doglianze in ordine alla legittimità e/o al merito della decisione assunta. Con la legge n. 241 del 1990, che ha disciplinato in generale il procedimento amministrativo, la situazione è radicalmente cambiata. L’avvio del procedimento, sia esso d’ufficio o su istanza di parte, deve essere portato a conoscenza dei soggetti interessati, cioè di coloro nella cui sfera giuridica si produrranno gli effetti finali della procedura. Essi sono così posti in condizione di poter contribuire all’elaborazione della decisione conclusiva del procedimento. La partecipazione procedimentale non è, infatti, meramente coreografica, in quanto i cittadini, parzialmente coinvolti dal procedimento che l’amministrazione va ad adottare, sono legittimati a rappresentare gli interessi, alla luce dei quali si forma la determinazione amministrativa. Per tal modo, l’interesse pubblico non si riduce più alla volontà del soggetto pubblico, ma scaturisce dal contraddittorio instauratosi tra l’amministrazione agente e i cittadini che hanno preso parte al procedimento. L’attività amministrativa viene esercitata sulla scorta dei risultati del confronto tra la posizione dell’amministrazione e quella dei cittadini 23 coinvolti dall’esercizio del potere. Sicché essi partecipano alla traduzione dell’indirizzo politico, degli obiettivi ritenuti cioè essenziali per il buon vivere dagli organi di governo della comunità, nelle concrete scelte gestionali di attuazione”. Si prospettano in queste considerazioni due aspetti del problema che ci preme evidenziare puntualmente. Va innanzi tutto notata l’evoluzione prodottasi, in seguito all’intervento delle nuove disposizioni normative, nella gestione degli affari pubblici. A livello operativo il cittadino, che era escluso da ogni partecipazione attiva e che doveva subire, ignaro e senza voce in capitolo, l’attività del soggetto pubblico si ritrova “coamministratore”, per usare un’espressione felicissima utilizzata da Feliciano Benvenuti a significare l’affermarsi del cittadino come protagonista, insieme con il ceto dei pubblici funzionari, nel processo di determinazione dell’interesse pubblico. Da questo punto vista tutto il capo III della legge 241/90 andrebbe analizzato, ma a mero titolo d’esempio indicativo può essere ricordato l’art. 11, come poi modificato dalla Legge 273 del 1995, per il quale il procedimento amministrativo può culminare in un “accordo” tra pubblica amministrazione e cittadino: “accordo procedimentale” se concluso al fine di determinare il contenuto del provvedimento che poi la pubblica amministrazione prenderà; ma anche “accordo sostitutivo” se stipulato in sostituzione dello stesso provvedimento amministrativo. Che cosa implichi tutto questo è presto detto: il riconoscimento della capacità del cittadino a contribuire direttamente e responsabilmente alla gestione amministrativa rei publicae. Il preconcetto della stupidità e della limitatezza dell’uomo dello stato di natura così si dissolve, rivelandosi per quello che era davvero: un preconcetto, appunto, privo di fondamento e di razionalità se non nell’ottica giustificatrice del potere di fatto, che ha dominato le geometrie politico-giuridiche moderne. Così soprattutto si dissolve l’impostura della “sussunzione del particolare sotto l’universale” attuatasi mediante la burocratizzazione delle relazioni sociali. Avremmo fatto un torto al grande Hegel se 24 avessimo taciuto delle critiche mosse, con gli elogi, al ceto “medio” quando, perduto di vista l’universale, esso “diventa simile ad una rete gettata sui cittadini per opprimerli”; d’altronde il filosofo era troppo attento all’esperienza per non rendersi conto che il problema della “sussunzione del particolare sotto l’universale” si poneva anche, e forse prima, all’interno stesso del ceto dei funzionari, posto che questi non sono fatti di pasta diversa da quella del poveruomo che, con i loro provvedimenti, autorizzazioni o abilitazioni, concessioni o ammissioni, sollevano alla condizione nobile di cittadino. Ma avremmo fatto un torto all’intelligenza del lettore dei testi hegeliani se avessimo taciuto dell’incidenza che la teorizzazione hegeliana della burocrazia ha esercitato sul regime del rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione nell’ambito dello stato moderno. Il senso profondo della riforma introdotta dalle leggi cui ci si riferisce sta appunto nel ripudio di quella matrice ideologica che implica, prima della modificazione delle procedure, il mutamento di una mentalità radicatasi da duecento anni, dal tempo del giacobinismo giuridico imperante nella Rivoluzione Francese e della sua istituzionalizzazione nel Regime Napoleonico. Ne sono prova, seppure a contrario, le opposizioni e le resistenze che questa riforma, seppur parziale sommessa ed embrionale, incontra, sia da parte della pubblica amministrazione sia da parte dei cittadini; da parte di quella, perché si vede sottratta l’esclusiva della cura dell’interesse generale, dovendone condividere l’esercizio con i cittadini; da parte di questi, che perdono la comoda posizione di amministrati e si vedono costretti ad assumere la più onerosa responsabilità di coamministratori. Anche a questo proposito uno studio analitico delle disposizioni, per evidenziarne lacune e incongruenze, sarebbe necessario, ma per intendersi può bastare il richiamo della clamorosa distorsione verificatasi nell’applicazione della “denuncia in luogo di autorizzazione”, prevista dall’art. 19 della Legge 241/90 e quindi ridefinita nell’art. 2 della Legge 537/93. 25 “Previsto come strumento di semplificazione amministrativa mediante l’autoamministrazione dei cittadini – annota Franzese – nel senso che il singolo è legittimato ad iniziare un’attività dichiarando all’amministrazione di essere in possesso dei requisiti di legge per il suo esercizio, senza dover attendere il previo assenso del soggetto pubblico che si limiterà ad accertare la veridicità della dichiarazione del privato, l’istituto ha trovato applicazione solo da parte dei furbi. Ad esso hanno fatto ricorso, infatti, coloro che, pur sapendo di non avere i requisiti prescritti e di non poter intraprendere un’attività a seguito della semplice denuncia del suo inizio, confidano nell’incapacità dell’amministrazione di effettuare entro il termine previsto dalla legge il controllo sulla dichiarazione resa. Per contro, la denuncia è scarsamente utilizzata da quanti ne sarebbero titolati, perché da un lato il singolo, di fronte alla congerie legislativa che avviluppa la vita quotidiana, non è sempre certo di aver individuato le disposizioni corrispondenti alla propria situazione concreta, dall’altro, e questo è quanto ci preme qui sottolineare, il cittadino preferisce permanere nella condizione di postulante delle istituzioni, senza assumere le responsabilità che derivano dallo status di autoamministratore”. Che la vita “all’ombra” della sovranità presenti dei vantaggi non deve far perdere di vista i costi, in termini di umanità, che per essa si sono pagati e si pagano. Ecco perché il senso profondo di questa riforma del rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino è autenticamente decifrabile solo se la s’intende alla luce del principio di sussidiarietà, per il quale si può sostenere la funzione suppletiva ed ausiliaria, in tal senso sussidiaria, dell’ente pubblico, della sua organizzazione amministrativa ma anche del suo diritto sancito mediante la legge espressione della volontà sovrana, perché preventivamente si riconosce la capacità del singolo soggetto umano di darsi, liberamente, delle regole e di rimanervi, responsabilmente, fedele. In tal modo restituendo al singolo l’autonomia personale e all’istituzione la funzione direttiva e il controllo. Questo però ci conduce al secondo momento del processo, sotterraneo ed incerto 26 ma irresistibile, di riforma, segnato dal Decreto legislativo n. 29 del 1993 e dalla sua riscrittura nel Decreto legislativo 165 del 2001, che consentirà di sviluppare una serie ulteriore e conclusiva di considerazioni sulla burocrazia. Che con le norme per la riforma della disciplina del pubblico impiego si sia attuata una vera e propria rivoluzione culturale prima che strettamente giuridica è un dato largamente condiviso, a riprova del quale per lo più si fa riferimento a quella che con termine atecnico è stata battezzata come la “privatizzazione del pubblico impiego”, ossia la parificazione, sotto il profilo normativo ed operativo, del lavoro pubblico con quello privato. Recitano, infatti, i commi due e tre dell’art. 2 del D.Lgs. 165/2001, che oggi riassume complessivamente l’ordinamento del pubblico impiego: “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa (…) I rapporti individuali di lavoro e di impiego sono regolati contrattualmente”. Ora non c’è dubbio che il ritorno ad un diritto unitario, come avrebbe detto Massimo Severo Giannini, in un settore tanto delicato dell’organizzazione amministrativa della comunità, costituisca un fattore qualificante della riforma, ma limitarsi a quest’aspetto sarebbe riduttivo e si correrebbe il rischio di non intenderne pienamente la valenza. “Gli organi di governo definiscono gli obiettivi ed i programmi da attuare e verificano la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive generali impartite. Ai dirigenti spetta la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo. Essi sono responsabili della gestione e dei relativi risultati”. Così recitava l’art. 3 del decreto di riforma 29/93 nel quale venne istituzionalizzata una distinzione concettuale già prefigurata dalla legge di disciplina dell’attività di Governo e dell’ordinamento della Presidenza del Consiglio (L. 27 400/1988), e successivamente precisata dal nuovo ordinamento delle autonomie locali (L. 142/90). D’altra parte non si può dimenticare che proprio questa distinzione, tra governo ed amministrazione, venne tassativamente indicata come “il principio cardine della riforma” dalla circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 4 marzo 1993, n. 6 (G.U. 9 marzo 1993, n.. 86). Ed è necessario riconoscere che tutte le successive revisioni, integrazioni e innovazioni della normativa in proposito sono andate nel senso di una sempre più marcata divisione tra indirizzo politico degli organi di governo e potere gestionale della dirigenza, implicante una riformulazione dei principi e delle regole attinenti all’organizzazione dei pubblici uffici, al reclutamento e in genere all’organizzazione del personale e specificamente alla disciplina della responsabilità dirigenziale. Con l’ultima, e per ora definitiva, canonizzazione nel T. U. E. L. (D.Legs n. 267/2000). Non credo che sia corretto dire, come fa Carlo Roehrssen, che il legislatore abbia “voluto distinguere nettamente tra governo e amministrazione”, se non nel senso che il legislatore ha dovuto riconoscere la natura delle cose, il disconoscimento della quale stava portando, come sempre porta, allo sfacelo dell’ordinamento statale per “la politicizzazione dell’amministrazione”, da un lato e dall’altro per “l’affermarsi di una burocrazia acefala e irresponsabile”, come ha opportunamente osservato Lorenza Carlassare. Tra governo e amministrazione, infatti, passa la differenza che c’è tra fine e mezzo. Proprio della funzione governativa è l’individuare gli obiettivi che sono in grado di aggregare la comunità, in quanto modalità contingenti e congiunturali del bene comune. Proprio della funzione amministrativa è l’organizzare gli strumenti mediante i quali attingere quegli obiettivi, sulla base delle direttive e con le risorse date. Nel plesso politico le due funzioni si trovano connesse, per la naturale relazione che c’è tra fine e mezzo, ma non possono confondersi senza ridurla a puro esercizio del potere per il potere. Com’è accaduto, e non poteva non accadere, con l’affermarsi della 28 burocrazia: un “regime impolitico” nel quale, per il venir meno del governo nella sua funzione propria di orientamento al bene comune, un apparato amministrativo, “acefalo e irresponsabile”, gestisce il potere per il potere, divenendo inevitabilmente “una rete gettata sui cittadini per opprimerli”. Continuo a servirmi di quest’affermazione tagliente di Hegel per evidenziare la paradossale contraddizione che è implicita nella tesi hegeliana del ceto “medio e universale” dei funzionari pubblici, “coscienza della libertà e del diritto” di un popolo, accreditata del compito di sussumere il particolare nell’universale per fare “di animali stupidi e limitati”, quali sono i singoli nella loro individualità, “degli esseri intelligenti e degli uomini”, quali sono i cittadini assorbiti nel collettivo, ma poi esposta al rischio di diventare “il male essenziale dei nostri Stati” perché, “avendo in particolare un interesse, costituisce un tutto” al popolo estraneo e antagonista. Così come, inversamente, è necessario smascherare la paradossale contraddizione implicita nelle teorizzazione di quanti, per lo più giuristi cultori del diritto pubblico, dopo aver affermato l’utilità della “distinzione fra attività politica e attività amministrativa”, nel momento in cui si tratta di ricavarne le conseguenze operative, negano che si possa “identificare in modo puro e certo l’attività di posizione dei fini e l’attività di attuazione dei medesimi o di scelta dei mezzi più idonei per raggiungerli”, così vanificando nella sostanza la distinzione assunta. Come fa ad esempio Mario Nigro quando afferma che “la mediazione fra i vari interessi, che è pregio dell’attività politica” si eserciterebbe anche “al livello della gestione concreta e quotidiana degli affari pubblici, cioè praticamente al livello dell’attività amministrativa”, invitando a non “sopravvalutare” la distinzione tra governo e amministrazione sancito dalla legge e suggerendo di prestarvi solo “un valore tendenziale”. Mentre è da sottolineare la lungimiranza di quei funzionari pubblici, come ad esempio il Prefetto Meoli, i quali riflettendo sul rapporto tra politica e amministrazione non si nascondono che il “rapporto mezzi-fini” può essere messo in crisi 29 anche dalla pubblica amministrazione quando questa “tende a far valere il proprio grado di potenza”, nel senso che si presenta come “soggetto di interessi particolari” e conseguentemente omette di adottare quei comportamenti che invece sarebbero “strumentali” rispetto alle decisioni politiche assunte in vista del bene comune dagli organi di governo. Invero, com’è innaturale che l’amministrazione invada lo “spazio” del governo, così è innaturale che il governo invada lo “spazio” dell’amministrazione, ed appunto su questa considerazione che poggia il castello della riforma in particolare per quanto riguarda l’utilizzo del contratto nell’ordinamento dei rapporti di lavoro ed impiego pubblico. Mentre non sembra conciliabile con l’operato di coloro che svolgono la funzione d’orientamento ed indirizzo politico, che implica e non può non implicare una elezione, “la regolamentazione di tipo contrattuale – nota, infatti, il Franzese – si palesa invece del tutto congrua alle mansioni di tipo amministrativo, cioè della messa in opera di quanto è necessario per portare ad effetto le decisioni adottate nell’esercizio della funzione di governo e ciò a prescindere dalla natura privata o pubblica del soggetto alle dipendenze del quale viene eseguito tale tipo di prestazioni”. D’altronde già dal tempo del “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato” Massimo Severo Giannini aveva notato che “gli ingegneri, i ragionieri, gli archivisti dello Stato svolgono le stesse attività che svolgerebbero presso un’impresa privata”. E’ soprattutto a livello della responsabilità dirigenziale che si può apprezzare pienamente il significato profondo della riforma basantesi sulla distinzione fra governo e amministrazione. La Legge 15 marzo 1997, n. 59, dopo aver riaffermata in termini generali la necessità di rendere ancora più netta la distinzione tra compiti e responsabilità della direzione politica e compiti e responsabilità della direzione amministrativa, rimarcata l’esigenza di controlli di gestione e rendimento, ha inteso superare un’incongruenza presente nell’architettura della riforma del 1993, vale a dire la distinzione tra 30 dirigenti, soggetti all’ordinamento contrattuale secondo il Codice civile, e dirigenti generali, ancora disciplinati da norme di diritto pubblico. In questo quadro, sulla base della delega contenuta nella legge, sono stati emanati il D.Lgs. 80/98 e successivamente il D.Lgs. 387/98, avendo di mira “una più precisa distinzione fra funzioni d’indirizzo politico, di definizione degli obiettivi e dei programmi e di verifica e controllo dei risultati, spettanti agli organi politici, e l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi e la responsabilità in via esclusiva della gestione e dei risultati, attribuite ai dirigenti”. In quest’ottica, al Ministro è stata preclusa la facoltà di revocare, riformare, avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti ma nello stesso tempo si è previsto che i risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione o il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati dall’organo politico comportassero per il dirigente amministrativo interessato la revoca dell’incarico ed eventualmente, nel caso di grave inosservanza delle direttive impartite o per ripetuta valutazione negativa, l’esclusione temporanea dal conferimento di nuovi incarichi e, nei casi di maggiore gravità, il licenziamento. Dietro alla trama del nuovo ordinamento, per chi sappia guardarvi dentro con intelligenza, si delineano i nodi essenziali della convivenza civile, per la quale sono necessari tanto l’orientamento al fine accomunante quanto la gestione degli strumenti per raggiungerlo. Donde, innanzi tutto, la necessità di distinguere il fine dagli strumenti e di conseguenza la necessità di non confondere le diverse modalità del convivere con la ragione per cui si convive. In secondo luogo, la necessità di distinguere il dirigere dal gestire e di conseguenza la necessità di non confondere l’abilità nell’amministrare gli strumenti con l’intelligenza politica nel perseguire il fine. In terzo luogo, la necessità di distinguere l’elezione dal contratto e di conseguenza la necessità di non confondere il vincolo, contrattuale, stretto sulla base di una convergenza di volontà, con quello, politico risultante dalla comunione di vedute. E insieme la necessità di riconoscere che non 31 può darsi convergenza di volontà senza preliminare comunione di vedute, né utile gestione degli strumenti senza nozione del fine e neppure giudizio sulle modalità del convivere senza intelligenza di ciò per cui merita convivere. Ad esprimere tutto questo le parole di Aristotele rimangono ancora impareggiabili: “E’ evidente che la πόλις non è per il semplice coabitare o per l’impedire le reciproche offese o per il facilitare gli scambi; sono queste, è ben vero, condizioni indispensabili perché vi sia una πόλις ma pur essendo tutte queste condizioni riunite insieme la πόλις ancora potrebbe non esservi: πόλις è comunanza nel vivere bene, per le famiglie (ται̃ς οικίαις) e per i gruppi di famiglie (τοι̃ς γένεσι), in vista di una vita integralmente realizzata ed autarchica (ξωη̃ς τελείας χάριν και αυτάρκους). (…) Πόλις è comunità di famiglie e di villaggi in una vita integralmente realizzata ed autarchica (ξωη̃ς τελείας και αυτάρκους).; questo è, come si suole dire, il vivere felice e bello (τὸ ξη̃ν ευδαιµόνως καὶ καλω̃ς)” (Polit. III, 9, 1280 b). Con il riferimento all’autarchia, all’essere integralmente realizzato e bastante a se stesso, il discorso sulla riforma burocratica si salda con il discorso sulla rilevanza assunta dal principio di sussidiarietà nell’esperienza giuridica. Con l’affermarsi, teorico e pratico, della “autoamministrazione” e della “contrattualizzazione” del pubblico impiego, che solo per un equivoco fuorviante possono essere considerate forme di “privatizzazione” poiché invero si tratta di modalità complementari di superamento dell’antitesi astratta “pubblico/privato”, si esce dalla logica dell’ordinamento giuridico costruito in base al principio di sovranità, che faceva leva sul presupposto di uno “stato di natura” ferino per l’incapacità del singolo uomo di vivere secondo delle regole, sulla stipulazione di un “contratto sociale” per il quale ogni uomo si annullerebbe come singolo identificandosi nel collettivo, e sulla consacrazione (secolarizzata) dell’apparato statale quale fonte unica e originaria dell’ordine e della moralità per la sua specifica funzione di “sussumere il particolare nell’universale”. “Auto amministrazione” e “contrattualizzazione” del pubblico impiego, infatti, 32 rappresentano, con altri, due modi di riportare “il più vicino possibile” al singolo uomo le decisioni istituzionali, politicogiuridiche, in termini radicalmente alternativi rispetto alla logica della sovranità statale. Ma proprio per questo non possono non andare di pari passo con il rinnovato riconoscimento dell’impegno di ciascun uomo di attuare la disposizione personale all’autodisciplina, quella appunto per la quale, giova ripeterlo, “quando la parte per natura migliore dell’anima ha il governo della peggiore, ecco che si usa l’espressione essere padrone di sé che suona lode: e quando, invece, per colpa di una cattiva educazione o di non buone compagnie, la parte migliore ma più debole è vinta dalla peggiore, più forte, ecco allora che si usa l’espressione essere schiavo di sé, che suona biasimo e rimprovero”. Non si può sostenere la funzione suppletiva ed ausiliaria, sussidiaria, dell’ente pubblico, della sua politica economica, del suo diritto, sancito mediante la legge espressione della volontà sovrana, della sua amministrazione se non si riconosce preventivamente che l’ordinamento politico, giuridico ed economico delle relazioni interpersonali comincia prima e indipendentemente dell’intervento statale. Se non ci si affida per l’ordinamento politico giuridico ed economico, prima che allo stato, alle innumerevoli società naturali o, come sarebbe più corretto dire, alle naturali forme dell’associazione interpersonale. Senza commenti, e a costo di risultare ripetitivo, tornerei conclusivamente al monito della Gaudium et spes. “Si guardino i governanti dall’ostacolare i gruppi familiari, sociali o culturali, i corpi o istituti intermedi, né li privino della loro legittima ed efficace azione, che al contrario devono volentieri e ordinatamente favorire. Si guardino i cittadini dall’attribuire troppo potere all’autorità pubblica, né chiedano inopportunamente ad essa eccessivi vantaggi, col rischio di diminuire così la responsabilità delle persone, delle famiglie, dei gruppi sociali”. A ciascuno trarne le necessarie conclusioni. Con vantaggio per la dignità personale del singolo uomo, sulla cui autonoma 33 responsabilità si riconosce fondato l’intero processo dell’ordinamento delle relazioni intersoggettive, a partire dalle comunità minori, definite dalla vicinanza familiare o corporativa, alla maggiore e più alta comunità, definita dall’elezione politica. Con vantaggio per la dignità istituzionale dello stato che, liberato da funzioni minori seppur necessarie della vita di relazione, può convenientemente far fronte al suo compito specifico di direzione, di sostegno e di controllo della vita civile; in tal modo recuperando il proprio naturale statuto di “società di società”. Con vantaggio, infine, anche per l’economia operativa della pubblica amministrazione che, recuperato il naturale statuto di strumento attuativo delle direttive politiche e di custode del patrimonio comune, ritrova lo spazio che le è proprio ed esclusivo nella vita della comunità. 34