Il problema della burocrazia alla luce del principio di sussidiarietà

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Il problema della burocrazia alla luce del principio di sussidiarietà
Scuole di Sussidiarietà
Francesco Gentile
IL PROBLEMA DELLA BUROCRAZIA
ALLA LUCE DEL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ
1.- Della sussidiarietà come principio generale dell’ordinamento
giuridico europeo. Che il principio di sussidiarietà si sia
prepotentemente imposto nell’esperienza giuridica europea
contemporanea, vale a dire nell’esperienza dell’ordinamento
giuridico delle relazioni intersoggettive in Europa, è un dato di fatto
incontrovertibile, da cui il giurista europeo oggi non può prescindere
quale che sia l’argomento egli intenda trattare.
Esso è stato formalmente istituzionalizzato, innanzi tutto, nel
“Preambolo” del Trattato dell’Unione Europea, dove le Alte Parti
contraenti si dichiarano formalmente “decise a portare avanti il
processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli
dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai
cittadini, conformemente al principio di sussidiarietà”. La
sottolineatura è nostra. L’impegno è poi ribadito nel Titolo I.
“Disposizioni comuni”, all’art. A, 2° comma, che recita: ”Il presente
trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di
un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le
decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini”. Anche
questa sottolineatura è nostra. Viene in tal modo stabilito il principio
generale del Diritto comune europeo, principio del tutto nuovo e per
certi aspetti “rivoluzionario”, della pluralità delle fonti normative,
almeno nel campo degli interventi pubblici in economia, sulla base
non di competenze astrattamente e convenzionalmente definite, cioè
sulla base di competenze puramente formali, ma in funzione
dell’adeguatezza effettiva e reale dell’intervento ai fini del
conseguimento dell’obiettivo fissato. In altri termini, la competenza
delle istituzioni pubbliche è determinata in ragione della loro reale
capacità di raggiungere gli obiettivi di rilevanza comune. Sicché
l’istituzione “minore”, nel senso di quella “più vicina al cittadino”,
risulta accreditata del titolo originario ed insindacabile dell’azione
giuridica finché questa risulta adeguata al raggiungimento
dell’obiettivo; in caso contrario, cioè nel caso della sua
inadeguatezza, per sussidiarietà, in modo ausiliario ed integrativo, è
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chiamata ad intervenire la “maggiore”, quella “più lontana dal
cittadino”, la cui competenza, quindi, è determinata dalla reale
capacità di conseguire l’obiettivo meglio di quanto non fosse nelle
possibilità della prima. (Tra parentesi, la stessa definizione delle
istituzioni, come “maggiori” o “minori”, in base al principio di
sussidiarietà, dipende non da parametri astratti o convenzionali, né
emotivi o ideologici, ma da quella che è testualmente definita come
“dimensione” e dagli “effetti” dell’intervento; qualcosa di molto
concreto, nel senso di sostanziale). Nel Titolo II. “Disposizioni
modificative del Trattato istitutivo della Comunità Economica
Europea in vista dello stabilimento della Comunità Europea”. Parte
prima, “Principi” all’art. 3/B, 2° comma, la cosa è precisata: ”Nei
settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità
interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella
misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere
realizzati dagli Stati Membri e possono, dunque, per le dimensioni o
degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a
livello comunitario”.
Va da sé notare, a questo punto, come ci si trovi agli antipodi del
formalismo giuridico proprio delle “geometrie legali”. E come il
principio di sussidiarietà, introducendo ratione materiae il criterio
della pluralità delle fonti normative incrini e al limite tenda ad
annullare il monopolio normativo che ha costituito lo zoccolo duro e
il nodo nevralgico del sistema giuridico costruitosi in base e intorno
al principio di sovranità. Ma qui cominciano i problemi, per i quali
si spiegano anche le difficoltà che il principio generale della
sussidiarietà ha incontrato operativamente, nonostante tutti i
proclami solenni del Trattato dell’Unione Europea.
Proprio per una prima risposta a questi problemi, col Trattato di
Amsterdam è stato aggiunto ai protocolli del Trattato istitutivo della
Comunità europea uno specifico “Protocollo sull’applicazione dei
principi di sussidiarietà e di proporzionalità”, nel quale sono ribaditi
gli impegni a “garantire che le decisioni siano prese il più possibile
vicino ai cittadini dell’Unione”. In esso viene precisato che
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“ciascun’istituzione assicura, nell’esercizio delle sue competenze, il
rispetto del principio della sussidiarietà”, ribadendo in tal modo la
natura generale del principio e la sua estensione a tutti i livelli
dell’esperienza giuridica comunitaria. E ancora che “l’applicazione
del principio di sussidiarietà avviene nel rispetto delle disposizioni
generali e degli obiettivi del trattato, con particolare riguardo al
completo mantenimento dell’acquis comunitario e dell’equilibrio
istituzionale”, significando in tal modo la volontà di “non ledere i
principi elaborati dalla Corte di giustizia relativamente al rapporto
tra diritto nazionale e diritto comunitario”. E infine è proposto un
primo chiarimento concettuale: “La sussidiarietà è un concetto
dinamico e dovrebbe essere applicata alla luce degli obiettivi
stabiliti nel trattato. Essa consente che l’azione della Comunità (…)
sia ampliata laddove le circostanze lo richiedano e, inversamente,
ristretta e sospesa laddove essa non sia più giustificata”. Come
sempre, il legislatore è più astratto e ingessato del giudice ma
nonostante questo il “legislatore comunitario” riesce a rendere il
senso profondo della modalità operativa del principio. Anche se
d’altri chiarimenti teorici si avverte ancora il bisogno.
Per concludere sulla rilevanza assunta dal principio di sussidiarietà
nell’esperienza giuridica europea contemporanea, nell’esperienza
cioè dell’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive in
Europa almeno tre considerazioni ci sembrano necessarie.
Prima considerazione. Taluno intende la sussidiarietà come una
formula burocratica di gestione del potere. Preferisco questa
definizione a quella, che riconosco tuttavia come prevalente tra i
cultori del Diritto pubblico, di “sussidiarietà verticale”. Tra questi
potremmo mettere quei negoziatori del Trattato di Maastricht che
pensavano di difendere, in tal modo, la sovranità del loro Stato nei
confronti dell’ingerenza dell’Unione Europea negli affari domestici.
Com’è a tutti noto, le disposizioni normative dell’Unione, già
peraltro quelle della Comunità Economica, sono immediatamente e
indifferentemente vincolanti negli Stati membri, tanto che i giudici
nazionali sono tenuti a farle valere anche in difformità della legge
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nazionale. Contra legem. Ora, stabilendo che l’azione comunitaria si
giustifica quando gli obiettivi prefissati non possono essere
sufficientemente realizzati con l’azione degli Stati nazionali, nel
quadro del loro sistema giuridico, mentre possono essere conseguiti
mediante quella comunitaria, i “commis d’Etat” hanno creduto di
difendere la sovranità degli stati nazionali, peraltro ormai
fortemente intaccata dalla globalizzazione mercantile e dalle
convenzioni internazionali, fronteggiando il crescente, e sempre più
capillare, potere dell’Unione. Insomma hanno preso la sussidiarietà
come strumento per mantenere la sovranità, o quello che resta della
sovranità, dello stato.
Ma tra costoro potremmo mettere anche quanti, politici, giuristi o
amministratori locali, sono impegnati ad ampliare il potere degli enti
locali minori (regioni, province, comuni) nei confronti di quello
dello stato nazionale, sulla base della constatazione ineccepibile del
cattivo funzionamento dell’amministrazione centrale del potere. Per
stare alla nostra esperienza, così come s’è andata costituendo con
l’organizzazione burocratica dell’Italia dopo il 1861. E facendo leva
sul convincimento elementare, scusate la grossolanità, che “l’occhio
del padrone ingrassa la bestia”. Per costoro, un più diretto controllo
dell’amministratore da parte degli amministrati è visto come una
garanzia di migliore amministrazione, più economica e insieme più
adeguata alle esigenze degli utenti dei servizi pubblici. Ecco come
leggono, e non si può negare una certa verosimiglianza nella lettura,
la disposizione del Trattato di Maastricht, per la quale è compito
delle istituzioni “garantire che le decisioni siano prese il più vicino
possibile ai cittadini, conformemente al principio di sussidiarietà”.
Come negare che il comune sia più vicino al cittadino della
provincia, e la provincia della regione, e la regione dello stato?
Sicché, per costoro, secondo il principio di sussidiarietà, si
tratterebbe di dislocare il centro di gestione del potere dallo stato
alle regioni, dalla regione alle province, dalla provincia ai comuni e
... perché no dal comune ai consigli di quartiere? La sussidiarietà,
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insomma, viene invocata come strumento per la moltiplicazione dei
centri di potere.
Ora, proprio il riferimento all’obiettivo di garantire che le decisioni
siano prese “il più vicino possibile ai cittadini” mette in luce la
povertà e insieme l’insufficienza di una concezione meramente
amministrativa della sussidiarietà. Perché non si può non
riconoscere come questa vicinanza non possa ridursi ad una
dimensione meramente burocratica, considerando altresì il fatto che
non è il “luogo”, più o meno vicino, in cui la decisione viene presa a
garantire di per sé che questa sia vicina, nel senso di opportuna,
conveniente, adeguata alle esigenze della comunità chiamata a darvi
attuazione.
In altri termini, si pone così il problema di riconoscere come la
sussidiarietà costituisca uno strumento politico per superare quella
lontananza del “paese legale” dal “paese reale”, per superare la
scissione tra “vita delle istituzioni” e “vita dei cittadini” che ogni
giorno di più ci appare come il segno dell’attuale crisi della vita
sociale. E qui il discorso deve cambiare di registro, perché non si
tratta più d’amministrazione, d’organizzazione e gestione del potere,
ma di politica, di definizione degli obiettivi o meglio del
riconoscimento dei beni aggreganti la comunità. Non si tratta
d’alchimia o di meccanica o d’ingegneria gestionale ma
d’orientamento, di riconoscimento, d’intelligenza del bene comune.
Del Bene cioè che accomuna una molteplicità di soggetti diversi
facendone, appunto, una comunità.
Seconda considerazione. Per intendere come il principio della
sussidiarietà costituisca lo strumento politico per riavvicinare la vita
delle istituzioni alla vita dei cittadini, il paese legale al paese reale,
quello che per lo più i cultori del Diritto pubblico individuano con la
formula della “sussidiarietà orizzontale”, è necessario riflettere sul
concetto di sussidiarietà così come si è andato definendo
nell’ambito suo originario, cioè nel pensiero sociale della Chiesa
Cattolica degli ultimi cent’anni, per il quale, sono parole del
Pontefice Pio XI, quello della sussidiarietà è principio
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importantissimo, gravissimum. L’assunto è elementare: “Come è
illecito togliere ai singoli ciò che essi possono compiere con le forze
e l’industria proprie, per affidarlo al collettivo, così è ingiusto
rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori
e inferiori si può fare. Perché la ragione naturale di qualsiasi
intervento nella società è di dare aiuto (subsidium donde
sussidiarietà) alle membra del corpo sociale non già distruggerle ed
assorbirle” (Quadragesimo anno, 1931). Ma già Leone XIII, nella
Rerum novarum del 1892, aveva fissato la questione icasticamente:
“Non è giusto che il cittadino, che la famiglia siano assorbiti dallo
stato: è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra tanta
indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e
gli altri diritti”. Nel più importante saggio recente, dedicato a L’Etat
subsidiaire. Ingérence et non-ingérence de l’Etat: le principe de
subsidiarité aux fondaments de l’histoire européenne (1992),
Chantal Million Delsol mette in evidenza peraltro come l’idea di
sussidiarietà abbia ispirato la filosofia politica europea sin dalle sue
origini aristoteliche.
Attirerei l’attenzione su due metafore, mediante le quali il magistero
del Papa rappresenta l’alternativa tra concezioni politiche. Quella
dell’assorbire, significativa di un’idea di politica come dominio,
come controllo, al limite, come riduzione del personale al tipico.
Quella dell’aiutare, significativa di un’idea di politica come
sostegno, come incremento, al limite, come integrazione, nel senso
di piena realizzazione del personale nel sociale.
Ora, la metafora dell’assorbire, con tutto quanto v’è implicito,
rappresenta efficacemente la concezione della politica e
dell’ordinamento giuridico canonizzati dalla Rivoluzione Francese e
dal Codice Civile di Napoleone, mediante la sovrapposizione della
volontà sovrana del collettivo sulla supposta inclinazione anarchica
degli individui. E quindi mediante l’assorbimento della persona
reale dei singoli nella persona virtuale dello Stato, come sola
condizione di vita ordinata in società.
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D’altra parte, la metafora dell’aiutare, con tutto quanto v’è
implicito, rappresenta efficacemente la concezione della politica e
dell’ordinamento giuridico della tradizione classica e cristiana
d’Europa, di cui nell’ultimo secolo il magistero del Papa si è fatto
promotore in prima persona attraverso la formula politica della
sussidiarietà. Teorizzando il carattere suppletivo e ausiliario
dell’intervento dello Stato, e in genere d’ogni istituzione pubblica,
nel regolamento delle relazioni interpersonali, le quali affondano le
radici, e quindi trovano il loro autentico fondamento, ben prima che
nelle leggi dello Stato, nelle consuetudini sociali, nel costume
domestico e tramite questi nella natura dell’uomo, nella sua
originaria autarchia.
A questo proposito debbo dire che condivido la considerazione
critica avanzata da Miguel Ayuso Torres a proposito del fatto che
“la Chiesa, dopo aver esplicitato e formulato il principio di
sussidiarietà, per difendere un certo ordine sociale rispetto ad un
interventismo statale oltranzista, per molto tempo non lo ha più
sviluppato nella sua integrità e nelle sue molteplici implicazioni”.
Tanto che a far riemergere la sussidiarietà da uno stato di sonno
sono stati proprio i laici redattori dei trattati di Maastricht e di
Amsterdam.
Terza considerazione. Nonché mera formula burocratica, la
sussidiarietà non è nemmeno solo un modello politico. Radicando
l’ordinamento giuridico nell’originaria autonomia dell’uomo, nella
sua natura, la sussidiarietà, o meglio con la sussidiarietà torna
prepotentemente in gioco il problema radicale dello statuto
personale dell’uomo, caratterizzato dalla sua attitudine ad essere
“padrone di se stesso, mettendo la parte migliore della sua anima
sulla peggiore”. Come hanno detto variamente ma nel medesimo
senso Platone e Aristotele, Cicerone e Sant’Agostino, San Tommaso
e Dante.
Ecco perché ciò di cui bisogna rendersi conto, quando si cita la
sussidiarietà, e di cui non sempre ci si rende conto, è che si tratta di
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un’alternativa radicale rispetto al modo corrente d’intendere sia
l’individuale sia il sociale.
La radicalità dell’alternativa risulta scoperta se si considera che la
richiesta di riportare “il più vicino possibile” ai singoli la decisione
istituzionale, politico-giuridica, non può non andare di pari passo
con l’impegno di ciascuno di attuare la disposizione personale
all’autodisciplina, per la quale, platonicamente ma concretamente,
“quando la parte per natura migliore dell’anima ha il governo della
peggiore, ecco che si usa l’espressione essere padrone di sé che
suona lode: e quando, invece, per colpa di una cattiva educazione o
di non buone compagnie, la parte migliore ma più debole è vinta
dalla peggiore, più forte, ecco allora che si usa l’espressione essere
schiavo di sé, che suona biasimo e rimprovero”.
Non si può, infatti, sostenere la funzione suppletiva ed ausiliaria,
sussidiaria, dell’ente pubblico, della sua politica economica, del suo
diritto, sancito mediante la legge espressione della volontà sovrana,
se non si riconosce preventivamente che l’ordinamento delle
relazioni interpersonali comincia prima e indipendentemente dalla
legislazione statale. E quindi, se non ci si affida, per l’ordinamento
politico, giuridico ed economico, prima che allo stato, alle
innumerevoli società naturali o, come sarebbe più corretto dire, alle
naturali forme dell’associazione interpersonale. A scanso d’equivoci
vorrei citare, senza commenti, un passo della Gaudium et spes del
Concilio Vaticano II: “Si guardino i governanti dall’ostacolare i
gruppi familiari, sociali o culturali, i corpi o istituti intermedi, né li
privino della loro legittima ed efficace azione, che al contrario
devono volentieri e ordinatamente favorire. Si guardino i cittadini
dall’attribuire troppo potere all’autorità pubblica, né chiedano
inopportunamente ad essa eccessivo vantaggi, col rischio di
diminuire così la responsabilità delle persone, delle famiglie, dei
gruppi sociali”. Ogni commento sarebbe superfluo.
Invero la potenza rigeneratrice del principio di sussidiarietà, se
autenticamente ed integralmente inteso, si misura in relazione ad
ogni problema politico-giuridico ed è appunto quanto ci
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proponiamo, oggi, di fare relativamente al problema della
burocrazia.
2.- Della burocrazia come “stato che si è fatto società civile”.
L’utilizzo della formula marxiana per definire il fenomeno della
“burocrazia” non significa condividerne immediatamente le
implicazioni bensì corrisponde alla necessità di ristabilire
filologicamente i termini della questione in vista della quale, per chi
non sia sprovvisto di una qualche dimestichezza con il molto, forse
il troppo, che è stato scritto in proposito, potrebbe bastare la
semplice citazione dalla fonte originaria, la Einleitung del saggio
Zur Kritik der hegelschen Rechtsphilosophie, apparso sugli
“Deutsch-Französische Jahrbücher”del 1844.
Che quello dell’amministrazione delle risorse disponibili sia
problema cardinale della convivenza umana è un dato
immediatamente evidente, che si accompagna ad ogni forma di
società dalla più semplice, come potrebbe essere la comunità
familiare, alla più complessa, come potrebbe essere la comunità
civile. Così come da sempre il problema amministrativo, in quanto
problema dell’organizzazione degli strumenti, deve misurarsi, nel
senso di confrontarsi senza confondersi, con il problema politico, in
quanto problema dell’orientamento al fine, in ogni forma di società
dalla più semplice alla più complessa. Ma quello burocratico non è
problema meramente amministrativo, né problema meramente
politico, essendo politico e amministrativo insieme, così come non è
problema generico della convivenza umana ma specifico di una
particolare concezione della società, quella definita dalla sovranità
statale, secondo i canoni della moderna “geometria politico-legale”.
Ecco perché, per intenderlo propriamente, è necessario collocarlo
nel momento cruciale della sua elaborazione, storica e teorica
insieme, là dove cioè esso è stato posto in termini elementari, nel
senso d’essenziali. Ed è per questo che è utile, certamente opportuno
e forse necessario, muovere da una considerazione critica delle
lezioni hegeliane sul diritto statale interno, a partire
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dall’affermazione perentoria, per l’esattezza al § 129, che “il
concetto di Stato è l’universale come tale”.
Venendo a specificare l’assunto, al § 131, Hegel scrive: “Nel
concetto di Stato sono contenuti tre momenti: 1.- la volontà
universale, razionale, in parte come costituzione e leggi
costituzionali, in parte come leggi in senso proprio: la costituzione
stessa ed il potere legislativo, 2.- la particolarizzazione della volontà
universale, i. e. la sussunzione del particolare sotto di essa come
deliberazione e riflessione, in parte elevando il particolare alla
forma dell’universalità e preparandolo per la medesima, in parte
applicando l’universale al singolo: il potere governativo, 3.- la
riflessione dell’intero in sé, la volontà individuale come decisione
ultima e comando: il potere del principe”. Il testo hegeliano non è di
facile lettura, ma lascia intravedere inequivocabilmente quelli che si
possono considerare gli elementi portanti della concezione dello
stato come “universale”, ossia il sovrano, “la soggettività dell’intero
per mezzo della quale l’intero diventa un soggetto, questo culmine
estremo della piramide”, la costituzione, “l’universale in quanto
universale essente in sé e per sé è la costituzione e l’universale in
relazione al particolare è la legge”, ed il governo, “l’applicazione
dell’universale al particolare e l’elevarsi del particolare
all’universale”. Rispetto alla teorica dello stato moderno, alla teoria
cioè “di quel gran Leviatano”, per cui, con parole di Hobbes, “una
moltitudine è unita in una sola persona” ed alla teoria della legge
come “voce celeste” che, per usare parole di Rousseau, “detta a
ciascun cittadino i precetti della ragione pubblica ed insegna ad
agire secondo le massime del suo giudizio”, sinteticamente riassunte
nell’indicazione della monarchia costituzionale come “forma
suprema del popolo che si è sviluppato a società civile” (§ 137), il
contributo più innovativo e insieme più radicale, offerto da Hegel, è
quello dell’identificazione del potere governativo, il terzo elemento
portante dello “stato come universale”, nel “ceto dei funzionari” che
viene indifferentemente chiamato “ceto medio” e “ceto universale”
in quanto, come si legge nel § 145, “costituisce la coscienza della
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libertà e del diritto del popolo” poiché “gli individui in esso accolti
pongono l’interesse della loro esistenza ed attività, spirituale e
materiale, nel rapporto di dedizione al servizio dello Stato, e
l’ufficio in cui entrano è un ramo degli affari generali, autorizzato
dalla Costituzione”.
Senza utilizzare la parola, e potrebbe essere interessante chiedersene
il perché considerato che essa era già stata usata a metà del XVIII
Secolo dall’economista francese, vicino alla Fisiocrazia, Vincent de
Gournay, Hegel ha delineato quelli che possono essere considerati
come i tratti caratteristici della burocrazia, il formalismo, la
gerarchia, la separazione radicale del pubblico e del privato, la
professionalità, lo stipendio fisso, la scrittura documentale, sulla
trattazione dei quali poi si sarebbero diffusi tutti quanti, giuristi e
sociologi, vi hanno dedicato specificamente il loro studio, da Marx a
Weber, da Michels a Crozier. Celebrandone in qualche modo la
grandezza, con la canonizzazione della centralità del ruolo ad essa
spettante nella vita dello stato, “così i funzionari vengono costretti
ad essere veri funzionari statali, i. e. ad essere sia funzionari della
cittadinanza, sia funzionari del principe”, ed il panegirico della
funzione esercitata, “in essa risiedono l’intelligenza e la coscienza
giuridica colta di un popolo”. Ma anche anticipandone la potenziale
involuzione. “Quando la paga costituisce la cosa principale e solo in
questa il funzionario trova la sua esistenza e quella della sua
famiglia, è facile che egli consideri il suo posto come qualcosa di
esistente per lui, non veda che è lì per i cittadini, e creda di avere
doveri solo nei confronti del superiore che lo può promuovere. (…)
Se questo ceto non ha l’interesse dei cittadini, esso diventa simile ad
una rete gettata sui cittadini per opprimerli, poiché in particolare
l’intero ceto, avendo un interesse, costituisce un tutto”.
Chi abbia presenti queste acute, e premonitrici, considerazioni del
massimo teorico della “forma Stato”, non potrà non riconoscere
quanto sia ingannevole ridurre il problema della burocrazia al
problema tecnico del funzionamento della macchina statale e più
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precisamente a problema dell’elefantiasi delle funzioni
amministrative.
Che l’incremento dei servizi cui lo stato moderno deve provvedere,
da quando è divenuto una specie di “compagnia di assicurazione”
per ogni rischio derivante dalla convivenza degli individui, implichi
l’aumento esponenziale del numero degli amministratori pubblici, è
un dato di fatto incontrovertibile. Così com’è innegabile che la
presenza di pubblici amministratori, tanto numerosi e capillarmente
diffusi nel corpo sociale, possa esercitare una sorta di
condizionamento, se non di dominio, sulla comunità degli assicurati.
Ma si tratta d’inconvenienti di carattere operativo, inerenti ad ogni
tipo d’organizzazione, cui far fronte operativamente, riportando le
pretese settoriali e particolari all’interno del sistema definito dagli
scopi unitari e generali dell’organizzazione stessa. Il fatto è che,
nella prospettiva delle “geometrie politico-legali” moderne,
sinteticamente riassunta dalla teoria del diritto statale interno di
Hegel, quello degli amministratori pubblici si presenta come un
ceto, per di più definito “medio” e “universale”, e in quanto tale
costituisce un pilastro politico, con il sovrano e la costituzione, della
“forma Stato”. In realtà, la burocrazia, nella prospettiva delle
“geometrie politico-legali” moderne è un soggetto politico se non il
principale soggetto politico. Benché coperto o forse tale proprio
perché coperto. D’altronde, l’etimologia del termine, se
correttamente intesa, lo ha sempre significato senza infingimenti,
collegando ambiguamente il francese “bureau”, che indica l’ufficio
in cui si pratica la gestione degli strumenti propria
dell’amministrazione, al greco κράτος, che indica la funzione
d’indirizzo politico propria del governo.
Un grande equivoco si nasconde nel termine, e nel concetto, di
burocrazia, l’equivoco derivante dalla confusione tra governo
politico e pubblica amministrazione ossia la confusione tra quello
che è il rapporto amministrativo, per il quale un insieme di persone
e di cose, equiparate nella funzione strumentale, viene organizzato
in vista di un fine predeterminato, e il rapporto politico che
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costituisce la comunità orientandola al suo fine proprio, quale
emerge dalla considerazione dialettica di ciò per cui ogni suo
membro è se stesso, e quindi è diverso dagli altri, ma anche di ciò
per cui ciascuno è membro della comunità, e quindi unito agli altri
costituisce un insieme. Invero, se si confonde il governo politico con
l’amministrazione pubblica o peggio, com’è nel caso della
burocrazia, se si assume l’amministrazione pubblica a soggetto del
governo politico, non c’è forma di esercizio del potere che non sia
dispotica, nel senso aristotelico del termine, poiché per essa tra chi
comanda e chi obbedisce s’instaura il rapporto che c’è tra il libero e
lo schiavo, tra il soggetto e l’oggetto di dominio, tra il fine e lo
strumento dell’azione.
Come si sia giunti a questo è la costruzione geometrica della
moderna teoria dello stato a dirlo. Con la presupposizione dell’uomo
dello stato di natura, “tutto per sé (…) unità numerica (…) intero
assoluto che non ha rapporto altro che con se stesso (…) i cui
desideri non eccedono i bisogni fisici (…) la cui anima, che nulla
agita, si abbandona al puro sentimento dell’esistenza attuale”
(Rousseau). Per esso “bene e male sono nomi e non significano se
non appetiti e avversioni che nei differenti e diversi soggetti
differiscono per il loro giudizio, al cui senso una cosa o l’altra è
piacevole o spiacevole per il gusto, l’odorato, l’udito, il tatto e la
vista (…), ché anzi lo stesso soggetto, in tempi diversi, differisce da
se stesso, e in un tempo loda, cioè chiama buono, quello che in altro
tempo disprezza, e chiama cattivo: onde sorgono dispute, liti e, alla
fine, guerra” (Hobbes). Poi con la stipula del contratto sociale, che
“consiste nell’investire di tutto il proprio potere e di tutta la propria
forza un uomo o un’assemblea d’uomini che sia in grado di ridurre
tutte le varie opinioni, per mezzo della pluralità dei voti, ad una sola
volontà; il che è come dire di dare incarico ad un uomo od a
un’assemblea d’uomini di rappresentare la persona dei singoli
cittadini e riconoscersi, ciascuno per quanto riguarda se stesso,
come l’autore di qualsiasi cosa che colui che è stato eletto a
rappresentarli farà, o farà in modo che sia fatta, in quelle cose che
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conservano la pace e la sicurezza comune, ed in questo, ridurre le
proprie volontà alla volontà di lui, ed i loro giudizi al suo giudizio”
(Hobbes). E in fine con la consacrazione del sovrano statale come
“un che d’universale in quanto universale” (Hegel) per il quale
ancor oggi conviene l’immagine usata dai primi “geometri del
diritto e dello stato”, sulla base della scienza anatomica dugentesca:
l’immagine suggestiva del “cuore (…) che regola e misura con la
sua influenza o azione le altre parti del corpo in modo tale da non
essere mai regolato da esse e da non riceverne alcun’influenza”
(Marsilio). Che la scienza anatomica più evoluta abbia poi mutato
d’avviso, poco importa. Per l’acquisita paradossalità, l’esempio del
cuore risulta oggi ancor più stringente e significativo, predicando in
maniera inequivocabile la totale dipendenza dei singoli cittadini, in
quanto parte del corpo sociale, dallo stato, che ne costituisce il solo
ed autentico principio.
A muovere da questi canoni teorici una deriva burocratica e
totalitaria era in pratica inevitabile.
Posto che “il passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce
nell’uomo un cambiamento radicale, sostituendo nella sua condotta
la giustizia all’istinto e dando alle sue azioni la moralità di cui prima
erano prive”, posto che con quel passaggio “di un animale stupido e
limitato si è fatto un essere intelligente e un uomo”, una volta
costituitosi il corpo sociale nella “forma Stato”, era necessario
cercarne la leva motrice o, se si vuole, l’anima politica il più lontano
possibile da tutto quanto poteva ancora sapere dell’animale stupido
e limitato dello stato di natura, dell’individuo istintivo ed amorale,
e, per il gioco degli opposti, era inevitabile pervenire ad individuarla
in un collettivo, in un ceto “medio” e “universale”, la cui
intelligenza e moralità fossero garantite proprio dalla distanza che
esso sapeva porre tra sé e tutto quanto poteva aver a che fare con
l’individuale, o il personale, come sarebbe più esatto dire. Hegel
bene evidenzia la cosa, quando afferma che “gli individui in esso
accolti pongono l’interesse della loro esistenza ed attività, spirituale
e materiale, nel rapporto di totale dedizione al servizio dello Stato”.
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Ma tutti i tratti caratteristici della burocrazia stanno a significarlo,
dal più epidermico al più profondo. L’assunzione per concorso
pubblico, che elimina ogni considerazione delle specifiche attitudini
personali. La stabilità del posto e lo stipendio fisso, che rendono
indipendente la retribuzione dal rendimento della prestazione
personale. L’incompatibilità tra l’esercizio di una funzione pubblica
e quello di una professione privata. Soprattutto l’ufficialità della
funzione, perfettamente rappresentata dalla formula hegeliana: “La
nomina ad un posto spetta al potere del principe, il singolo soggetto
è per esso un che d’accidentale”. Donde la gerarchia delle funzioni,
che implica un sistema di dominio e di subordinazione, e
l’inamovibilità dall’ufficio, che porta all’identificazione della
persona, quel “che d’accidentale”, con la funzione, il “che
d’universale”.
E d’altronde, quale altra possibilità era data all’animale stupido e
limitato dello stato di natura, all’individuo istintivo ed amorale
quale pur sempre è in partenza anche quel poveruomo che diverrà
funzionario pubblico, di “elevarsi dal particolare all’universale” se
non quella d’essere “sussunto nell’universale” mediante
l’assorbimento nel ceto e l’identificazione col collettivo? Tutto
questo spiega anche, benché non lo giustifichi, perché la tendenza
alla burocratizzazione, fenomeno come abbiamo visto connesso
inscindibilmente alla concezione geometrica della comunità politica
e specificamente alla “forma Stato”, si sia progressivamente estesa
ad ogni tipo d’aggregazione sociale. Dal partito, dove la cosa è più
immediatamente spiegabile per la contiguità con gli affari pubblici,
al sindacato, dove il più immediato collegamento ai problemi
quotidiani della sopravvivenza personale avrebbe dovuto esercitare
una sorta d’antidoto, ma in genere ad ogni tipo di corporazione. Con
quali esiti, è sotto gli occhi di tutti.
Venendo alla deriva totalitaria della burocrazia, ben più subdola di
quella teorizzata in passato da opposti angoli ideologici perché in
pratica strisciante sotto le più diverse bandiere, potrebbe bastare la
citazione di un testo insospettabile: affatto distante dalle basse
16
diatribe sullo stato moderno, non fosse altro perché lontano di
secoli, ma anche veramente lucido nella sua logicità elementare. Mi
riferisco a quello che molti politologi considerano come
l’antesignano del moderno stato democratico, a Marsilio da Padova,
a cui si deve la celebre definizione: “La città, o Stato (la maiuscola è
proprio di Marsilio), non è una per qualche sua forma naturale (…)
Roma, Magonza e le altre comunità sono infatti uno Stato o impero
numericamente uno, solo perché ciascuna di esse è ordinata per la
sua volontà a un governo numericamente uno (…). Gli uomini di
una città, o provincia, sono chiamati una città, o Stato, perché
vogliono un governo numericamente uno”. Orbene, definita in modo
lineare la “forma Stato”, Marsilio si deve confrontare con il più
complesso problema della condizione del singolo all’interno di essa
e non può non riconoscere che “gli uomini non sono numericamente
una parte dello Stato per la stessa ragione onde sono uno Stato, o
una città, numericamente una. Poiché anche se essi vogliono un
governo numericamente uno, e per questo appunto vengono detti
una città o Stato, vengono riferiti a questo governo numericamente
uno mediante una diversa istituzione attiva e passiva che è poi
soltanto il diverso comando impartito loro dal governante. Ed è
appunto mediante questo diverso comando che vengono destinati a
diversi uffici. Proprio per la differenza di questo comando, essi
costituiscono formalmente le parti e gli uffici diversi dello Stato”. In
altri termini, una volta costituitasi la “città, o Stato”, i singoli che
con il voto lo hanno posto in essere, ne divengono parte solo per la
sua volontà, il che significa che in quando cittadini da esso
dipendono come dalla propria “causa efficiente” e ad esso debbono
la “propria essenza o differenza”. Per riuscire in proposito più
efficace, Marsilio avanza un parallelo sconcertante, e
incomprensibile se non vi si colgono i tratti dell’incipiente
secolarizzazione, confrontando il rapporto fra i singoli privati e la
persona pubblica con il rapporto fra gli enti e l’Essere. “Gli enti –
scrive sempre nel Defensor Pacis – costituiscono un mondo
numericamente uno in funzione dell’unità numerica dell’Essere
17
primo, perché ogni ente è naturalmente inclinato verso l’Essere
primo e ne dipende. Il predicato, per cui diciamo che gli enti tutti
costituiscono un mondo numericamente uno, non è il predicato
formale di una certa unità numerica presente in tutti gli enti o di un
certo concetto universale di unità, ma piuttosto il predicato di una
molteplicità di cose che noi diciamo una perché ordinata in funzione
di e da un ordinatore”. Anche in questo caso la chiarezza del testo
dispensa da ogni commento: basta sottolineare le due preposizioni
in funzione di e da per rilevare l’inevitabile esito totalitario di una
concezione burocratica dell’ordinamento politico. Se infatti la
molteplicità dei singoli componenti il corpo sociale può dirsi una
comunità solo “perché ordinata in funzione di e da un ordinatore”,
nel caso in funzione della e dalla volontà sovrana, è inevitabile che
ciascuno di essi dipenda totalmente dallo Stato (per il quale non si
potrà usare se non la lettera maiuscola riservata alla Divinità) come
dalla propria “causa efficiente” e allo Stato debba la “propria
essenza o differenza”, totalitariamente. Rousseau, con l’acume
psicologico che contraddistingue il suo genio, scriverà: “Colui che
osa prendere l’iniziativa di fondare una nazione (che qui sta per
Stato) deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura
umana; deve essere capace di trasformare ogni individuo, che in se
stesso è un tutto perfetto e isolato, in una parte di un tutto più
grande, da cui quest’individuo riceva in qualche modo la vita e
l’essere (…). Bisogna insomma che egli tolga all’uomo le forze che
gli sono proprie, per dargliene altre che siano estranee e di cui non
possa fare uso senza gli altri. Quanto più le forze naturali sono
morte e annullate, quanto più quelle acquisite sono grandi e
durature, tanto più l’istituzione è solida e perfetta. Così, quando
ogni cittadino è niente e niente può se non per mezzo di tutti e
quando la forza acquisita dal tutto è uguale o superiore alla somma
delle forze degli individui, si può dire che l’ordinamento ha
raggiunto il massimo grado di perfezione”.
18
3.- Come la sussidiarietà fronteggia la burocrazia. “Il problema
politico della burocrazia è uno dei più gravi tra quelli che si
presentano agli Stati moderni”. Con questa perentoria affermazione
Roberto Lucifredi, maestro insigne di diritto amministrativo, apre la
voce “burocrazia” nel Novissimo Digesto Italiano delle edizioni
UTET. Con analoga preoccupazione si chiude la voce “burocrazia”
nell’Enciclopedia delle edizioni Einaudi, curata in prospettiva
sociologica da Janina Zakrozewska, che annota come siano divenuti
eccessivi, al limite dell’insopportabilità, i costi di funzionamento
dell’apparato statale, “sia per quanto concerne l’organizzazione del
lavoro (problema di rendimento) sia per quel che riguarda
l’organizzazione della società (problema della partecipazione
effettiva)”.
Non è per pigrizia che abbiamo scelto di muovere dalla lettura di
alcune voci d’enciclopedia ma perché, a leggervi tra le righe, si
scopre un paradossale motivo conduttore comune, degno
d’attenzione e stimolante più delle diverse notazioni particolari, pur
di per sé interessanti e suggestive. Trattando della burocrazia, i
diversi autori affrontano, com’è naturale, in modo diverso il
problema dell’organizzazione statale ma ben presto si trovano tutti
invischiati sulla medesima questione, quella generalmente definita
della “riforma burocratica”. Anche quanti non ritengono che il
fenomeno burocratico debba essere giudicato in modo
assolutamente negativo, “poiché alcuni dei suoi elementi possono
servire a proteggere i diritti dell’individuo, in particolare quando
l’attività dell’apparato burocratico è fondata esclusivamente sulla
legge”, al dunque devono riconoscere che il problema attuale e
imprescindibile della burocrazia è quello della sua riforma.
Paradossalmente, a leggere quello che si scrive, sembra che la
definizione della burocrazia coincida con la sua riforma. Da questo
punto di vista emblematica è la voce “burocrazia” dell’Enciclopedia
del Diritto delle edizioni Giuffré, curata da Marcello Amendola, il
quale, dopo avere acutamente distinto un significato oggettivo da
uno soggettivo del termine, s’impegna nell’approfondimento del
19
primo, l’oggettivo, prospettando le diverse fasi legislative, e non
solo, della riforma dell’amministrazione in Italia a partire dalla
comparsa, nel 1950, fra i membri del Consiglio dei ministri, di un
ministro segretario di stato incaricato della riforma
dell’amministrazione “i cui compiti non sono limitati
all’elaborazione delle norme relative allo stato giuridico dei pubblici
dipendenti ed alla loro applicazione ma anche allo studio della
migliore ripartizione delle attribuzioni degli organi dello Stato, della
razionalizzazione delle procedure, della semplificazione e
chiarificazione della legislazione amministrativa e, in genere,
dell’introduzione e dell’estensione della tecnica organizzativa nelle
pubbliche amministrazioni”. Per poi affrontare l’approfondimento
del secondo significato, quello soggettivo, mediante uno studio
analitico sul numero, il rendimento, la selezione e la preparazione
professionale dei dipendenti statali. Se poi si pensa, rimanendo
all’esperienza giuridica italiana, che dal lontano 1950 la riforma
dell’amministrazione si è vista destinata sempre, o quasi, un
ministero, magari senza portafoglio ma sovente con chiarissimi
titolari come un Massimo Severo Giannini o un Sabino Cassese,
senza che se ne siano sciolti in maniera risolutiva i nodi, la cosa
risulta ancor più singolare e sconcertante.
D’altra parte, sarebbe sbagliato e insieme fuorviante sostenere che
in questo lasso semisecolare di tempo non siano intervenute delle
importanti riforme dell’apparato amministrativo. Sennonché il
carattere episodico e spesso meramente congiunturale dei singoli
interventi, o se si vuole usare un gergo militaresco la loro mancanza
di prospettiva strategica, ne ha compromesso, anche là dove c’era,
l’autentica potenzialità riformatrice. Il fatto è che, com’è stato
opportunamente osservato, l’organizzazione burocratica può essere
studiata da più punti di vista “ma per capirla bisogna considerarla
sia dal punto di vista della teoria dell’organizzazione sia da quello
della politica. E questo non soltanto in considerazione di certe
tendenze convergenti, analogie o disfunzioni burocratiche che si
osservano in sistemi d’organizzazione diversi, ma soprattutto in
20
considerazione delle condizioni sociali che in ultima analisi
decidono di tutto questo. La burocrazia, infatti, è in primo luogo un
fenomeno del potere, e solo in seconda istanza dell’organizzazione”.
Se si ha ben presente questo, al di là della pochezza singolare e
sconcertante dei risultati immediati, si scopre che è possibile
riconoscere in atto seppure incerta, contrastata e in fase embrionale
una vera riforma della burocrazia. Ed è possibile riconoscerne i tratti
essenziali se ci si colloca nella prospettiva aperta dall’inopinato
affermarsi nell’esperienza giuridica europea del principio di
sussidiarietà, cosa peraltro anche cronologicamente verificabile, se
si nota, come non si può non notare, che il processo di riforma della
burocrazia in Italia ha subito un’accelerazione significativa proprio
dal momento in cui sotto la pressione delle “carte europee”, con la
Legge n. 439 del 1989, si è introdotto nell’ordinamento giuridico
nazionale il principio che “l’esercizio delle responsabilità pubbliche
deve, in linea di massima, incombere di preferenza alle autorità più
vicine ai cittadini”.
Per prospettare questo processo, sotterraneo e sommerso ma
irresistibile, che ha avuto un passaggio chiave nella Legge 142 del
1990, la prima legge generale che in attuazione dell’enunciato
costituzionale dell’art. 128 Cost. ha dettato i principi informatori
dell’ordinamento delle autonomie locali, può essere opportuno e
forse utile fissare l’attenzione su due momenti indicativi. L’uno
segnato dalla Legge n. 241 del 1990 che ha avviato il processo di
semplificazione dell’azione amministrativa al fine di pervenire
congiuntamente all’attuazione del principio costituzionale di buon
andamento dell’amministrazione ed al miglioramento dei rapporti
tra cittadini e pubblica amministrazione. L’altro segnato dal Decreto
legislativo n. 29 del 1993 recante “Norme in materia di
razionalizzazione dell’organizzazione amministrativa e revisione
della disciplina del pubblico impiego”, con cui si è realizzata una
vera e propria rivoluzione culturale oltre e prima che giuridica,
successivamente rivisitato dai Decreti legislativi n. 396 del 1997, n.
80 del 1998 e via via sino al n. 165 del 2001. Due momenti
21
significativi che nell’immaginario collettivo si sono presentati e
ancora si rappresentano in modo ambiguo, tale da ingenerare
pericolosi equivoci, sotto la categoria disorientante della
“privatizzazione”. Ed è proprio per evitare i tranelli impliciti in
questa formula che muoveremo dalle acute e incisive considerazioni
fatte da quel fine teorico generale del diritto che è Lucio Franzese,
in particolare negli studi “oltre privato e pubblico” per il ritorno ad
un diritto unitario, e senza dimenticare ciò che abbiamo più sopra
riconosciuto vale a dire che il principio di sussidiarietà non è solo
una brillante formula procedurale per l’organizzazione
amministrativa dell’apparato statale ma corrisponde ad un preciso e
ben definito modello politico sostanziale e soprattutto si radica in
una concezione classica dello statuto personale dell’uomo.
In generale, riflettendo sugli interventi legislativi cui abbiamo fatto
riferimento, è possibile trovarvi un unico motivo conduttore nella
ricerca di configurare un nuovo rapporto tra cittadino e pubblica
amministrazione, specificamente in relazione allo svolgimento
dell’attività amministrativa, caratterizzato dalla parità e dalla
simmetria. Per misurarne il potenziale innovativo basta ricordare
come in precedenza l’attività amministrativa fosse considerata
prerogativa esclusiva della pubblica amministrazione, come
l’interesse pubblico s’identificasse con la manifestazione della
volontà sovrana, come il provvedimento amministrativo, atto
unilaterale, autoritativo ed esecutorio del soggetto pubblico,
costituisse il modo ordinario e fondamentalmente unico per la cura
degli interessi della comunità. In questa prospettiva il singolo
cittadino non poteva trovarsi se non in una condizione di passività:
mero destinatario di un’attività perfezionatasi per volontà sovrana
dei pubblici funzionari, senza diritto proprio e al più portatore di un
interesse legittimo, quando, per caso, avesse potuto eccepire
l’invalidità del procedimento perché in contrasto con il disposto
normativo. Nel rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione
insomma si riflettevano la disparità e l’asimmetria che abbiamo
visto caratterizzare il rapporto prefigurato dai geometri del diritto e
22
dello stato tra “l’animale stupido e limitato”, che sarebbe il singolo
uomo dello stato di natura , e il “ceto universale”, che è l’apparato
burocratico dello stato.
Per rappresentare icasticamente la situazione Franzese propone di
considerare che cosa accadeva “quando un soggetto si rivolgeva alla
pubblica amministrazione per ottenere, ad esempio, l’autorizzazione
all’esercizio di un’attività commerciale. L’istanza metteva in moto
un procedimento che poteva concludersi con il rilascio del
provvedimento richiesto ovvero con il suo diniego. In entrambi i
casi, la segretezza connotava lo sviluppo procedimentale. La
pubblica amministrazione istruiva la pratica come fosse un affare
proprio, nel senso che era essa ad individuare unilateralmente quali
erano gli interessi che andavano valutati in vista della scelta finale.
All’interessato, e agli eventuali contro-interessati all’emanazione
dell’atto, non era consentito se non d’impugnare la decisione
dell’amministrazione per far valere, con un ricorso amministrativo o
giurisdizionale, le proprie doglianze in ordine alla legittimità e/o al
merito della decisione assunta. Con la legge n. 241 del 1990, che ha
disciplinato in generale il procedimento amministrativo, la
situazione è radicalmente cambiata. L’avvio del procedimento, sia
esso d’ufficio o su istanza di parte, deve essere portato a conoscenza
dei soggetti interessati, cioè di coloro nella cui sfera giuridica si
produrranno gli effetti finali della procedura. Essi sono così posti in
condizione di poter contribuire all’elaborazione della decisione
conclusiva del procedimento. La partecipazione procedimentale non
è, infatti, meramente coreografica, in quanto i cittadini, parzialmente
coinvolti dal procedimento che l’amministrazione va ad adottare,
sono legittimati a rappresentare gli interessi, alla luce dei quali si
forma la determinazione amministrativa. Per tal modo, l’interesse
pubblico non si riduce più alla volontà del soggetto pubblico, ma
scaturisce dal contraddittorio instauratosi tra l’amministrazione
agente e i cittadini che hanno preso parte al procedimento. L’attività
amministrativa viene esercitata sulla scorta dei risultati del
confronto tra la posizione dell’amministrazione e quella dei cittadini
23
coinvolti dall’esercizio del potere. Sicché essi partecipano alla
traduzione dell’indirizzo politico, degli obiettivi ritenuti cioè
essenziali per il buon vivere dagli organi di governo della comunità,
nelle concrete scelte gestionali di attuazione”.
Si prospettano in queste considerazioni due aspetti del problema che
ci preme evidenziare puntualmente.
Va innanzi tutto notata l’evoluzione prodottasi, in seguito
all’intervento delle nuove disposizioni normative, nella gestione
degli affari pubblici. A livello operativo il cittadino, che era escluso
da ogni partecipazione attiva e che doveva subire, ignaro e senza
voce in capitolo, l’attività del soggetto pubblico si ritrova
“coamministratore”, per usare un’espressione felicissima utilizzata
da Feliciano Benvenuti a significare l’affermarsi del cittadino come
protagonista, insieme con il ceto dei pubblici funzionari, nel
processo di determinazione dell’interesse pubblico. Da questo punto
vista tutto il capo III della legge 241/90 andrebbe analizzato, ma a
mero titolo d’esempio indicativo può essere ricordato l’art. 11, come
poi modificato dalla Legge 273 del 1995, per il quale il
procedimento amministrativo può culminare in un “accordo” tra
pubblica amministrazione e cittadino: “accordo procedimentale” se
concluso al fine di determinare il contenuto del provvedimento che
poi la pubblica amministrazione prenderà; ma anche “accordo
sostitutivo” se stipulato in sostituzione dello stesso provvedimento
amministrativo. Che cosa implichi tutto questo è presto detto: il
riconoscimento della capacità del cittadino a contribuire
direttamente e responsabilmente alla gestione amministrativa rei
publicae. Il preconcetto della stupidità e della limitatezza dell’uomo
dello stato di natura così si dissolve, rivelandosi per quello che era
davvero: un preconcetto, appunto, privo di fondamento e di
razionalità se non nell’ottica giustificatrice del potere di fatto, che
ha dominato le geometrie politico-giuridiche moderne. Così
soprattutto si dissolve l’impostura della “sussunzione del particolare
sotto l’universale” attuatasi mediante la burocratizzazione delle
relazioni sociali. Avremmo fatto un torto al grande Hegel se
24
avessimo taciuto delle critiche mosse, con gli elogi, al ceto “medio”
quando, perduto di vista l’universale, esso “diventa simile ad una
rete gettata sui cittadini per opprimerli”; d’altronde il filosofo era
troppo attento all’esperienza per non rendersi conto che il problema
della “sussunzione del particolare sotto l’universale” si poneva
anche, e forse prima, all’interno stesso del ceto dei funzionari, posto
che questi non sono fatti di pasta diversa da quella del poveruomo
che, con i loro provvedimenti, autorizzazioni o abilitazioni,
concessioni o ammissioni, sollevano alla condizione nobile di
cittadino. Ma avremmo fatto un torto all’intelligenza del lettore dei
testi hegeliani se avessimo taciuto dell’incidenza che la
teorizzazione hegeliana della burocrazia ha esercitato sul regime del
rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione nell’ambito dello
stato moderno.
Il senso profondo della riforma introdotta dalle leggi cui ci si
riferisce sta appunto nel ripudio di quella matrice ideologica che
implica, prima della modificazione delle procedure, il mutamento di
una mentalità radicatasi da duecento anni, dal tempo del
giacobinismo giuridico imperante nella Rivoluzione Francese e
della sua istituzionalizzazione nel Regime Napoleonico. Ne sono
prova, seppure a contrario, le opposizioni e le resistenze che questa
riforma, seppur parziale sommessa ed embrionale, incontra, sia da
parte della pubblica amministrazione sia da parte dei cittadini; da
parte di quella, perché si vede sottratta l’esclusiva della cura
dell’interesse generale, dovendone condividere l’esercizio con i
cittadini; da parte di questi, che perdono la comoda posizione di
amministrati e si vedono costretti ad assumere la più onerosa
responsabilità di coamministratori. Anche a questo proposito uno
studio analitico delle disposizioni, per evidenziarne lacune e
incongruenze, sarebbe necessario, ma per intendersi può bastare il
richiamo della clamorosa distorsione verificatasi nell’applicazione
della “denuncia in luogo di autorizzazione”, prevista dall’art. 19
della Legge 241/90 e quindi ridefinita nell’art. 2 della Legge 537/93.
25
“Previsto come strumento di semplificazione amministrativa
mediante l’autoamministrazione dei cittadini – annota Franzese –
nel senso che il singolo è legittimato ad iniziare un’attività
dichiarando all’amministrazione di essere in possesso dei requisiti di
legge per il suo esercizio, senza dover attendere il previo assenso del
soggetto pubblico che si limiterà ad accertare la veridicità della
dichiarazione del privato, l’istituto ha trovato applicazione solo da
parte dei furbi. Ad esso hanno fatto ricorso, infatti, coloro che, pur
sapendo di non avere i requisiti prescritti e di non poter
intraprendere un’attività a seguito della semplice denuncia del suo
inizio, confidano nell’incapacità dell’amministrazione di effettuare
entro il termine previsto dalla legge il controllo sulla dichiarazione
resa. Per contro, la denuncia è scarsamente utilizzata da quanti ne
sarebbero titolati, perché da un lato il singolo, di fronte alla congerie
legislativa che avviluppa la vita quotidiana, non è sempre certo di
aver individuato le disposizioni corrispondenti alla propria
situazione concreta, dall’altro, e questo è quanto ci preme qui
sottolineare, il cittadino preferisce permanere nella condizione di
postulante delle istituzioni, senza assumere le responsabilità che
derivano dallo status di autoamministratore”. Che la vita
“all’ombra” della sovranità presenti dei vantaggi non deve far
perdere di vista i costi, in termini di umanità, che per essa si sono
pagati e si pagano. Ecco perché il senso profondo di questa riforma
del rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino è
autenticamente decifrabile solo se la s’intende alla luce del principio
di sussidiarietà, per il quale si può sostenere la funzione suppletiva
ed ausiliaria, in tal senso sussidiaria, dell’ente pubblico, della sua
organizzazione amministrativa ma anche del suo diritto sancito
mediante la legge espressione della volontà sovrana, perché
preventivamente si riconosce la capacità del singolo soggetto umano
di darsi, liberamente, delle regole e di rimanervi, responsabilmente,
fedele. In tal modo restituendo al singolo l’autonomia personale e
all’istituzione la funzione direttiva e il controllo. Questo però ci
conduce al secondo momento del processo, sotterraneo ed incerto
26
ma irresistibile, di riforma, segnato dal Decreto legislativo n. 29 del
1993 e dalla sua riscrittura nel Decreto legislativo 165 del 2001, che
consentirà di sviluppare una serie ulteriore e conclusiva di
considerazioni sulla burocrazia.
Che con le norme per la riforma della disciplina del pubblico
impiego si sia attuata una vera e propria rivoluzione culturale prima
che strettamente giuridica è un dato largamente condiviso, a riprova
del quale per lo più si fa riferimento a quella che con termine
atecnico è stata battezzata come la “privatizzazione del pubblico
impiego”, ossia la parificazione, sotto il profilo normativo ed
operativo, del lavoro pubblico con quello privato. Recitano, infatti, i
commi due e tre dell’art. 2 del D.Lgs. 165/2001, che oggi riassume
complessivamente l’ordinamento del pubblico impiego: “I rapporti
di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono
disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del
codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato
nell’impresa (…) I rapporti individuali di lavoro e di impiego sono
regolati contrattualmente”. Ora non c’è dubbio che il ritorno ad un
diritto unitario, come avrebbe detto Massimo Severo Giannini, in un
settore tanto delicato dell’organizzazione amministrativa della
comunità, costituisca un fattore qualificante della riforma, ma
limitarsi a quest’aspetto sarebbe riduttivo e si correrebbe il rischio di
non intenderne pienamente la valenza.
“Gli organi di governo definiscono gli obiettivi ed i programmi da
attuare e verificano la rispondenza dei risultati della gestione
amministrativa alle direttive generali impartite. Ai dirigenti spetta la
gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l’adozione
di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno,
mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse
umane e strumentali e di controllo. Essi sono responsabili della
gestione e dei relativi risultati”. Così recitava l’art. 3 del decreto di
riforma 29/93 nel quale venne istituzionalizzata una distinzione
concettuale già prefigurata dalla legge di disciplina dell’attività di
Governo e dell’ordinamento della Presidenza del Consiglio (L.
27
400/1988), e successivamente precisata dal nuovo ordinamento delle
autonomie locali (L. 142/90). D’altra parte non si può dimenticare
che proprio questa distinzione, tra governo ed amministrazione,
venne tassativamente indicata come “il principio cardine della
riforma” dalla circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri
del 4 marzo 1993, n. 6 (G.U. 9 marzo 1993, n.. 86). Ed è necessario
riconoscere che tutte le successive revisioni, integrazioni e
innovazioni della normativa in proposito sono andate nel senso di
una sempre più marcata divisione tra indirizzo politico degli organi
di governo e potere gestionale della dirigenza, implicante una
riformulazione
dei
principi
e
delle
regole
attinenti
all’organizzazione dei pubblici uffici, al reclutamento e in genere
all’organizzazione del personale e specificamente alla disciplina
della responsabilità dirigenziale. Con l’ultima, e per ora definitiva,
canonizzazione nel T. U. E. L. (D.Legs n. 267/2000).
Non credo che sia corretto dire, come fa Carlo Roehrssen, che il
legislatore abbia “voluto distinguere nettamente tra governo e
amministrazione”, se non nel senso che il legislatore ha dovuto
riconoscere la natura delle cose, il disconoscimento della quale stava
portando, come sempre porta, allo sfacelo dell’ordinamento statale
per “la politicizzazione dell’amministrazione”, da un lato e
dall’altro per “l’affermarsi di una burocrazia acefala e
irresponsabile”, come ha opportunamente osservato Lorenza
Carlassare.
Tra governo e amministrazione, infatti, passa la differenza che c’è
tra fine e mezzo. Proprio della funzione governativa è l’individuare
gli obiettivi che sono in grado di aggregare la comunità, in quanto
modalità contingenti e congiunturali del bene comune. Proprio della
funzione amministrativa è l’organizzare gli strumenti mediante i
quali attingere quegli obiettivi, sulla base delle direttive e con le
risorse date. Nel plesso politico le due funzioni si trovano connesse,
per la naturale relazione che c’è tra fine e mezzo, ma non possono
confondersi senza ridurla a puro esercizio del potere per il potere.
Com’è accaduto, e non poteva non accadere, con l’affermarsi della
28
burocrazia: un “regime impolitico” nel quale, per il venir meno del
governo nella sua funzione propria di orientamento al bene comune,
un apparato amministrativo, “acefalo e irresponsabile”, gestisce il
potere per il potere, divenendo inevitabilmente “una rete gettata sui
cittadini per opprimerli”.
Continuo a servirmi di quest’affermazione tagliente di Hegel per
evidenziare la paradossale contraddizione che è implicita nella tesi
hegeliana del ceto “medio e universale” dei funzionari pubblici,
“coscienza della libertà e del diritto” di un popolo, accreditata del
compito di sussumere il particolare nell’universale per fare “di
animali stupidi e limitati”, quali sono i singoli nella loro
individualità, “degli esseri intelligenti e degli uomini”, quali sono i
cittadini assorbiti nel collettivo, ma poi esposta al rischio di
diventare “il male essenziale dei nostri Stati” perché, “avendo in
particolare un interesse, costituisce un tutto” al popolo estraneo e
antagonista. Così come, inversamente, è necessario smascherare la
paradossale contraddizione implicita nelle teorizzazione di quanti,
per lo più giuristi cultori del diritto pubblico, dopo aver affermato
l’utilità della “distinzione fra attività politica e attività
amministrativa”, nel momento in cui si tratta di ricavarne le
conseguenze operative, negano che si possa “identificare in modo
puro e certo l’attività di posizione dei fini e l’attività di attuazione
dei medesimi o di scelta dei mezzi più idonei per raggiungerli”, così
vanificando nella sostanza la distinzione assunta. Come fa ad
esempio Mario Nigro quando afferma che “la mediazione fra i vari
interessi, che è pregio dell’attività politica” si eserciterebbe anche
“al livello della gestione concreta e quotidiana degli affari pubblici,
cioè praticamente al livello dell’attività amministrativa”, invitando a
non “sopravvalutare” la distinzione tra governo e amministrazione
sancito dalla legge e suggerendo di prestarvi solo “un valore
tendenziale”. Mentre è da sottolineare la lungimiranza di quei
funzionari pubblici, come ad esempio il Prefetto Meoli, i quali
riflettendo sul rapporto tra politica e amministrazione non si
nascondono che il “rapporto mezzi-fini” può essere messo in crisi
29
anche dalla pubblica amministrazione quando questa “tende a far
valere il proprio grado di potenza”, nel senso che si presenta come
“soggetto di interessi particolari” e conseguentemente omette di
adottare quei comportamenti che invece sarebbero “strumentali”
rispetto alle decisioni politiche assunte in vista del bene comune
dagli organi di governo.
Invero, com’è innaturale che l’amministrazione invada lo “spazio”
del governo, così è innaturale che il governo invada lo “spazio”
dell’amministrazione, ed appunto su questa considerazione che
poggia il castello della riforma in particolare per quanto riguarda
l’utilizzo del contratto nell’ordinamento dei rapporti di lavoro ed
impiego pubblico. Mentre non sembra conciliabile con l’operato di
coloro che svolgono la funzione d’orientamento ed indirizzo
politico, che implica e non può non implicare una elezione, “la
regolamentazione di tipo contrattuale – nota, infatti, il Franzese – si
palesa invece del tutto congrua alle mansioni di tipo amministrativo,
cioè della messa in opera di quanto è necessario per portare ad
effetto le decisioni adottate nell’esercizio della funzione di governo
e ciò a prescindere dalla natura privata o pubblica del soggetto alle
dipendenze del quale viene eseguito tale tipo di prestazioni”.
D’altronde già dal tempo del “Rapporto sui principali problemi
dell’amministrazione dello Stato” Massimo Severo Giannini aveva
notato che “gli ingegneri, i ragionieri, gli archivisti dello Stato
svolgono le stesse attività che svolgerebbero presso un’impresa
privata”.
E’ soprattutto a livello della responsabilità dirigenziale che si può
apprezzare pienamente il significato profondo della riforma
basantesi sulla distinzione fra governo e amministrazione. La Legge
15 marzo 1997, n. 59, dopo aver riaffermata in termini generali la
necessità di rendere ancora più netta la distinzione tra compiti e
responsabilità della direzione politica e compiti e responsabilità
della direzione amministrativa, rimarcata l’esigenza di controlli di
gestione e rendimento, ha inteso superare un’incongruenza presente
nell’architettura della riforma del 1993, vale a dire la distinzione tra
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dirigenti, soggetti all’ordinamento contrattuale secondo il Codice
civile, e dirigenti generali, ancora disciplinati da norme di diritto
pubblico. In questo quadro, sulla base della delega contenuta nella
legge, sono stati emanati il D.Lgs. 80/98 e successivamente il
D.Lgs. 387/98, avendo di mira “una più precisa distinzione fra
funzioni d’indirizzo politico, di definizione degli obiettivi e dei
programmi e di verifica e controllo dei risultati, spettanti agli organi
politici, e l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi e la
responsabilità in via esclusiva della gestione e dei risultati, attribuite
ai dirigenti”. In quest’ottica, al Ministro è stata preclusa la facoltà di
revocare, riformare, avocare a sé o altrimenti adottare
provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti ma nello stesso
tempo si è previsto che i risultati negativi dell’attività
amministrativa e della gestione o il mancato raggiungimento degli
obiettivi fissati dall’organo politico comportassero per il dirigente
amministrativo interessato la revoca dell’incarico ed eventualmente,
nel caso di grave inosservanza delle direttive impartite o per ripetuta
valutazione negativa, l’esclusione temporanea dal conferimento di
nuovi incarichi e, nei casi di maggiore gravità, il licenziamento.
Dietro alla trama del nuovo ordinamento, per chi sappia guardarvi
dentro con intelligenza, si delineano i nodi essenziali della
convivenza civile, per la quale sono necessari tanto l’orientamento
al fine accomunante quanto la gestione degli strumenti per
raggiungerlo. Donde, innanzi tutto, la necessità di distinguere il fine
dagli strumenti e di conseguenza la necessità di non confondere le
diverse modalità del convivere con la ragione per cui si convive. In
secondo luogo, la necessità di distinguere il dirigere dal gestire e di
conseguenza la necessità di non confondere l’abilità
nell’amministrare gli strumenti con l’intelligenza politica nel
perseguire il fine. In terzo luogo, la necessità di distinguere
l’elezione dal contratto e di conseguenza la necessità di non
confondere il vincolo, contrattuale, stretto sulla base di una
convergenza di volontà, con quello, politico risultante dalla
comunione di vedute. E insieme la necessità di riconoscere che non
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può darsi convergenza di volontà senza preliminare comunione di
vedute, né utile gestione degli strumenti senza nozione del fine e
neppure giudizio sulle modalità del convivere senza intelligenza di
ciò per cui merita convivere. Ad esprimere tutto questo le parole di
Aristotele rimangono ancora impareggiabili: “E’ evidente che la
πόλις non è per il semplice coabitare o per l’impedire le reciproche
offese o per il facilitare gli scambi; sono queste, è ben vero,
condizioni indispensabili perché vi sia una πόλις ma pur essendo
tutte queste condizioni riunite insieme la πόλις ancora potrebbe non
esservi: πόλις è comunanza nel vivere bene, per le famiglie (ται̃ς
οικίαις) e per i gruppi di famiglie (τοι̃ς γένεσι), in vista di una vita
integralmente realizzata ed autarchica (ξωη̃ς τελείας χάριν και
αυτάρκους). (…) Πόλις è comunità di famiglie e di villaggi in una
vita integralmente realizzata ed autarchica (ξωη̃ς τελείας και
αυτάρκους).; questo è, come si suole dire, il vivere felice e bello (τὸ
ξη̃ν ευδαιµόνως καὶ καλω̃ς)” (Polit. III, 9, 1280 b).
Con il riferimento all’autarchia, all’essere integralmente realizzato e
bastante a se stesso, il discorso sulla riforma burocratica si salda con
il discorso sulla rilevanza assunta dal principio di sussidiarietà
nell’esperienza giuridica. Con l’affermarsi, teorico e pratico, della
“autoamministrazione” e della “contrattualizzazione” del pubblico
impiego, che solo per un equivoco fuorviante possono essere
considerate forme di “privatizzazione” poiché invero si tratta di
modalità complementari di superamento dell’antitesi astratta
“pubblico/privato”, si esce dalla logica dell’ordinamento giuridico
costruito in base al principio di sovranità, che faceva leva sul
presupposto di uno “stato di natura” ferino per l’incapacità del
singolo uomo di vivere secondo delle regole, sulla stipulazione di un
“contratto sociale” per il quale ogni uomo si annullerebbe come
singolo identificandosi nel collettivo, e sulla consacrazione
(secolarizzata) dell’apparato statale quale fonte unica e originaria
dell’ordine e della moralità per la sua specifica funzione di
“sussumere il particolare nell’universale”. “Auto amministrazione”
e “contrattualizzazione” del pubblico impiego, infatti,
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rappresentano, con altri, due modi di riportare “il più vicino
possibile” al singolo uomo le decisioni istituzionali, politicogiuridiche, in termini radicalmente alternativi rispetto alla logica
della sovranità statale. Ma proprio per questo non possono non
andare di pari passo con il rinnovato riconoscimento dell’impegno
di ciascun uomo di attuare la disposizione personale
all’autodisciplina, quella appunto per la quale, giova ripeterlo,
“quando la parte per natura migliore dell’anima ha il governo della
peggiore, ecco che si usa l’espressione essere padrone di sé che
suona lode: e quando, invece, per colpa di una cattiva educazione o
di non buone compagnie, la parte migliore ma più debole è vinta
dalla peggiore, più forte, ecco allora che si usa l’espressione essere
schiavo di sé, che suona biasimo e rimprovero”.
Non si può sostenere la funzione suppletiva ed ausiliaria,
sussidiaria, dell’ente pubblico, della sua politica economica, del suo
diritto, sancito mediante la legge espressione della volontà sovrana,
della sua amministrazione se non si riconosce preventivamente che
l’ordinamento politico, giuridico ed economico delle relazioni
interpersonali comincia prima e indipendentemente dell’intervento
statale. Se non ci si affida per l’ordinamento politico giuridico ed
economico, prima che allo stato, alle innumerevoli società naturali
o, come sarebbe più corretto dire, alle naturali forme
dell’associazione interpersonale. Senza commenti, e a costo di
risultare ripetitivo, tornerei conclusivamente al monito della
Gaudium et spes. “Si guardino i governanti dall’ostacolare i gruppi
familiari, sociali o culturali, i corpi o istituti intermedi, né li privino
della loro legittima ed efficace azione, che al contrario devono
volentieri e ordinatamente favorire. Si guardino i cittadini
dall’attribuire troppo potere all’autorità pubblica, né chiedano
inopportunamente ad essa eccessivi vantaggi, col rischio di
diminuire così la responsabilità delle persone, delle famiglie, dei
gruppi sociali”.
A ciascuno trarne le necessarie conclusioni. Con vantaggio per la
dignità personale del singolo uomo, sulla cui autonoma
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responsabilità
si
riconosce
fondato
l’intero
processo
dell’ordinamento delle relazioni intersoggettive, a partire dalle
comunità minori, definite dalla vicinanza familiare o corporativa,
alla maggiore e più alta comunità, definita dall’elezione politica.
Con vantaggio per la dignità istituzionale dello stato che, liberato da
funzioni minori seppur necessarie della vita di relazione, può
convenientemente far fronte al suo compito specifico di direzione,
di sostegno e di controllo della vita civile; in tal modo recuperando
il proprio naturale statuto di “società di società”. Con vantaggio,
infine, anche per l’economia operativa della pubblica
amministrazione che, recuperato il naturale statuto di strumento
attuativo delle direttive politiche e di custode del patrimonio
comune, ritrova lo spazio che le è proprio ed esclusivo nella vita
della comunità.
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