La prospettiva europea della sussidiarietà lombarda

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La prospettiva europea della sussidiarietà lombarda
La prospettiva europea
della sussidiarietà lombarda
di Phillip Blond
Direttore di ResPublica,
Londra
In seguito a una crisi che ha scosso e continua scuotere le economie mondiali, la
società britannica si trova ora a mettere in questione una delle idee economiche
più universalmente accettate, durature e diffuse della sua storia.
Ora che questa opinione gode di meno credito, con quello che sembrava l’inesorabile emergere di un mercato neo liberista, vale a dire globale, poco regolamentato,
concentrato e resistente a correggere le esternalità, ormai oggetto di una revisione
critica dopo il recente cataclisma economico e l’incertezza che ne è derivata. Negli
ultimi tre decenni, il mercato di stampo neoliberista è diventato nel linguaggio politico un sinonimo di crescita a sinistra e libertà di diritto a destra. È stato accettato e promosso dal New Labour, dagli Orange Book Liberals e dai thatcheriani alla
stessa maniera, creando così un consenso senza precedenti sul lasciare la gestione
dell’economia al di fuori della sfera politica.
La politica economica è così divenuta un argomento tecnocratico della deregulation del mercato, mentre la politica restava relegata ad argomenti di second’ordine
quali la cattura e distribuzione dei profitti. Da qui, una crisi generazionale originata
dalle falle strutturali di un sistema bancario e un settore edilizio poco regolamentato che ha avuto come risultato un crollo delle entrate erariali, che ha portato
l’attenzione di tutte le parti politiche sulla spesa pubblica.
La visione neoliberista si è formata come alternativa a uno stato invadente, con le
sue radici in un’etica individualista, ma ironicamente ha generato monopolio dopo
monopolio, tollerando se non lavorando concretamente per la centralizzazione dei
mercati.
L’alternativa al Big State è stata quella del Big Market. Guidando la ripresa economica degli anni Ottanta,il Big Bang thatcheriano, con la sua deregulation radicale
del settore finanziario, ha rimosso ogni ostacolo al movimento dei capitali. Nonostante intendesse espandere gli investimenti domestici, lo Square Mile ha prodotto
invece un capitalismo centralizzato, concentrandosi sempre più sulle speculazioni
internazionali e sull’afflusso di capitali che queste riuscivano ad attrarre. La signora
Thatcher ha così avviato una parte del Paese, ovvero il suo dinamico settore finanziario, verso un futuro economico globalizzato. Distruggendo un aspetto che aveva
inibito e tenuto imbrigliata la crescita economica della Gran Bretagna, ha creato
un modello economico che avrebbe dettato, nel bene e nel male, la forma e il carattere dei trent’anni seguenti.
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Quando il Labour nel 1997 tornò al potere, non era più un partito con una visione
economica alternativa. Tony Blair non ha fatto alcun tentativo di ribilanciare l’economia e di dirigere i capitali generati dalla City verso altri regioni del Paese. Al contrario, il New Labour ha incensato la centralizzazione dei capitali trattando la City
come una vacca da mungere. Invece di ridistribuire il potere economico, e i capitali,
Blair e i suo Cancelliere hanno dissipato il welfare e la spesa pubblica. Blair e
Brown non hanno fatto alto che seguire l’esempio di Anthony Crosland negli anni
Settanta, ovvero crescita a tutti i costi, per ridistribuire i proventi in un secondo
momento. Col risultato che a un settore finanziario sempre più monopolistico è
stato permesso di giocare con lo Stato.
I rischi di tale ordine sono fin troppo chiari. Mentre nessuna nuova idea si profila
all’orizzonte, i risultati del nostro sistema economico sono ben più profondi dell’instabilità. Tra questi ci sono la centralizzazione dei capitali, dei beni, del rischio, del
decision-taking e della finanza; inoltre, la perdita dei caratteri distintivi locali, delle
varietà tradizionali, della produzione artigianale, e del senso di appartenenza comunitario, con conseguente prosciugamento delle province per nutrire il centro, e
la persistente uniformità delle grandi vie commerciali. Il neoliberismo ha fallito sostituendo i monopoli pubblici con dei monopoli privati, non riuscendo poi a ridistriubuire la ricchezza tra regioni e scaglioni di reddito.
Sia nel caso del mercato che in quello dello Stato, il potere è stato guadagnato a
spese della società civile e delle realtà locali. Una cultura di un individualismo pervicace, accettato sia dalla destra neoliberista che dalla controcultura di sinistra, ci
ha dato il permesso di disassociarci e di disinvestire dalla società civile. In assenza
di intermediari sufficientemente potenti da mediare, lo Stato e il mercato hanno
accresciuto il loro potere, estendendosi ben oltre l’intenzione di autolimitarsi. Il discorso politico si è degradato a una sfida su chi tra questi due attori debba gestire
l’altro.
Per accettare l’economia liberista, abbiamo dimenticato l’atteggiamento etico verso
i salari, i prezzi e la qualità dei prodotti, che sarebbero poi alleati della competizione sul mercato. Abbiamo insomma rifiutato un’economia virtuosa, in grado di
proteggere sia le realtà locali sia la forza e l’elasticità dell’economia.
La localizzazione economica. Il nuovo localismo?
La coalizione che da poco tempo è al potere ha mandato segnali forti del suo impegno nel perseguire il localismo nelle sue varie forme. Eric Pickles, il Ministro delle
Comunità e del Governo Locale, ha descritto in questo modo le tre priorità del suo
dipartimento: “Localismo, localismo, localismo”.
Non si tratta assolutamente di un nuova agenda politica. Una rapida scorsa ai più
recenti tentativi di devoluzione del potere è importante per comprendere la volontà
politica e il capitale necessario per realizzarla.
Dopo essere entrato in carica nel 1997, Tony Blair ha perseguito un progetto di devolution radicale, consentendo così il passaggio dal governo nazionale a quelli subnazionali. Uno dei più grandi risultati è stato quello della creazione di assemblee
elette in Scozia, Galles e Irlanda del Nord nel 1998, e a Londra nel 1999, in seguito
ad alcuni referendum tenutisi nelle suddette regioni. D’altro canto, queste iniziative
di successo non hanno avuto paragoni nei tredici anni di governo laburista.
Il New Labour, con i suoi valori progressisti e l’interesse per l’eguaglianza, ha interpretato la devolution in termini puramente relativi al potere politico e alla partecipazione. Non c’e stato alcun interesse a estendere questo sistema all’economia,
assicurando cosi la partecipazione delle comunità alle decisioni economiche. Si
tratta di un errore che la coalizione non deve ripetere.
Ma cosa significa esattamente “localizzazione economica”? Cos’è esattamente
un’economia localizzata? Si tratta di una comunità con il potere di controllare l’attività economica, o si tratta di una serie di risultati da definire, misurare e promuovere, quali la partecipazione economica popolare, un diffuso possesso dei capitali,
pluralismo economico? E cosa succede in caso di conflitto tra queste due visioni del
localismo?
Sussidiarietà
Ma prima di rispondere a queste domande, bisogna fare un passo indietro e farsi
una domanda ovvia: che cos’e il localismo? Come abbiamo accennato nel paragrafo
precedente, le varie forme di localismo, la devolution praticata dal New labour e la
doppia devoluzione fino alla visione conservatrice della Big Society, vengono accumunate dal principio di sussidiarietà. Descritto brevemente, il suddetto principio
asserisce che le decisioni debbano essere prese da coloro che hanno maggior probabilità di sentirne l’impatto1.
Se rigorosamente applicata, la sussidiarietà può avere implicazioni profonde in materia di policy, per la società civile e per l’economia. La Lombardia ha coscientemente applicato il principio in tutti gli aspetti politico-economici e questo ha
significato molto per il suo sistema di governo e per la sua partecipazione pubblica
alle attività economiche.
Sussidiarietà: fondamenti filosofici
L’idea di sussidiarietà sfida uno degli assunti basilari del moderno stato liberale,
ovvero la concezione perniciosa, per quanto inconscia, della società civile com’era
intesa da Thomas Hobbes nel Leviatano. L’assunto sembra anti intuitivo, ma il liberalismo moderno è profondamente debitore dello statalismo, che, portato all’estremo, ha sostenuto che la società civile senza lo Stato è una lotta di tutti
contro tutti. È da questo individualismo estremo che il liberalismo moderno ha ereditato la sua legittimazione politica, col monopolio di potere dello Stato basato su
un contratto implicito tra individui altrimenti terrorizzati da uno Stato di licenza e
di reciproca sfiducia. Questo approccio contrattuale alla legittimazione politica si
basa su una concezione negativa dell’uomo che inibisce fortemente le sue capacità
e il contributo positivo degli individui al bene comune, al progresso e alla lotta per
la giustizia.
Siamo così arrivati a pensare alla nozione di cittadinanza, alla divisione hobbesiana
tra l’individuo proprietario e lo Stato che fondamentalmente ignora la «naturale so-
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cialità della persona umana». In quanto tale, essa nega la possibilità di una società
civile in cui i cittadini siano consci dei propri diritti, dei propri interessi e capaci di
organizzare attivamente dei network per la soluzione dei loro problemi in maniera
autonoma.
In contrasto con la visione hobbesiana, il principio di sussidiarietà presuppone che
la società stessa preceda lo Stato e ponga quindi limiti all’attività e agli interventi
di quest’ultimo. «La raison d’être dello Stato, in ciascuna delle sue manifestazioni, è
quella di sostenere e supportare la creatività degli individui e dei gruppi sociali».
Secondo questo principio, qualsiasi attività che possa essere svolta da un’ente decentralizzato dovrebbe essere a esso devoluta, secondo il principio del «primato
della responsabilità personale e inter-relazionale sul potere e le strutture politiche».
Tale prospettiva prende le mosse da una visione positiva della natura umana, piuttosto che dall’antropologia negativa di Hobbes. L’uomo non è così definito dal sospetto che possa perseguire i suoi desideri privati a danno del bene comune.
Il principio di sussidiarietà è stato sviluppato per la prima volta da Oswald von
Nell-Breuning, cattolico. Il teologo e sociologo tedesco fece suoi gli insegnamenti
di papa Leone XIII (Rerum Novarum, 1891) che sosteneva che il governo dovesse
intervenire soltanto quando gli individui e i gruppi privati indipendenti non potessero farlo. Von Nell-Breuning sviluppò ulteriormente la sua teoria con la Quadrigesimo Anno di papa Pio XI (1931), dove è scritto che l’autonomia e la dignità
dell’essere umano sono fondamentali e che tutte le forme di società, dalla famiglia
allo Stato, fino agli organismi internazionali debbano essere al servizio della persona.
Teorie moderne della sussidiarietà hanno focalizzato le limitazioni del welfare
state, consunto dalle sue dimensioni abnormi e ormai incapace di offrire ai cittadini quelle garanzie di solidarietà che ne erano la ragione fondamentale. Lo Stato è
quindi sotto accusa «non già per essere ingiusto o incompetente, ma per essere impotente». Esso deve quindi essere sollevato da alcuni suoi compiti, che debbono essere affidati alla società. Se non sarà così, lo Stato sociale rischia di crollare e di
abbandonare i suoi doveri piuttosto che ridefinirli. Intervenire direttamente, privando la società delle sue responsabilità «conduce a una perdita di energie umane»,
così come all’aumento indiscriminato di enti pubblici dominati da una forma mentis burocratica, piuttosto che da una solidarietà sociale o da un’etica della cura
dell’altro.
La Lombardia
Considerata uno dei quattro motori economici d’Europa, assieme alla regione del
Rodano-Alpi in Francia, alla Catalogna in Spagna e al Baden-Württemberg in Germania, la Lombardia è al contempo la regione più popolosa e più competitiva economicamente d’Italia. In un’area di meno di 24.000 chilometri quadrati (meno
dell’8% della superficie dell’Italia, grosso modo grande quanto il sudovest dell’Inghilterra), e con una popolazione di circa 9,5 milioni di abitanti, la Lombardia produce più di un quinto del PIL italiano, 212 miliardi di euro. Produce inoltre il più
alto PIL pro capite annuo della nazione, 30.000 euro. Il capoluogo, Milano, è il centro economico e finanziario d’Italia, ospita il mercato delle azioni (MIP) e la Borsa
(Borsa Italia). Nonostante le sfide dell’economia globale alla sua tradizionale preminenza in campo economico, la Lombardia continua a essere un esempio per altre
regioni italiane ed europee.
La sua leadership economica non sarebbe così interessante, se non per la sua natura spiccatamente locale. L’ampia distribuzione della proprietà delle imprese e un
settore industriale altamente competitivo sono fenomeni insoliti per un’analoga regione angloamericana. Sebbene la Lombardia ospiti il 40% delle multinazionali
d’Italia e vi abbiano sede i quartieri generali di 800 di queste, è capacità distintiva
della regione quella di promuovere una cultura di piccole e soprattutto medie imprese locali, e di porre queste imprese in relazione alla finanza locale, alla catena di
fornitura, al consumatore e alla comunità nel suo complesso, rendendo la Lombardia una regione singolare, degna della massima attenzione.
Al momento, il 99,7% delle industrie regionali sono piccole e medie imprese che, è
bene ricordarlo, impiegano circa due terzi (64%) della manodopera disponibile.
Questi piccoli produttori sono rappresentativi della natura composita dell’economia
lombarda. Mentre la regione (in modo particolare Milano) ha sviluppato una moderna economia dei servizi, altre aree, quali Varese, Como, Lecco, Bergamo e Brescia hanno preservato la loro forte base industriale, e Sondrio, Pavia, Cremona,
Mantova e Lodi danno invece il loro contributo alla produzione agricola. I piccoli
agricoltori e artigiani che compongono questi settori sono una caratteristica durevole dell’economia lombarda, che si oppone agli imperativi dominanti delle economie di scala e dell’economia globale.
1
R. Vignali, Il principio di sussidiarietà. Posizioni teoriche e realizzazioni in Europa e nel panorama regionale italiano, IReR, Mi-
lano 2009.
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