relazione pietrantoni

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relazione pietrantoni
I comportamenti collettivi durante l’evacuazione nelle emergenze
_LUCA PIETRANTONI______________
_GABRIELE PRATI______________
Dipartimento di Scienze
dell’educazione – Università degli Studi
di Bologna
Dipartimento di Scienze
dell’educazione – Università degli Studi
di Bologna
[email protected]
[email protected]
Sarà capitato di leggere sul giornale notizie di persone che durante un incendio domestico o
boschivo hanno tardato ad evacuare dall’edificio e sono rimasti intrappolati nelle fiamme o altre che sono
morte durante un alluvione perché si sono rifiutate di abbandonare la loro casa ormai completamente
invasa dall’acqua. Certo, vi è stata una risposta adattiva orientata alla fuga ma è stato impiegato troppo
tempo nella presa di decisione e nel passaggio all’azione. Secondo Proulx [2003], in caso di incendio, gli
individui dopo un allarme occupano fino a due terzi del tempo che si impiega per uscire dall’edificio in
attività non rivolte all’evacuazione e in media impiegano tre minuti prima di lasciare un edificio
residenziale. È come se ci fosse un’inclinazione a voler “definire” la situazione (è reale? è seria?) prima di
“rispondere”.
In questa prospettiva, i contributi teorici l’evacuazione in emergenza come un allontanamento forzato da
un luogo pubblico potenzialmente pericoloso, facendo riferimento ai modelli del problem solving e del
decision making: la persona deve prendere delle decisioni e svolgere delle azioni al fine di risolvere il
problema raggiungendo un area sicura.
In una situazione di minaccia, le persone si rappresentano il problema e interpretano l’informazione che
hanno sul pericolo che può essere di vari tipi, ad esempio in caso di incendio il fumo o un allarme sonoro.
Queste informazioni sono ambigue oltre che inusuali e inattese: un semplice allarme sonoro potrebbe
confondersi con altri o essere poco travisato perchè allerta senza informare precisamente sul pericolo e
sulle azioni da fare. Successivamente, gli individui possono prendere varie decisioni: ignorare questi segnali
continuando le normali attività perchè si pensa che non sia reale o grave o si pensa che altri si assumano le
responsabilità, oppure ancora ricercando ulteriori informazioni muovendosi, osservando e chiedendo ad
altri.
È bene tuttavia ricordare che i processi decisionali nelle situazioni di emergenza sono diversi da quelli che
abbiamo nella vita quotidiana per due ragioni: in primo luogo la decisione riguarda la sopravvivenza della
persona o dei suoi cari, in secondo luogo vi è un’urgenza e scarsità di tempo a disposizione per fare scelte
prima che siano perse delle opzioni cruciali. Gli studi in questo ambito hanno mostrato come i processi
decisionali diventano più fallaci, perché alcune informazioni o alternative sono trascurate, ci si focalizza su
pochi elementi facendo ricorso ad euristiche per semplificare la comprensione del problema e si prendono
decisioni che siano “sufficientemente buone”. In condizioni di pressione temporale poi gli individui
prendono decisioni usando meno informazioni a disposizione, accentuando gli aspetti negativi di
un’opzione, scartando subito un opzione se risulta inappropriata all’apparenza, e facendo comunque scelte
meno rischiose.
La ricerca psicologica che ha avuto l’obiettivo di indagare la fuga e l’evacuazione di una persona in un
contesto pericoloso come un incendio, un’esplosione o un alluvione ha preso a prestito costrutti psicologici
dalla psicologia cognitiva alla psicologia sociale. Rifacendoci alle ricerche sulla percezione del rischio e sui
bias ottimistici, è noto che le persone interpretano malamente i segni di pericolo e possono trascurare
indicatori o avvertimenti iniziali di un pericolo o assimilarli a esperienze normali per una tendenza a
pensare che accadano solo eventi positivi.
Un filone di ricerche ha messo a fuoco la tendenza a ricorrere a azioni abitudinarie, conosciute, familiari,
routinarie particolarmente accentuata in emergenza. Così come in una situazione di pericolo in un team
multinazionale vi è la tendenza a usare la propria lingua madre, si è visto che durante una fuga la
maggioranza delle persone tende ad uscire dalla porta in cui si è entrati, e questo è vero anche quando le
uscite di emergenza sono ben segnalate. Questo accade negli incendi in edifici o quando si deve evacuare
da un aereo [Muir e coll., 1996]. Ciò ovviamente varia in base alla situazione specifica, poiché è possibile
che le uscite più vicine siano inaccessibili (a causa di un elevato numero di persone di fronte ad esse che ne
impedisce l’utilizzo) o impraticabili (danneggiate o avvolte dalle fiamme).
Altri studi si sono concentrati sul concetto di “attaccamento”, in particolare a persone, animali o cose
osservando che molte persone durante un evacuazione si preoccupano di recuperare i propri beni personali
(documenti, soldi, chiavi di casa, medicinali) anche se ciò rallenta o ostacola la fuga. In caso di incendio si è
visto che le persone tendono a ritardare l’evacuazione negli ambienti familiari come la propria abitazione
rispetto agli ambienti non familiari come un cinema o una discoteca: ciò può essere dovuto ad una
attaccamento verso la proprietà oltre che ad una maggiore percezione di sicurezza che si ha quando si è in
casa propria, in quanto luogo simbolico di protezione e assenza di minaccia.
La psicologia sociale, d’altro, canto ha invece dato peso alle interazioni sociali e ai processi di influenza
sociale nella percezione di un pericolo e nella decisione di evacuare. Già i celebri esperimenti di Latané e
Darley negli anni ’60 avevano reso evidente che l’intervento in emergenza è l’esito di un processo di
confronto sociale in cui si osservano e si interpretano le risposte altrui al fine di prendere un decisione. Nel
loro famoso esperimento del fumo in una stanza, il soggetto se era da solo usciva a chiamare qualcuno nel
75% de casi, se era invece con altri 2 uscia nel 38% dei casi e nel caso di due complici passivi la percentuale
scendeva al 10%. La presenza di altri e i loro comportamenti influenza la percezione e la risposta alla
minaccia e in situazioni socialmente ambigue (il pericolo è reale o no?) le decisioni individuali fossero
soggette ad influenza sociale di tipo informazionale e al fenomeno dell’ “ignoranza pluralistica” e della
diffusione di responsabilità.
L’espressione inglese “milling” indica proprio l’interazione sociale nelle prime fasi di allarme caratterizzata
da azioni come girovagare e guardarsi intorno. Gli individui verificano e cercano una conferma con le altre
persone (amici, colleghi, familiari) della gravità del messaggio o dell’ avvertimento che hanno ricevuto; se il
network sociale, in particolare fonti percepite come fidate e autorevoli (ad es., un leader, un responsabile
della sicurezza) conferma la validità dell’avviso, è più probabile che si attuino azioni protettive.
Spesso i test standard di sicurezza negli edifici o nei mezzi di trasporto danno per scontato che ogni persona
sia un’entità individuale, che non sia socialmente interconnesso con gli altri. In realtà, su un treno o aereo
in un hotel, una buona parte delle persone sta con almeno con un collega, un amico o un familiare. A tal
proposito, Johnson et al. (1994) hanno analizzato i comportamenti di evacuazione durante un incendio in
un hotel in cui sono morte 165 persone. Nella notte dell’incendio vi erano alloggiati nelle varie stanze 2500
clienti, in particolar modo si trattava di coppie di sposi o di fidanzati o di gruppi di persone conoscenti,
quindi legati da relazioni sociali significative. È stato notato che l’evacuazione non è stata di tipo
individualistico ma che i clienti sono fuggiti comportandosi come membri di un gruppo, spesso esitando
nella fuga per assicurarsi che i loro cari li stessero seguendo. Le persone che non avevano legami sociali
sono state più rapide nella risposta agli stimoli ambigui di pericolo (es. fumo) e nessuno si è ferito. Questi
risultati di ricerca paradossalmente mettono in luce un doppio effetto delle interazioni sociali sulla
sopravvivenza nella fuga: se da un lato le persone con legami sociali e affettivi nelle situazioni di pericolo
possono aiutarsi vicendevolmente e portarsi in salvo, dall’altra i legami sociali possono avere conseguenze
fatali poiché riducono la percezione del rischio e ritardano l’evacuazione.
Possiamo concludere che le decisione di allontanarsi da un pericolo dipende da un molteplicità di fattori
psicosociali. In uno studio di Riad et al. [1999] sono stati intervistati 777 cittadini che abitano in aree
devastate da due uragani ed è risultato che il 58% non aveva lasciato la propria abitazione. Andando a
indagare le tipologie di persone che si erano rifiutati di evacuare e le motivazioni alla base, sono emerse
categorie diverse di variabili predittrici: in primo luogo la percezione di gravità dell’evento e l’idea che la
propria casa fosse il posto “più sicuro”; in secondo luogo la “territorialità”, ovvero la convinzione di dover
proteggere la propria casa e il timore di “sciacallaggi”; in terzo luogo fattori sociali come il bisogno di
affiliazione (le donne e gli adulti che abitavano da soli erano più propensi ad evacuare), il sostegno sociale
(più sostegno sociale, maggiore probabilità di evacuare) ma anche l’esperienza passata poiché chi aveva già
evacuato in precedenza tendeva a rifarlo avendo già acquisito un repertorio comportamentale su “cosa” e
“come” fare.
Le ricerche sui comportamenti collettivi rilevati in queste situazioni portano a risultati tutto sommato
abbastanza coerenti come evidenziato dalla mole di ricerche provenente da ricercatori come Quarantelli,
Dynes, Pelanda e altri del suo team presso il Disaster Research Center dell’Università di Delaware [Dynes,
De Marchi, Pelanda 1987]. La reazione collettiva ad un disastro è generalmente positiva nel senso che le
persone non sono paralizzate ma cercano attivamente informazioni e mettono in atto comportamenti
adattivi. Secondo Turner e Killian [1972] un disastro crea una situazione di incertezza per cui le persone si
rivolgono fra loro allo scopo di colmare la mancanza di informazioni: si formano così reti di comunicazione
informale qualitativamente diversi dalle reti esistenti in un periodo di normalità poiché non rispettano più
la divisione sulla base dei gruppi. L’interazione fra persone che non si conoscono tra loro diviene la base per
la definizione collettiva di una situazione ambigua, per la formulazione di una giustificazione nei confronti di
un particolare corso di azioni e per porre i presupposti di norme emergenti. Non solo l’interazione ma
anche le comunicazioni dei leader e dei mass media assumono un’importanza rilevante in una situazione di
incertezza. In questo clima di incertezza le strategie di coping collettive sono attive e volte ad aiutare gli
altri, in primis gli aiuti diretti prima ai familiari, agli amici, vicini ed alla fine agli sconosciuti; le primissime
attività di soccorso e di aiuto, infatti, sono generalmente realizzate dalle stesse vittime sopravvissute
all’evento. In termini di comportamento emergente, ossia che prende forma nella situazione di disastro ed
è discontinuo rispetto alla situazione di routine, si può parlare soprattutto di comportamento prosociale
piuttosto che antisociale. Alcuni studiosi come Rodríguez, Trainor, Quarantelli [2007] hanno ricostruito e
analizzato i comportamenti collettivi tra le persone colpite dall’uragano Katrina descritti dai media come
altamente disordinati e antisociali, con episodi di sciacallagi, saccheggi o stupri mostrando un quadro
diverso. Da analisi qualitative effettuate è emerso che i saccheggi erano in parte compiuti da gang locali che
si dedicavano a furti abitualmente già prima del disastro mentre un’altra parte dei saccheggi sono, invece,
da considerarsi azioni prosociali in quanto sono consistite nel prelevare beni necessari per i bisogni
immediati per sé ed altri. Inoltre nelle poche occasioni in cui vi sono comportamenti criminali si è scoperto
che spesso gli autori sono membri esterni alla comunità [Quarantelli 1985]. Tuttavia notizie false sulla
diffusione di panico possono rendere estremamente difficile l’evacuazione dalle case ed impegnare l’opera
preziosa delle forze dell’ordine in altre attività rispetto a quelle della gestione del traffico e facilitazione
dell’arrivo sul posto dei soccorritori.
Le reazioni collettive di panico sono, come nel caso dei comportamenti antisociali, estremamente rare. Il
panico di massa può essere definito comportamento collettivo in cui le capacità di giudizio e ragionamento
sono deteriorate, in cui vi sono emozioni forti di paura e in cui vi è un comportamento (solitamente fuga)
che può risultare in azioni autodistruttive o eterodistruttive. Gli studi hanno evidenziato che il panico
collettivo può essere suscitato dalla presenza simultanea di alcune condizioni. Santoianni [1996], per
esempio, ne elenca quattro. Primo vi è un’ansietà diffusa precedente al disastro, per esempio sotto forma
di previsione che possa presentarsi un pericolo reale o come informazione da fonti autorevoli. Secondo vi è
una mancanza di una leadership riconoscibile e che sappia dare istruzioni chiare (per esempio quali
comportamenti protettivi assumere). Terzo e più importante, vi è la percezione di rimanere intrappolati per
lo sbarramento dell’unica via di fuga: vi deve essere la percezione che la via di fuga sia l’unica speranza di
salvezza e che tale opportunità si stia velocemente esaurendo. Quarto vi è la comparsa di un fattore
precipitante dell’ansia. Dal momento che la combinazione di queste condizioni è rara il panico di massa lo è
altrettanto e quando avviene coinvolge solo una piccola minoranza, non è contagioso ed è di breve durata.
Uno studio etnografico del comportamento delle persone del napoletano al terremoto del 1980 ha
evidenziato che, diversamente dalle ricerche internazionali, le reazioni di panico erano abbastanza
frequenti. Tuttavia i casi di comportamento totalmente irrazionale non sono durati più di decine di secondi,
anche se hanno portato le persone a ferirsi. Negli altri casi l’elevata ansia, invece, ha permesso
comportamenti di fuga adattivi [Alexander 1990]. Ricerche retrospettive sui comportamenti di evacuazione
durante incendi in un locale notturno ma anche quelle più recenti durante l’attentato terroristico nella
metropolitana di Londra del 2005 hanno evidenziato che nonostante le forti emozioni e il pericolo per
l’incolumità la maggior parte delle persone è uscita in modo ordinato e senza competizione [Drury e
Cocking , 2007]. La convinzione che le persone durante i disastri esibiscano primariamente panico di massa
è molto diffusa anche tra chi si occupa di emergenze perché è parte della tradizione “irrazionalistica” della
psicologia della folla che assume che in una massa di persone, le emozioni travolgano il ragionamento,
l’identità collettiva sia frammentata e i comportamenti siano fondamentalmente egoistici (come spingere o
calpestare) e non regolati da norme specifiche ma suscettibili a pura imitazione [Auf der Heide 2004].
Il modello del panico di massa è stato criticato da numerosi autori tra cui Mawson [2006] che ha proposto
un modello alternativo chiamato affiliativo o dell’attaccamento sociale che si basa sulla natura
fondamentalmente gregaria e affiliativa dell’essere umano. La fuga può essere considerata l’altra faccia
della medaglia del comportamento affiliativo, ovvero un aspetto di una generale risposta che include il
movimento lontano dal pericolo e un avvicinamento verso luoghi o persone familiari. E’ quindi un
movimento verso e non solo via da. Secondo la teoria dell’attaccamento le persone fin da bambini tendono
a rivolgersi alla figure di attaccamento affettivo nelle situazioni di stress e pericolo. Analogamente nei
disastri collettivi, prevale una risposta “fuggi e affiliati” che dipende non solo dalla percezione del pericolo
ma anche dal contesto sociale, cioè dall’accesso agli elementi familiari. La presenza stessa di persone
familiari influenza la percezione e la risposta al pericolo, in quanto la paura è ridotta dalla prossimità delle
figure di attaccamento. In linea con queste premesse, lo studioso elabora un modello di tipologie di
comportamenti individuali e collettive nelle situazioni di minaccia, che tiene presente sia del livello di
percezione del pericolo fisico (fattori precipitanti) che del livello di sostegno familiare/sociale disponibile
nella situazione (fattori predisponenti).
Se questo modello da una parte spiega la tendenza a rimanere nella struttura se un incendio avviene inun
luogo conosciuto come la casa piuttosto che sconosciuto o pubblico come una discoteca, dall’altra non
spiega come mai nelle situazioni di pericolo anche elevato ci siano persone disposte ad aiutare degli
sconosciuti magari mettendo a rischio la propria incolumità.
Un ultimo approccio teorico che si aggancia invece alle teorie dell’identità sociale e della categorizzazione
di sé, proposta da Drury e Cocking [2007] enfatizza ancora di più la componente sociale soffermandosi sul
ruolo dell’appartenenza di gruppo e sull’identità generata nel contesto dell’emergenza. In questa
prospettiva i disastri possono creare una identità comune sulla base del “destino comune” (“la sensazione
di stare stessa barca”) e paradossalmente l’aumento della percezione di minaccia potrebbe generare un
categorizzazione sovraordinata tra persone sconosciute coinvolte e tale senso di appartenenza sarebbe alla
base di comportamenti altruistici anche verso sconosciuto e di una fuga ordinata. Le verifiche empiriche
del modello dell’affiliazione sociale e quello sull’identità sociale sono ancora scarse.
I dati epidemiologici tuttavia mostrano che nelle situazioni di disastro il problema più comune (e la
mortalità) non è tanto il panico ma, al contrario, il ritardo nell’evacuazione dei cittadini.