Cervo Rivier - Italia Uomo Ambiente

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Cervo Rivier - Italia Uomo Ambiente
Luigi Diego Elena
Cervo Rivier
L’Italia
L’Uomo
L’Ambiente
Cervo Rivier
Luigi Diego Eléna
L’Italia, l’Uomo, l’Ambiente
Rivista on line di informazione e formazione
ambientale, culturale e artistica
Direttore: Gianni Marucelli - [email protected]
Coordinatore di Redazione: Alberto Pestelli
Comitato di Redazione
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Sede: Fiesole (FI)
Sito internet: www.italiauomoambiente.it
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Rivier di Luigi Diego Eléna © 2105 è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale. Based on a work at
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i
Prefazione
Di Gianni Marucelli
Sono abituato a scrivere prefazioni e introduzioni a libri di vario genere, spesso di poesia;
ma raramente mi è successo di presentare un
volume di versi così complesso, e di stile così
elevato pur nell'apparenza della vulgata, come questo, di Luigi Diego Eléna. Il titolo non
tragga in inganno: dietro alla formulazione, richiamante E.L. Masters e la sua Spoon River
Anthology, non vi è un “cimitero sulla collina”
con le sue lapidi che, nel trascorrere dei decenni e dei secoli, continuano a suggerire al
visitatore storie di vita lontane dalla banalità
con cui è uso commemorare i defunti.
Qui è un intero borgo reale, Cervo, che medita se stesso con i suoi carrùgi, il suo porticciolo, le sue aspre scogliere battute dai venti marini e dalle tempeste, e, se lo fa con le voci
dei suoi abitanti, qui vissuti e morti in epoche
prossime oppure un po' più lontane, è per
una scelta di realismo lirico da parte dell'autore. La stessa opzione linguistica conforta tale
ipotesi: sulla base dell'italiano si innestano
lessèmi e modi di dire del dialetto ligure, in un
impasto tanto più pregnante quanto più s'avvicina all'idioletto d'ogni personaggio, denotandone meglio il carattere, la professione, il
rapporto col borgo e i concittadini. Lo scenario è delimitato con precisione naturalistica: la
rupe, la macchia mediterranea e le coltivazioni caparbiamente strappate ad un suolo ava-
ro, l'arenile, le vastità azzurre, o grigie, del mare e del cielo... Il ritmo dei versi lunghi, quasi
whitmaniani (blank verses, si direbbe in inglese) è quello stesso del respiro del mare, della
vita che porta o che allontana, nel suo pulsare continuo, sopito o fragoroso.
Ecco, per immergersi pienamente nel testo il
lettore deve farsi coinvolgere dallo scorrere
dei versi, dimenticando, in una sorta di fruizione metasemantica, per un momento il significato delle frasi.
La magia del poeta sovrasta quella del narratore, pur così indagatrice e precisa, creando
una sorta di corale a più voci, nel senso musicale del termine, al cui fascino è difficile resistere.
Di più non si dica. A ognuno il piacere di scoprire, pagina dopo pagina, questo piccolo capolavoro.
Gianni Marucelli
ii
Introduzione
CERVO RIVIER parte da un nome di una
Un linguaggio che è pubblica confessione
donna, di un uomo, di un soprannome allu-
di identità loro e nel loro contesto.
sivo ad un aspetto della loro personalità.
Sono la loro irreversibile appartenenza a
Ogni poesia ha in se un caso, e la sua sto-
Cervo IM, ribadendone l'unicità del suolo e
ria.
del suo epos, in un sintagma magnetico.
E' l'ascolto di un loro monologo breve,
semplice nella sua complessità.
Una sorta di epitaffio e testamento che abbraccia l'immagine del personaggio in un
contesto atemporale. E' fisionomica del
personaggio e del suo contesto.
Sono frammenti che si possono comporre
come un puzzle per ogni voce-monologo
di quelle anime.
Di certo sono il passato, sono la Cervo IM
di un tempo perduto, ma che vivono in questo spazio di memoria del ricordo in cui sono vissuti.
Sono lettere che potevano essere perdute,
ma che riscritte disvelano la materia di cui
sono fatte la loro poesia e il loro linguaggio.
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Lin du Stè (sacrista e campanaro)
Parlano i miei calli duri come picchi e scaglie,
ed il mio passo è zoppo come la zoppia di satana,
ma è solo apparenza e pregiudizio, io ho anima di sacrista.
Conosco solo una lingua, quella del volgo, ne ascolto altre,
quelle dotte recitate in cantilena, sicut erat semper, amen,
senza capirle, come chi a memoria le ripete, perché ha fede.
Conosco orari e li collego alle funzioni sacre,
quelle di gioia e di dolore che accompagno con le campane.
Accetto un soldo, pochi spicci, per una cicca ed una fetta di mortadella,
un sorso in apnea da un bicchiere opaco e viola,
come la stola del parroco in quaresima, da servo redentore.
Io non cerco, ma vengono da me per scherzi e lazzi,
per ricordarmi quanto io sopporto e sono buono,
utile al mio prossimo, come dal pulpito predica il prete.
Lin, Lino, Natale un nome nel din don dan cui non rispondo,
sono ormai sordo come le mie campane
allegre eppur nella prigionia legate, slegate dalle mie mani.
La libertà per me è libera, da quando mi diedero in mano questa corda,
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che ho legata al mio saio, povero ma fiero per la mia anima,
quando sarò musica come voce della mia vita,
non più il figlio di Stè, ma anch'io come tutti voi,
quella buon'anima del campanaro.
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Pippo e Maria (re e regina che giocarono col fato)
Pippo ha le gambe accavallate come dormono due semicerchi
o due anelli di una catena abbandonata alla sua ancora.
Le onde, i marosi, sono lontani sempre nella loro rissa,
sempre ad erigersi nel loro colpo di reni per agganciarsi al cielo,
di cui l'opaco e glauco occhio sa di pallore d'ulivi
e la sua figura appare figlia di Poseidone re e divinità del mare.
Ciò che è lontano avvicina a questa collina del Montepiano
così a petto nudo irta di ginestre fiori del deserto,
scritti nella primavera, quella semplice madre di un umile parto.
Così è stata la sua donna Maria orgogliosa e felice compagna
per tutti i suoi ottantanove anni in una febbre d'attesa
ad inseguire lo sposo e l'uomo da un ponte che non si può attraversare.
Due ad inseguire la vita in comune da lontano,
sulla scacchiera con grande fantasia ed un fedele cuore
che con grande sorpresa di tutti i testimoni vince la gara.
Insieme attraversano il torrente inventando per gioco
che la corda è magica e li conduce in un mondo incantato
di cui loro sono il re e la regina che giocarono col fato.
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Il mulo e Brico' (ibrido amore in vino veritas)
Il mulo questo sconosciuto, l'ibrido amore dell'asino con la cavalla,
ed un cavaliere di macchia fiamma ad ardere nel bere senza sete
a far l'amore senza pedigree in ogni tempo perché esso solo lo comprende.
Brico' era una satira vivente dell'uomo in vino veritas sul suo ronzino,
in due occhi e orecchie per ogni scalino con innumerevoli variazioni da pendolo.
In ogni carruggio volavano briciole dal desco quotidiano, e da qualche lisa persiana
per ogni bocca fertile all'amo, come nel mare il pesce mangia la mosca e la libellula,
e tutto quello che cade sul pelo dell'acqua, quando sale come l'olio a galleggiare.
Brico' ed il suo mulo stavano metà mela su metà mela, creature del creato
e se proprio vogliamo trovare un senso cosmico e Bormano,
non si devono misurare questi frutti esotici nonostante, col metro umano.
Erano il circo ed il suo clown, creature complete ed infinite,
pony ed elefanti di vedere uomini, donne e affini fare i pagliacci.
Loro un'estensione dei sensi che noi abbiamo perso,
o non abbiamo mai posseduto, compagni di prigionia solare nello splendore,
voci che noi sordi nella rete accomodati non udremo mai.
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Rosa (angelo in volo di nome e di fato)
Semplicemente sono questo aquilone in una culla di mare a galleggiare in cielo,
sono l'azzurro osservare quella terra madre dove potevo correre e giocare,
sbucciare le mie ginocchia rimbalzando scalino dopo scalino,
quelli che dal carruggio della galera portano alla gloria della Madonnina.
M'aspettava ogni ciottolo di strada e un chicco di riso o meglio di sorriso,
da sorseggiare a bocca aperta, alla fontanella con le mani a coppa.
E quel rintocco, goccia dopo goccia, a guisa di quella di resina di pino d'Aleppo,
tra i suoi aghi mossi a sud dal libeccio, a gara contro il nord di maestrale,
e tra quelli per fili di lana, docili alle dita perpetue, di comari accucciate in panche.
Potevo un'alba come il mio nome Rosa, ed un volo giorno dopo giorno d'angelo,
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se il mio respiro non si fosse fatto timido fiore, alle soglie delle mie labbra.
Potevo essere la mia mano a disegnare l'arcobaleno, nell'espressione di un cuore,
il suo tic tac come l'orologio del campanile e non la fotografia di un bianco fiore in gabbia.
Posso però il sogno d'un giorno di vacanza, proprio come oggi e per ogni 24 Marzo,
di più l’essenza della vita, la sua verità, ed è quanto basta ad ognuno di noi per quel volo.
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Donna dal nome di Santa (sine qua non)
Sono Donna dal nome di Santa, della cima e del fondo Borgo, ho una banchetta, un canto,
un ago, un tombolo, un filo e un cavo di acciaio, quel carattere fiero e scarno,
come un impasto di salso, argilla, tenace come la gramigna, un rovo, un'edera.
Donna dai santi sapori e umori dei punti dati e ricevuti, nel senso che tessono emozioni,
pulsioni, spontaneità, rigide di tramontana e al tempo stesso di caldo scirocco.
Donna statua e icona santa del focolare, tra figli e faccende, tra detto e taciuto, sempre,
e sposa pur tuttavia di fascino agro di fiori d'arancio, più accattivante delle fate.
Madre come Madri tutte uguali a partorire, e così diverse ad indossare velo e veletta.
Una scià ed una sciascelina, un'altra sposata e un'altra fantina, forse arrabbiata,
quel sentimento che non può essere indossato dalle altre, spesso abbinate e Sante.
Alte, basse, strette o larghe, ognuna ha una treccia accarezzata dal dio Eolo pagano,
ognuna è protetta da una Santa, come Antonietta, Rosa, Angela, Rita, Maria, Pia,
collegata alla sua dinastia, sia ella di lignaggio blu nobile, sia lei di gente candida popolana.
Donne in silenzio, spesso nell'ombra al libaigu, o asciugate al sole di un altro punto e a capo,
tra partenze e arrivi, imbarchi e sbarchi, porti e riporti di promesse da marinai,
per ogni nuovo capitolo rosa aperto e mai chiuso, del loro romanzo personale.
Le loro mani creano e ricreano, accarezzano e schiaffeggiano, al ritmo dei ritmi delle onde,
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si fermano come la bonaccia, si alzano e si abbassano come l'alta e la bassa marea.
Donne tutte sante davanti all'unico specchio nel quale riflettersi, quel mare e cielo a testa china,
come nelle panche in chiesa, tra le asprezze del domestico ad imbandire il quotidiano,
che nelle vostre morbide palpebre affondano e trovano riparo, consolazione, vita.
Santa non è solo un nome, è un sine qua non, di donna alla pari, funzionale di eponimia.
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Argentina e Maurina (sorelle della solitudine e sole)
Due sole e donne noi, come la esse di due sorelle in fuga dalla solitudine,
in quei vent'anni, di petali strappati alle primavere acerbe, lunghe un ventennio.
La nostra porta come una trincea, la paura in ogni momento, sempre,
e quel buio profondo e nero di camicie, e faide nel pubblico e privato
di ottenere soddisfazione per il piacere di un diritto del più forte.
Tutti contro tutto e contro anche chi si trovasse in chiesa o in un tribunale,
o vi stesse per andare chiamato testimone cooptato sotto mira di paura e fame.
Dall'olio di ricino alla brillantina e poi rasate soltanto per aver sorriso ad un'aquila,
e noi sempre senza il coraggio né prima né dopo di protestare, noi solo reverenziali.
Io Argentina nome adespota (non vi è infatti alcuna santa che lo porti), ed io Maurina
con lei nell'onomastico che viene eventualmente festeggiato il giorno di Ognissanti.
Noi solo obbedienti in ogni tempo e costume al prepotente, umili creature insieme a tante.
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A Canuna (madre che gridava il nome della figlia Lissa, notte e giorno; Lissa morta giovinetta e
lei, Canuna, impazzita dal dolore).
"Potresti baciarti il gomito se tu fossi come la Canuna"! Una vibrazione nella forza.
Un fermo musica. Da fuori si sente un suono che ci ricorda una notte,
tanti anni fa, che ha sentito una donna partorire in casa un dolore.
Si apre una finestra, si affaccia in strada. Un calice graal senza blasfemia.
Le corde vocali sono messe alla prova, vengono fuori suoni che non pensi siano possibili.
E invece sì, lo sono. Due occhi totalmente immobili, paralizzati; muti.
Lei a volte sta ferma, poi si muove, si contorce, sembra Pina Bausch; urla:
"Potresti baciarti il gomito se tu fossi come la Canuna"!
La doppia erre di carruggio rimbomba per la sua voce e le consonanti,
diventano la stessa cosa, come i ciottoli di spiaggia quando rotolano con l'onda grossa.
Poi una voce piccola, soffice, innocua, in quel vicolo del centro storico di picchi lucidi
di luna e sole e stelle, per albe fino al tramonto che in Canuna madre mai si è spento.
E' quel vagito della sua Lissa nel singhiozzo di una Borgo calmo e sonnecchiante.
Lissa è la sua battaglia quotidiana, Lissa è il seme che il vento non ha scelto il solco.
Lissa è il pane mai lievitato, azzimo, che riposa in un campo di grano con cipressi.
Lissa e Canuna, lo stesso volto che si affaccia, ogni giorno ed ogni notte, voce
dalle rughe di un solco, figlia e madre, rosa cenere.
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Bageu (quell'amor che a cuor gentil ratto s'apprende)
Ho le borse sotto gli occhi, e quei capelli brizzolati e spettinati sotto il basco blu notte,
che hanno fatto tanta levataccia all'aurora mite, che sa far gli onori di casa con una rosa,
che legge i problemi, le aspettative, la fatica dello sguardo verso gli altri, sempre e solo giudicanti.
Il giorno è uno spazio da costruire o da distruggere anche se oggi non abito più qui,
in questo tempo di melassa denso di significato che per me significa pozzanghera,
io che sono stato u Bageu, (il rospo), il solitario a navigare sui miei piroscafi a dimensione nana.
Sant'Antonio e Santa Susanna più di due Santi in questa stanza e zattera della medusa,
un diario di bordo, un salmo da recitare come preghiera di devozione, che ancora ci accompagna.
Le icone si spostano col sole anche quando seguono l'amaro tramonto, e sul mio caleidoscopio
si vedono solo stelle, quella sintesi d'istanti illuminanti dell'oltre terra, mare e cielo.
Santi in libertà di convincimento da quel giudice, apprestato dall’ordinamento,
per evitare che l’esito dell'amore a cuor gentil sia rimesso a discrezionali apprezzamenti,
soggettivi e confinanti con l’arbitro del pregiudizio, capace solo di fischiare sempre.
Un bacio, anche ad una foto, sta nella cornice che è il cuore nudo di una donna innocente,
come si esce amore dal seno di una madre e nel mistero si ritorna compimento.
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Paioffe (poeta e navigante di un sogno tra stelle e strisce)
Paioffe poeta e navigante di terre lontane per improbabili amori, e frutti esotici e naturali,
nati tra album di dame di Lautrec, rose e spine, e cavalieri di Bacco, tabacco e Venere.
Paioffe uomo di gomma, campione di box per una scommessa in un boccale di Brewery Brooklyn,
all'angolo di un'osteria di porto, nel giallo caldo della sera, di una lunga birra alla spina.
Joe Rosemberg un welter ballerino destinato ad essere una stella tra stelle e strisce,
fu la sua vittima, cui rovinò la carriera, e la reputazione d'eroe Highlander, l'ultimo immortale.
Un jab e il volo dopo un gancio a ricadere cencio sullo stesso, immobile e lasso, panno steso,
come un vecchio abito fuoriuso e dismesso, abbandonato in un guardaroba tra canfora e naftalina.
Paioffe il sognatore, colui che Chagall considerò la quinta essenza di popolare fantasia e filosofia:
"Se ti abbia fatto male aver bevuto troppo vino la notte, ribevilo alla mattina e ti sarà medicina".
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Ganna e Gerbi (nomi e soprannomi di miti e di mite persone)
Ganna e Gerbi soprannomi di chi resta a bordo strada,
con berrette calcate sulla testa fino alle orecchie
e nomi di chi va in bicicletta con l'Atala o la Bianchi,
con i copertoni stretti, abbracciati a giro spalla.
Chi batte le mani e chi forza l'andatura, sotto un vero
e proprio nubifragio, al buco meteo delle muneghe,
con il vento di tramontana che scuote la fatica,
il quattro aprile del millenovecentonove sul Berta.
Storie di italici bravi corridori, storie di cervesi brava gente,
mentre il Diavolo Rosso si scatena, scatta,
Luison gli si incolla a ruota, non cede, lotta,
e vince con la resistenza fatta di calorie nostrane
di grano saraceno, uova sbattute e marsala,
mentre altri hanno trovato rifugio in un casolare,
e la giuria è rintanata in un confortevole caffè fumante.
Ganna fora al giro di Caracca e mette il piede a terra,
poi riemerge grazie al provvidenziale aiuto, quella
manina santa dell'amico tifoso, a cui concede nome e destino,
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per ritornare a pedalare dritto in sella e supino.
Il Ganna cervese prosegue la sua corsa con Gerbi il compaesano,
tifosi ma compagni sempre nel tagliare il traguardo,
fianco a fianco allegri di nome e anche di fatto,
dove si scorge affrescata e beata l'insegna d'un'osteria.
A quel punto i giochi sono fatti, e tra l'entusiasmo alle stelle
di un bicchiere colmo senza colletto e alla randa,
nomi e soprannomi restano in un unica veritas palmares,
sia per i primi, sia per i secondi, al solito vero traguardo
di chi a fine gara di una bottiglia, brucia lo stomaco,
e chi ha l'impressione più viva di una sella, che "le brusa tanto el cü"!
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Michè, Petro', Pinetta, u Pesciu, u Pippu, (session men aborigeni)
Michè, Petro', Pinetta, u Pesciu, u Pippu, session men
aborigeni trovatori e trovieri incantatori, ilari e discreti
poeti musicisti, ad offrire le loro ugole e notae veritatis
alle nostrane damigelle tra basilico e rose ai balconi.
Canto, basso, fisarmonica, chitarra e mandolino
accordati alla lingua provenzale quella lingua d'oc,
e quella d'oil che madre e matrigna è poi del loro volgo.
Gautier de Coincy, Thibaut de Champagne, Gace Brûlé
furono i loro maestri concertatori, che arrivarono a loro
cantando l'amore, un amore della passione ideale,
sublime, esclusiva, nei confronti di una dama di virtù
che faceva l'uomo che l'amava, più serio, più valoroso, più.
Un Cyrano ed un Romeo per una Rossana ed una Giulietta
uniti a quella trama lungo una treccia di uva americana.
I valori fioriscono in un gesto delicato, che ci resta immaginato
in quello sguardo semplice, come un volto dietro una persiana.
"Nelle erbetta, nell’erbetta tenerella,
la mia bella la mia bella se ne sta,
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lei mi guarda, mi sorride e mi guarda,
mi sorride e mi guarda là nell’estasi d’amor".
Una grande attesa e una curiosità di chi educa gli sguardi
e un nessun dorma anche alle chiacchiere senza timone,
mine vaganti.
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Palanche&Spicce (sogni d'oro e bolle di sapone a tintinnare)
Palanche&Spicce io e loro, a tintinnare monete dopo il viaggio,
in quelle tasche bambine, dalle fossette sorridenti e gaie.
Le terre assai lontane sono sogni d'oro, per chi sta ad aspettare,
e per i marinai, simpatiche canaglie, bolle di sapone a scoppiettare.
Io rispondo che non ho soldi ma solo palanche e poi nel tratto degli scalini,
incontrando i paesani, salto e meno le mani tra le monetine sonanti,
faccio la mia camminata sghemba e mento sapendo di mentire.
Ho appena mentito da ricco e sono un proto questuante.
Non ho la maschera né il senso di colpa solo tempo a perdere,
per far passare le ore a tintinnare, come il resto della giornata,
anche se sono in parte rincuorato, dall’idea certa,
che la signora Claudia diventerà nera in volto, come in veste.
Lei penserà che sono lo stereotipo dello zio d'America In,
incoronandomi tra i nobili, u Sciu' Enrico benestante.
In fondo la verità, come l'olio, viene sempre a galla,
e va ad ascoltare il Santo protettore Giovanni
e l'oste che urla ai commensali "Deve darmi cinque denari"!
Cinque denari sono il profumo della mia carne
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sono sangue del mio sangue, gocce di sudore in terre assai lontane,
sono quanto pesano nella mia tasca cinque denari
che cadono sul suo tavolo, davvero, in modo che possano tintinnare.
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U Seain (un uomo in gabbia)
Sono Seain, il verzellino, ho il naso come il suo becco andino,
fronte e nuca giallo-verdastre, rigate di bruno-nero sfumato,
sopracciglio alto ed occhio glauco, lui beve e io bevo, ma differentemente.
Lui beve acqua ed io acquavite, per diversa sete, che condividiamo,
come la stessa gabbia in cui entrambi e insicuri caprioliamo.
Sì,sono geloso io, e come geloso, io soffro troppe volte, sempre.
Lo so perché sono geloso, e sano mi rimprovero di esserlo con lei,
mi temo e cado col ferire lei mai con mano pesante, ma col labbro
che trema e urla, con lo sguardo acceso e abbaglio di una banalità.
Io soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere e non essere,
di essere pazzo e di essere quello degli altri che mi spingono a capriolare.
Io sono il silenzio della mia vergogna nell'alba in scia del tramonto,
rossa come quella macchia di vino, caduta da un coccio incrinato, rotto.
Spesso ho il singhiozzo che non è fatalità, ma un battito in gola,
perché son fatto così, son farina della mia debolezza.
Sì sono in questa gabbia e fuori, solo e insicuro con chi mi dimentica.
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Luensin (la vita nella sua semplicità)
Sono Lorenzo, una di quelle stelle che aspettano il mio santo
per arrendersi cadendo, la stessa notte sotto il segno del leone.
Ho pochi appuntamenti come le mie giornate, che cadono anche loro
per semplici distrazioni nei giorni di riposo, passando da un cantiere grigio,
ad un rettangolo di verde, tra righe di calce viva, come la mia passione.
Il nero e l'azzurro il mio blasone a strisce verticali, su di una maglia
ed uno schermo in bianco e nero, ad occhi aperti come fari sulla mia pelle.
La gazzetta del lunedì, un appuntamento fisso in mente all'edicola in andata,
come la memoria di ogni nome di calciatore, muscoli ed eroi, cantati al ritorno.
Il piatto preferito un lapin alla ligure, ricetta nei giorni di festa o comandati,
a muso nascosto in un piatto discreto, come me per non essere scovati,
e girare intorno alla casa come alla tana, legando il portone a più mandate.
Non ho la paura di camminare da solo, non ho la corsa di seguire le orme d'un'altro,
né scriverne altre o dipingerle, perché la verità profonda è la vita, nella sua semplicità.
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A Longa (l'artigianalità ed ironia degli occhi di Venere)
Il mio porto è dove il dialogo muto fra mente e cuore naviga sereno
sopra la marea di un dibattere animato tra gomitoli di lana
e scialli e macramè tra me che sono la Longa e una gatta rossa.
Io sono alta più dei miei anni e della mia generazione nascosta
tra guerre che hanno più di cent'anni di fiori nati e fiori recisi
portati in cento processioni tra canti spirituali imparati senza capire.
Mi hanno insegnato che chi nasce non può guardare il cielo
seppur ha gli occhi sinceri del vagito prima di aver un segno benedetto.
Mi hanno portato un velo a ricordare l'abito nuziale di mia nonna,
che ho visto per anni in una fotografia e in questo nome in suo nome.
Io che ho imparato a leggere e scrivere tra aste e carasse in banchi di legno,
conoscendo la mia strada come un segno, tra una matita copiativa,
un quaderno, un abbecedario, custoditi in una sacca di juta per la spesa.
Dall'alto dei miei occhi che aveva Venere guardo al nuovo con curiosità
e ironia che si rifugia nelle trame impalpabili di tessuti senza tempo.
Questo, è il mio essere donna sempre per l’inverno che sarà,
portando in passerella, da questa banchetta d'ardesia e cemento
tutti i giorni la moda di chi passa, nell'artigianalità del nostro bel-paese.
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Per me l'uomo e la donna sono giare refrattarie ai cocci rotti,
messi insieme per stare, nonostante, insieme in tutti i terremoti.
Non vedo differenze, contano solo le somme delle doti a prendere
e mai lasciare niente, pur che la roba resti e il nome dominante vada avanti.
Questo è ciò che vedo con questi occhi che ti battono una mano sulla spalla
e poi girandosi verso di te, sono un finto burbero che s'illuminano da gatta rossa.
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Nicoletta (Lina poetessa sulle ali dell'eternità)
"La Parca inesorabile ha reciso il tenuto stame di vita"
oggi mi manda "sull'ali del vento" al suo saluto estremo.
La mia vita di poetessa e scrittrice di fato e di natura
della umana semplicità del quotidiano Borgo natio si è spenta,
ma aleggia nei miei versi dedicati e sempre con me in pace
"all'irta sua rupe montana che ancora la rammento e l'amo".
Nicoletta (Lina) sono oggi più che voce un suono in questo loco Bormanno.
Lascio il pennino che ha scritto in versi mille storie tra carruggi e fasce,
persone e personaggi, flora e fauna, stelle e mare
a navigare ancora su fogli e quaderni di memorie su onde
di una vita dedicata al senso del rispetto universale.
Io recito e parlo a cuore aperto, senza freni,
libero a lievitare gioia nel mio sguardo per chi
in empatia accompagna questo silenzio d'oggi accanto.
Siamo noi tutte queste poesie accomodate in una scatola,
scritte su foglietti ripiegati e cuciti con filo e ago
con la stessa cura di tanti ricami ad uncinetto.
Ho coniugato amori e sofferenze riposti cassetto dopo cassetto
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in maniera profonda per poi salire a galla di ogni alba
quella grande e leggera sensibilità che riemergeva a vita.
Per lei ho scritto migliaia di lettere e le ho legate di struggenti riflessioni
sulla vita, sull'amicizia, sull'amore, sulla morte, la benvenuta e viva oggi,
perché con le parole della vita sta la semplicità che si fa gioia.
Già il senso delle parole e la loro importanza.
Quando una parola è detta, o scritta, non ha esaurito la sua funzione,
perché proprio in quel momento quella parola inizia a vivere
nella memoria di chi l'ha ascoltata o letta.
Tutto ha un senso di fresco, anche la morte, concretizzato nella rugiada
che scende sul mio corpo vestito di garza e tulle.
"Non scegliamo noi di fermarci, di interrompere la nostra vita,
ma è lei che arriva, si ferma alla nostra porta
e non ha bisogno di imporsi con la forza, perché sa di essere inevitabile".
E l'ultimo viaggio si fa in solitudine, io, noi, la morte,
e quel mistero insondabile che è l'eternità.
Il percorso è lento: la morte, messaggera dell'eternità, non ha certo fretta.
I secoli che passeranno saranno ormai senza tempo,
brevissimi in confronto a quel lungo giorno
in cui capimmo subito che quel viaggio, apparentemente familiare,
era quello che ci portava verso l'eternità.
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Ed è puntuale e premurosa, la vera benedicente madre.
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Papu' - Pi (Sansone e cigno dai sentimenti buoni)
Ho i piedi nudi dal giorno del vagito, al giorno sacro del cigno di Minerva,
danzando tra cocci aguzzi di bottiglie, sui picchi a corona della strada.
La forza per me è la ragione, l'unico motivo, la sola canzone che conosco,
in questo schioccare di dita callose, e dure come i nodi d'una sciabica, uno via l'altro
dei miei rosari laici, che corrono da capo Sant'Antonio a capo Berta.
Sono un re leone dagli occhi di talpa, con lunghi baffi e il gusto felino,
mi basta un passo, un tintinnio, un eco, qualsiasi voce per conoscere anche Dio.
Io che, come Sansone, caddi nei lacci della rete del demonio per amore;
io cieco per volontà di una donna che, pur avendo occhi, non vedeva se non il potere.
Io caddi nel corpo per risorgere, a vedere in me, con gli occhi dello Spirito,
la vera forza soprannaturale, per portare a tutti i costi a termine la missione,
che Dio mi aveva affidato, dopo uno sbaglio veniale di cecità materiale.
Ritornai a Lui, come fece Sansone, nella mia vera forza e senza più nemici.
Mi chiamarono Pi quel giorno che decisi di sparire cigno, dall'ultimo vagito, alle mie spalle.
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Biciclin Batollo (una bicicletta per il paradiso)
Io ho il mondo nei pedali, io ho questa circonferenza e ruota fissa
che mi fa sognare, mi fa correre il rischio di vivere l'inquietudine dei miei sogni.
C'è chi regala lampade di Aladino, io regalo biciclette immaginarie.
Ne ho tante, ne ho per tutti, ho il dono di far sorridere i bambini,
i giovani, i meno giovani, insomma tutti, ma proprio tutti in fila sulla mia sella.
Biciclin, mi chiamano, che poi significa velocipede, che è la vita che sta sù perché va
e può valere un libro di geografia, con quei suoi guanti in gomma, che sfiorano la terra.
Quella terra che è solco e raccolta nelle righe dei giornali, accartocciata, piegata,
che io libero leggendola a voce alta, spiegandola a tutti i passanti, sillabando
il titolo, il prezzo, la data, il direttore, l'editore, anche la propaganda.
Un foglio di giornale vale pure un berretto a falda larga con un intreccio.
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Fa parte del riciclo del mio modesto guardaroba, per abiti da quattro soldi e stagioni,
sì, perché ad ogni loro cambio c'è chi li passa sulle mie spalle, come fossero grucce.
Già, le quattro stagioni a girare con i loro raggi, in quelle ruote coi loro nomi,
primavera, autunno,estate, inverno passandosi il testimone all'acuta carezza.
Poi un giorno salta un raggio, si buca il copertone si mette il piede a terra.
E' il giorno del riposo, quando calano le forze come il sole al tramonto,
ma non ritorna l'alba, e resta un tiepido istante tra i raggi stupiti, verso la soffitta del cielo.
Il paradiso in terra non esiste, ma chi va in bicicletta ci arriverà sempre e comunque.
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Lupini (l'uomo che afferma l'uomo)
Il vino buono è solo quello dell'Osteria della Palma,
il vino prepara i cuori e li rende più pronti alla passione.
Il vino è un pergolato dai tanti tralci e ha i gomiti alti
verso Bacco, nel suo teatro fatto di un deus ex machina
che scende in gola, altrimenti diventa agro aceto.
Sono Lupini l'uomo che ha nelle vene il rosso rubino
ed il mio volto aguzzo è la maschera nera di arlecchino.
Io non sarò mai servitore di due padroni tiranni e despoti
che sventolano il rosso labaro e quello nero gagliardetto.
Parlo da oratore d'avanspettacolo, parlo da menestrello,
ma quando parlo sono un rivoluzionario per davvero.
Parlo, dico il vero ed è per questo che sono stato prigioniero
in una notte di luna piena e rossa come questo gotto senza colletto.
Ho sognato nella mia vita, sogni che son rimasti sempre con me,
passati attraverso il tempo ed attraverso di me, come il treno
che sbuffa e fischia, sul rettilineo tra la Madonna della Rovere e Cervo.
Io non sopporto che una macchina, opera dell'uomo, possa domarlo
e neppure capisco che si parli dei suoi cavalli, che mai ho notato.
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Io sono un equilibrista sopra i suoi binari e con le mani posso fermarla,
sì, perché l'uomo ha costruito la macchina e l'uomo la può fermare.
Io sono l'uomo che afferma l'uomo, e lo dipinge in vino veritas
quel fuoco sincero che accende il cuore e illumina col suo spirito l'anima.
Io, Lupini, sono un dispetto che mette alla berlina chi diventa un despota
e come tutti i lupini evita i ristagni idrici e l'asfissia radicale,
richiedendo terreni sciolti e ben drenati.
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La Chicchella (La leggerezza d’una farfalla)
Sono Chicchella la leggerezza d’una farfalla florida, colorita e infatuata
alla leggiadria che sia la fantasia, sia la stregoneria quasi magia
per chi sta a guardarmi volteggiare in questa garbata pineta.
"Abracadabra via di qua, io volo là"
io che sparisco innocente in un battito d’ali nel sereno di vetro
o tra le nuvole sospinte dal vento dietro i cespugli di cisto
o gli arbusti di terebinto, rovi di more e azzeruoli in fiore.
Lascio ogni sguardo nel ritmo dei canti dei fringuelli, dei pettirossi,
delle capinere, dei merli, dei cardellini, luna dopo sole.
Ogni cinguettio echeggia con l'intermittenza dei battiti a pastello
che si sciolgono sulla tavolozza del cuore degli astanti.
Certo sono ingenua in un mondo di fantasia per una età che mai cresce
in quel lasciarsi andare, sognare, scaricarsi della realtà confusa,
al rannicchiarsi con poche mosse nell’ideale di felicità.
Sono un'onda per una apnea dove puoi esprimere un desiderio,
considerando Chicchella, io, come una Ninfa Oceanina,
quella delle acque salate trasformatasi in una leggera farfalla.
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Affidatemi ancora quel desiderio sulle ali di questo spirito soave,
che in voi da tempo rifugia, bramando ai miei fiori in povera terra
la sua realizzazione in quel movimento d'ali fra i petali:
"Abracadabra via di qua, io volo là"
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Napulitan ( il borgo Napoli sponda del mediterraneo)
Eccomi Napulitan sulla stessa sponda mediterranea dell'ulivo
e anche Borgo Napoli di tutta la nostalgia e tutta la sofferenza,
di chi è stato esiliato dai solchi e dai semi della mia terra.
Io sono colui che vive in fuga e di chi è bollato clandestino,
senza una fissa dimora, senza la semplicità di un focolare,
senza una serena vita familiare, il mio tetto, la mia finestra.
Nella mia scatola di cartone porto le macerie, una tarantella,
che sono le parole che liberano e che salvano una generazione.
Il mio braccio è un ponte per chi stringe il naso, alza le spalle
davanti alla mia carta di identità, firmata da una croce di nome e vita.
Ho l'orgoglio del sole d'alba che accende ancora il mio fiato,
che da voce alla voglia del riscatto, per una rondine senza ali.
Sono il pioniere di una nuova generazione, il nuovo aborigeno,
tutti i nuovi volti e le labbra cui chiederanno i nomi del passato.
Sono il viaggio di Enea, di Ascanio e di Anchise in ogni tempo,
sono il sorriso e il pianto di una onorata dote nel nome del Signore.
Sono, siamo noi con voi, siamo le nostre donne ali su una banchetta,
a intrecciare gli aghi per rattoppare panni lisi per i nostri figli.
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Sono le stesse abitudini sommerse sotto lo stesso mare,
a tentare assieme il destino di cui fui e rimasi qui, meglio che potessi.
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Pasqualina (l'angelo e l'agnello sacro)
Il mio nome cade dopo l'equinozio di primavera, nel ricordo dell'angelo
passato oltre le case degli ebrei, segnate con il sangue dell'agnello sacro.
Io ho camminato col sorriso sui carboni ardenti dei loro occhi,
correndo con gli abiti accesi non dal sole, ma ancora gemma da rugiada;
io come ombra del fuoco, io come fiore nell'oscurità così compagna,
caduta dalla vita così nidiata di serpi, al sonno eterno e culla dei buoni.
Resta un passaggio allegro, vivace, energico, premuroso, per amici e parenti,
che copre di doni nella fertilità di donna, come l’infinita pioggia sull’arido deserto.
Riposo nelle braccia del mio corpo e della mia nuda anima, sfogliata dalle spine
come rosa in un libro dalle labbra chiuse, oltre quel focolare in profondissima quiete.
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A Nin de Petro' (una signora di rosea cera)
Ero una signora di rosea cera e di onorato casato e blasone
avevo lesto seppur cadenzato linguaggio come il mio passo
ed uno specchio che facevo correre di fronte e di profilo nel mio biancore lunare.
Vestivo di broccato nell'inverno delle tramontane e del maestrale,
una pesante seta, molto pregiato, con grandi disegni a rilievo
su fondo raso, tessuti con fili d'oro, d'argento e rose di altri colori.
Avevo gli occhi del mio paese amici nobili ed anche eredi di ricchezze
nella devozione di un salotto per novizie spiriti anelanti e dell'ignoto.
Il mio dono era di interpretare le pause degli sguardi nel moto delle ciglia
in quell'ora di visita privata e di pietà cristiana a scorrere tra le dita di un rosario.
La mia passione di gola era una torta ben cotta farcita di panna,
e un cabaret di paste alla crema di gianduia negli inviti graditi e fuori dai pasti.
Ecco la mia vita candida e di candore come un raggio di luce di vita spirituale
su labbra rosa d'alba nel gioco di una vita mai ruggente qui nella mia casa
di bambole di ceramica, pizzi e macramè finché caddi ai loro piedi in una culla.
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Giuseppe (quell'eterna pace in "cua' si vive")
Sono andato in pensione come si esce da una stanza senza infissi
e sono entrato alla corte e nei reami di questa collina di rocce, terra ed ulivi.
Mi restavano per il paradiso solo due anni, per tentare ancora di respirare
e vincere quella solitudine d'aria di sale e salso, dove io vissi all'inferno.
Avevo in mano dei chiodi, un martello, sabbia, mattoni refrattari,
calce e cemento quanto non basta, per erigere una baracca nana.
Il resto fu recuperare porte e finestre, coppi da risulta, forza e anima
per quel quanto basta, per comporre questo puzzle di mia fantasia e creatività.
Nessuno lo sapeva che il mio tempo era amante di bugie, a breve scadenza,
nessuno e neppure io che avevo superato piombo e naufragi, nei miei verdi anni.
Io pensavo a questa mia cattedrale nell'orto dei miei avi ed elfi d'aria, fuoco e terra,
io che avevo pure previsto dieci tinozze d'acqua di sorgente per ogni fascia,
per l'incantesimo che non si doveva rompere, ma solo penetrare come eterna pace.
Quella eterna pace che scrissi in tre parole, per due errori di grammatica: "cua' si vive";
ma esiste solo un errore innato, ed è quello di credere che noi esistiamo per essere felici,
noi che siamo sentieri del pensiero, con l' inganno di sirene scorciatoie,
che invece di portare alla meta ultima, sempre che vi sia, e avesse Lui ragione,
rappresenta la conditio sin qua non, per comprendere che si rende prima o poi.
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Genovino (calzolaio in una antica stanza)
Sono cresciuto da calzolaio in una antica stanza, a pianterreno,
tra la strada di via Marconi e l'angolo a 90 gradi della circonvallazione.
Non aveva alcun portale la mia bottega, però era a 20 metri da un palazzo
nobiliare di pietra viva, di quella pietra barocca, scolpita nel blasone dei Viale.
Lavoravo di giorno e anche di notte, per confezionare calzature di ogni tipo,
scarpe basse, alte, robuste, delicate, un completo campionario, straordinario.
La mia porta era uno spazio aperto, dove si rimaneva in piedi sulla soglia,
tra spaghi, chiodi, centrelle, cuoio, pece, setole, i ferri del mio mestiere.
Tempi difficili, tempi dove tutto doveva essere arrangiato, c'era da correre
su quelle scarpe di una certa età, sempre consumate dal troppo camminare.
Scarpe dalla bocca sempre larga, come tante bocche da sfamare,
scarpe dalla punta consumata, con i lacci annodati come fazzoletti,
per ogni memoria e scusa diversa, rapida, originale di chi non poteva pagare.
Occhi stanchi i loro ed i miei, occhi arrossati per il Caino lavoro, e noi gli Abele,
e quando le mani erano troppo stanche, usavo i denti per tirare lo spago al sapor di pece.
Oggi la pece e lo spago non si usano più, di pece ce n'è rimasta soltanto
una scatola vuota per ricordo, e di spaghi ce ne sono alcuni pezzetti in un cassetto.
Si possono vedere la domenica davanti alla vetrina, aperti in un museo, calzature
in fila, sull'attenti e dalle cuciture resistenti, quasi simili allo scudo di un nobile guerriero.
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Vittorio da Fransesa ed Evelina (la bottega conviviale e onnicomprensiva)
Il banco dei salumi e dei formaggi con il pane, e quindi i dolci
occupava lo spazio più grande sulla sinistra, appena entrati,
sulla destra frutta e verdura di stagione, pura e fresca di rugiada.
Alle spalle una scaffalatura con il resto dei prodotti, numerosi,
non avevamo concorrenza fino a quando non aprirono i supermercati.
Noi siamo due coniugi ci suddividevamo i compiti, e i sorrisi ridondanti,
io Vittorio mi occupavo degli affettati e dei ciappetti sempre pronti,
di sali e tabacchi, di detersivi in bottiglia, liscivia in pacchetti e pacchi.
Lei Evelina, in perfetta discrezione, del pane, del caffè e caramelle,
della tenuta dei libretti con la copertina nera, vellutata come la sua chioma,
e la rilegatura rossa con il nome del cliente incorniciato, sulle sue labbra rosa,
tenuti ordinati e impeccabili, come i suoi colletti inamidati di appretto,
in una cassettiera profumata, dal doppio fondo, in un angolo del banco,
sotto il cartello dove, bianco su nero, si leggeva: "qui si vende chinìno di stato".
Su ogni rigo di libretto giornalmente veniva indicato l’importo e la data della spesa.
Li teneva aggiornati con la penna a biro bic azzurra, ancorata ad uno spago,
erano pochi quelli che pagavano in contanti giornalmente, eccezionalmente,
alcuni lo facevano a fine settimana, molto raramente, quasi mai.
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Più numerosi, ma puntuali quelli alla fine del mese, ogni 30 giorni di calendario,
usanza molto diffusa di credito al consumo in quegli anni ruggenti,
più belligeranti, anni comici e sentimentali, di voglia di vivere, di trilogie,
"Poveri ma belli, Belle ma povere, e Poveri milionari" degli anni '50 anche a Cervo.
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A scià Lisina (la pustea, un S.O.S tra bonacce e tempeste di un transatlantico)
Una buia galleria, quasi un antro d'uno scoglio,
una umida spelonca questo ufficio postale anni '50,
fra crepe, muschi e licheni come vasi spontanei
ad un balcone di commiato o di saluto.
Si comminava allora nei primi anni cinquanta,
il dopoguerra era ancora alla porta,
anche se con un occhio solo, ma lì, fermo e presente
come una sentinella di piombo, ora pastore da presepe.
Io non avevo rivali nella mia professione,
ero sola e da sola con la mia mansione,
ero a Scià Lisina, con la nomina di "pustea"
sulla mia sedia, con fuori la pioggia o il sole.
La fila la faceva un breve e stretto corridoio,
dove il respiro era fremito di sepolcrale apnea
in quella pancia tra denti dischiusi di balena.
In quella sede allora il pubblico aveva pochissimo spazio.
Una volta varcato l'ingresso ci si trovava già allo sportello,
aperto su una parete di legno, e davanti io china quasi prona.
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Alle braccia avevo delle strane mezze maniche di stoffa nera,
indossate per evitare di sporcarmi la giacchetta e la camicetta.
A quei tempi di inchiostro liquido per timbri e penne se ne usava parecchio.
La polvere faceva da padrona tra i registri, sui tavoli e negli scaffali.
Ricordo un strano ticchettio che in alcuni momenti invadeva l'Ufficio: il telegrafo.
Tutti i messaggi ed i telegrammi (non c'era ancora il telefono)
venivano inviati ad altri uffici con questo apparecchio
ed il ticchettio scandiva le lettere dell'alfabeto Morse
quando ancora molti faticavano a scrivere e fare le 4 operazioni.
I servizi che l’ufficio svolgeva erano quelli di recapito
della corrispondenza in arrivo, compresi i pacchi postali,
formazione dei dispacci della corrispondenza in partenza,
compresi i pacchi, servizio di vaglia e risparmi,
apertura di "libretti" per depositi a risparmio,
buoni postali fruttiferi e, quando attivato, anche servizio telegrafico.
Non erano molti, ma per il paese erano tanti,
come le rimesse dei propri familiari emigrati all’estero,
spedire e ricevere lettere, senza aspettare la partenza
o il ritorno dei paesani per mandare
o ricevere qualcosa dai propri parenti lontani.
E quando arrivavano i pacchi dall’America o dalla Francia
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era grande festa per la famiglia che li riceveva
ed anche per tutto il parentado, fino all'ultimo giorno
di cui io, a scià Lisina, fui punto e linea, un tratto,
un S.O.S tra bonacce e tempeste di un transatlantico.
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Biagio (lo spazzino fiero della sua arte e del suo paese)
I picchi per me erano tanti denti da latte e panna,
quelli delicati dei bambini sorridenti per una caramella,
e la mia saggina bruna un tenero spazzolino sentimentale,
che passava ogni giorno contandoli fra carruggi e piazze.
Il mio era un volo dall'alba al tramonto rosso trionfo,
a cavallo di questa scopa magica, un ditirambo, una giga.
Un passo ed io spazzo tutto ciò che si smarrisce,
raccogliendolo con gentilezza in questo tegame,
ben stretto tra le mie mani intrecciate e forbici giganti.
Avevo gli occhi dei grandi amici di baldorie,
dal più bravo al più umile, sempre in pace.
Mi irritavo,a volte, nella mia divisa verde bandiera,
per me simbolo di appartenenza all'ordine costituito,
come una innocente foglia fuggita al suo ramo,
quando qualche velocipede, in via 2 giugno, correva contromano.
"Segnami su questo foglio stropicciato la targa,
che se li prendo ce la faccio pagare cara"!
Ecco la mia sentenza, la mia fede nei secoli fedele come a Giulia
di uomo scelto, per garantire la pulizia e polizia di paese, il mio.
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Non importava se sapevo leggere il diritto, conoscere la causa,
ero un uomo del sud radicato a Cervo, un cervese scolpito
su questa roccia sorta dall'acqua, anch'io con una fronte alta.
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Luigina da Rosa (tra le sue creature cucite, sedute accanto)
Mugnigna è piccolina, Mirko è peloso, Tatà soffice,
e con le mie carezze sono tutti morbidi di fuori, tanto
che si direbbero fatti tutti di bambagia, senza ossa dentro.
La mia toiletteria non sono gli specchi di perle preziose
ma le mie mani, il mio seno materno, i miei occhi pervinca.
La mia mensa parte dalla mia porta e arriva alla campagna
con intorno le mie fameliche creature riconoscenti, attorno.
Le lascio sciolte, e se ne vanno sul prato, tra i fiori rosa, celesti e gialli,
io accarezzo tiepidamente il loro musetto, sfiorandolo appena.
Le chiamo dolcemente e vengono da me con un balzo allegro
che par che rida, in non so che tintinnio ideale sia, oda, seppur reale.
Mangiano quando gliene dò, e sono spaghetti e penne al pomodoro,
profumati al basilico, tra questi mandarini e nespoli
e l'uva moscatella stesa sul pergolato della Colombera
tutta d'ambra, con i suoi fichi violetti, ed anche candidi
con le loro goccioline a scivolare, di miele cristallino.
Sono attimi di tenerezza, ricchi di vezzi
come s'offrono a un bimbo, come a una bimba.
Io e loro nei carruggi e nelle mulattiere per amarci
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finché ed oltre chi, dopo un balzo, non metterà più piede a terra,
noi creature che non chiediamo chi ci vuol bene,
resteremo accanto alla vita lieta e serena,
cucite, sedute accanto, sulle nostre banchette basse.
Udremo cantare il vento dall'ampia chioma degli angeli,
in un cielo di sempiterno azzurro tranquillo ed infinito
e sarà gioia e frescura per le nostre ceneri senza chiaroscuro,
quando ogni speranza è ancora intatta
e la nostra qualità umana in pace eterna.
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Biggio (maestro d'ascia)
Potrei elencare tutte le stelle del firmamento,
di chi, come lupo di mare, ha parlato al cielo
per ogni distanza misurata in nodi marittimi,
tanti quanti quelli annodati in un fazzoletto di memorie.
Ho inventato chiglie e polene per l'acqua salata
e richiamata anche quella santa di Sant'Erasmo.
Colui che fu faro di luce in testa d'albero maestro,
segno della propria presenza dopo le tempeste.
Io Biggio a lanciare ponti sui continenti maestosi,
io erede di Prometeo, con tra le dita il vaso di Pandora.
Potevo con gli occhi scegliere ogni albero,
in cui immaginare un albatro di Charles Baudelaire,
gigante con vele gonfie e tanti remi ai fianchi verso misteri.
Il Ciantè era un golfo ed arco, di un arciere provetto,
con il suo palmo a scivolare la prora, a guisa di lunga pipa
il mare, poi, a restituirla come il tappo galleggiante di una bottiglia.
Quella bottiglia che un giorno riportò un'onda zoppicando,
e non trovò più il suo paradiso, ma l’inferno che volava.
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Io fui il poeta come il principe delle nuvole,
che continuò nell'aria di fuoco ad essere la luce di Ilio
per la mia ascia e per le sue vele ali di gigante.
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U Patatin (uomo arcobaleno in uomo indipendente)
Certi silenzi sono un pensiero limpido,
come sgorga l'acqua di sorgente,
nato con la sete di conoscere il mare,
io, l' Angelo che striscio il cielo, per farmelo amico.
L'orizzonte ha alberi di navi che vanno e vengono,
battendo larghi cerchi di prue e poppe in viaggio.
Fu allora che ripensai al mio Bausu,
alla mia casa e a mia madre a quella finestra.
Non feci altro che seguire la marea,
l'occasione di un imbarco, come aquilone al vento.
Sono il viandante, il rapito dal sogno americano e restituito
in un piccolo angolo di vita, Cervo;
come se avessi solo passeggiato con le ali
ai piedi, su queste onde a pendolo.
Un guizzo, una bandiera, i piedi in battima,
i picchi a salire con la mia anima e il mio corpo.
La mia schiena è curva, quasi commemorativa
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davanti a questa chiesa di patrono San Giovanni,
oltre le pagine di quanti inni e canti sono risuonati.
Ora va meglio anche d'inverno,
posso tuffarmi, trascinarmi al largo,
donare il mio sangue ai pesci, in nuvole d'argento.
L'acqua è e sarà sempre la verginità perduta da una nube,
che io raccolsi come benedizione che genera il seme in vita,
perché non fosse sprecata, ma fonte viva, sul colle del Ciapà.
Gli occhi mi servono per cogliere, come prede,
le cicche ancora accese, di chi è ricco e corteggiato.
Sono stato vicino alla vita,
senza nasconderle la morte,
qui sotto al soffitto del mio portico,
con un gonfalone di gran pavese,
e pesce che non abbocca all'amo e alla sua beffa;
uomo arcobaleno in uomo indipendente.
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Graudin (quello che i Cervesi volevano sapere da una rivista)
Immaginatemi lassù a vivere sulla balaustra,
tra i Santi Erasmo, Giovanni e Nicola,
come sulla coffa del barcarezzo dei corallini,
a leggere il vostro quotidiano, ed un ritrovo
per sentire di nascosto le vostre volontà.
La mia lingua che errò proto maestra,
e la mia anima, una finestra aperta, che ancora cerca
quello che il popolo cervese voleva da una rivista.
Io a fermare il passante, il turista, il postino,
io telegrafo antelitteram e confessore punto e a capo,
del popolo e del governo, con gran fantasia.
La mia ospitalità stava nelle prediche e omelie
di fiabe, e miti di sognatori dei tempi andati,
quelli dietro e difronte alle mie vele orecchie,
tra un colpo d'aria del carruggio da galea,
ed un sospiro di chi, lì vicino a me, sbuffava.
Io specchio delle mie brame del sapere,
dal silenzio a nuovi silenzi di riporto,
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in questa siccità di fatti e misfatti,
se mai aprissi il vaso di Pandora.
Ora su questo Bausu, la sinfonia è un'altra,
alla mia campana è subentrata una sinfonia,
con viole, violini, flauti e corde d'arpa.
Dove sono le mie corde vocali su quel ramo di pino
vibranti spilli e onde del mare nostrum?
Tutti ormai portano le cuffie incollate,
andandosene segrete in volti e nomi
che sono cambiati, per incontrarsi con un telefonino.
Loro sono loro, ed io son io,
senza nessuna parentela, nello stesso nido.
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U Crestian (un semplice con pochi soldi messi da parte)
Sono u Crestian, per via di questo alluce,
che mi esce curioso dal calzino, come
un neonato si affaccia dal grembo materno.
A volte cammino più col cuore che con le gambe,
ed è in questi momenti che qualcosa cambia in me,
mentre ad ogni passo cambia il panorama,
e ciò che in lui non scorgo, sotto il filo d'orizzonte.
Il mio sogno è ciò che il colle di questo Borgo sogna,
alla ricerca di libertà e occasioni, battendomi contro le onde,
che lambiscono il pensiero della vita, la sua essenza
che non deve morire, cercando se stessa.
E' la sovranità del desco la sirena del mio porto,
lo spirito di raccontarmi ancora in un altro viaggio.
Ha prore più veloci su cui avvolgere la rotta,
quasi fino al cielo, che è gioventù di giovinezza.
Amo il mio amore nel mio errare d'aria libera
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che in me conservo in questo scrigno all'interrogativo
di vino, pane, e focolare da navigante contadino.
Sono come una stella che cade su questa battima,
sono la mano protesa, né signore, né martire.
Sono un semplice con pochi soldi messi da parte.
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Il Longu (pescatore tra pini, agavi e baciccio di mare)
Il prezzo della concretezza,
è spesso un sogno lasciato a metà.
L'altra metà appartiene all'utopia.
Mi affascina il rapporto fra l'utopia e il sogno,
che poi ti fa arrivare alla concretezza.
A volte la fame cerca lo specchio del mare,
ed ha parole addolorate per graffiarlo.
Su questo scoglio, che ruota a senso inverso,
non può contare le onde di increspature e vortici
la mia ombra, che schiuma con loro e s'affonda.
Ormai sono accecato dal salso freddo e chiaro,
ho braccia come questo pino alle mie spalle,
in punta del suo eloquire, tra agavi e finocchi di mare.
Mi chiamano il Longu, da ciò battezzarono anche queste ciappe,
e forse si riferiscono anche al mio fiutare la profondità,
piena si saraghi, orate, salpe mediterranee.
Sono andato sempre avanti passo a passo,
e un giorno lasciai i comandamenti e gli ideali.
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Cambiai il rosso del mio sangue
con la porpora rossa dei Fenici, mi tuffai,
finché trovai l'orizzonte di cui tenni sempre conto.
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Bianchin du Pesciu e Lisina da Bididea (le ostetriche, un evento al femminile vissuto normalità
per "Nati in casa").
Un evento famigliare intimo, com'è una sacralità
di un lavamani, un asciugamano, acqua calda,
e noi, le levatrici, l'arte di dar luce ai bimbi in un vagito,
nel passare dal crepuscolo all'alba, per quel grembo materno.
Quando ancora si partoriva in casa, con acuto dolore,
quando i bambini venivano fasciati come salami,
e le cuffiette venivano sagomate sui pomoli delle sedie.
Allora le famiglie erano numerose, e l'illuminazione
era affidata ai lumi a petrolio, e nell'ambiente domestico
si conviveva con l’asinello e le galline a fare l'uovo sotto la cuna.
Mani sapienti riuscivano a individuare il sesso del nascituro,
solo sfiorando il pancione della madre, tondo o a punta,
femmina o maschio, con mille profezie e altrettanti scongiuri.
L'arrivo in una casa di un figlio maschio, dopo nove femmine,
era sollevato al cielo come un piccolo Mosè per ringraziare Dio.
Era un rincorrersi di porte bussate a martello, come campane
suonate nel cuore della notte, di uomini che vanno a chiamare
la "levatrice", io Bianchin du Pesciu e Lisina da Bididea le ostetriche.
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Allora non vi erano le strade di oggi, e le automobili erano poche
e riservate, a chi aveva una certa condizione economica e sociale.
La nostra era una corsa a piedi da San Bartolomeo del Cervo ora al mare,
oppure con il calesse, in bicicletta o a dorso di un asino come Maria,
sempre con l'accompagnamento di due persone, meglio se forti,
perché di notte una donna, non poteva certo muoversi da sola.
La considerazione della gente, ci metteva sullo stesso piano
del sindaco, del parroco, del maresciallo, del medico condotto,
del farmacista, insomma una persona importante del paese.
Noi diventavamo un membro aggiunto dalla famiglia,
e spesso, con grande onore e cero acceso, le madrine di battesimo,
oppure malauguratamente deponevamo quegli angioli,
che non avevano la fortuna di scriversi un futuro, in tante bare bianche.
Famiglia e vicinato insieme, quando il parto era un episodio corale,
un evento al femminile vissuto normalità, per "Nati in casa".
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A Patata (una madre in attesa del figlio oltre l'orizzonte)
Ero una fuggevole ombra di quel timido sole,
che scivola tra i carruggi in centro al borgo.
Se mi affacciavo alle persiane, immaginavo sempre il mare,
un qualcuno, un qualcosa, che mi mancava.
Per me il vento era benedetto, sacro,
quel qualcosa che muoveva i miei occhi,
a immaginare oltre il muto di quelle giornate.
Il vento da forma all'informe con un soffio,
ad esempio ai panni stesi di silenzio e intimità.
Che pericolo vuoi che arrivi dal cielo,
se non l'ora di tutti, quella del sole che cala,
e il buio lascia immaginare un mondo di fantasmi?
Lo so che è ingenuo questo lavoro di madre,
che poi è il fascino che gioca il suo gioco
di Penelope, navigando come lui, sul salso mare.
E' il solo posto da dove vedere il presente,
ma anche il passato, e certamente il futuro,
e quello che verrà da una spiaggia di sassi,
da uno scoglio, due luoghi interiori di esatta verità.
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U Pueta (il poeta)
Adoro la scogliera delle Ciappellette, dove si infrangono le onde assumendo le pose e le icone di sirene.
Mi sembra che nel loro canto, d'arrivo e di abbandono, si impadroniscano dei poeti.
Questa scogliera ha labbra aspre per ogni intaglio di roccia viva , e collane di madrepore e conchiglie.
Ciononostante canta a seconda del vento che l'accarezza senza traiettoria.
Nei giorni di sole appare sulla spuma un colore miele, che richiama le foglie d'oro, come fossero cespugli di ninfee.
Per me è una tela di ragno, un dolce inganno, una cornice, dove innocente mi lascio catturare, porre e
riporre in una canzone.
Tutto come allora, in questo istante.
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La signorina milanese, il ricamo del destino di una negromante
Mi chiamavate la "signorina milanese",
un nome ignoto per dirmi ch'ero foresta.
La mia casa trovava posto in quella del Pulin
uomo di blasone, un dì sindaco dalla nobile casata.
Il ricamo era il mio destino di negromante,
come mi avevate battezzata voi insegnante,
accanto ad un filatoio o nell'atto di intrecciare nodi.
Io non ho mai messo tra le mie dita il tombolo,
a richiamare l'idea di vendetta, tessendo il fato degli uomini
e ponendoli di fronte a mille ostacoli e reticolati.
Sì, è vero che ogni magia della tradizione è accompagnata
da qualche strano animale, con caratteri diabolici,
che fungerebbe da consigliere della propria padrona,
quali gufo, corvo, civetta, topo, rana o gatto.
Io spesso con loro mi accompagnavo,
ma per vincere l'ombra della mia solitudine,
per avere con loro il dolce profumo del vento,
che abbraccia questo Borgo, nei suoi carruggi.
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Il loro nero era il mio abito liso, sempre lo stesso
che ho amato, come amica che mi ha amata,
nei giorni tristi ma fertili, fino al mio abbandono da voi.
Loro mi hanno assecondato, custodito i miei sogni,
nell'insondabile magia dell'ignoto in cui scelsi la quiete,
che sa cullare le visioni, che avvolge l'incanto,
che apre la bellezza di quelle poche cose fedeli.
Questo fu il vero potere dello spirito che scelsi,
che mi scelse sciogliendo la sfida per la libertà.
Ecco tutto il senso della mia vita in nero perla,
l'amore per la bellezza, magia che non delude mai.
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U Mètre (un fireman, fochista di marina)
Una sorpresa da vivere in apnea sul mio volto,
come il tramonto è il rossore del sole di giornata,
quel lampo, dopo l'ultimo sacrificio, di restare acceso.
Poi la luna bianco candore, che si fa spazio ingenuo
a far volare, come un velo di novizia, una cicca senza fumo,
stretta tra le mie labbra, dove ha trovato il suo nido,
sotto un basco che ha radici sulla mia mascagna.
Non c'è fretta per me che navigo ancora nell'eco,
tra una risacca da sponda a sponda, degli oceani.
La mia dizione non è lenta, ma dettagliata in ogni sillaba,
ha la semplicità profonda, per dire qualunque cosa,
per dipingere, intingendo un pennino in questo salso mare.
Ho il metro della verità, della modestia che è del sapere
appreso nei porti, nelle cambuse, dentro le stive d'una nave.
Sono stato un fireman, fochista di marina, uomo fidato,
quando per sciogliere i nodi di un calvario viaggio,
serviva il fuoco a soffiare a poppa e cantare lodi a Sant'Erasmo.
Ormai anche senza carte geografiche e sestanti,
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conosco il cielo e questo mondo tondo e il mio borgo,
che da scoglio a scoglio nuota controcorrente.
Io appartengo a questa gente di mare in libertà,
spostata come un pacco postale su lisi macramè,
per un ritorno quieto, una famiglia, un gotto di vino, nelle nostre case.
Ora i miei occhi si trascinano nel cielo,
oltre la pagina di un porto, i tetti d'ardesia, le gelosie persiane.
Qui il sole, le stelle non escono più di casa,
siamo noi, siamo la memoria, l'anima e il loro corpo,
tronco e rami radicati alla nostra terra rude, ma semplice.
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E Passuette (persero la casa nel terremoto dell'87)
Tutto per una spinta dell'orgoglio della terra imbronciata,
dove i suoi brividi scorrono per dieci interminabili secondi.
Ed anche il pelago gonfia di un metro, per quanto vedemmo
noi sorelle, mentre si fuggiva tra i massi, ormai coperte dei carruggi.
Morti 664, feriti 1.000, senzatetto 100 mila, nel golfo di Borman,
danni per 20 milioni di lire, scala Richter 6,5, scala Mercalli X.
Noi, qui nella piazza del Forno, a sentirci meno tra i calcinacci,
tra le persiane di stucco e legno, e il fumo, sedute, statue immobili.
La nostra anima a cercare, cercarsi con fedeltà al Dio misericordioso,
in questo silenzio d'acciaio, dove l'uomo torna ad essere cenere, reclino.
Ci sostennero i cantori e i narratori, che comprarono una disgrazia
per il loro giornale, per la storia, per la memoria, su una targa di cera.
Qui rimasero lievi brezze tra muri ormai profili del loro destino,
e noi donne in ombra come macchie tagliate dal sole, raggi come ferite vive.
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Michè da Zanna (uomo di grandi fiammate)
Il rovo ha fiori, frutti, foglie, gambo, radici e spine
eppure tutti lo ricordano solo per le spine.
Che valga più la sua pena che la sua tenerezza?
Legna verde di licheni in lacrime nella mattina,
dove non arriva mai a tuffarsi il primo raggio di sole,
un crepacuore e l'amarezza del pessimismo,
ogni giorno in tutti i miei anni, sulle punta delle dita.
L'orologio che ha gli occhi e le orecchie del silenzio,
tra i rintocchi delle campane, in ogni linfa di questi ulivi secolari,
sotto un cielo che si apre e chiude dalla luce al buio.
Sono stato figliol prodigo, consumato dal vivere da Bacco,
e la sfortuna del tempo gettato a mare, il bacio d'addio,
promessa di marinaio, io che giocai ai fainasci bagordi dadi bari.
Oggi giaccio qui tra le rughe di questa terra santa,
all'ombra di una croce di legno ormai dimenticato,
come un tralcio di vite, su questo mio balcone avvizzito
che gli si oppone, eppure un giorno mi diede qualche bicchiere
orgogliosamente, a dispetto di sbornie e grandi fiammate.
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Capitan Treggin (lupo di mare)
La vela non cade mai lontano dall'albero maestro,
lo sa scegliere e tenerselo ben stretto, perché sa che
è l'unica possibilità, per andare lontano e sulla rotta giusta.
Questo è tutto l'amore per il mio mare e non la morte d'amare,
io ho imparato tutto da lui, attraversandolo dolce o inacidito,
per quello che è la sua corrente nel seguire il suo corso.
Io avevo il mio giornale di bordo, una matita copiativa
per fotografare in poche righe sghembe, onda per onda,
che da quei barchi venivano fuori acqua di sentina e fave,
acqua di salso e avena, acqua di nubi incolonnate e vino.
Tutto sembrava un campo con poca erba tenera e vergine,
e una immensa gramigna, con il naso in molti scogli tiranni.
Il sole, la luna, le stelle erano la luce meditabonda sotto coperta,
sulla coffa, attraverso i boccaporti, per galleggiare sull'orizzonte.
La vita e i calendari accumulati ad imbiancare i miei baffi e capelli,
mi accompagnarono, sfogliandosi all'ultimo mio viaggio, al porto finale.
Fu il mio terrazzo affacciato al mare, un albero di trinchetto
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completo di pennoni e sartiame, ed io sulla tolda stelo della mia vita.
Io ormai ape nel cuore e fiore di maie Ninnella, moglie e compagna,
da Capo Horn a questa comune banchetta in rada, a farsi di fronte al mare
il segno della croce, noi fiori recisi in brocca e petali sull'uscio di casa mia.
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Reietto (la storia di una adozione)
Mi vennero incontro sette persone ed un legno fragile
su questo scoglio, a raccogliermi come un fazzoletto.
Mi issarono a bordo e mi aiutarono ad essere randa,
quella vela importante, pilotandomi a Cervo la mia nuova patria.
Qui conobbi l'anima gemella, un porto, un nido e formai
la mia famiglia, l'amore ed i suoi figli e riguadagnai me stesso.
Continuai a vagare seguendo una stella e la sua luna,
Il sole che brucia e l'onda che lo annebbia come la macaia.
Imparai l'essenza di ricevere e donare, il plauso e la coscienza,
io lo sconosciuto a comprendere ciò che gli altri sono per noi.
Ebbi le chiavi di questi carruggi che mi aprirono le porte,
quelle della luce, del pensiero, dell'appartenenza, di come
a volte si percepisca splendore, anche senza necessità di occhi.
Quel mare mediterraneo mi diede terra, acqua, aria e fuoco
ed io passai da ramo piccolino a quercia ed ulivo, nel suo e mio destino.
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Giacumin da Longa (amico di Dioniso)
Cervo IM è un Borgo, che nella sua ragnatela di carruggi
può sembrare caotico, tanto che ad un primo sguardo
può confondere, ma poi ti cattura, ti entra nella pelle.
Io dunque fui cervese dal pedigree certo, ma incerto sulle gambe
per l'amicizia a Dioniso, nella bellezza dei suoi tralci, grappoli ed acini.
Ora la "Bellezza", la intendo come quel seme che riposa in noi
e che possiamo coltivare e vedere, se lo vogliamo, crescere
nelle cose di tutti i giorni, per migliorarle, ma io non la capii.
Questa "Bellezza" ora so che è un dovere più che sufficiente,
se è soprattutto coraggio da condividere, e realizzare
con chi ha l'anima di sognare con altre anime, che la condividono.
È solo un sorriso, niente di più, una piccola buona notizia che parla di vita,
una fogliolina in un bosco, che trema al battito d'ali di uno scricciolo spaventato.
Non credo d'essere stato gramigna o altra erbaccia
in così rara, fertile e buona terra perduta o mai avuta
nell'etere di domani, ormai in gabbia per me che caddi in trappola.
Anch'io ora vago nell'ovile del cielo, come pecora sperduta
e pur sobrio non so quale strada, come anima, possa sognare.
Ho lasciato un segreto più volte gridato da persiana a persiana,
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per ali inquiete sempre tese a consegnarne in punta di becco il nome.
Questo è sbagliato, perché per me fu un infinito dolore,
un interrogarmi nell'attesa che si acquatta per saltare e poi rinuncia.
Di tutto ciò messi e fui mietuto, come il Samaritano della parabola.
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U Luddru (mani bucate)
Ero sempre in viaggio a bere salso, e guardare azzurro
cielo e mare, con lo sguardo ormai inebetito e glauco.
In ogni porto che toccavo, rimbalzavo come una palla
da ping pong, senza sapere dove ero o dove andavo,
ero uno dei tanti pacchi o malle, del carico su questo scafo.
A casa si aspettavano da me più il salario che il mio sale,
io che ero avvezzo ai colpi di mare, di sole, di libeccio.
Io mi aspettavo una lode, solo per quel coraggio necessario,
d'essere uno di quelli sulla zattera, a olio su tela, di Géricault.
Le mie mani al rientro a casa, al desco, erano sempre in tasca,
mani che amavano aiutare e prestare senza speranza,
secondo le leggi del donare, senza nulla mai chiedere.
Forse qualche spicciolo lo abbandonai in osterie allegre,
dove lo passai come pietra su pietra, pari ai maxei e caselle.
Di fatto il mio passare l'orizzonte mare e la soglia di casa
non tintinnava guadagni e tesori raccolti in isole lontane,
di cui non fui perdonato e mai ottenni pietà e inacidì i cuori.
Solo un giorno vidi una luce su quegli sguardi di speranza,
quasi a sciogliere ogni dubbio d'attesa in un tintinnio nunzio
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e portatore di luce d'oro, pari a monete e palanche pronte all'istante.
Le mie tasche vennero più volte rivoltate, come si usa con le clessidre,
istante dopo istante a misurare l'attesa e il batticuore per un dubbio.
Ed eccole lì infine quelle monete in metamorfosi di bottoni,
orfani di asole e caduti da una giacca lisa e a toppe d'arlecchino.
Atterrito io e figuratevi loro, la mia famiglia, nel rossore della fine
di una attesa, mentre per me si ripartiva dalla cenere
di una corona di spine, un granaio infuocato, per un altro seme
a volar via come vela verso l'infinito senza fumo, forse germoglio.
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Il bel Cecè un azzimato damerino
La mia è stata una vita da Bonaventura,
pensando a marsina e bombetta rossa,
nei larghi pantaloni bianchi ed col fedele inchino,
che mai spettinava i miei capelli impomatati.
Sono stato per i più, lo strampalato eroe
di gaie avventure, squattrinato all'inizio,
e milionario rubacuori a carte scoperte alla fine.
Il mio era un parlare con un testo in versi,
labbra protese alla perfetta dizione, composti
da distici e di ottonari a rima baciata, da vero cavaliere.
In questo Borgo fui aulico e forbito maestro cerimoniere,
creando un netto contrasto con la semplicità
dei tratti del disegno, tra marinaio e contadino,
con un effetto ironico, divertito e divertente.
Il mio mondo era popolato altresì da generosissimi re,
baroni, contesse, ma non mancavano i cattivi,
che io, immancabilmente uomo di misericordia, perdonavo.
Sì, io signore modestamente lo fui perché lo nacqui,
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come un azzimato damerino col fazzoletto al collo,
come un violinista che ama suonare nei teatri.
Sono stato un Printemps des poètes, prose e rime d'amore,
passato per contribuire a conservarne il ricordo,
colto dal profumo del fiore della vita d'una effimera luna.
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U Mananna e la libertà di una speranza
Sono il capitano di lungo corso e di lignaggio errante di tradizione,
come chi è sceso e salito da una biscaglina in questo Borgo di gradini e nodi,
sono stato padre di un progetto sole-avvenire, col cannocchiale anche sul futuro,
ne ho avuto rispetto per la sua aleatorietà, lasciando casa e porto,
per mille diverse direzioni, anche laddove non si trovano case e focolari.
La mia eredità non fu l'ansia, ma la libertà di una speranza,
fu il viaggio ripetuto oltre l'orizzonte di colui che mai lo distrugge,
come capita all'onda che si infrange, di cui parte ritorna acqua
e parte salso, ma ciascuna continua a vivere in osmosi con le altre.
Mai il mare conosce morte gora e mai per me fu l'essere qui ed ora,
ma è il mutare, è il nostro essere nella storia che si lascia trasportare,
è capire ciò che non possiamo abbracciare, ma sfiorare, accarezzare.
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Ciöcci e quella "maglia nera"
Luigi Malabrocca e Sante Carollo furono i miei idoli a due ruote fisse e pedali,
per quella "maglia nera" al Giro d'Italia dei tempi, in cui si correva sullo sterrato,
quando l'ultimo eroe classificato si aggiudicava la maglia di colore profondo nero,
ma soprattutto, un cospicuo premio in sonante denaro, che faceva gola a molti.
Io ero un piccolo dilettante della domenica di paese, ad imitarlo per poche lire,
cercando di perdere più tempo possibile tra una tappa e l'altra, nascondendomi
dove potevo, forando le gomme della mia bici e fermandomi per lungo tempo nei bar.
Io l'ultimo a poter raccontare in prima persona emozioni, senso e significato di quell'emblema
al valore e alla fatica, anche dell'ultimo pedalatore nel fango e nella polvere del plotone,
un simbolo prestigioso tanto quanto, se non di più, di quello del campione vincitore.
Avevo capito che era meglio arrivare ultimo, e umile in una vita affrancata dal disagio,
in sentimenti e varia umanità di uno sport e la sua bici, che premia il primo,
ma riconosce i meriti dell'ultimo, anche se quella maglia nera fu un mito imbarazzante.
In fondo correvo per un pretesto aldilà di trucchi e i duelli,
per non incappare nel fuori tempo massimo, una giornata all'aria aperta,
due canti di osteria e a bere il bicchiere della staffa.
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U Russu (Angelo di nome e di fatto)
Avevo capelli rossi come quando li scioglie l'alba e carezza ti viene addosso,
ed un'anima candida come il latte, in quel sorriso in cui ogni cosa è un colore.
"Laudato sie, mi’ Signore,cum tucte le tue creature,spetialmente messor lo
frate Sole, lo qual è iorno et allumini noi per lui.Et ellu è bellu
e radiante cun grande splendore:de Te, Altissimo, porta significatione".
Solo quando l'uomo ha fede in ciò che è al di sopra della sua portata,
questo è un sogno, e l'umanità fa quei passi in avanti che l'aiutano a credere in se stessa.
Strappare la bellezza ovunque sia, e regalarla a chi mi sta accanto. Per questo ero al mondo.
Una vita senza sogni è un giardino senza fiori, ma una vita di sogni impossibili
è un giardino di fiori finti, avvizziti in una brocca arida che ti ha rubato il cuore.
Non ho niente da dire, se quando non c'è l'amore le parole finiscono vanno al fondo.
Le pagine diventano bianche, manca inchiostro alla vita, noi siamo linfa come dono.
Ciascuno ha un angelo custode accanto, ognuno la sua emozione senza confini.
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Basta che tu agli angeli parli di quello che ti succede e loro capiscono al volo le cause accese.
C'è sempre un'alba che aspetta la luce per far risorgere il sole dopo il tramonto,
dopo la notte in quel buio improvviso che ti coglie in riva al mare come il silenzio eterno.
Un niente senza parole e senza musica per me se resto solo fissando gli occhi nei tuoi
in una giornata al sapore di salso, di pino, d'ulivo e canti di rondini in girotondo.
Ma so che da Angelo qualcuno incontro sempre per sapere che non sono solo
ed in te entro, ti sono accanto ancora in un'altra eterna, misteriosa, vera dimensione.
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Gigiò (semplice pensiero)
Sono cresciuto bambino così come semplice pensiero,
tutto ciò che passava dalla mia mente era ciò che sapevo.
Quei quattro passi in paese, la solita strada, come uno specchio,
vivevo alla giornata di una gioventù allungata che non si è mai arresa.
Essere adulti significa generare un Sé sociale, un impegno,
una posizione a cavalcioni del bene e del male che restringe il cervello umano,
chiudendolo ad ogni delicata idea come quel petalo in ombra bianca.
Pazzo? Io che non sono mai stato baro neppure nell'accettare un bicchiere di vino,
o una parola oscura e quanto meno noiosa nella cerimonia che l'accompagna.
Leale? Sempre come proprio in vino veritas all'Osteria della Palma
o a far da porta borse alla Dina che vendeva pesce arzillo di giornata.
Sì, sono stato ovvio senza l'astuzia di un serpente, forse colomba
che non si vola raccoglie nel becco ciò che esprime, con la massima semplicità.
Sic transit gloria mundi ed io non ha avuto ne lasciato crepe,
ma semplici briciole in pareggio di guadagni e perdite inconsapevolmente.
Ebbene la mia risposta è per chi mi ha considerato folle, lasciandogli la mia normalità.
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Giancarletti (A tre metri dal cielo)
Ai sogni veloci, alle frasi impazzite, alle righe cancellate da un ago,
che si lasciano il traffico di una vita e una sgommata alle spalle,
guardo e credo di aver aperto una finestra ad una piccola verità,
che entra per arrivare in orario, per ricordare solo il rumore del mio passaggio.
È per questo che quando davvero mi accorgo dalle sue orme in battima,
che non sto andando da nessuna parte, in improbabili direzioni,
allora accelero al caos, che va inerte da buono più che da bravo.
C'è un filo che lega cose apparentemente lontane forse a fianco,
alcuni lo chiamano coincidenza, ma è un segno sordo ed invisibile.
Be', è la canzone che arriva per alcuni tipo me, è un segnale e fari su di un binario
a tre metri dal cielo, sull'elastico ormai avvolto dell'orizzonte raggomitolato
per capire se il mio mare è più pulito ed un paradiso sia anche per un presunto diavolo.
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Austin (l'ultimo Cintraco)
Odi il tuo Cintraco, nella fredda tramontana,
gridarti con alta e intellegibile tromba e voce,
tu che stai appollaiato al suo fuoco d'ulivo famigliare,
o tu che gotti su di un legno, guscio di noce a navigare!
Sono Austin, discendente d'Ardoino d'Ivrea,
con pedigree su pergamena del dotto Simone Nicola.
Fedeltà e onore ai Capi, Sindaci e Commissari,
servito e servitore d'ordini e disposizioni vero ufficiale.
Non mi serve essere letterato, conoscitore di retorica,
io ho in mano e a corona, questa tromba color opaco incerto,
ma certa di suono, di parola, per la pulizia urbana!
"Per ordine del Perfetto!" alzo la mia intellegibile favella,
"Tutti sull'attenti aprite orecchie, finestre e occhi!"
"Nel nome del Signore Dio nostro e della Beatissima Vergine,
madre di lui, Santa Madre".
La mia fu una vita di fido caporale con vesti modeste,
di calzolaio ed estimatore di pertiche e raccolti di olive.
Rigido, scrupoloso ma di onestà da convento,
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come capitò al mio nobile antenato l'anno 1015,
in quel di Tovo Faraldi ove fondò il suo nobile casato.
Da lui ereditai rigore, responsabilità, cicchetti amari,
ed una cicca a bordo labbra fino ad una frase di nostalgia,
d'aver segnato un'epoca con un esempio d'onestà,
riassunta in questa frase, mio epitaffio sepolcrale:
"Persona di rispetto, come ai tempi du caegà du Tuvu".
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Bebè (Chagall in terra della Rovere di San Bartolomeo del Cervo)
Fiera della Candelora, eventi e attrazioni per grandi e piccini,
un torrone, l'abito nuovo, grida sorrisi, il cielo solo per chi vola.
Ecco la giostra dei dolci ricordi di gioventù " I Calci in culo ",
ecco una miniatura, che girando si aprono e si chiudono
le catene, con i seggiolini alle varie melodie dai grammofoni.
Qui si vince la forza di gravità, nell'allegrezza spensierata
di un quarantotto di pazzia volontaria, per mandare vent'anni all'aria.
La paura non fa più novanta, ma è una tombola famigliare
dove i fagioli sono sempre in tavola apparecchiata e solidale.
È Chagall in terra della Rovere di San Bartolomeo del Cervo,
un album fotografico narratore sospeso fra il reale e il fiabesco,
nei dipinti, ai temi prediletti, d'un repertorio d'immagini lucenti,
che fonde silhouette umane, animali, oggetti, paesaggi,
che si affiancano a motivi legati al mondo biblico ed evangelico.
Sacro e profano a sillabare quel Bebè inno alla sorpresa e ripresa in gioia.
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Baffone (il pescatore venuto dai mari del sud)
Uomo del profondo sud tra gli scogli del Pilone,
avevo dita ed unghie come tanti aguzzi aghi,
per intrecci di reti tramagli, sciabiche,
palamiti, coffe, nasse, d'ogni dimensione.
Apparivo e scomparivo sul mio fido gozzo,
dai portici di Pietra Lara di questa spiaggia
dai calvi sassi tondi e di confetti grossi e ovali.
Qui alla casa del Pirata turco Rais Thorgud,
detto Dragùt, noto e feroce barbaresco,
moro con un grande cappello a larghe tese,
calcato sulla fluente chioma, come i Bravi
di don Rodrigo e come loro violento ed arrogante,
rapitore della più bella e leggiadra fanciulla del Borgo.
Io pacifico come il noto oceano, lui atroce,
lui veloce sulle sue velenose aspidi feluche,
io flemmatico gabbiano, sotto il mio purillo di lana,
accucciato girasole, al paziente e tiepido sole.
La mia randa sapeva attendere il libeccio
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come la luna il litigio e la pace degli amanti,
ed i miei remi pescavano con carezze la bonaccia,
come sapevano giocare a sberle di prua le onde.
Zerri, acciughe, sardine, pagheri, donzelle, salpe,
scorfani, saraghi, orate, anche qualche gigione,
cantante sfiatato, soddisfatto di sé, vanaglorioso,
sempre pronto ad appendere il suo labbro al mio amo.
Loro come me, apparivano e a volte scomparivano,
come il gioco delle tre carte, ogni giorno, la stessa ora,
stessa spiaggia, stesso mare, ad ogni andata e ritorno.
Poi in una notte di luna calante e di musciu niuru, il cielo
e il mare fecero un patto: unirono il loro blu in un drappo,
lo trapuntarono di stelle, coprendomi di eterna pace.
Dall'orizzonte giunse un canto di sirene, il canto del pescatore:
"Appari, scumpari e sutta li varchi fa ciuri di frunna:
l'unna du mari! Ritorna, s'affunna, n'to funno chiù funno,
'nto cori du munnu: l'unna du mari! Scumpari e poi ricumpari,
vistuta di veli, di spuma, comu nà spusa davanti all'altari:
l'unna du mari! 'nte notti sireni ascuta li peni du piscaturi,
poi s'allontana e scurri vicino alla terra! La vasa l'abbrazza
E mori contenta 'nta la rina, ch'è u letto d'amuri di l'unna du mari"
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U Ca' da Ciappa (Capitani coraggiosi e naufragi)
Ora il profondo mare è un campo d'anime eterne,
con occhi fissi al doppio cielo, più da esplorare,
tra queste alghe gentili e conchiglie confidenti sorelle,
amici pesci di tutte le bandiere, a labbra mute e aperte.
È stato tutto in un momento, per questa prona prua
ad appoggiare mento e vela al vento, come un cavaliere
il proprio petto alla criniera del suo fido destriero
fiero, poi più niente, un sorso, gorghi rossi, gialli, viola.
Un momento. E adesso sono profondità di cielo,
con i suoi occhi chiari, modi gentili, luce, solo luce
quando la luna di miele fa il testimone al sole in alba,
per arrivare al tramonto con l'allodola e l'usignolo.
Sono con mio padre, mia madre e le mie tre sorelle,
già rapite in una sola notte dalla perfida strega spagnola,
da quel pomeriggio di agosto, inciampato su uno scoglio,
pagando il conto al mondo il male, così come il bene.
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Pinetta (una fisarmonica rossa come il vino veritas)
Una fisarmonica rossa come il vino sempre veritas,
e le loro vibrazioni sotto questa loggia del Bausu,
tra lo scricchiolio di un'anziana sedia di paglia,
quando segue le sue note che poi sono le mie.
Qui vicino a me sostano amori nascosti e pudichi,
grasse risate, e chi da sempre ripete mille ricordi,
cambiando nomi ai presenti e citando sempre gli assenti,
quelli che fan coro con ciapetti, in un raccolto di frizzi e lazzi.
Certo che si balla, ed anche il foresto può partecipare,
tra il fumo di una sigaretta alfa e la sua penombra,
quanto dura un tango o una mazurca per un ballo,
alzando una nuvola di polvere e di sudore ad ogni giro.
Tempo d'estate per capelli impomatati brillantina linetti
e sottane con pizzo impomatato di appretto e autoreggenti
che fanno le coreografie con chi guarda dal balcone accanto.
Sono Pinetta per me in questa vita mia e per tutti, sempre
lungo i tasti di questa fisarmonica madreperlata, lucida
come le conchiglie delle Ciappellete e del Coltello fino alla Torre,
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pari alle mie dita che corrono disilluse sulla realtà d'ogni giorno.
Finii con "Parlami d'amore Mariù" nelle promesse di marinai,
che poi si sa che "Gli uomini son mascalzoni"con una rosa per rotta,
e una risata spezzata, e mille ricordi, non rinunciando a bere e suonare,
su questa terra che emana vibrazioni e mi portò via per un eterno ballo.
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L'Usceu (l'usciere)
Su e giù per le scale che si muovono a serpente dall'osteria della Palma,
tra le carte di chi mira a far punti quaranta, e calarle in una chiusura una sull'altra,
all'apertura del municipio, dove le carte sono d'istituzionale importanza.
Un taglio di capelli con riga e squadra, sempre perfetti e ben allineati,
quasi impomatati, più che da un gel, dal Brylcreem che era una pomata.
Coppola di lana nel disegno principe di Galles, per la stagione di rigore invernale,
e borsalino panama per l'estate, in un incedere rapido con inchino ossequiante.
Baudelaire di lui poteva scrivere la caratteristica distintiva della bellezza del dandy,
in un'aria di freddezza, derivata da un'irremovibile determinazione, a non esser mai coinvolto.
Una vita sempre formale, con licenza di quel pizzico di informare, in una dialettica pepe e sale,
ma ingessata nella fede regimentata di custode di segreti di uffici e di ufficiali militari.
Se riveli al vento i tuoi segreti, non devi poi rimproverare al vento di rivelarli agli alberi,
cosi pensava Kahlil Gibran; così intendeva lui la verità, come un segreto che portò con sé.
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Teresa la perpetua
Ero membro della più bella chiesa barocca della riviera
quella sempre in fiore, io timida fragile mimosa e perpetua.
Vestivo da sempre come le cento vedove dei corallini,
veletta, sottana nera lisa, pantofole di corda di Ventimiglia.
Non ebbi amori se non per la mia fede, scolpita come il marmo
delle colonne a spirale di questi altari che hanno per porto il paradiso.
Ho raccolto tanti grani del rosario quante olive una dopo l'altra,
accucciata ed in ginocchio sempre per dare un senso alla vita.
Poi alzai dal Bausu le mie braccia al cielo come gonfie vele
un giorno di tramontana che scendeva giù dal carruggio della galea.
Fuggii e forse fu la prima volta che cedetti ad un desiderio,
forse l'unico peccato di lusinga dell'inquietudine e fu al vago
orizzonte, quel tratto di matita che ho osservato tante volte.
Follia? No solo il segreto di pronunciarne le parole, senza distinzione,
oltre la tela della fronte e le sue minuscole pieghe come onde.
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L'avucattu de Deiu (l'avvocato di Deglio)
Ditemi se serve cingersi il capo di lauro,
per difendere chi, per atavica sete e fame
da deserto, coglie qualche lepre per coniglio.
Io, il più saggio degli avvocati, nato per strada,
che conoscevo avidi padroni e malandrini di polli.
La mia giurisprudenza era la pratica di memoria,
e l'unica ar(r)inga il pesce che saldava la parcella.
Vestivo la palandrana nero corvo a ruota
nel vento al profumo dell'antico, quello dei tempi
passati che qui staziona e ci abita ancora.
Per lanterna le lucciole dentro una albanella di vetro
erano la luce, per muovermi di notte con dovuta maestria.
Ero sempre in vena d'ironia, di chi ti ascolta, saluta, benedice
con quelle mani sapienti, che hanno scalpellato pietre per scartoffie.
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Maurina da Treggia (la gattara)
A riempirmi la serata bastano due gatti, che da liberti giocano sul tappeto
e per me è questa micia bigia, la donna più amica fidata del paese.
Io e la mia lunga treccia di capelli, per avvolgerla in chignon du cou
e lei a rincorrersi la coda, capriolando in larghe terne di anelli concentrici.
La gatta fa qualcosa di misterioso, mi meraviglio quando fa cose normali,
ed io, come lei, son rimasta indipendente, come nessun altro al mondo.
Un miao massaggia il cuore, anche quando ti accompagna su per i gradini
di questo Borgo, poi lei passa dal salone al tetto di coppi rossi fiammanti.
In casa mia è indispensabile parlare con i gatti, randagi ma cari prodighi figli,
ci sono un sacco di cose importanti da dire loro, tipo: giù di lì, smettila, fatti avanti.
Sono sfingi allungate in palmo a solitudini, sembrano assopirsi in un sogno senza fine,
sprofondare nei loro occhi d'agata e biondo zafferano di chi veggente mago,
conosce la vita ed i suoi misteri e mi dà sempre un brivido quando l'osservo
con la coda degli occhi, che sta osservando qualcosa che io non riesco a vedere.
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Suor Emidia
Lei era la Superiora io l'umile consorella ancella,
maniche rimboccate e avanti, avanti Asilo Savoia.
Sciacquare ed asciugare, stirare e rattoppare, rigore
e regola ora et labora, come diceva il Santo frate Benedetto,
sottovoce bisbigliando, annuendo genuflessa in punta di fioretto.
Il pasto e la ninna nanna, primo e secondo, poi la frutta
sotto la palma dai datteri proibiti e il giuggiolo a gemellare
col fico, e le uova fresche e calde di santa sorella giornata.
La processione, il rosario, la novena in ave, come cantilena,
a susseguirsi uguali con le stagioni sull'ecclesiastico calendario.
Ebbi dolcezza verso il prossimo e umiltà verso il buon Dio,
cui mai osai alzare gli occhi, solo le mani giunte piagate
da mille e più di mille carezze mai ricevute, solo donate.
Serenità e soavità in terra ebbi e al Creatore riconsegnai in volo intatte,
in quel mio cammino col popolo di Dio, ricca solo di speranza e fede.
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