Negli occhi del nulla - Biagio Saracino

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Negli occhi del nulla - Biagio Saracino
Il mare trascinava stancamente l’immensa increspatura turchina, indifferente ai miei sguardi assenti, ai
pensieri che si arrotolavano confusamente davanti alle pagine del libro, che trasalivano rumorosamente ad ogni impennata della brezza mattutina.
Il lettore appariva stanco di appoggiare gli occhi su
frasi divenute inutili ed incomprensibili. La buona
volontà di svegliarsi presto per gustare lo scorrere
pacato delle prime luci dell’alba e scoprire il fascino
dei caratteri impressi sulla morbida carta ingiallita
era stata demolita da una tenace malinconia che a
morsi si faceva spazio nelle mie visceri. L’acqua si
arricciava in lunghi trucioli bianchi e spumosi che
si avvicinavano regolarmente sulla battigia fino a
perdersi sotto i piedi nudi. La fresca carezza si esauriva in un attimo e si ritirava castamente assorbita
dalla sabbia umida, indorata dai primi raggi solari
che rimbalzavano, tra le piccole dune, le sparse conchiglie rilucenti, i cumuli bruni delle alghe.
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La memoria vacillava tra un passato incerto ed
un futuro consapevole, mentre il libro abbandonato si chiudeva lentamente con il frullare svolazzante
delle pagine. Le piante dei piedi ormai lontane si
superavano, poggiando pesantemente sulla sabbia,
mentre la risacca ripiegava il velo marino e appianava le impronte sinuose. E la mia figura si assorbiva,
fino a confondersi in un soffice controluce che penetrava il residuo della foschia notturna.
Forse era questa la vita. Una sagoma nitida, una
presenza concreta, una personalità incisiva. Tracce
evidenti di umanità che il tempo e gli eventi disperdono, sbiadiscono, cancellano. Forse la vita è
un alito di vento, una pagina voltata, una nebbia
diradata. Un fenomeno della natura.
Continuavo a passeggiare attardandomi al massaggio della sabbia umida e rasposa. Schiacciato
tra la leggerezza del mare e il turgore delle nuvole, respiravo i soffi balsamici provenienti dalle alghe. Sollevai l’attenzione dalla parte dell’orizzonte
stinto e indefinito, mentre blandamente il libeccio
imponeva la sua presenza. Rade gocce di pioggia
cadevano silenziose e punteggiavano di numerose
fossette luminose l’azzurro intenso della piatta distesa d’acqua. L’aria era intrisa del profumo di terra bagnata. Abbottonai la camicia fino al collo per
difendermi dal vento umido e freddo che spirava
sempre più forte come per allontanarmi dalla solitudine della riviera. La natura non gradiva il mio
isolamento e mi rammentava che dovevo continuare a comportarmi come abitudine, presente in
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mezzo agli altri, possibilmente protagonista, con
tanta grinta, passione ed entusiasmo.
Sicuramente non ero indispensabile al mondo,
ogni assenza viene presto dimenticata e facilmente
colmata da altre presenze, anche più interessanti,
ma non potevo falsare il mio carattere e sprangarmi
in un’accidia che non mi apparteneva. Tuttavia non
era giusto pensare sempre agli altri, doveva arrivare
il momento per interessarsi dei fatti propri. Mi chiedevo cosa significasse interessarsi di se stesso: forse
non incontrare più nessuno, non badare al mondo
circostante, non lavorare, guardarsi tutto il giorno
allo specchio e compiacersi dei segni di un inesorabile invecchiamento, ascoltare il rumore del proprio corpo, percepire i sintomi delle malattie che si
insediano, le giornate terribilmente uguali e monotone, in attesa nell’anticamera dell’annientamento.
La fredda puntura della pioggia spinta dal libeccio mi allontanava dall’oblio, dall’incuria, dal ripudio
della felicità, per amplificarmi il rombo delle auto che
sfilavano sulla lontana litoranea, simbolo dell’esistenza. Distratto dalle pagine del libro che svolazzavano
convulsamente, voltai lo sguardo verso la profonda
immensità del mare. Mi accorsi della diversità rispetto
a pochi minuti prima, quando sopportava la mia cieca mestizia. Apprezzai tutta la bellezza circostante che
traspariva dall’abito autunnale indossato fuori stagione
in quel maggio brumoso. Una sensazione di rinnovata
gioia si dilatò davanti a me, mentre il tepore trattenuto
dalla sabbia permeava le piante dei piedi e il pensiero si
confondeva con l’intenso profumo dell’universo.
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Sentivo il sedile dell’auto più soffice, più comodo e avvolgente. I goccioloni sbattevano allegri sul
parabrezza e striavano il disegno polveroso della
carrozzeria. Nell’angusto sentiero sterrato le fiancate dell’auto schiaffeggiavano le ruvide canne che
si chinavano sorprese. Le ruote rullavano rapidamente spremendo le larghe pozzanghere ai lati della
strada e schizzando l’acqua melmosa sulle erbacce e
sui muri di pietra a secco. Stiracchiavo stancamente
le preoccupazioni sulla mia salute incerta alla ricerca di una sensazione di benessere che mi sfuggiva.
Confusamente mi chiedevo se avrei riconquistato la
percezione di integrità fisica, se lo scudo che difende dalle insidie, dalle ansie e dalle paure quotidiane
sarebbe tornato a proteggere il mio petto. Oppure
ogni difesa era stata corrosa dall’esperienza di malattia, che per tanti mesi aveva vagabondato nella
mia anima. L’idea di fragilità spintonava le certezze,
le allontanava fino a farle crollare, si apriva varchi
insopportabili nella memoria.
L’ipermercato mi avvolse affettuosamente con
il suo affannoso brulichìo, mi salutò con i soliti
mille sorrisi per cingermi in un vigoroso abbraccio consolatorio. Abbandonato nell’assurda comprensione di un baraccone, nel viavai cigolante di
una confusione babelica che spazzolava il martirio delle mie idee. Fantastico sentirsi compagno
inatteso in un crogiolo umano al primo viso diverso, strano, stupido o intelligente, antipatico
o interessante non importa. Accarezzato da un
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incerto sorriso straniero che si nasconde in un
impetuoso scrosciare di espressioni.
Quanta gente, quante vite simili con le stesse
ambizioni, frustrazioni, aspirazioni. E noi a ricercare uno spazio più luminoso per distinguerci dagli
altri, alla ricerca di un’immortalità irraggiungibile.
Mi avevano assegnato una stanzetta a due letti. Ero
un privilegiato. Il mio amico mi aveva riservato una
sistemazione decente. Avevo al mio fianco solo un
uomo anziano operato di non so quale problema
addominale. Sondino naso-gastrico e catetere in
via di rimozione, appariva un malato molto sofferente, prevalentemente immobile, macilento; costantemente assistito dai parenti, donne di giorno
e uomini di notte, dimorava nel letto in posizione
pressoché seduta, il capo chino ricoperto da un berrettino di lana bianco confezionato con l’uncinetto,
come quello che usava mio nonno. Il suo sonno,
apparentemente leggero e superficiale, era cullato
da un respiro regolare e discreto, quasi timoroso di
arrecare fastidio. Silenzioso anche nel lamento, era
il compagno di stanza ideale: taciturno, composto
e dignitoso. Non mi infastidiva la sua tosse umida
e catarrale, le sue espettorazioni, i cambi di sacchetto del catetere: il mio lavoro mi aveva abituato a
questi rumori ed a certe visioni. L’aspetto sofferente
contrastava con il suo tono di voce, maschio, secco
e giovanile, quella di un uomo sano ed equilibrato.
Pioveva ininterrottamente dalla sera prima e
dall’opacità dei vetri della finestra percepivo il fred9
do delle fronde degli alberi che vi si affacciavano.
Mi sarei aspettato la luce del sole, il cielo nitido,
il rumore della gente, lo strombazzare delle auto,
il rombo dei ciclomotori, il canto degli uccelli.
L’indifferenza del mondo ai miei problemi al di là
degli avvolgibili socchiusi. Invece era lo scroscio
della pioggia incessante ad accompagnare i miei
pensieri, erano le gocce a ticchettare sul mio nuovo
stato d’animo, a torturare la mia agognata serenità. Quel pianto della natura mi distraeva dolorosamente dallo sforzo di raggiungere la pace, più delle
lacrime che mia moglie non era riuscita a trattenere.
Ero stato costretto a riferirle il sospetto di malattia, non potevo fare a meno di metterla al corrente che dopo qualche giorno avrei affrontato un
intervento chirurgico. Sono curioso di conoscere i
pensieri che le passarono nella mente la mattina che
mi fermai a parlarle.
Il sabato non dovevo lavorare, così dopo che le
ragazze erano andate a scuola, invitai mia moglie a
sedersi sul divano perché dovevo parlarle. Mi guardò sconcertata e sorpresa ma mai avrebbe intuito
l’oggetto dell’argomento.
«Devo farmi operare».
Forse la guardai fissa con uno sguardo da pesce
morto o di ebete oppure di uno spiritoso inopportuno. Ma sicuramente non riuscii ad essere spontaneo, né a trovare una maschera migliore per coprire
l’imbarazzo.
«Sembra un linfonodo ingrossato. Devo farmelo
togliere, perché malato».
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Non trovava una risposta adeguata e pertinente
al di fuori di una lunga pausa.
«Per quale motivo?» si sforzò di chiedere.
«Mi hanno detto che si tratta di un tumore. Va
tolto. E bisogna approfondire la diagnosi».
Una notizia riferita freddamente, senza partecipazione emotiva, come la cronaca di un giornalista
televisivo.
Solo la sera precedente, mentre mi lavavo in
bagno, mi ero accorto di un’insolita durezza, mi
toccai e mi ritoccai, sorpreso di quella novità,
incredulo di un’alterazione inattesa del mio corpo. Notai un’esagerata consistenza, un aumento
di volume che avevo difficoltà ad accettare. Cosa
stava accadendo? Cosa era successo? Mi recai regolarmente sul posto di lavoro, ma appena possibile mi assentai per sottopormi ad un’ecografia.
Il radiologo parlava di aumento della vascolarizzazione che poteva dipendere da una infiammazione. Questa versione per me poco credibile mi
indusse al terzo grado nei confronti dell’esaminatore, fino a farlo cedere, fino a fargli ammettere
una destrutturazione dei tessuti interessati. In
poche parole tumore. Mi rimproverò affettuosamente di avergli rovinato la giornata.
«Amico mio, forse la giornata io l’ho iniziata
peggio di te!» gli sorrisi senza vergognarmi di esporre tutti i denti possibili.
Come se avesse percepito le riflessioni del radiologo, anche mia moglie il giorno seguente aveva
dubbi sulla diagnosi.
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«E se fosse semplicemente un’infezione?» continuava a sperare.
Così seguii il suo consiglio di assumere antibiotici per qualche giorno.
Dopo qualche ora consultai lo specialista di fiducia il quale mi confermò il sospetto diagnostico.
L’unica terapia era chirurgica. Rimuovere la parte
malata al più presto, effettuare l’esame istologico e
completare il protocollo radiologico per stadiare la
patologia. Si prospettava la solita radioterapia e chemioterapia. Effetti collaterali ed infusi di speranza.
«In ogni caso ci è caduta una bella tegola sulla testa.
Nel momento in cui meno ce l’aspettavamo».
«Veramente io non ho mai conosciuto uno che
si aspetta che gli cada una tegola in testa! È successo ormai e adesso ci tocca riparare i danni per
quello che è possibile. Non possiamo certamente
essere immuni da malattie. Accade agli altri, quindi
possono colpire anche noi».
«È una notizia troppo forte perché io non ne
sia toccata...» a Claudia cominciavano a luccicare
gli occhi.
«Vorrai dire sconvolta».
«No, non lo so ancora, ho difficoltà a rendermene conto. Se si segue la ragione è sicuramente un
evento sconvolgente, ma... non mi sento in ansia. E
quando non mi prende l’ansia di solito significa che
tutto andrà per il meglio».
Come sempre per lei la ragione era fallace e
ingannevole, per questo si affidava alle intuizioni.
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Probabilmente aveva paura di pensare e si proteggeva in questo modo, ma devo dire che il suo intuito raramente sbagliava, come se avesse delle latenti
capacità paranormali. E poi a me quella sua versione mi faceva comodo e mi infondeva una certa
tranquillità.
«Ma certo sicuramente andrà tutto bene. E poi
questo gonfiore va curato a tutti costi. Mi impedisce di accavallare le gambe» scherzai. «Sto pensando
adesso a come potrò eseguire la spaccata!»
Mia moglie non sorrise, ma mi guardò in tono
di rimprovero, facendomi capire che quello spirito forzato e fuori luogo nascondeva una rabbia
inespressa.
«Ma cosa vuoi che succeda? Al massimo mi toglieranno un pezzo della carrozzeria, ma il motore
funzionerà come prima» continuai a tormentare
mia moglie con accanimento e lei inciampò in un
pianto torrenziale che aveva arginato a stento fino
a quel momento.
«Scusami, ma io non riesco ad essere cinica come
te. Ma non ti preoccupare io resto sempre tranquilla. Andrà bene... piango perché, tu lo sai, le mie
lacrime scendono da sole» cercava di giustificarsi.
«Con me non devi nasconderti, esprimi tutte
le tue paure, piangi, dispèrati. Però non voglio che
traspaia niente in famiglia. Sarebbe una sofferenza
inutile per i nonni e per le figlie. Dal momento che,
siamo d’accordo, tutto si concluderà positivamente. Mi hai sempre considerato un uomo forte, hai
nutrito stima per me, quindi ascoltami e credimi...
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Solo che tra qualche giorno non potrai più vantarti
di avere come marito un uomo tutto d’un pezzo!».
L’abbracciai teneramente tra lacrime, singhiozzi,
sorrisi e sospiri.
Mi sentivo un eroe, la vanità e l’orgoglio superava la paura della malattia. Solo, protagonista di
una lotta senza quartiere, a combattere strenuamente contro un nemico ingiusto, ora che i soldati immunitari avevano ceduto ed erano fuggiti
di fronte alle frustrazioni della mia vita. Se avessi
vinto sarei stato soddisfatto di avere sconfitto la
malattia e allontanato la morte. In caso contrario
pazienza: un’esperienza gloriosa spirare da martire
sul campo di battaglia.
Ad alimentare il mio coraggio il medico, che
prospettava buoni risultati e scialava guarigioni, e
mia moglie che aveva messo da parte le sue croniche
fobie per instillarmi tutta l’audacia dell’universo.
Avevo parlato troppo presto, perché il mio compagno di stanza mi tenne allegro tutta la notte prima
dell’intervento: la tosse divenne tempestosa ed insopportabile, il respiro affannoso, i lamenti intervallavano penosamente la sofferenza del vecchio.
Una notte inquieta e tormentata, ma il dormiveglia
mi aiutò a riposare mente e corpo. Quella mattina mi lavai con una flemma esagerata, avevo tanto
tempo da dedicarmi.
Avevo voglia di palparmi continuamente, come
un adolescente. Cosciente che tra qualche ora mi
avrebbero inciso la pelle, che mi avrebbero strappa14
to definitivamente una porzione malata di me stesso. Ma la sua strana consistenza mi rendeva ormai
estraneo quel bubbone. Non rappresentava più una
parte in armonia con il resto del corpo, ne avevo quasi paura, desideravo allontanarlo da me e dalla mia
vita, non sentirne più parlare. In maniera definitiva.
Come mi succedeva con le persone, stimate ed a volte anche amate, che mi avevano deluso: una smania
irresistibile di troncare ogni tipo di rapporto.
Quell’animaletto deforme mi osservava con
dispetto e con malizia per insegnarmi la mia debolezza. Tra gli odori conosciuti della mia stanza,
del legno dei mobili, della stoffa delle tende, delle
lenzuola pulite, del passaggio di mia moglie, i miei
occhi sembravano inceppati sul pene intorpidito
che faceva risaltare il volume e la durezza di quel
piccolo mostro, che, ormai impazzito, si mostrava
prepotente ogni volta che per una qualche ragione
mi abbassavo le brache, lasciando timidi alla sua
ombra i miei genitali, passati in secondo piano.
Come appare diverso un ospedale dalla parte del
paziente! Spesso me ne ero reso conto e ci avevo
ponderato. Per un ammalato, che già vive una condizione di bisogno e di difficoltà, l’ospedale è un
edificio sconosciuto, in cui si muove con estremo
disagio. Come può succedere quando ognuno di
noi si avventura nei corridoi di un ente pubblico
alla ricerca di uffici o certificati, in attesa di impiegati che non si sa se sono liberi o occupati, se e
quando dovranno arrivare. Queste riflessioni fre15
quenti mi inducevano ad un comportamento più
gentile e paziente, nei limiti che mi permettevano la
confusione del lavoro, la scostumatezza degli utenti,
l’insidia dell’affaticamento. Cercavo di correggere il
personale paramedico ad assumere un simile comportamento nei confronti della gente che richiedeva notizie e aiuto, anche al fine di non esasperarli ed
evitare la loro giustificabile aggressività.
Per questo quando mi trovavo nel ruolo di utente, preferivo sbrigarmela da solo senza procurarmi
aiuto da amici e conoscenti. Per conoscere meglio
il mondo di chi chiede. Ed allora si scoprono incongruenze, ingiustizie, incomprensioni, che si potrebbero evitare se si mostrasse un minimo di buon
senso e minore superficialità.
Già la mattina del ricovero, dopo aver trovato
il reparto, cominciai a provare imbarazzo – io del
mestiere – a rivolgermi a qualunque persona in divisa, non sapendo quale ruolo rivestisse, ausiliario,
infermiere generico o professionale, caposala. Dopo
aver scoperto che avrei dovuto parlare con la caposala e dov’era il suo ufficio, non capivo se entrare
o aspettare. Allora chiedere gentilmente non costa
nulla! Comunicata la mia identità tutto diventava
più facile. Per gli altri forse un po’ meno, ferma restando la cortesia del personale.
La stanza di degenza? Pazienza! Un ammalato
non pretenderà un albergo di lusso. Ci si accontenta e per qualche giorno non sarà un problema,
l’importante una sufficiente pulizia ed una discreta tranquillità. Ma il bagno? Come avrei trovato il
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coraggio di lavarmi in quel bagno, anche se non
potevo certamente definirmi schizzinoso. Certo
negli ultimi anni mi ero notevolmente viziato,
frequentavo alberghi migliori e amavo le comodità. Tuttavia la mia capacità di adattamento restava
sempre considerevole.
Non dimenticavo le dormite sulle panchine e
nei prati, i ritorni dalla scuola in autostop aspettando sotto la pioggia e al freddo, quando ero poco
più di un bambino. Quando, ormai laureato, fui
costretto alla vita militare non mi arresi certo alla
scomodità delle caserme. In quel freddo febbraio
lasciai la mia fidanzata con il ricordo consolatorio
di un ballo di San Valentino e partii alla volta del
freddo del Nord, dove mi aspettava una miriade
di tute mimetiche riempite di diciottenni spaesati.
Sveglia al mattino presto rinforzata dalle urla del
tenente, dal caldo delle camerate si passava velocemente alle ritirate dove il gelo della notte nevosa
si insinuava dalle finestre spalancate. A dorso nudo
bisognava farsi spazio nelle “mangiatoie” (come io
le chiamavo) alla ricerca di un rubinetto libero e
strofinarsi energicamente viso, collo e ascelle per riscaldarsi con l’acqua fredda. La doccia era programmata non ricordo bene se in uno o in due giorni
della settimana e bisognava conquistarsela con la
sopportazione di una fila chilometrica. Per questo
una mattina decisi che le mie abitudini igieniche
sarebbero mutate, così nella consueta atmosfera
agghiacciante dei bagni sfidai le finestre aperte incorniciate di neve e lo sbalordimento dei camerati
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presentandomi completamente nudo e infilandomi
nel lavabo sotto l’allegro scorrere dell’acqua fredda.
Tuttavia, nonostante il mio nutrito curriculum
adattatorio, quei bagni dell’ospedale misero a dura
prova le mie forze. Non me la sentivo di lavarmi i
denti in un lavandino così frequentato e sciacquarmi le intimità in quella sorta di bidè. Mi aggrappai alla gentilezza dell’amico medico e cedetti alle
lusinghe della camera personale che mi offriva per
l’igiene serale e mattutina. Respirai per la mia prima debolezza.
Il primo impegno da ricoverato, dopo il prelievo di
sangue e quando ancora ero vestito in borghese, fu
l’elettrocardiogramma. L’ausiliaria mi accompagnò
per scaricarmi in mezzo a tutti gli altri degenti.
«Aspetti qui, la chiameranno per fare la visita.
Di là hanno già i nominativi».
Forse i nostri nomi c’erano, ma quel giorno
mancavano le infermiere, e il medico, invece di sospendere il servizio, aveva preferito lavorare da solo,
ma chiaramente con maggiore difficoltà e lentezza.
Le chiamate non avvenivano e la fila si autogestiva,
nel senso che entrava chi si sentiva più in diritto, il
vecchio sulla sedia a rotelle, la donna che non riusciva a restare in piedi per molto tempo, la mamma
con il bambino che faceva i capricci, il giovane che
doveva essere dimesso in mattinata. Tutti sembrava
avessero fretta di ritornare in reparto, dove avrebbero goduto della noia di un’intera giornata insignificante, dove avrebbero passeggiato tra la stanza, il
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corridoio, il bagno e la sala d’attesa, senza neanche
il gusto di una sigaretta perché in ospedale non si
poteva fumare e poi nessuno di loro fumava. Prima
di entrare trascorsi diverse mezze ore in quella strana atmosfera kafkiana, il tempo per tornare e ritornare dal reparto, visitare il bar, andare a prendere
un libro, un giornale, leggerli.
La mancanza di collaboratori impediva al cardiologo volenteroso di cambiare il lenzuolo dove i
pazienti si poggiavano o aggiungere della carta che
non gli era fornita. Per questo mi costrinse ad adagiare la mia pelle nuda su di un piano ricoperto da
una stoffa quasi bianca, che avrei chiamato volentieri sudario.
Tornai in stanza per mangiare un pasto ormai
freddo, ma a questo ci ero abituato con tutti i vassoi
improvvisati che avevo consumato in ospedale nei
giorni in cui non tornavo a casa. In più questa volta
mi allietava la tosse musicale del mio compagno.
Ma l’esperienza più strana fu rappresentata dalla
tricotomia. Una chiamata inaspettata da parte di un
anziano infermiere. Scesi dal letto e mi recai in una
sorta di medicheria secondaria seguendo la scia del
suo sudore. Non potevo sbagliare. Quattro mura
squallide e sbiadite, la classica aria di ospedale, un
lettino sconcio su cui posare il mio corpo malato.
«Si spogli per intero» mi fu intimato seccamente, mentre un gradevole freschetto mi accapponava la pelle. Mi spogliai lentamente, proiettandomi
all’esterno di me stesso per gustare i miei goffi movimenti e le mie spassose nudità. Attento a sceglie19
re una posizione comoda e non molto lontana per
non perdere nessun particolare della scena. Il figaro
aromatico lavorava di fino con pennello e schiuma,
distribuita su tutte le pieghe. Fui rasato dalla coscia
al torace con particolare attenzione nella regione
pubica fino a rendere perfettamente glabra anche
tutta la pelle dello scroto. Per lasciare spazio al lavoro del rasoio a perdere, spostava con garbo ed attenzione il pene intirizzito e intimidito, prendendolo
dalla punta del prepuzio. Alla fine mi ritrovai bianco e pulito come un bambino impubere, pronto per
essere massacrato.
Il giorno dell’intervento chirurgico mi sentivo
un vero raccomandato. Inserito per primo nella
lista degli operandi, mi svegliai di buon mattino dopo la nottata insonne e travagliata dai
malesseri del compagno di camera, mi armai di
borsetta con gli strumenti da toilette per recarmi nel reparto donne dove era ubicato lo studio
dei chirurghi con il bagno concessomi. Tutto il
tempo e gli agi per officiare i bisogni fisiologici,
sbarbarsi, lavarsi e cambiare indumenti.
Tornato al via, trovai ai piedi del lettino una sorta di camicia da notte in ruvido cotone bianco. Fui
costretto dall’infermiera a denudarmi completamente per indossare quella strana camicetta da manicomio tutta aperta da dietro, un grembiule che
si allacciava al collo e scendeva fino ai ginocchi, lasciando scoperto tutto il posteriore. La nuova divisa
da operando mi snocciolò un sorriso impudico che
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tardava a rientrare. Dovetti trattenere il desiderio
di confrontarmi con uno specchio e mi infilai sulla
lettiga per essere sbarcato in sala operatoria.
Era una mattinata fredda, grigia e piovosa, quasi
invernale, e le pesanti coperte non riuscivano neanche ad intiepidire le mie nudità durante il viaggio lungo i corridoi e dentro gli ascensori. Prima di
varcare la soglia del settore chirurgico, mi toccai i
genitali, con discrezione per evitare di scandalizzare
le mie autiste. Non li palpai per scaramanzia, ma
soltanto per trasmettere la mia protezione e la rassicurazione che nessuno avrebbe fatto loro del male.
Tra un’ora tutto sarebbe finito e io mi sarei sentito
più libero e leggero.
Che bravo l’anestesista a cui ero stato affidato!
Infondeva una tale fiducia e tranquillità, che si convertiva quasi in diletto l’inoculazione di anestetico
nel midollo spinale. Seduto sul lettino a testa bassa
non percepii neanche la puntura di quell’ago sottile, così nel giro di pochi minuti la parte inferiore
del mio corpo progressivamente si riscaldò, poi si
intorpidì fino a perdere tutta la sensibilità ed a paralizzarsi. Un telo verde teso davanti al viso mi separò
dagli sguardi dei chirurghi e dai loro gesti, ma non
dalle parole. Dai discorsi degli operatori intuii che
avevano iniziato ad incidere la regione inguinale,
dagli sfrigolii del bisturi elettrico e dall’odore di
bruciato percepivo le fasi successive dell’emostasi.
Non seguii l’intervento perché mi addormentai,
fiducioso o sedato non lo so. Mi risvegliò dopo quasi un’ora il viso capovolto di un uomo dal camice
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bianco che subito non identificai data la scomoda
posizione, nonostante indossassi ancora i miei occhiali. Riconobbi Stefano dalla sua caratteristica
voce. Un’anestesista che per tanti anni aveva lavorato con me in sala operatoria e che adesso era divenuto primario in un ospedale vicino. Quella mattina avevano richiesto la sua opera in questo distretto
aziendale per dare man forte agli altri colleghi che
si trovavano in carenza di organico. Si avvicinò ponendomi le mani sulle guance impacchettandomi
il viso come un salame tra le fette di un panino.
Si rivelò piacevole il contatto con la ruvidità dei
suoi polpastrelli, ma tutto fu guastato da una fugace espressione di compassione che balenò nel suo
sguardo. Grazie della comprensione, ma in quel
momento avevo solo bisogno di ritrovare la giusta
dose di coraggio per lottare e ritornare come prima.
Giuseppe, l’amico chirurgo, mi mostrò con
fierezza il reperto chirurgico, una specie di piccola
provola, appesa ad uno spago che lui sollevava con
due dita e rigirava da tutti i lati per poterlo apprezzare nella sua consistenza e dimensione. Visto così
il pezzo anatomico appariva proprio enorme! Mi
chiedevo ancora come mi era sfuggito il suo aumento graduale di volume e di durezza. Ero convinto
di aver percepito la sua anormalità solo il giorno
precedente alla diagnosi, perché solo allora aveva
assunto quelle caratteristiche. In modo repentino,
se non improvviso. Non era la prima volta che avevo stretta relazione con quella zona del mio corpo
e questi contatti avvenivano pluriquotidianamente.
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