I vistiis dn òta - Comelico Cultura

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I vistiis dn òta - Comelico Cultura
I vistiis d n òta
di Raffaella Zanderigo Rosolo
I ritratti di famiglia dei nostri antenati,
testimoniano come si vestiva un tempo.
La donna
Nei giorni di festa la donna indossava
un’ampia gonna fatta con cinque teli da
cm. 80. Il tessuto era di lana,
proveniente sicuramente dall’Austria o
dalla Germania, dove era diretta
l’emigrazione a quei tempi; colore nero
o marrone o verde bottiglia.
La ricchezza della gonna era ridotta a
giro vita con minuscole pieghe di mezzo
centimetro. Tutto cucito a mano. L’orlo
in fondo era rinforzato, all’interno, da
una fettuccia resistente e all’esterno,
una bordura di velluto.
La camicia di puro lino, a giro collo,
manica lunga, abbottonatura laterale o
sulla spalla, rifinita di pizzi all’uncinetto,
era lunga tanto da formare sottogonna.
Mutande lunghe, aperte per praticità,
fermate sopra o sotto il ginocchio, da
impunture ad elastico e bordo di pizzo.
A completare il tutto, un giubbetto
corto, in vita, maniche lunghe, ricche
poi a fuso, con bordure di velluto.
Una collarina di velluto con medaglietta
o cuoricino.
Sopra la gonna un grembiule di seta in
armonia con il costume: rosso, rosa,
verde chiaro o a fantasia.
Calze bianche, traforate, di cotone o
lino, lavorate a mano; scarpetti di
velluto, dalla suola di pezza trapuntata
a mano. Per il brutto tempo, stivaletti.
Capelli raccolti in trecce, girate a
corona sul capo.
Fazzoletti neri a fiori con le punte
fermate al centro con una spilla o
annodate.
Per i giorni feriali, la donna indossava
due, tre gonne di tela, sovrapposte, per
più usi: da parapioggia, da sacca… ,
camicia scura, a giro collo, grembiule
grigio di cotone e calze dalle ginocchia
alla caviglia “ciampaneli”. Per difendersi
dal freddo, uno scialle lavorato a mano.
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L’uomo
L’uomo indossava calzoni di mezzalana,
neri o grigi o marron, lunghi fino al
ginocchio o alle caviglie.
La camicia era di lino, a giro collo.
Sopra un panciotto di mezzalana per
l’inverno, di tela più leggera o seta per
l’estate, due taschine per mettere in
mostra la catenella dell’orologio.
Giacca di mezzalana, come i calzoni,
orlata di velluto nero, calze di lana o
lino e cotone e ai piedi zoccoli di legno
e cuoio o scarpetti, con suola fatta di
vari strati di panno, imbottiti a mano,
tomaia in panno nero, ricamato a fiori,
in punta.
Il cappello era di feltro nero, a larga
tesa.
D’inverno indossava il tabarro, mantello
corto di mezzalana.
La meraviglia di questi costumi è
nell’essere tutti confezionati a mano.
L’abilità artigianale di quei tempi!
dove veniva inserito il bimbo ed era
comodo per reggerlo e portarlo. Non
dimentichiamoci che a quei tempi non
solo, ma fino agli anni trenta, il neonato
veniva avvolto in fasce fin sotto le
ascelle, a volte anche le braccine.
Povere creature condizionate fin da
piccole.
Crescendo, “i kutùs” per le bambine:
camiciotti con tessuto anche riciclato da
indumenti degli adulti, lungo fino alle
caviglie, sopra un grembiule con
pettorina
e
volans.
Chi
poteva
permetterselo comperava tessuto di
felpa e cotone. I capi erano impreziositi
da pieghe, da fettuccine o ricami.
Crescendo i maschietti indossavano
calzoncini che andavano dalle ascelle a
sotto le ginocchia e l’adattavano alle
varie fasi di crescita. Camiciole e
giacchine riciclate, calze di lana.
Fortunato chi poteva avere un paio di
scarpe. I più calzavano zoccoli di legno
o scarpetti di pezza. Andavano anche
scalzi.
Non veniva sciupato nulla, allora. Tutto
voltato, rivoltato, allungato, riadattato.
Nulla veniva buttato. Ho l’esempio di
mia madre che conservava tutto:
ritagli, bottoni…
“Può sempre servire” diceva.
Ora “usa e getta” è la filosofia del
consumismo di questi tempi. Ma la
saggezza dei tempi non servirà proprio
più a nulla?
Diceva mia madre “Forse tornerà buono
tutto, ma quello che si è gettato è
gettato”.
La mezzalana
(dagli appunti di Giovanna Festini
Cucco)
Come vestivano i bambini?
Se era il primo nato, aveva la fortuna di
usare per primo indumenti usciti dalle
abili mani delle zie, delle nonne,
impreziositi di merletti e ricami. Così le
camiciole, le cuffiette, i bavaglini, le
scarpette, il porta-infante, una specie di
sacco imbottito con una fodera vivace,
Bisogna
tener
presente
che
a
quell’epoca vi erano numerosi greggi di
pecore e quasi in ogni famiglia, si
contavano decine di capi. Quindi gran
uso di lana che veniva cardata e filata
in casa.
Serviva per fare calze, scialli, berretti,
ghette per la neve e maglie di sotto.
Parte del filato andava alla tessitura
locale che lo univa ad un filo di cotone o
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di lino. Si aveva così la stoffa di
“mezzalana” che veniva portata giù a
Gera dal “fulòn”, un artigiano che, con
appositi rulli, azionati ad acqua,
pressava il tessuto e poi lo tingeva con
colori naturali, in nero, verde scuro,
blu, rosso vinaccia a secondo dell’ordine
avuto.
La stoffa era quindi pronta per
confezionare vestiti da uomo e da
bambino, aveva gran durata e si
passava da una persona all’altra a
secondo della crescita.
C’è chi è riuscito a conservare questi
capi così preziosi per i nostri tempi.
Compaiono nelle mascherate, nelle
coppie da “vécia” o nel museo
etnografico, testimoni di sorprendente
manualità e praticità. Altri tempi, altri
ritmi di lavoro!
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