Lettera di padre Duban

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Lettera di padre Duban
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Lettera di padre Duban a monsignore
il marchese de Torcy,
ministro e segretario di Stato, sulla
fondazione della missione dei padri
gesuiti in Crimea
20 maggio 17131
1 Lettre à Monseigneur le Marquis de Torcy, Ministre et Secrétaire d’Etat, sur le nouvel
établissement de la Mission des Pères Jésuites dans la Crimée, in Lettres édifiants et
curieuses écrites des missions étrangères, Paris, 1703-1776. Traduzione dal francese e
note: © associazione culturale Larici. L’illustrazione mostra l’estensione del khanato di
Crimea nel periodo 1441-1783.
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Monsignore2,
mi si ordina da parte di Vostra Eccellenza di inviare una relazione sull’inizio
e lo sviluppo della missione che stiamo aprendo in Crimea, sotto la potente
protezione del re, che avete voluto fornirci. È un tributo che paghiamo con
gioia e che riconosciamo di dovere sia alla gloria del vostro ministero che
alla generosità e alla grandezza del vostro zelo.
Incaricato da Sua Maestà dell’amministrazione degli affari esteri, il vostro
ministero credette di dover collocare fra questi la questione della salvezza di
un’infinità di poveri stranieri di quasi tutte le nazioni cristiane d’Europa, che
qui gemono in schiavitù. Dandovi con questa lettera un conto esatto di tutto
il bene che voi ci metteste in grado di fare, permettete, monsignore, che io
prenda il filo delle cose dalla prima nascita della missione, e perdonatemi, di
grazia, i particolari troppo ampi in cui forse mi capiterà di entrare, ma
essendo la prima lettera mi sembra di aver mille cose da dire sugli abitanti e
sui costumi di questo nuovo paese. Nelle lettere successive procurerò di
essere meno lungo.
Nel mese di luglio dell’anno 1706, un francese, chiamato signor Ferrand 3,
primo medico del khan dei Piccoli Tatari4, venne a Costantinopoli per alcuni
affari e ci raccontò mille cose toccanti sullo stato pietoso in cui si trovava in
Crimea un’infinità di cristiani d’ogni età e sesso, fatti schiavi nelle varie
scorrerie dei Tatari e privati completamente di ogni soccorso spirituale.
Aggiunse che, due anni prima, un gesuita polacco, al quale aveva ottenuto il
2 La lettera, scritta dal gesuita padre Claude Duban (1668-1735), è indirizzata al marchese
Jean-Baptiste Colbert de Torcy (1665-1746), diplomatico francese sotto Luigi XIV, che fu
ministro nel 1700 e segretario di Stato agli Affari esteri negli anni 1709, 1710 e 1711.
Molto attivo nella stesura del trattato di Utrecht (1713) e di quello di Rastatt (1714), che
segnarono il predominio della Francia in Europa, fondò anche la prima accademia per la
formazione di giovani diplomatici all’estero e un archivio diplomatico centralizzato a
servizio degli storici.
3 Il francese N. Ferrand, nato verso il 1670, fu lo stimatissimo medico dei khan che si
succedettero in Crimea e l’accompagnatore delle missioni gesuitiche. Una sua lettera,
sull’esperienza in Circassia, è anch’essa nelle Lettres édifiants et curieuses écrites des
missions étrangères, (traduzione in http://www.larici.it)
4 I territori compresi tra il fiume Dnepr e il Mar del Giappone costituivano la Tataria (non
Tartaria come era in uso scrivere nel Sette-Ottocento). La parte soggetta all’Orda d’Oro
era detta Piccola Tataria, per distinguerla dalla vasta area dell’Asia centrale e della Siberia
che era la Grande Tataria. Il khan era il capo delle tribù dell’Asia centro-meridionale.
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permesso di entrare in Crimea, cominciò a fare del gran bene presso gli
schiavi della sua nazione, ma vi visse soltanto dieci mesi a causa di una
terribile peste, sopraggiunta verso la fine del 1704, che fece morire più di
ventimila poveretti. Noi conoscevamo già una parte di ciò e sapevamo
anche che gli altri cristiani del paese erano da compiangere come gli schiavi,
e che da lungo tempo ci doleva di essere appena quattro gesuiti per la vasta
e faticosa missione di Costantinopoli. Ne avevamo parlato molto spesso con
il nostro ambasciatore, il marchese de Ferriol, il cui zelo per la religione e la
sua grande carità lo rendevano molto sensibile all’abbandono della Crimea5.
Commossi più che mai dalle ultime notizie, proponemmo al marchese de
Ferriol di scegliere qualcuno tra noi e di mandarlo in soccorso di quei
cristiani abbandonati ed egli accettò di tutto cuore. La mia buona sorte volle
che la scelta cadesse su di me e mai dimenticherò i tratti della sua
generosità, veramente degna di un ambasciatore del re. Non solamente egli
onorò della sua protezione la nuova missione che stavo per cominciare, ma
volle anche addossarsi la cura di sostenerla a sue spese e di renderla
gradita a sua maestà. Voi conoscete, monsignore, le lettere piene di ardore
e di cristianesimo che egli vi mandò allora; egli ne scrisse anche di molto
insistenti al khan dei Tatari, suo vecchio amico, aggiungendovi ricchi doni, e
mi rifornì abbondantemente di tutto ciò che credette necessario al mio
viaggio, mettendomi in condizione di partire immediatamente.
Mi imbarcai il 19 agosto dello stesso anno, in compagnia del signor
Ferrand. Era la bella stagione, quando la navigazione nel mar Nero è tanto
dolce e sicura quanto è dura e pericolosa negli altri periodi. Il gran pericolo
che si incontra navigando in quel mare, deriva dalla quantità dei suoi
bassifondi e dalla sua scarsa estensione, che rendono le onde così alte e,
nello stesso tempo, così corte, che le migliori navi resistono appena ai loro
colpi raddoppiati, e non c’è anno che non se ne perda un gran numero. Otto
o dieci anni fa, nove galee del Gran Signore6 scomparvero tutte in una volta.
Grazie al bel tempo, coprimmo velocemente le duecento leghe che si
contano da Costantinopoli alla Crimea. Il tragitto sarebbe meno lungo se si
facesse il canale diritto, ma si perde molto tempo a cercare la foce del
Danubio7. Appena scesi a terra, non pensammo ad altro che ad arrivare in
fretta a Bachčysaraj8, capitale del paese e abituale dimora del khan. Le
5 Il nome di Charles-Augustin de Ferriol (1637-1722), marchese d’Argental e ambasciatore
di Luigi XIV a Costantinopoli, è legato al fatto che, durante una delle persecuzioni subite
dal popolo armeno e in seguito a un ordine di papa Clemente XI, fece rapire il patriarca
armeno di Costantinopoli, Avedic Tokat, e lo portò in Francia, dove nel 1711 questi fu
condannato dall’Inquisizione.
6 Sultano.
7 La navigazione si svolse costeggiando la parte occidentale del mar Nero da Costantinopoli
fino al delta del Danubio e da qui virando verso est per raggiungere la Crimea
mantenendosi nella zona meno profonda del mare.
8 Sull’originale è Bagchsaray. Bachčysaraj, o Bahçesaray in turco, è situata all’interno della
punta meridionale della Crimea. Allora era capitale del Khanato di Crimea, una delle
maggiori potenze dell’Europa Orientale fino al XVIII secolo, di cui la penisola di Crimea
era la punta più a sud.
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lettere e i bei doni del marchese de Ferriol ci fecero avere pronta udienza,
accompagnata da molte cortesie. Il khan, il sultano Gazi Giray 9, mi parve un
principe di circa quarant’anni, di bella persona, con l’aria nobile, lo sguardo
penetrante e i lineamenti regolari, ben diverso dagli altri tatari, che hanno
quasi tutti il viso deforme. Lui e tutti coloro che lo circondavano avevano più
l’aria guerriera che magnifica. Ciò che mi rallegrò fu la bontà con la quale
egli mi ricevette. Mi fece moltissime domande sul re e sulle guerre della
Francia, alle quale mi parve fosse particolarmente interessato; mi parlò
anche dell’ambasciatore, con mille dimostrazioni di stima e di amicizia. Colsi
quel momento per chiedergli il permesso di assistere gli schiavi e gli altri
cristiani dei suoi domini: me lo accordò immediatamente e in maniera tanto
estesa e favorevole che non potevo desiderare di più.
Il khan della Piccola Tataria è padrone di un vastissimo paese. Ha la
qualifica di padicha o imperatore10; egli è considerato come l’erede
presuntivo dell’impero turco, in mancanza di figli maschi degli Osmani11. Pur
con tutti questi titoli, egli non smette di essere un vassallo del Gran
Signore, che lo innalza e lo depone quando vuole ma senza mai condannarlo
a morte, anche se deposto, e sempre sostituendogli uno dei principi suoi
consanguinei. Questi principi del sangue di Tataria, chiamati sultani, non
sono allontanati dagli affari né rinchiusi come quelli della Turchia, ma
occupano grandi cariche e ciascuno ha la propria casa e un appannaggio. Il
diritto di nascita permette loro numerosi seguaci, che si dedicano ai loro
interessi e alla loro fortuna, ciò che spesso causa dei movimenti nello stato,
che sarebbero ancora più frequenti se i sultani fossero ricchi, ma di solito
non lo sono. Lo stesso khan lo è ben poco per un sovrano, poiché senza le
pensioni della Polonia e dello zar, che gli sono mancate dopo la pace di
Carlowitz12, gli rimangono soltanto le rendite delle sue terre, una parte delle
gabelle e qualche leggero tributo. È vero che non deve sostenere grandi
spese, giacché la sua guardia, di circa duemila uomini, è mantenuta dal
Gran Signore. Gli eserciti più numerosi non gli costano nulla né a formarli,
né a mantenerli. I Tatari sono tutti soldati e, definito il giorno e il luogo del
9 Sull’originale è Gazi Guiray, come da fonetica. Il khan Ğazı III Giray (1662-1708) regnò in
Crimea dal 1704 al 1707, quando morì durante la guerra russo-svedese. I Giray erano i
discendenti di Gengis Khan e quindi gli unici nobili legittimati a diventare sovrani;
regnarono in Crimea dal 1427 al 1783. Un aneddoto raccontato dal dottor Ferrand (cfr.
nota 3) motiva il mantenimento del nome Giray.
10 Padicha o padishah era la più alta carica dell’impero ottomano. Il termine, persiano, è
formato da pad, “maestro” e shah, “re”.
11 La dinastia ottomana degli Osmani ebbe come capostipite Osman I (1259?-1326) che
conquistò varie città bizantine e fondò un piccolo principato nell’Anatolia nord-occidentale.
I suoi discendenti ampliarono i domini in Asia Minore, nei Balcani e nel Mediterraneo
orientale, fino a creare un grande e vasto impero.
12 Il trattato di pace di Carlowitz (città nell’odierna Serbia) fu firmato il 26 gennaio 1699
mettendo fine alle guerre tra la Lega Santa (Impero asburgico, Repubblica di Venezia,
Confederazione polacco-lituana, Moscovia; fu detta “santa” perché promossa da papa
Innocenzo XI nel 1684) e l’Impero ottomano, il quale dovette cedere numerosi territori
europei iniziando così il suo declino.
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raduno, vi accorrono con le loro armi, i loro cavalli e tutto il necessario. La
speranza del bottino e la licenza del saccheggio sostituiscono la paga.
Dopo i sultani, ci sono i qaraçi beys13, che sono i capi dell’alta nobiltà e i
depositari delle leggi del paese. Il loro lavoro consiste nel mantenere la
libertà dei popoli, anche contro le vessazioni dei khan e le invasioni della
Porta14, attentissima a sottomettere sempre più tatari, il cui carattere
irrequieto e bellicoso è causa di continue inquietudini. Questo corpo di
nobiltà, distinto sia per le sue ricchezze che per le frequenti alleanze con la
casa reale, ha il suo capo, che si chiama bey, o signore per eccellenza. Egli
ha, come il khan, il suo kalga e il suo nuradino15. I qaraçi beys entrano di
diritto in tutte le importanti deliberazioni e il khan non decide alcun affare di
Stato senza la loro partecipazione.
I qaraçi beys sono seguiti dai mursa16, che sono simili ai nostri titolati
gentiluomini, ed essi pure siedono nei consigli. Oltre a ciò, il khan ha il suo
Divano, composto press’a poco degli stessi altri ufficiali de Divano del Gran
Signore, cioè il visir, il mufti e il kadiasker 17, con la differenza che queste
cariche sono possedute per tutta la durata del regno del khan che le ha
affidate, mentre in Turchia sono più soggette a cambiamento. Finché
durano, essi sono i giudici immediati di tutti gli affari civili e criminali.
Quanto al civile, la giustizia è amministrata in Tataria a forza di denaro e di
amicizie. Quanto al criminale, per esempio per le uccisioni e le violenze, non
c’è da sperare nella grazia: quando il colpevole è dichiarato sufficientemente
convinto, l’usanza prescrive che lo si consegni alla parte avversa, che fa di
lui quella vendetta che più le aggrada. Ciò giunge talvolta a eccessi di
un’inaudita barbarie, ma si crede che sia necessaria per imprimere il
rispetto delle leggi negli spiriti feroci dei Tatari, che difficilmente si riesce a
contenere anche con spettacoli di terrore.
I Tatari, sottomessi all’obbedienza del khan, portano i diversi nomi di
Perekopi, Nogaj e Circassi18. Si chiamano Tatari Perekopi, quelli che abitano
13 Sull’originale è “cherembeys”. Con qaraçi, o karaçi, si indicava il più alto livello della
nobiltà dei khanati turchi; il termine bey proviene dal turco antico beg’ e significa
“signore”.
14 Ossia di Costantinopoli, detta “Porta d’Oriente”, o semplicemente “Porta”, perché vi si
accedeva via terra passando dalla Porta d’Oro.
15 Il khan aveva due alti funzionari, che di solito erano i suoi parenti anziani più stretti: il
kalga (o, in russo, galga), che era l’erede al trono e si occupava delle guerre, e il nuradino
o muradino, addetto all’amministrazione.
16 Con il titolo di mursa (o murza, ma talvolta mirza, che significa “figlio di un emiro”) si
indicava il capo di ogni tribù tatara, il quale era un discendente diretto del primo
fondatore della tribù stessa. Annualmente esigeva dai suoi sudditi un decimo del bestiame
in tempo di pace, o un decimo del bottino di guerra.
17 Il Divano (Dîvân) era l’organo di governo per gli affari generali dell’impero ottomano e il
Tribunale supremo per i sudditi. Era presieduto dal Sultano o dal Gran visir (responsabile
per gli affari politici) e vi partecipavano il Ni-shangï (responsabile della Cancelleria), i
Qâdiâsker (o kadiasker; ognuno sovrintendente di un distretto giudiziario), il Deftderdâr
(responsabile del Tesoro), il Qapûdân pasciâ (grande ammiraglio della flotta ottomana) e
il Gran mufti (massima autorità religiosa).
18 Tatari Perekopi erano gli abitanti del Chersoneso taurico (o Crimea), il cui nome deriva da
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la grande penisola della Crimea, detto dagli antichi Chersoneso taurico, la
quale misura settanta o ottanta leghe di lunghezza e circa cinquanta leghe
di larghezza. La sua forma assomiglia a un triangolo, la cui base, a
mezzogiorno, presenta una catena di alte montagne, che per un fronte
quasi eguale si inoltra nel paese a una profondità di otto o dieci leghe19; i
due lati sono grandi pianure molto aperte, dove i venti vi penetrano e
soffiano con furore. Non ci sono in tutta la Crimea che sei o sette città che
meritano tale nome: Caffa, Bachčysaraj, Karasubazar, Gozlow, Or-kapi e la
nuova fortezza di Eni-Kale20.
Caffa, o Teodosia, sopralza tutte le altre città per la sua bellezza, la sua
grandezza e il suo commercio; fu occupata dai Turchi dopo il 1475, quando
Maometto II la tolse ai Genovesi, che l’avevano presa ai Greci durante il
tempo delle divisioni dei loro ultimi imperatori.
Bachčysaraj, capitale del paese e di norma residenza del khan, è posta
nell’entroterra ed è una città di quasi mille focolari, mal fabbricata e mal
tenuta.
Karasubazar, anch’essa nell’entroterra, è a circa venticinque leghe dalla
capitale sulla strada per Caffa; è press’a poco della stessa grandezza e mal
tenuta.
Gozlow, città marittima a ovest dell’istmo, ha una buona spiaggia e
rappresenta l’ingresso delle navi di Costantinopoli e del Danubio.
Or-kapi, o Porta d’Oro, è una piccolissima città appartenente ai Turchi. È
sulla gola dell’istmo, e ha una rocca e un debole trinceramento tirato da un
mare all’altro. L’istmo ha un buon quarto di lega di larghezza21.
A quattro leghe da Caffa, si vedono i resti dell’antica città di Krim, che ha
dato il nome al paese22 e che oggi non è che un mucchio di rovine con
qualche casa abitata qua e là.
La fortezza di Eni-Kale, sul Bosforo Cimmerio23, fu nuovamente costruita
dai Turchi; le fortificazioni furono ultimate nel 1706. Fu innalzata per
Perekop, la città fortificata costruita sulla lingua di terra che unisce la penisola della
Tauride (Crimea) alla terraferma e che dal secolo XVI divenne una munita piazzaforte del
khan di Crimea. I Tatari Nogaj abitavano le coste lungo il mar Nero, tra il Danubio al mar
d’Azov e nella Crimea nord-occidentale. I Circassi stavano nella regione caucasica nordoccidentale e alcuni territori nella Crimea sud-orientale.
19 Le catene montuose sono due: la prima, la più importante, fiancheggia la costa sudorientale a circa 8-12 km dal mare, l’altra è più interna e corre parallela alla prima.
20 Sull’originale i nomi delle città sono scritti Caffa, Bagchsaray, Karasou, Guzlo, Orkapi e
Yegnikale. Caffa, fondata dai Genovesi, è ora chiamata Teodosia o Feodosija. Per
Bachčysaraj, cfr. nota 8. Karasubazar, ossia “bazaar sul fiume Karasu”, è oggi chiamata
Bilohirsk o in russo Belogorsk. Gozlow, Guzlev, Kezlev e Gözleve sono gli antichi nomi di
Evpatorija. Or-kapi od O-Qapi è Perekop, cittadina situata sull’istmo omonimo che collega
la Crimea con la terraferma ucraina. Eni-Kale è sulla riva presso Kerč’ e la sua fortezza fu
costruita nel 1699-1706.
21 L’istmo è largo dai 5 agli 8 km e separa il mar Nero dal mar d’Azov.
22 Krim o Krym – nome che deriva dal tataro Qırım, che significa “mia collina” – era la
capitale in Crimea dell’Orda d’Oro prima che lo diventasse Bachčysaraj. Oggi si chiama
Staryi Krym.
23 Bosforo Cimmerio era il nome che gli antichi Greci davano all’odierno Stretto di Kerč’.
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fermare le incursioni dei Moscoviti, i quali, possedendo Azov24, avrebbero
potuto arrivare da là a infestare tutto il mar Nero fin presso Costantinopoli.
Questa nuova fortezza è in un posto molto irregolare, e debole dalla parte di
terra. Ciò che ha di buono è una gran piattaforma che domina tutto il
passaggio del Bosforo e su di essa è una lunga fila di cannoni di ferro di
grosso calibro, di cui alcuni di duecento libbre di palle. Queste enormi palle,
di cui i Turchi si servono nelle loro fortezze marittime, sono di una pietra
grigia durissima e pesantissima25.
Si qualificano ancora con il nome di città Mangup, Baluclava 26 e Kerč’, le
quali non sono, a dir vero, che dei borghi piuttosto mediocri. Nell’intero
perimetro della Crimea, non esistono più di milleduecento borghi o villaggi,
sebbene i nostri geografi gliene concedano generosamente ottantamila. La
prova è chiara: non si annoverano in tutto il paese che ventiquattro kadilik o
baliaggi27 e il più gran baliaggio non comprende più di cinquanta borghi o
villaggi.
Le terre, sebbene buone e grasse, non sono coltivate e quelle poche che
lo sono producono eccellente grano. I giardini e i pascoli occupano molto
terreno. Le acque vive mancano nelle pianure e si supplisce con una gran
quantità di pozzi molto profondi, che riforniscono in abbondanza interi
villaggi. Il clima sarebbe abbastanza temperato se fossero meno furiosi i
venti, ma in inverno il pungente freddo del vento di settentrione non è
sopportabile.
Il commercio con gli stranieri, la cultura del paese e le abitazioni della
Crimea sembrano avere un po’ addolcito le usanze dei Tatari Perekopi, che
specialmente nelle città cominciano a essere più trattabili. Fisicamente non
sono tanto malfatti, sono di statura media e ben proporzionata; la loro
costituzione è tra le più robuste, essendo abituati fin da piccoli a soffrire la
fame, la sete, il freddo e il caldo e ad accontentarsi di poco quando ne
hanno; sono parchi fin quando non cedono abbandonandosi ai massimi
eccessi, senza alcun patimento. La loro lingua è un gergo turco mal
combinato e mal pronunciato, come sarebbe il francese in bocca a uno
svizzero, ma basta abituarvisi e si arriva a capirlo facilmente. La loro
religione è il maomettismo, tal quale quello professato dai Turchi e, come
questi, essi hanno le loro moschee e le persone di legge, per le quali
dimostrano grande rispetto. Sebbene la pluralità delle mogli sia loro
permessa, se ne trovano pochi che ne hanno più di una: essi amano di più
mantenere dei buoni cavalli per la guerra. La stessa legge vieta loro il vino,
ma non si fanno scrupolo di berne quando ne trovano, dicendo che è
24 Sull’originale è Azak. Azov era una fortezza porto sul delta del fiume Don vicino al mar
d’Azov.
25 Nella cronaca dell’assedio di Costantinopoli (1453) si narra che i Turchi spararono palle di
basalto.
26 Mangup (nell’originale scritto Mankoup) è su un altopiano presso Sevastopol’; Baluclava è
oggi chiamata Jambol, in Bulgaria, ed è un porto sul Mar Nero.
27 Kadilik (o Kaza) era un distretto amministrativo soggetto alla giurisdizione di un giudice
(qazi, o kazi, o kadi). Era simile al baliaggio francese.
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lodevole vietarlo alle persone con una tranquilla professione, come gli
uomini di legge e i mercanti, ma che dà coraggio ai soldati, come essi sono.
Quando non hanno vino, lo sostituiscono con una bevanda molto forte e
inebriante, fatta con latte acido e miglio fermentato, chiamata boza28. Il loro
nutrimento comune contiene la carne, il latte e una pasta di farina di miglio
stemperata nell’acqua; non mangiano legumi, né ortaggi, dicendo che sono
il nutrimento delle bestie. La carne di cavallo è per loro un cibo squisito e la
preferiscono al bue e al montone, che per loro sono carni troppo scipite. La
maniera di cucinarla è una breve cottura sui carboni oppure, se viaggiano,
la lasciano ben frollare sotto la sella. Quando possono unirvi il latte di
giumenta, il loro pasto diventa per loro delizioso.
I Perekopi hanno due grandi difetti; sono sfacciati bugiardi e sono
estremamente interessati. Da tataro a tataro il furto non è permesso, né
punito; il ladro fugge dalla vergogna e per rendere ciò che ha preso, a meno
che la sua azione non interessi il pubblico o qualche autorità, perché allora
non gli si risparmiano le bastonate, ma mai fino a farlo morire. Il
contingente dei Tatari Perekopi, in tempo di guerra, è di venti o trentamila
uomini.
I Tatari Nogaj vivono nomadi nei deserti alla maniera degli antichi Sciti, di
cui essi hanno la ferocia e la durezza. Il loro paese comincia dall’uscita
dell’istmo di Crimea e si estende su immensi spazi in Europa e in Asia, dal
Bujak sino al fiume Kuban’29, che li separa dai Tatari Circassi. I Nogaj sono
di natura barbari, vendicativi, crudeli, cattivi vicini e pessimi ospiti. Tutto ciò
si legge nell’espressione del loro viso, che è orribile e deforme. Nascono con
gli occhi chiusi e stanno molti giorni senza vedere. La loro lingua non è così
mescolata al turco come quella dei Perekopi. Non hanno né città, né borghi,
né stabili abitazioni: le loro case sono dei carri coperti, sui quali trasportano
senza sosta, da un luogo all’altro, le loro famiglie e i bagagli. Quando si
vogliono fermare in qualche luogo, o per la comodità di un fiume, o per
l’abbondanza di pascoli, innalzano le loro tende, che sono una specie di
grandi capanne coperte di feltro30, attorno alle quali costruiscono delle
palizzate chiuse per la sicurezza delle famiglie e delle greggi. Essi hanno un
capo cui danno il nome di bey, al quale sono sottomessi vari mursa. Quelli di
Bujak sono governati da un fidato signore, mandato loro dal khan, che
talvolta è un sultano. Tutti sono maomettani. Il loro nutrimento è costituito
da latte, carne e boza, di cui fanno un uso eccessivo. Quando muore un
cavallo, o si storpia, è l’occasione di un lauto banchetto, al quale sono
invitati gli amici e con essi bevono oltre misura. Dai Nogaj il khan trae il
28 Il boza è una bevanda fermentata dolciastra e acidula, diffusa fin dai tempi antichi in tutta
l’Europa orientale. A seconda dei Paesi, si usa farina di mais, grano, frumento, orzo,
avena o – preferito – il miglio; la percentuale alcolica dipende dal periodo di
fermentazione e dalla quantità di zucchero.
29 Il Bujak è la zona meridionale della Bessarabia, regione storica dell’odierna Moldavia. Il
Kuban’ è un fiume della regione caucasica.
30 Il feltro era impiegato dai Mongoli per coprire le loro tende, o yurte, con la funzione di
isolarle termicamente e di impermeabilizzarle.
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maggior numero dei suoi soldati, perché al bisogno essi possono fornire
centomila uomini. Ogni uomo ha di solito quattro cavalli: quello che monta,
un altro per cambiare e portare le provviste e gli altri due per caricare gli
schiavi e il bottino. E allora sono guai per le province che essi invadono: le
loro marce somigliano agli incendi e agli uragani; ovunque passino, lasciano
soltanto la nuda terra.
I Tatari Circassi, vicini dei Nogaj, sono più tributari che sudditi del khan.
Il loro tributo consiste in miele, pellicce e in un certo numero di ragazzi e
ragazze. Questo popolo ha il sangue perfettamente bello. Parlano una lingua
particolare molto dolce. I loro costumi quantunque sempre feroci e selvaggi
non lo sono più di quelli dei Nogaj. Fra loro si trovano alcune vestigia del
cristianesimo ed essi trattano bene i cristiani che vanno da loro. Il paese,
che i Tatari Perekopi chiamano Adda31, è buono e fertile; l’aria è molto pura
e le acque eccellenti. I suoi confini sono: a nord, il fiume Kuban’ e i Nogaj; a
mezzogiorno, il mar Nero; a oriente, la Mingrelia 32; a occidente, il Bosforo
Cimmerio e parte del Limen, o mare di Zabaca33. L’Adda è circa metà
pianeggiante e metà montagnosa. I Circassi delle montagne hanno le loro
dimore nei boschi e non sono socievoli come gli altri; quelli che stanno nelle
pianure hanno dei villaggi e qualche piccola città sul mar Nero, dove si
dedicano al commercio. I bey, o signori, che li governano mercanteggiano i
loro vassalli, e i genitori mercanteggiano i loro figli. I Circassi sono reputati
più abili nel maneggiare le armi nella caccia che valorosi nei combattimenti;
nondimeno, nel 1708, quelli delle montagne, ebbero il coraggio di ricusare
al khan l’annuale tributo, che era usanza pagassero. Il khan marciò contro
di loro con un esercito di Nogaj, che fu sconfitto, essendosi lasciato
avventatamente sorprendere in alcune gole tagliate da torrenti e boschi,
dove i cavalieri non poterono agire. Dopo quel fatto, strinsero alleanze con i
Moscoviti, tuttavia senza sottomettersi a loro.
Oltre ai Perekopi, ai Nogaj e ai Circassi, vi sono anche i Tatari Calmucchi,
che si dicono sottomessi al khan34. Tutta la loro sottomissione, però,
consiste in un tributo annuale di pregiate pellicce, che portano a Or-kapi in
alcuni periodi dell’anno. Alla fine di questa lettera, di tutti questi paesi si
troveranno informazioni più circostanziate nella relazione di un viaggio in
Circassia, dove il signor Ferrand seguì, nel 1702, il sultano kalga Giray,
fratello del khan regnante.
Ritorniamo alla mia missione.
Appena ottenuto dal khan il permesso di cui ho detto, disposi i mezzi per
servirmene. Non si può immaginare uno stato più deplorevole di quello in
31 Con Ešil Ada, che significa “isola verde”, si indicava tutta la Crimea.
32 Sotto l’impero ottomano, la Mingrelia, o Megrelia, era un principato, con capitale Zugdidi,
affacciato sul mar Nero; ora è una regione della Georgia.
33 Il mare di Zabaca era la greca Palude Meotide, ora mar d’Azov. In latino, limen significa
palude, sedimento.
34 I Tatari Calmucchi discendevano dal popolo mongolo degli Oirati e abitavano la parte
orientale dell’Europa, lungo il basso Volga. Per la relazione del dottor Ferrand citata
successivamente, cfr. www.larici.it.
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cui trovai quella desolata cristianità. Le malattie contagiose degli anni
precedenti avevano fatto morire più di quarantamila schiavi. Coloro che
rimanevano, che potevano forse essere quindici o ventimila, aspettavano
ogni giorno lo stesso destino, senza alcun sentimento dei beni o dei mali
dell’altra vita. Il rigore e l’antichità della loro schiavitù, gli enormi vizi e
l’infedeltà del paese barbaro, dove la maggior parte era invecchiata senza
sacerdoti, senza parola di Dio, senza sacramenti, tutto ciò li aveva resi come
bruti. Alcuni si erano fatti maomettani e molti pendevano da quella parte, i
più erano diventati scismatici; coloro che avevano conservato la loro
religione l’avevano quasi dimenticata e non ne praticava più i doveri.
Gli altri cristiani del paese, greci e armeni, sebbene liberi e provvisti di
sacerdoti e di chiese, non erano meglio soccorsi degli altri, né erano
migliori. I preti e il popolo, gli uni e gli altri depravati e perduti, vivevano in
una profonda e crassa ignoranza; ovunque regnava lo spirito dell’avarizia, le
superstizioni e la sregolatezza dei costumi.
In mezzo a questa strana confusione, trascorsi più di sei mesi senza
vedere un solo giorno che mi consolasse. Lavoravo molto e poco progredivo.
Da qualunque lato mi volgessi, trovavo dappertutto indifferenza e freddezza
verso le cose della salvezza. Ho sempre pensato a un’ispirazione del cielo la
facilità da me trovata fra gli armeni di lasciarmi prendere un alloggio da loro
e di ottenere per le mie funzioni una piccola parte della loro povera chiesa
mezzo distrutta. Fu là che, dopo molte pene, cominciai a radunare alcuni
nomadi schiavi, che mi misi a istruire sulle verità della salvezza. La novità di
udire parlare di Dio in pubblico e predicare la penitenza nella chiesa armena
di Bachčysaraj fece sì che i primi furono seguiti da altri, e questi da un
maggior numero. Molti di quelli che si mostravano sempre affrettati di
tornare dai loro padroni e che io non riuscivo a trattenere che per brevi
istanti, tutt’a un tratto vi trovarono gusto; insensibilmente si svegliarono i
rimorsi della coscienza e ognuno cercava di calmarla con buone confessioni
delle quali le più corte risalivano all’assedio di Vienna35.
Dalla città giunse la voce fra gli schiavi delle case di campagna che era
giunto a Bachčysaraj un padre franco, venuto da Costantinopoli per fare il
cappellano dei cattolici, che egli predicava, celebrava la messa e
amministrava i sacramenti nella chiesa degli Armeni, che era l’ambasciatore
di Francia ad averlo mandato e che lo stesso khan glielo aveva permesso.
Tra gli schiavi delle campagne, alcuni avevano dei padroni duri e avari,
che li costringevano a un lavoro continuo; altri erano una specie di liberti,
che non avevano un sicuro signore, ma facevano per vivere gli schiavi di
tutti; altri ancora costituivano una moltitudine di vecchi carichi di anni o di
storpi, che nessuno voleva più perché essi non potevano più prestare alcun
servizio. Questi infelici, vilipesi da tutti, cercavano continuamente
sostentamento nei villaggi, attorno alle case dove erano stati servi e dalle
quali non potevano allontanarsi senza esporsi alla morte per fame. Niente
poteva favorire il mio disegno di raccogliere e ricondurre a Dio tutti quegli
35 Nel 1683.
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infelici così dispersi; ma il maggiore ostacolo fu quello che trovai nei funesti
obblighi contratti da molti in schiavitù e dai quali non sapevano come uscire.
Esistevano molti matrimoni illeciti fra persone già maritate nel loro paese,
obbligati, dicevano, dai loro infedeli padroni, con mille cattivi trattamenti a
contrarre quei matrimoni proibiti per sottometterli completamente a loro e,
inoltre, per accrescere le loro famiglie di nuovi schiavi, che poi vendevano
od obbligavano, ancora fanciulli, a farsi maomettani, particolarmente le
ragazze. Ciò determinò che all’inizio pochi venissero dalle dimore di
campagna. I primi che comparvero più numerosi furono i tedeschi, che
trovai assai docili e ai quali raccomandavo sempre di condurmi il maggior
numero possibile degli altri schiavi loro amici, cosa che infatti fecero con
zelo e con successo. Dopo qualche mese mi vidi circondato da popoli di
sette od otto nazioni differenti: tedeschi, polacchi, ungari, transilvani, croati,
serviani36, russi. Fino ad allora avevo fatto le esortazioni in tedesco, che era
una lingua familiare ai primi venuti. Volli continuare, ma mi accorsi che non
tutti mi intendevano, e anzi osservai fra loro, a questo proposito, qualche
principio di gelosia nazionale. Proposi di cambiare metodo e di predicare in
piccolo tataro, che, essendo la lingua dei loro padroni, doveva essere
compresa da tutti. Questo espediente piacque, e a me più che a loro, perché
speravo di attirare alle istruzioni i greci e gli armeni ai quali questa lingua è
familiare in Crimea. Infatti, dopo quel giorno, vidi accorrere gli armeni in
folla e mescolarsi senza distinzione tra gli schiavi. Allora, senza far
sembrare che parlassi a loro, cominciai a dire liberamente tutto ciò che
volevo e che ritenevo necessario udissero: così, grazie alla mia indiretta e
sviluppata maniera di predicare, la missione diventò comune agli uni e agli
altri. Dio ne trasse la sua gloria.
Furono solo i polacchi a darmi maggior pena, perché pochi fra loro
avevano appreso l’idioma tataro, che è, come ho detto, un linguaggio turco
corrotto. Non credetti di perdere il mio tempo a mettermi con una certa
cura a imparare la loro lingua affinché loro potessero intendermi e io loro.
Dio diede visibilmente la sua benedizione ai piccoli sforzi che feci, e mi
trovai ben ripagato dallo spirito di penitenza che gli piacque spargere su
questa nazione, come su tutte le altre. Non sono immaginabili le vivaci
agitazioni e i salutari subbugli che entrarono improvvisamente nelle
coscienze più indurite. Vedevo sconosciuti venire da molto lontano e
confessarmi, da penitenti, che, dopo la notizia del mio arrivo e i resoconti
dei loro compagni, avevano lo spirito tormentato da mille terribili immagini
che non lasciavano loro più alcun riposo. Altri venivano senza quasi sapere
che cosa li spingesse, essendo, dicevano, come sospinti, nonostante loro
stessi, da una mano invisibile alla quale non potevano resistere. Alcuni
meno sinceri cercavano di scrivermi, facendo intendere che erano in un
cattivo stato, ma che attendevano in breve tempo la loro libertà, e che
36 I Serviani, o Serbi, abitavano la zona più occidentale della Turchia. La città principale era
Adria (o Adrianopoli per i Latini, oggi Edirne), che fu capitale dell’impero ottomano dal
1365 al 1453.
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potevo contare che, quando l’avessero avuta, nulla più impediva loro di
cambiare vita, e che del resto non volevano continuare, non potendo,
aggiungevano, rimanere schiavi e essere fedeli a Dio. Alcuni altri, già
sull’orlo dell’ultimo precipizio e pronti a superare il terribile passo
dell’apostasia, si permettevano di voler disputare, per trovare, come essi mi
hanno detto in seguito, la spiegazione di alcuni ultimi dubbi che li
tormentavano e che erano come dei legami traverso cui la misericordia di
Dio li teneva ancora. Ebbi la consolazione di vedere le coscienze calmarsi e
le tentazioni di incredulità svanire poco a poco in coloro che potei indurre a
una vita cristiana e regolata. Non vennero tutti all’inizio; ce ne furono che
difesero a lungo, e so di alcuni che resistono ancora a Dio con ostinazione.
Io li seguo sempre con gli occhi e la voce, e cesserò di seguirli soltanto
quando Dio stesso non li seguirà più.
Ebbi minore pena a ricondurre sulla buona via la moltitudine di vecchi
impotenti e non più atti ai servizi, di cui ho detto. L’estrema miseria e la
caducità li rende più docili, ma non è una piccola pena ricordare loro ciò che
devono sapere per accostarsi ai sacramenti. Quando sentirono che mi
trovavo a Bachčysaraj, vennero ad assediarmi da tutte parti, mezzo morti di
fame e quasi nudi. Li ricevetti come poveri abbandonati, scacciati dal
mondo, ma che la misericordia di Dio non abbandonava e da essa ero stato
inviato per santificarli sul finire dei loro giorni. Con i soccorsi che per loro
raccolgo in settimana, distribuisco ogni domenica una piccola elemosina,
che sarà più abbondante quando la carità della nostra pietosa Francia me ne
darà i mezzi. Fui obbligato a far così per renderli più assidui al servizio
divino e alle istruzioni, per le quali essi avevano interamente perduto
l’abitudine. Tutte le loro idee di religione erano talmente cancellate che
dovetti insegnare loro a fare il segno della croce e a metterli con i bambini
alle prime domande di catechismo. Tre anni fa, alcune persone zelanti, la cui
carità sempre benedirò, mi fornirono il necessario per riscattare dalle mani
dei Tatari quattro giovani fanciulli che sarebbero stati perduti. Due si
spaesarono e i due di maggior spirito li tenni con me, educandoli al servizio
della chiesa ed all’ufficio di catechista, nel quale riescono a meraviglia.
Quando ero molto occupato, affidavo loro i vecchi schiavi da istruire: c’era
di che essere toccati fino alle lacrime nel vedere quella buona gente di
ottant’anni e più apprendere il Pater da due fanciulli di dodici o tredici anni e
ripetere con loro i comandamenti di Dio.
Verso quel tempo, la missione ebbe dei contrattempi, alcuni dei quali
l’avrebbero sconcertata, e altri l’avrebbero totalmente fatta cadere, se Dio
non l’avesse sostenuta.
Il primo venne per la grandissima bontà del sultano Gazi. Talvolta questo
principe mi faceva chiamare per intrattenerlo sui diversi argomenti che gli
venivano in mente, e spesso mi faceva scrivere molte cose segrete che
sottolineavano la sua fiducia. Un giorno che egli aveva sei bei cavalli da
inviare al marchese de Ferriol, propose al signor Ferrand di inviarli lui stesso
al re con alcune lettere di credito e di unirmi a lui per spiegare le sue
intenzioni a Sua Maestà. Io fremetti apprendendo questa notizia, che sviava
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assolutamente tutti i progetti di zelo che mi facevo e rendevano inutili tutte
le mie pene. Dopo molti consigli e molte preghiere, mi arrischiai a prendere
un partito che mi riuscì. Ciò consisteva nell’illustrare al principe, con il
massimo rispetto che mi fu possibile, che per scrivere al re senza che egli si
privasse del suo medico, che gli era così necessario e gli era così
affezionato, c’era un’altra via ugualmente sicura e molto più nobile di quella
di due privati come noi, che questa via era il suo ambasciatore, che era
tramite lui che il re, nostro padrone, parlava al Gran Signore e il Gran
Signore parlava al re quando avevano qualcosa da dirsi. Fortunatamente,
questa risposta ebbe tutto l’effetto che mi ero promesso; il khan l’apprezzò
e prese sul serio quel partito; così io non ne ebbi più timore.
Alcuni mesi dopo accadde un altro colpo più opprimente, al quale penso
ancora con vivo dolore: fu l’immediata deposizione e poi la morte di questo
generoso principe. La sua disgrazia ebbe origine dall’aver proposto con
troppa vivacità il rinnovo della guerra contro la Moscovia, che il Gran visir
d’allora, Ali-Pasha, così noto per le sue violenze, aveva interesse a non
intraprendere37. Il sultano Devlet Giray38, suo fratello, fu messo al suo
posto. Tutta la cerimonia che si fece fu che il Gran Signore inviò al
successore uno dei suoi primi ufficiali con la sciabola e il berretto di zibellino
ornato di pietre preziose, il tutto accompagnato da uno hatti-cherif, od
ordinanza di sua altezza, con il quale il sultano Devlet Giray veniva
nominato khan dei Tatari al posto del sultano Gazi Giray. Letta l’ordinanza
del Gran Signore ai qaraçi beys radunati nel Divano, il principe deposto si
dimise dalla sua sovranità e l’altro ne fu rivestito con la stessa tranquillità
come se la cosa fosse stata concertata fra i due fratelli.
Il Gran Signore, come dissi, non fa mai morire i khan che depone, li
manda solo in esilio fuori della Tataria. L’isola di Rodi è di solito il luogo dove
essi vanno e dove sono trattati con tutti gli onori dovuti alla dignità delle
loro persone. Succede spesso che essi siano richiamati e rimessi sul trono.
Il sultano Gazi Giray fu relegato a Guinguenay Saray, uno de’ suoi palazzi di
campagna, a venticinque leghe da Costantinopoli39, da dove seppi che egli
continuava l’amicizia con il marchese de Ferriol e che, anzi, andò a visitarlo
37 Çorlulu Damat Ali Paşa (1670-1711), in carica dal 1706 al 1710. Dopo la battaglia di
Poltava (1709) tra Russi e Svedesi, lo sconfitto Carlo XII si rifugiò in Ucraina presso i
Turchi. Questi si trovarono ben presto tra i Russi che premevano per prendere Carlo XII e
il re svedese che a sua volta faceva pressione su di loro affinché dichiarassero guerra ai
Russi. Ali Pasha, incapace di risolvere la situazione, fu destituito e nominato governatore
di Caffa, in Crimea, ma pochi mesi dopo fu ucciso.
38 Devlet II Giray, che regnò dal 1709 al 1713, succedendo a Qaplan I Giray, che guidò il
Paese per un anno circa dopo la morte di Gazi III Giray.
39 Guinguenay Saray non è un sito o un palazzo (che sono i significati di saraj, o saray) oggi
esistente con questo nome. Alcuni testi indicano, come luogo della morte del sultano, la
città di Karin-Abad (o Karinabad, o Karnobat), oggi in Bulgaria, dove era un palazzo reale
ottomano, ma si trova a circa 400 km da Istanbul (l’antica Costantinopoli). Più probabile è
la città di Saray, in Turchia, distante circa 120 km, misura che corrisponde a poco più di
25 leghe francesi, dove nel 1783, quando il Khanato di Crimea cadde in mano russa, la
famiglia dei sultani Giray fu esiliata.
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in incognito durante una partita di caccia, quando fu colpito dalla peste con
tutta la sua famiglia. Di centotrenta ufficiali o domestici alloggiati in casa
sua, ne morirono subito ottanta. Il principe, sua moglie e sua sorella
morirono nello stesso giorno. La sultana Valide, sua madre adottiva40 e
moglie di Selim Giray41, di circa cinquant’anni d’età e di nazionalità circassa,
donna di sublime ingegno, si pugnalò per il dolore, ma per fortuna non fu un
colpo mortale. Il sultano Gazi aveva sentimenti nobili e degni di un principe.
Tutti i Tatari furono infinitamente dispiaciuti di perderlo, poiché
desideravano con passione di averlo nuovamente come khan.
Il cambiamento di sovrano mi rese per qualche settimana più circospetto
e più riservato nelle mie funzioni, senza tuttavia interromperle. Il nuovo
khan non mi conosceva e io non avevo avuto da lui alcun permesso. Corsi
subito al mio consueto rifugio, il marchese de Ferriol, ma la sua vigilanza
aveva già tutto previsto e tutto spianato. Quando meno me lo aspettavo e
quando, per non fornire motivi, continuavo l’opera di Dio di nascosto, il
khan mi fece dire di non avere alcun timore e di rivolgermi, se qualcuno
m’importunava, al suo visir, che aveva l’ordine di proteggermi.
Questa dichiarazione mi riempì di coraggio e la missione diventò ovunque
più florida. I cattolici e i cristiani del paese vi si affezionarono più che mai,
convinti, dicevano, che Dio si interessasse visibilmente alla sua esistenza,
malgrado le rivoluzioni del paese. Una delle prove per me più convincenti
della protezione divina fu che essa non soffrì quando fu richiamato il
marchese de Ferriol, suo fondatore e padre, il cui allontanamento sembrava
dovesse farla cadere. Questo degno ambasciatore, dopo dodici anni di
ministero ugualmente glorioso e utile per lo Stato e la religione, fu sostituito
dal conte d’Alleurs42, nel quale ritrovai lo stesso appoggio e lo stesso zelo.
Egli non smise di sostenermi e di consolarmi per la perdita che avevo
subito.
Il marchese de Ferriol aveva ottenuto il consenso del sultano Gazi per
l’erezione di una cappella francese, ma la sua deposizione aveva sospeso
l’opera. Il conte d’Alleurs ha oggi ripreso con il khan quel progetto e lo sta
conducendo in porto felicemente. Abbiamo già ottenuto dal principe il
permesso di ingrandire la nostra casa, di farvi pregare i cristiani e di
leggervi il Vangelo, cosa che, nello stile del paese, significa avere una
chiesa.
Aspettando l’ultimo compimento di un’opera così necessaria al solido
stabilimento della religione, cominciai a dare qualche forma alla mia
missione, dove di giorno in giorno vedevo crescere il fervore e il lavoro.
Per non essere oberato, solo com’ero, fui obbligato a regolare il tempo
dell’ufficio divino, delle istruzioni e delle confessioni generali, che
40 Sultan Valide era il titolo portato dalla madre di un sultano (valide = madre).
41 Selim I Giray (1631-1704), che regnò in Crimea nei periodi 1671-1678, 1684-1691,
1692-1699 e 1702-1704.
42 Pierre Puchot marchese d’Alleurs (1643-1725) fu ambasciatore a Costantinopoli dal 1711
alla morte.
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diventavano ogni momento più numerose e con lunghi svolgimenti. Stabilii
dunque che i giorni di lavoro sarebbero stati per le grandi confessioni e per
le istruzioni dei nuovi venuti; che in quei giorni non si sarebbero svolte
assemblee regolate; che le domeniche e le feste di precetto, di cui distribuii
degli elenchi, le confessioni correnti, la celebrazione della santa messa, le
istruzioni e la spiegazione del Vangelo avrebbero occupato la mattina; che
coloro che avessero dei padroni più permissivi e si fossero comunicati la
mattina avrebbero assistito al pomeriggio al resto del servizio e alle
istruzioni del catechismo. Quando avrò un ostensorio per esporre
decentemente il santo sacramento e per terminare con un saluto le
devozioni del giorno, sono sicuro che avrò molte persone in preghiera
attorno a Nostro Signore, e dei cristiani di paese ancora più degli altri. Non
si può immaginare quanto siano colpiti dalle nostre cerimonie romane. I
nostri giorni straordinari sono le principali solennità dell’anno e le feste di
Nostra Signora. Allora la folla è così grande e le devozioni così ardenti che io
non so né dove mettermi né a chi rispondere. Con la misericordia di Dio,
non ho ancora visto un giorno di benedizione che non sia stato segnato da
qualche cambiamento di vita esemplare, o da qualche abiura pubblica.
Dopo quest’ordine stabilito e costantemente osservato, per quanto la
condizione degli schiavi lo abbia potuto permettere, la missione ha così
visibilmente cambiato faccia che oggi io stesso non la riconosco più. A
quell’agghiacciante freddo e a quella disperante indifferenza che ognuno
dimostrava per la propria salvezza, sono ora succeduti, nei più, uno zelo e
un ardore che si estendono fino ai protestanti, uomini e donne, che qui sono
assai numerosi. Alcuni sono calvinisti, ma il maggior numero è luterano, e
tutti sono chiamati dai Tatari con il nome di Franchi, come noi. Questo nome
nella loro idea non vuol dire altro che cristiani d’Occidente. I miei buoni
cattolici, sgravati dal peso dei loro peccati e spinti dallo zelo a rimediarvi, si
danno da fare molto seriamente per conquistare i loro compagni avvolti
nell’eresia: non c’è pio artificio che non adoperino per indurli ad
abbandonare i loro errori. Quando hanno loro detto tutto ciò che sanno, me
li conducono per istruirli più a fondo e non li lasciano se non dopo la loro
abiura. Finora non c’è anno che non si siano riconciliati alla Chiesa almeno
cinque o sei persone.
Io non so come la voce si sparse fino a Bender43, ma da là giunse un
ministro svedese, ben provvisto di denaro e ben equipaggiato, che disse di
volere far rientrare in loro i luterani pervertiti e impedire agli altri di seguire
il loro esempio. Vedendo tuttavia che ben poco otteneva con le sue
donazioni e le sue parole e che i convertiti, anche svedesi, rimanevano saldi
e i non convertiti non prestavano meno orecchio alle mie istruzioni, trovò il
modo di far intendere al khan che io contravvenivo alla legge di Maometto,
nella quale un articolo prescrive di lasciare ciascuno nella propria religione e
di non obbligare i cristiani a passare da una setta all’altra. Scopersi tutto
43 A Bender, nella Moldavia ottomana, vi stazionava l’esercito svedese comandato dal re
Carlo XII, dopo la disfatta di Poltava.
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questo maneggio tramite il signor Ferrand, che allora curava una fistola al
principe. Risposi che non ero nel caso della legge, poiché non introducevo
alcuna setta nuova in Crimea, e che io ricordavo soltanto ai luterani la
religione dei Francesi, che per leggerezza avevano abbandonato. Il khan,
molto soddisfatto della mia risposta, fece dire al ministro che era per suo
ordine che il padre francese insegnava agli schiavi a recitare le loro
preghiere e che egli non si impicciasse delle cose degli altri.
Ho ancora importanti motivi di benedire Dio per il progresso che fa la
fede cattolica fra gli Armeni. I nuovi convertiti di questa nazione sono già
saliti a oltre ottanta nella solo Bachčysaraj. Sarebbero anche di più senza le
misure che sono obbligato a tenere, per non far troppo intimorire il falso
zelo degli altri, che sono ancora eretici, e che in questa capitale sono molto
più diffusi e audaci che nelle altre città. Ciò non riguarda tuttavia che alcuni
singoli, gente molto poco capace ma molto testarda, che si distinguono
dagli altri solo per la gran propensione a parlare senza troppo sapere ciò
che dicono. Il loro arcivescovo, che è un buon prelato, di spirito molto
semplice e molto limitato, ha di lodevole che non si lascia andare ai consigli
violenti. Egli non ha alcuna avversione dei cattolici e mi lascia abbastanza
fare ciò che voglio. Sa molto bene che tutti coloro che vengono mi
consultano o mi fanno delle confessioni generali, e lui non mostra più cattivo
viso. Di più, lui stesso mi ha dato uno scritto, firmato di suo pugno, con
l’espresso permesso di fare le mie funzioni religiose in tutte le chiese di sua
dipendenza liberamente, come se esse mi appartenessero, e con la difesa
da chiunque dei suoi mi disturbi in tale possesso con qualunque pretesto.
Riguardo coloro che diventano cattolici, i loro sorveglianti hanno tante
persone in agguato che non si ha mezzo di nascondere a lungo la
conversione. Allora i biasimi e le minacce durano giornate intere, ma ciò
passa e restano soltanto delle semplici parole. Gli eretici armeni, che danno
alcune dimostrazioni di pentimento, hanno sempre nell’animo un profondo
rispetto per la religione cattolica. Non li si sente quasi mai attaccare, come
fanno talvolta gli altri scismatici d’Oriente. Al contrario, dicono che è buona
e santa, ma che la loro non lo è meno e che occorre che ciascuno rimanga
com’è. Tuttavia sono persuaso che con il rispetto della religione cattolica,
entri un po’ di interesse in questa moderazione. Essi vedono il signor
Ferrand sempre in credito presso i khan e la nobiltà; si ricordano che è lui
che mi ha portato in Crimea sotto la protezione di uno dei nostri
ambasciatori, e non possono ignorare che l’attuale ambasciatore, di cui essi
e i loro confratelli di Costantinopoli possono aver bisogno in ogni momento,
è mio zelante protettore. Quando avranno qualche cattiva intenzione, è
certo che tutte queste considerazioni li tratterranno a compiere qualcosa di
violento. Io spero nella bontà di Dio e nella docilità di questo buon popolo,
che non domanda che di essere illuminato e che tra poco non avrà altri
interessi che la salvezza eterna.
Del resto, l’attenzione che ho a coltivare Bachčysaraj e i suoi dintorni,
come il capo e la sede principale della missione, non mi impedisce di andare
a intervalli in aiuto negli altri posti. Il tempo ordinario delle mie visite è, a
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diverse riprese, da Pasqua fino all’autunno. In queste spedizioni ambulanti,
ho per massima di non andare mai a mostrarmi nelle abitazioni dove sono
gli schiavi: ciò sarebbe troppo sconveniente, e i loro padroni non
mancherebbero di punirli. Il mio metodo è di recarmi in qualche città vicina
e di farli chiamare. Le città più comode per questo disegno sono
Karasubazar, Gozlow e Or-kapi, tutte a venticinque o trenta leghe l’una
dall’altra, e a una distanza quasi uguale da Bachčysaraj, che ne fa come da
centro; ciò non permette di abbracciare una grande estensione. Appena
giungo in qualcuna di queste città, faccio immediatamente sapere nei
dintorni sia il mio arrivo che il tempo che rimango. A volte le assemblee
sono più numerose e a volte meno, secondo il buono o il cattivo umore dei
padroni tatari. Il metodo che osservo in tutti questi posti è lo stesso che a
Bachčysaraj, soprattutto per la predicazione, dove il numero di armeni è
sempre grande. Se invece di indirizzare la parola agli schiavi nel gergo
tataro, volessi predicare soltanto per loro in puro turco, le chiese non
sarebbero abbastanza grandi, ma non è ancora tempo di andare allo
scoperto. Trovo sia meglio nascondermi a qualcuno: i frutti non sono
inferiori e non faccio gridare nessuno.
Gli Armeni riflettono molto e mai si attaccano a un partito se non dopo
avervi lungamente pensato; infatti non raccolgo di solito in un viaggio se
non dopo aver seminato in uno precedente. Ho a Karasubazar e a Gozlow
un buon numero di ferventi ortodossi, i quali, a ogni tornata, sempre mi
conducono qualche nuovo proselito, convinto durante la mia assenza: per
questo Karasubazar è la mia città preferita. Nacque lì il gran fervore nella
persona di un luterano di Danzica, dal quale ricevetti, cinque o sei anni fa,
l’abiura in piena chiesa e con tutte le cerimonie prescritte in tali casi. Non si
era ancora vista una cosa simile a Karasubazar: tutti i cristiani della città
accorsero, molti piangevano di gioia, altri si felicitavano con il novello
convertito della grazia che Dio volle fargli. Non credetti opportuno lasciar
raffreddare questi buoni movimenti, perché si era alla vigilia della mia
partenza, perciò diressi loro, in forma di addio, un’esortazione che li
commosse e la cui impressione durò a lungo. La conversione del luterano ha
come aperto la strada, nel solo dipartimento di Karasubazar, ad altre dodici
persone provenienti da differenti nazioni.
A Gozlow, dove il mio ultimo giro fu l’anno scorso, durante i dieci giorni
dall’Ascensione a Pentecoste, sono stato consolato ed edificato al di là di
ogni mia speranza. Il numero dei cattolici è aumentato di cinque signore
armene di grande virtù, di due accoliti delle principali famiglie e di due
vecchi rispettati nella nazione e onorati del nome di Hajj44. Questo nome,
che significa pellegrino sacro, si dà in Oriente ai cristiani che sono stati in
pellegrinaggio a Gerusalemme. I maomettani lo danno anche a coloro che
sono stati alla Mecca. Tre altri cattolici di rango inferiore mi furono tolti,
essendosi indeboliti per rispetto umano in alcune occasioni in cui bisognava
44 Sull’originale è Haggi. Hajj significa “pellegrinaggio alla Mecca” (che deve essere compiuto
nell’ultimo mese dell’anno islamico) ed è il titolo di chi lo ha effettuato.
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dichiararsi per quello che si era. Essi vennero a pentirsi con molta
confusione e, in riparazione dello sbaglio, fecero più di quanto avessi chiesto
loro. In quei dieci giorni, fui così impegnato che non potei occuparmi della
completa istruzione di sei poveri schiavi invalidi, cinque polacchi e un
veneziano, che i loro padroni avevano cacciati. Dormivano per strada e non
potevano più camminare. Andandomene, li feci trasportare a Bachčysaraj,
per essere là curati e istruiti assieme agli altri.
Verso la fine dell’ultimo autunno ritornai a Karasubazar. Avrei voluto
andarvi prima, ma il mio viaggio fu ritardato dal gran malcontento che il
sultano di quella città dimostrò a un tratto contro i cristiani. Appena seppi
del termine della questione, vi andai in diligenza, ma non abbastanza
tempestivamente per dare gli ultimi sacramenti a un polacco e a un
serviano, nuovi cattolici, che morirono chiedendoli con grande insistenza. Il
vivo dispiacere che ne ebbi fu un po’ addolcito dalla morte preziosa di un
altro polacco, che sembrava aspettarmi per andare a Dio, e dalla
professione di fede di uno schiavo russo e di un mercante greco tra i più
accreditati della città. Feci anche rientrare in sé uno liberto tedesco, che,
con una cortesia male intesa verso un prete armeno, suo padrone, che
l’aveva rimesso in libertà, aveva abbracciato la sua religione. Egli riconobbe
pubblicamente il suo sbaglio e, come pegno della propria perseveranza, mi
dette suo figlio, nato da una donna armena, per crescerlo nella religione
cattolica.
Nell’ultima corsa a Karasubazar appresi l’arrivo di padre Curnillon, che
avevo tanto richiesto e che infine mi era stato inviato. L’impazienza di
vederlo e di abbracciarlo mi fece terminare speditamente quanto mi
tratteneva e ritornai a Bachčysaraj, ove lo trovai in buona salute. Questo
padre ha molto merito, conosce bene la lingua turca e non avrà pena ad
abituarsi al piccolo tataro. Avevo in verità bisogno di un simile aiuto, dopo
oltre sei anni di una solitudine che occorre avere provato come me per
sentirne tutto il peso e anche per comprendere la gran dolcezza che si prova
trovandosi in due in uno sperduto paese come questo.
L’ambasciatore, sempre zelante per la costruzione di una cappella, mi
mandò tramite il padre una patente di console, essendo questo il mezzo più
pronto per ottenere di diritto ciò che desideriamo. Ma un console è una
novità in Crimea, dove i cristiani d’Occidente non hanno né possono avere
dei vascelli con la loro bandiera, e la materia è delicata da proporre se
prima non si prendono alcune misure. Una delle più efficaci in questo paese,
dove i doni procurano più della metà degli affari, sarebbe di inviarci dalla
Francia un globo terrestre, una calamita corredata, uno o due buoni
cannocchiali e altre cose di questa natura, che sono molto desiderate dai
principi tatari.
Avevo provato troppa gioia per l’arrivo del mio compagno e Dio volle
moderarla facendomi temere per la sua vita. Egli cadde malato alcuni giorni
dopo il suo arrivo, di una febbre tenace che lo tormentò quasi quattro mesi.
Ma il suo coraggio compensò le sue forze, ed egli aveva bisogno di un
carattere generoso nell’incresciosa situazione in cui ci trovavamo. La peste
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che affliggeva già il paese era diventata improvvisamente viva e ardente. I
suoi danni, sebbene grandi, non furono tuttavia universali. A Gozlow morì
metà della popolazione. Bachčysaraj se ne liberò con tremila morti. Noi
perdemmo circa cento cattolici, uomini e donne, di cui, grazie a Dio,
nessuno sfuggì agli ultimi sacramenti. Tra le nostre perdite, mi rammarico
soprattutto di due donne russe che facevano grande onore alla religione.
L’una, naturalmente eloquente, aveva una grazia particolare nel
persuadere e riportare alla chiesa i suoi connazionali che l’ignoranza o la
prevenzione trattenevano nell’errore. Da sola equivaleva a quattro dei più
ferventi cattolici; si introduceva arditamente nelle case e fra gli schiavi suoi
compatrioti, dove le sole donne hanno diritto di entrare; faceva così bene
che mi portava sempre qualche anima da convertire. Pochi giorni prima di
essere assalita dal male, me ne aveva portate cinque.
L’altra era notevole per la vivacità della sua fede e per un certo ardore
che la trasportava e che abbracciava i più insensibili quando la si destinava
alle cose di Dio. Colpita dal male e prossima alla morte, il suo padrone, che
era un prete armeno, si offrì più volte di darle la comunione, dicendole che
era troppo occupato con gli altri moribondi e non sarebbe più ritornato.
Verrà, sempre rispose lei, verrà e riceverò ancora una volta dalla sua mano
il corpo del mio Salvatore, come lo ricevono i cattolici, figli di Dio e della
santa Chiesa. Trovai il tempo di andare a darle quell’ultima consolazione,
che ella ricevette con una fede di cui fui io stesso infinitamente consolato.
Per quasi due mesi, la peste dilagò così in fretta che i Tatari, sebbene per
loro natura assai intrepidi e in più maomettani, non tralasciarono di
abbandonare il luogo come gli altri e di fuggire in diligenza. Per noi, bisogna
riconoscerlo, non fu né la bravura né il coraggio che ci trattenne in città,
dove eravamo continuamente fra malati e moribondi, fu unicamente il
dovere e la coscienza; e noi possiamo ben dire che è stato Dio solo a
salvarci con la sua bontà. Il nostro grande pericolo non era assistere i
moribondi e seppellire i morti, che si svolgeva in chiesa, dove non potevamo
dispensarci di dire le nostre messe e di ascoltare tutti i giorni le confessioni
dei sopraggiunti. Gli armeni, nelle ore più frequentate, ci portavano ogni
volta fino a cinque o sei morti, facendo i loro funerali e tutte le cerimonie
mortuarie con estrema lentezza e pochissime precauzioni per loro e per noi,
come se fossimo stati di pietra o di ferro. Alla fine, tuttavia, facemmo loro
intendere ragione ed essi convennero con noi, sebbene un po’ tardi, che, in
un tempo di mortalità come quello, era sufficiente portare i corpi dalle case
al luogo della sepoltura senza farli passare in chiesa.
Questo terribile flagello della giustizia divina, non ancora passato del
tutto, ha lasciato negli animi delle impressioni di terrore di cui osserviamo i
buoni effetti. Caffa, Karasubazar, Gozlow e cento altri posti della Crimea ci
hanno dato fino a Pasqua un intensissimo lavoro per il continuo via vai di
coloro che il pericolo aveva spaventato e che venivano a compiere
immediatamente ciò che avevano promesso a Dio, senza fermarsi per la
stanchezza e i viaggi.
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Dalla chiesa di Bachčysaraj due fratelli armeni hanno abiurato i loro
errori. Sono i figli del primo papas45 della città, che, prima della peste,
pareva il più animato contro di noi. Il loro esempio è stato seguito da tre
accoliti della stessa chiesa, da tre altri secolari46, padre e figli, e da tre
famiglie intere, composte in tutto da quindici persone; quattro altre persone
di famiglie diverse seguono attualmente le istruzioni per fare altrettanto.
Nelle ultime feste di Pasqua, il concorso di schiavi è stato straordinario. I
loro padroni, ancora spaventati, non hanno osato impedir loro di pregare
Dio. Sono venuti di quelli che non avevo mai ancora visto. Pur tutti poveri,
avevano trovato il mezzo di fornirsi ciascuno di una candela. Sistemarono
quei lumi attorno all’altare, in segno di ringraziamento, dicevano, perché la
rabbia di Dio li aveva risparmiati e come testimonianza pubblica della
sincerità della loro fede per il mistero della risurrezione. Alla messa solenne
un giovane tedesco luterano e una donna russa fecero professione di fede
cattolica. Un’altra donna anch’essa russa, che da trent’anni non usciva dalla
casa della padrona, fu rimandata alla domenica seguente, perché non era
ancora sufficientemente istruita. Ma la conversione che ci ha più consolato è
stata quella di una ungherese calvinista. Nel suo paese era la moglie del
ministro e resistette tre anni interi ma, alla fine, si arrese la seconda festa
di Pasqua e chiese di fare la sua abiura dinanzi a tutti. Ci sono a
Bachčysaraj molto uomini e donne di questa setta che la guardano come la
loro eroina e che ci rimandano a ella tutte le volte che li pressiamo di
convertirsi. Il suo esempio e il suo fervore non possono mancare di avere
tra poco buonissimi esiti.
Con la grazia di Dio, tra quest’anno e il precedente, contiamo sessantotto
persone riconciliatesi con la chiesa, e quarantatré nuove confessioni
generali, tra le quali ci sono state quella di una sessantenne e di tre fra i
quarantacinque e i cinquant’anni. In tutto ciò, ho ammirato due esempi ben
singolari di misericordia divina.
Il primo è stato in un nobile polacco liberato dopo trent’anni di schiavitù,
che, prima di intraprendere il cammino verso il proprio paese, venne
dall’estremità della Crimea a trovarmi a Bachčysaraj per pacificarsi con Dio.
Gli occorsero molti giorni per fare una resoconto esatto di tutta la sua vita,
dopo di che si confessò e ricevette Nostro Signore con un gran sentimento
di pietà. Non sognava altro che di partire e aveva già salutato tutti, quando
fu fermato da un’improvvisa indisposizione che in pochi giorni lo portò alla
fine. Volle confessarsi e comunicarsi ancora una volta, lodando e
ringraziando Dio ad alta voce di averlo, disse, condotto a Bachčysaraj per
morirvi da cattolico.
L’altro esempio riguarda una giovane donna tedesca, che dopo cinque
anni si era arresa alle sollecitazioni di un tataro potente, con cui viveva
pubblicamente, come se fosse stato il suo vero marito. Ero stato informato
sul suo commercio e sovente avevo cercato le occasioni per mostrarle
45 Prete, in greco.
46 Laici.
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l’orrore, ma era sempre stata così attenta a evitare di incontrarmi che mai
avevo potuto parlarle. Infine, ella si ammalò. Dalla casa del tataro, che era
fuori città, fu trasportata in una casa turca, e di là in una casa cristiana, da
dove ella mandò a chiamarmi: ci vado, la trovo in lacrime e in fin di vita.
Padre mio, mi gridò vedendomi avvicinare, eccomi sul punto di andare
dinanzi a Dio: c’è ancora per me qualche perdono da sperare? Sì, le dissi, se
lo chiedete con tutto il vostro cuore. Padre mio, replicò, finora non ho osato
parlarvi perché non volevo farvi vedere che avevo orrore di me stessa. Dopo
averla disposta con gli atti e la preparazione necessaria, ascoltai la sua
confessione, che essa mi fece con molta presenza di spirito e tra grandi
gemiti. Visse ancora tre giorni, piangendo sempre e gridando misericordia,
felice che il suo pentimento, sebbene tardivo, le potesse alleviare la giustizia
di Dio!
Cito questi due esempi perché sono recenti e hanno fatto gran rumore fra
i cristiani. Ne potrei citare molti altri di minore luce e più antichi, ma che
non mi hanno fatto sentire di meno l’attenzione della divina Provvidenza nel
concedere ai più grandi peccatori i preziosi momenti della conversione. Se
qualcosa è capace di addolcire le pene di un missionario, è certamente la
consolante testimonianza che egli non può impedirsi di rendersi conto in
queste occasioni che se non si fosse trovato in quel momento alla portata di
aiutare quelle anime, tali e tanti sarebbero periti senza soccorso.
Ecco, monsignore, in che stato è oggi la nuova missione della Crimea, che
voi avete voluto prendere sotto la vostra protezione.
Ciò che ho l’onore di riferirvi adesso non è che un primo abbozzo, tal
quale un uomo così debole come me ha potuto tracciare, lavorando tutto
solo in un paese così duro da dissodare. Ora che mi è giunto un aiuto e che
ho modo di sperare che rimarrà, esso prenderà con l’aiuto di Dio una forma
tutta nuova. Tutto vi depone favorevolmente. I Tatari si abituano a vederci,
sento gli schiavi, che sono la loro grande ricchezza, parlare molto bene di
noi in ogni occasione, e hanno notato, dicono i Tatari, che sono serviti con
maggior precisione e più volentieri da quando essi ci frequentano. I cristiani
del paese perdono tutti i giorni i pregiudizi che respirano fin dall’infanzia
contro il credo cattolico. Molti l’abbracciano e tutti lo rispettano. L’opera è
cominciata, non si tratta che di perfezionarla e di affermarla.
Permettetemi, per favore, monsignore, di proporre alcuni mezzi che
l’esperienza mi suggerisce.
Il primo e incontestabilmente più necessario è di avere tre o quattro
missionari di gran coraggio, gran pazienza e grande carità. Se fossimo
solamente tre sacerdoti, potremmo percorrere di volta in volta i cantoni più
interni della Crimea, dove c’è un’infinità di cristiani dispersi, i quali non
hanno potuto ancora venir da noi e dai quali non è stato possibile recarsi. Di
questi tre padri, due marcerebbero tutta l’estate fino alle città distanti, e il
terzo avrebbe dimora fissa a Bachčysaraj, dove tutti ritornerebbero per
l’inverno. Se qualcuno di questi padri fosse medico, e avesse un po’ di buoni
rimedi, entrerebbe ovunque col favore della medicina e farebbe del bene
immenso alle città e alle case di campagna, dove non occorrerebbe più
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temere tanto di mostrarci. Conoscendo il paese come lo conosco io, sono
persuaso che non ci sarebbe momento nell’anno senza poter battezzare, far
crescere al cielo truppe di bambini e assistere nella morte molti adulti.
Finora sono stato spesso sino alle porte di Caffa, dove c’è il maggior numero
di schiavi cristiani, a causa della numerosa popolazione e del grande
commercio, senza aver potuto entrarvi. È una città turca dove non c’è
sicurezza per i Franchi, dopo i conflitti della Porta con i Polacchi e i
Moscoviti. Se avessi con me un missionario medico, o lo fossi stato io, so e
non ne dubito affatto che, dopo cinque o sei anni che mi si invita ad andare
là, avrei fatto più opere buone in questa sola città che in tutto il resto della
Crimea.
Il secondo mezzo, per dare fondamenta solide alla missione, è di avere
una cappella franca, eretta dall’autorità pubblica a Bachčysaraj. Abbiamo già
a nostro favore la parola del khan che l’ha promessa all’ambasciatore, ma,
siccome il khan può cambiare, sarebbe necessario avere anche
l’approvazione dei qaraçi beys, che non cambiano mai e rappresentano il
corpo della nazione tatara. Fatto questo, potremmo dichiarare stabilita la
religione cattolica e autorizzate le funzioni dei missionari nel paese. È così
che gli Armeni, stranieri come noi, vi hanno ottenuto l’ubicazione separata
di quattro o cinque chiese. Noi non domandiamo che l’apertura di una sola
cappella nel recinto della nostra dimora. Gli Armeni hanno chiese per i loro
soli connazionali, la nostra cappella sarà invece aperta all’uso degli schiavi,
che sono i servi del Tatari, e coloro che fanno valere le loro terre.
D’altronde, questa condiscendenza dei maomettani per gli schiavi cristiani
non è né nuova né proibita. A Costantinopoli, nel bagno personale del Gran
Signore, gli schiavi cristiani hanno da tempo immemore due grandi cappelle
che i padri gesuiti servono con pubblica autorità47. A queste ragioni generali,
che proveremo, con l’aiuto di Dio, a far apprezzare ai potenti, per il bene
delle anime occorre ancora soprattutto aggiungere: 1) che non avendo noi
delle cappelle, tutte le nostre funzioni dipendono unicamente dalla buona
volontà degli armeni a tollerarci con loro nella stessa chiesa. Ma, questa
buona volontà può cambiare da un giorno all’altro; e se, come può ben
presto arrivare, prendesse loro il capriccio di escluderci dalla loro chiesa, a
chi dovremmo ricorrere? So di molte persone di quella nazione che hanno
nell’animo dei buoni sentimenti che vorrebbero mostrare per mettere la loro
coscienza in pace, cosa che non è praticabile nella loro chiesa, in cui non
mancherebbero di essere insultate. Non possiamo andare nelle loro case e
nemmeno tollerare che esse vengano nella nostra, finché noi non avremo
un luogo separato e consacrato a cappella; 2) che i greci, che qui formano
una gran comunità, hanno un’avversione naturale per gli armeni, e mai li si
vede nelle loro chiese. Ciò ha determinato che finora ne siano stati portati
molto pochi al credo cattolico e non sarebbe troppo difficile averne di più se
avessimo dove riunirli e istruirli.
47 La presenza di gesuiti a Costantinopoli è attestata dalla fine del XVI secolo, poco dopo la
loro istituzione.
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Un terzo mezzo, per affezionarci sempre più i Tatari e per interessare la
bontà di Dio a sostenere la missione, sarebbe di provvedere al sollievo di
quei poveri vecchi erranti e fuori servizio di cui ho già parlato. Nulla è più
degno di compassione. Non passa inverno che non si trovino molti morti di
fame e di freddo nelle campagne, e Dio sa in che triste stato di salute. Ne
raccogliamo quanti più possiamo, e condividiamo di gran cuore con loro ciò
che abbiamo per la nostra sussistenza, ma cosa possiamo da soli e cosa ci
vorrà per ciascuno di loro? Se fossimo abbastanza fortunati da interessare
la carità dei fedeli per garantire loro un povero rifugio, dove ogni anno si
desse loro un pezzo di stoffa per coprirsi e ogni giorno un po’ di pane nero,
essi guarderebbero ciò come una fortuna; oltre alla salvezza delle loro
anime che si metterebbe in sicurezza, nessun moribondo verrebbe privato di
assistenza, ed è certo che i Tatari sarebbero colpiti da quest’esempio di
umanità cristiana che ispira un rinnovato rispetto per la nostra santa
religione.
Risulterò forse un importuno se oso suggerire un quarto mezzo di carità,
molto meritoria come le precedenti, a chi ancora nutre qualche zelo per
impedire la perdita delle anime che tanto costarono al loro Salvatore? Si
tratta del riscatto di numerosi fanciulli cristiani, maschi e femmine, nati da
genitori schiavi, o portati via dai Tatari nelle loro scorrerie. Queste innocenti
creature, abbandonate a loro stesse e a ogni brutalità dei loro padroni,
null’altro imparano fin dalla loro tenera giovinezza se non il vizio. Appena
compiono dieci anni, si comincia a corromperli e a metterli in vendita, e
spesso a pervertirli. Il mezzo consueto che si impiega per renderli
maomettani è di farli digiunare nel tempo del Ramadan, o quaresima dei
Turchi, e di percuoterli quando, oppressi dalla fame, avvicinano qualcosa
alla bocca, foss’anche erba. Dopo il forzoso digiuno li si circoncide, ed eccoli
perduti. Le fanciulle sono messe nell’harem, o appartamento delle donne,
dove una volta entrate non usciranno più. Prima però di arrivare fin là, è
facile comprarli e salvarli. In tempo di guerra con sessanta franchi si compra
uno di quei fanciulli. Le ragazze si manderebbero a servire nelle famiglie
cattoliche di Costantinopoli, o altrove, e i giovani sarebbero alloggiati nelle
case degli operai cristiani del paese, ove con il tempo e con le nostre
giornaliere istruzioni potrebbero formare un corpo di fedeli. Chi più degli
altri, poi, dimostrasse attitudine alle lettere e al servizio di Dio, sarebbe
educato da noi e coll’andar del tempo adempirebbe l’ufficio di catechista.
Noi potremmo portarli a dare le prime nozioni di salvezza in molti dei luoghi
che potremmo raggiungere. Perché non posso dire ad alta voce quanto
scrivo alle porte di tante opulenti case che Dio ha ricolmato dei suoi benefici
e dove forse chi li possiede ne fa un uso del tutto inutile per l’ora della loro
morte!
Tali sono, monsignore, i principali mezzi che mi sembrano si possano
prendere per stabilire solidamente la religione in Crimea, da dove non sarà
forse così difficile diffonderla nel paese dei Nogaj, in cui c’è un mondo di
schiavi cristiani che sono come perduti in quelle vaste regioni e ai quali
nessuno pensa.
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Si potrebbe anche provare a introdurla in Circassia, dove ci sono ovunque
testimonianze di una sua precedente penetrazione.
Vostra Eccellenza ha avuto la bontà di farmi proporre alcune questioni
che toccano quel paese48. Unisco a questa lettera le questioni e le loro
risposte, secondo ciò che ho potuto capire di più costante e di più vero dai
resoconti delle persone che vi sono state. Sono con un rispetto profondo,
ecc.
Bachčysaraj, 20 maggio 1713.
Risposta a qualche questione posta sui Tartari Circassi
I. Da chi essi dipendono, dal Gran Signore, o dallo zar, o da qualche altro
principe separato a essi indipendenti?
Risposta. Si distinguono oggidì i Circassi della pianura e i Circassi delle
montagne. Quelli della pianura sono compresi tra Taman e il fiume Kuban’49.
Quelli delle montagne si estendono risalendo verso la sorgente di questo
fiume. I primi sono governati da alcuni bey della loro nazione, i quali
pagano al khan un determinato tributo annuale di pellicce, miele e una certa
quantità di giovani schiavi dei due sessi. Si trovano fra loro molti sultani
tatari senza impiego, che vivono da principi separati e assumono l’autorità
del comando quando sono i più forti.
I Circassi delle montagne erano retti, cinque anni fa, come quelli della
pianura, ma dal 1708, quando sconfissero con uno stratagemma l’armata
tatara, si sostengono come possono e non vogliono sentir parlare di tributi.
Kabarta50, che è la contrada più forte, confida nei suoi trinceramenti e
sull’inaccessibilità delle sue montagne. Strinsero alcuni legami con lo zar,
senza però dipendere da lui. Il Gran Signore non ha alcun potere sulla
Circassia, né della pianura, né delle montagne.
II. Sono tutti cristiani o maomettani, o si dividono in fatto di religione, e
qual è il maggior numero degli uni o degli altri?
Risposta. I bey sono per lo più maomettani, buoni o cattivi, e lo sono
soltanto per compiacere i Tatari, con i quali hanno continui rapporti. Il
popolo non è né cristiano, né maomettano, non avendo l’uso né del
battesimo né della circoncisione. Essi parlano una lingua particolare, del
tutto diversa dagli altri tatari. Qualche volta la sento parlare qui e mi pare di
grande dolcezza.
48 La Circassia.
49 La penisola di Taman e il fiume Kuban’ sono nella parte settentrionale della regione
caucasica, o Ciscaucasia, sul lato sud-est del mar d’Azov.
50 A sudovest della Crimea (poco sopra la città di Sebastopoli, l’antica Cherson) scorre il
fiume Belbek, la cui parte settentrionale ricca di cascate, è conosciuta col nome di
Kabarta, per cui il borgo citato potrebbe essere qui situato.
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III. Che cosa rimane fra loro della religione?
Risposta. Tra loro vi sono alcuni che si informano sul tempo della nostra
quaresima e la osservano. Essi conoscono i santi nomi di Gesù e di Maria,
ma invocando il primo con il nome di Allah, Dio, che è comune alla Trinità,
dal che si potrebbe concludere che hanno qualche rozza idea e molto
imperfetta dei misteri della Trinità e dell’Incarnazione. Del resto, non si
vedono fra loro altri esercizi di religione, se non alcune superstiziose
assemblee che fanno in certi periodi sotto dei grandi alberi, ai quali
appendono delle candele, mentre colui che funge da papas compie con loro
per tre volte il giro attorno all’albero borbottando alcune preghiere. Essi
mangiano generalmente e pubblicamente la carne di maiale.
IV. Non hanno aiuti spirituali?
Risposta. I papas, di cui ho detto sopra, non sanno né leggere né scrivere
e tutta la loro morale e tutta l’assistenza che prestano al popolo consistono
nelle poche preghiere che ripetono per tradizione. I preti greci o armeni, che
l’avidità del guadagno attira talvolta al seguito dei mercanti, non avendo né
capacità né zelo, rivolgono i loro pensieri a particolari affari, senza
interessarsi d’altro.
V. Quale speranza c’è di condurli alla fede cattolica e quali mezzi
occorrerebbero per questo fine?
Risposta. Dalle notizie generali di coloro che praticano con i Circassi, essi
non sono lontani da noi. Si potrebbe sfruttare il loro culto superstizioso per
insinuare la verità dei nostri santi misteri. Permetterebbero anche di far
battezzare i loro figli, ma lo si potrebbe prudentemente somministrare
soltanto a coloro che si trovassero in punto di morte, essendo la maggior
parte passata nelle mani dei Turchi e dei Tatari, di cui prendono la religione.
Aggiungo che, nelle presenti congiunture, un sacerdote franco non potrebbe
lavorare alla conversione dei cristiani circassi della pianura, perché è quasi
certo che i Tatari se ne adombrerebbero e i vari sultani vi si opporrebbero
come a una pericolosa novità. Credo perciò che a un missionario che avesse
la reputazione di medico e che fosse benvenuto al khan, non sarebbe
impossibile ottenere aiuto dai sultani e, all’ombra della loro protezione,
visitare i circassi malati, dai quali si potrebbe ancora guadagnare qualcosa,
non fosse che illuminare gli adulti morenti e battezzare i bambini che non
potrebbero fuggire.
Con il tempo le cose potranno cambiare e bisogna sperare che Dio,
toccato dalla misericordia per questo povero popolo, farà nascere qualche
occasione più favorevole per penetrare in quel paese abbandonato.
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