PUBBLICO-PRIVATO: FORME DI INTERAZIONE IN EVOLUZIONE

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PUBBLICO-PRIVATO: FORME DI INTERAZIONE IN EVOLUZIONE
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PUBBLICO-PRIVATO:
FORME DI INTERAZIONE
IN EVOLUZIONE
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SDA Professor di
Public Management and Policy
[email protected]
veronica vecchi
SDA Professor di
Public Management and Policy
[email protected]
niccolò cusumano
SDA Bocconi,
Public Management and Policy
[email protected]
* L’intervento di Stefen Schepers
è avvenuto in lingua inglese.
STEFANO ANTONELLI International HR Director, GiGroup
LUCIANO BALBO Fondatore e presidente di Fondazione Oltre e Oltre Impact Fund
ANDREA TINAGLI Direttore della Banca Europea per gli Investimenti (sede di Roma)
STEFAN SCHEPERS Consulente e lobbyista, Managing Partners di EPPA*
Con il commento di PATRIZIO BIANCHI, assessore Scuola, Università, Ricerca,
Formazione e Lavoro della Regione Emilia-Romagna e professore ordinario,
Dipartimento di Economia e Management, Università di Ferrara
I
l perimetro delle collaborazioni pubblico-privato, come accade nel
caso di fenomeni complessi, è sfumato e in continua evoluzione.
Anche la letteratura ne ha dato definizioni differenti, molto influenzate dal contesto politico ed economico di riferimento (box 1). È
infatti indubbio che i modelli e le forme delle collaborazioni pubblico-privato (di seguito CPP) siano condizionati dagli assetti istituzionali, politici, economici e sociali di un paese. La letteratura economica e
di management, fortemente influenzata dai gruppi di ricerca americani e anglosassoni, ha espresso un certo dinamismo soprattutto in relazione alle Business Government Relations (BGR) e alle partnership pubblico-privato (PPP) di tipo contrattuale per la realizzazione di infrastrutture suscettibili di uno sfruttamento di tipo
economico. L’osservazione delle dinamiche di collaborazione tra operatori pubblici e privati mette tuttavia in evidenza l’esistenza di modalità che vanno oltre la semplice relazione di lobbying o che non necessariamente assumono la forma di contratti complessi e di lunga durata per il finanziamento, la costruzione e la gestione di un’opera pubblica. Soprattutto in questi anni, quando la crisi economica e sociale mette in discussione i modelli tradizionali basati prevalentemente su meccanismi di mercato o di Stato
erogatore, si sono sviluppate interessanti modalità di collaborazione per ridare impulso
all’economia locale o, più semplicemente, per individuare nuove modalità di risposta ai
bisogni di una comunità complessa e variegata.
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a cura di:
manuela brusoni
HANNO PARTECIPATO AL FORUM:
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pubblico-privato: forme di interazione in evoluzione
Attraverso questo forum intendiamo confrontare punti
di vista ed esperienze di diversi attori per tentare una
definizione operativa delle collaborazioni pubblico-privato e per una prima messa a fuoco di obiettivi e aspettative, presupposti, modalità di funzionamento e punti
di attenzione.
BRUSONI E VECCHI Fatte
queste premesse, vi chiediamo, dalle vostre differenti prospettive, di provare a definire un possibile perimetro delle collaborazioni pubblicoprivato, il loro ruolo e l’importanza in
questo momento storico.
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BALBO Dividerei il mio interven-
In questi anni si sono sviluppate
interessanti modalità di
collaborazione per individuare
nuove modalità di risposta
ai bisogni di una comunità
complessa e variegata
to in tre parti: cosa sono prevalentemente oggi in Italia le collaborazioni pubblico-privato, cosa dovrebbero o
potrebbero essere e di cosa c’è bisogno
per farle funzionare. Partiamo dal
primo punto, che rappresenta, ovviamente, il mio personale sguardo su questo fenomeno.
Ritengo che la collaborazione pubblico-privato sia essenzialmente e largamente una forma di outsourcing: in alcuni ambiti il privato eroga servizi in nome e per conto
del settore pubblico. Faccio due esempi a mio parere
eclatanti: il primo è la sanità.
Tantissime prestazioni sanitarie sono erogate da soggetti privati, ovviamente con importanti differenze regionali: in Emilia il privato accreditato è meno presente, mentre in Lombardia o nelle regioni del Sud lo è molto di più.
Si tratta di casi di sussidiarietà verticale. Un’altra area è
quella dei servizi sociali, che Comuni e Regioni erogano
attraverso la cooperazione sociale. Le cooperative sociali
gestiscono gran parte della spesa sociale degli enti locali, seppur molto frammentata e singolarmente di entità
ridotta. Si tratta di un modello che si è consolidato negli
anni settanta, ottanta e novanta, quando la spesa pubblica, specie quella corrente, è cresciuta in modo consistente in ambito sia sanitario sia sociale. Le remunerazioni
garantite dall’erogazione del servizio, in nome e per
conto del pubblico, hanno consentito ai privati di realizzare investimenti in strutture ospedaliere e socio-sanitarie. È stato un modello di collaborazione che ha accompagnato la crescita della domanda e dell’offerta e, in qual-
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che modo, ha avuto anche l’effetto benefico di consentire agli utenti opzioni di scelta nell’ambito dello stesso
modello erogativo, grazie alla coesistenza di una pluralità di soggetti. Un’altra forma di PPP è quella per le infrastrutture. In Italia, benché non ne sia un esperto, penso
si possa sostenere che il project financing, come modello di realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche,
abbia attecchito molto meno rispetto ad altri paesi, come
il Regno Unito, che comunque stanno mostrando segnali di cedimento. Credo che questi modelli di collaborazione pubblico-privato, che hanno avuto effetti benefici e
che probabilmente continueranno a essere sviluppati da
una certa parte di soggetti, oggi non siano più sufficienti, proprio per i problemi, soprattutto di ordine economico, che il settore pubblico sta attraversando e che mal si
conciliano con le esigenze sempre più disparate e complesse della collettività. La sfida è quindi come andare incontro ai bisogni sociali a parità di risorse o con budget
decrescenti.
Credo che la risposta vada trovata in un’innovazione del
modello di intervento, capace di conciliare risorse limitate e una crescente richiesta/esigenza di qualità, soprattutto in servizi quali la sanità e l’educazione. In un modello di collaborazione basato su logiche di outsourcing
l’innovazione è molto difficile, in quanto le tariffe tabellari di rimborso per prestazione non riconoscono, incentivano o premiano l’innovazione. Non vi sono, infatti, risorse pubbliche “lump sum” finalizzate a stimolare innovazione di modello, che peraltro è un cavallo di battaglia dell’Unione Europea. Faccio alcuni esempi per chiarire ciò a cui sto facendo riferimento. In sanità si parla
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box 1.1
UN’ANALISI FENOMENOLOGICA DELLE COLLABORAZIONI PUBBLICO-PRIVATO
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Nel contesto americano ci si riferisce alle collaborazioni pubblico-privato con il termine Business Government Relations (BGRs) per
descrivere e analizzare le relazioni tra le imprese (soprattutto quelle operanti in settori altamente regolamentati) e il settore pubblico (inteso come l’insieme delle autorità governative con competenze legislative e regolamentari). Alcuni autori (come per esempio
1
Porter che ha descritto il cosiddetto government come un fattore che influenza le cinque forze di mercato) hanno riconosciuto l’importanza degli attori pubblici per il successo di un’impresa o anche solo di una specifica strategia e pertanto hanno coniato il concetto di “non market” o “non competitive strategy”, contrapposto alla più tradizionale market strategy. Nonostante gli sforzi inter2
pretativi (per esempio Baron) nell’indicare il modo per conciliare, sotto il cappello della business strategy, queste due anime, tanto
da parlare di hybrid strategy, nel mondo americano BGRs è un concetto che rimane fortemente circoscritto all’attività di lobbying e
alla capacità delle imprese di influenzare il regolatore e il policy maker. Pertanto, nell’approccio BGR sembrano permanere una sorta
di dicotomia tra market e non-market e una connessione di tipo relazionale tra pubblico e privato.
In Europa, dove il ruolo del settore pubblico è sempre stato più pervasivo, non limitato a correggere i fallimenti di mercato, il termine BGR sembra essere inadeguato a esprimere e descrivere un sistema di relazioni che assumono sempre più la forma di vere e proprie iniziative di collaborazione, spesso sancite da accordi o contratti, quando non dalla creazione di veri e propri soggetti giuridici
o joint venture. Infatti, a fianco delle relazioni pubblico-privato gestite nell’arena politica, si sono sviluppate nell’arena del mercato
forme di collaborazione di diverso tipo, in cui operatori pubblici e privati si sono corresponsabilizzati verso il raggiungimento di
obiettivi comuni, condividendo i rischi connessi e mettendo a sistema le rispettive risorse e competenze. L’esempio più strutturato
sono i contratti di partnership pubblico-privato (PPP) per la realizzazione di investimenti pubblici, ambito cui generalmente si fa riferimento nel gergo internazionale quando si utilizza il termine PPP. In realtà esistono modalità e ambiti di collaborazione che possono prendere in considerazione obiettivi quali lo sviluppo imprenditoriale, il supporto all’occupazione, l’invenzione di un nuovo
prodotto in grado di rispondere meglio alle esigenze di interesse pubblico, una fornitura o un servizio più efficaci, efficienti e sostenibili. I fondi misti pubblico-privato per la capitalizzazione delle imprese o per supportare l’accesso al credito sono, per esempio,
una forma di collaborazione pubblico-privato che rappresenta un punto di riferimento delle politiche comunitarie di coesione e sviluppo. Il public procurement, anche quello rivolto a stimolare processi di innovazione nel mercato, può essere considerato una forma
di partnership, così come avviene nel settore privato, tanto è vero che tradizionalmente i fornitori strategici delle imprese sono considerati stakeholder rilevanti per il successo della strategia. Programmi di formazione basati su percorsi, dentro e fuori l’azienda,
per implementare i contratti di apprendistato possono essere un altro esempio.
Infine, tra le forme di collaborazione, che talvolta possono diventare anche il veicolo di azioni di lobbying, alcuni annoverano iniziative avviate dalle imprese per rafforzare i diritti politici, civili e sociali o per supportare gli attori pubblici nel raggiungimento degli
interessi collettivi, eventualmente anche sostituendosi a essi. Queste forme di collaborazione rientrano spesso nei programmi di
Corporate Social Responsibility e di Corporate Citizenship delle imprese, frequentemente multinazionali. Un’evoluzione di questi
concetti è stata recentemente proposta da Porter con il suo shared value, che riconosce la supremazia competitiva di quelle imprese in grado di interiorizzare meglio i bisogni della società. Si tratta comunque di un concetto sviluppato da una prospettiva US-centrica, in cui il soggetto pubblico rimane sullo sfondo come regolatore del sistema e che quindi offre una visione molto parziale delle
3
dinamiche collaborative.
Nella figura di seguito si propone uno schema di riferimento finalizzato a decodificare le differenti tipologie di interazione tra pubblico e privato, che possono assumere la forma di relazioni non formalizzate; collaborazioni più o meno formalizzate attraverso protocolli, intese, accordi; rapporti contrattuali più formalizzati per regolare un rapporto di tipo transazionale. L’interazione di tipo relazionale comporta generalmente lo scambio d’informazioni tra imprese (di un segmento o industry, solitamente soggetti a un grado
di regolamentazione medio-alta) con il policy maker e il regolatore. L’obiettivo di questa relazione è incidere sulle scelte
normative/regolamentari, che producono effetti per tutte le imprese o per una specifica categoria. In questi casi non è infrequente
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box 1.2
che la relazione sia guidata da associazioni o gruppi di lobbying. Quando l’interazione diventa più strutturata ed è finalizzata alla
realizzazione di iniziative congiunte, con un eventuale coinvestimento di tempo, risorse umane e, talvolta, anche finanziarie, si
hanno collaborazioni formalizzate, di breve o lunga durata. Generalmente il rapporto è regolato da accordi o intese e riguarda un
gruppo di imprese, magari anche attraverso le loro associazioni, e coinvolge i livelli esecutivi delle amministrazioni, nazionali, regionali e locali. Si tratta, per esempio, di accordi finalizzati all’avvio di iniziative congiunte tra università, associazioni, regione o altre
amministrazioni per l’attivazione e diffusione dell’apprendistato o per erogare servizi di assistenza tecnica alle start-up. L’interazione può riguardare, infine, uno scambio mirato (autorizzazioni/accreditamenti, concessioni, erogazione di risorse finanziarie) a fronte di specifiche obbligazioni, spesso regolato da veri e propri contratti, dettagliatamente definiti, di breve o lungo termine. In questo segmento si possono trovare l’accreditamento all’erogazione di un servizio di interesse pubblico, le concessioni di costruzione
e gestione, l’erogazione di un contributo economico o di altre forme di finanza agevolata, la fornitura di beni o servizi. In genere il
rapporto riguarda due entità specifiche, un’azienda o amministrazione pubblica e un’impresa/operatore privato. All’aumentare dell’intensità della relazione si hanno accordi che riguardano ambiti più specifici e dettagliati e questo contribuisce a ridurre l’incertezza dei risultati dell’interazione. Inoltre, passando da un’interazione relazionale a un’interazione collaborativa e contrattuale, cambiano anche le competenze rilevanti per definire e gestire l’interazione stessa: le competenze di policy lasciano a mano a mano il
posto alle competenze di management.
figura 1
public-private interactions
GOVERNMENT
alta
Fornitore
Intensità
della relazione
Certezza
del risultato
Gestore di programmi
di sviluppo economico
Imprese
da supportare
Imprese settori
molto regolamentati
Cliente
Interazione
contrattuale
Interazione
collaborativa
Regolatore servizio
Imprese settori
poco regolamentati
Tutte le imprese
bassa
Competenze
di management
Regolatore mkt
Interazione
relazionale
Policy
maker
Competenze
di policy
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BUSINESS
fonte: elaborazione originale
1. Porter M., “The Five Competitive Forces That Shape Strategy”, Harvard Business Review, 86(1), 2008, pp. 78-93.
2. Baron D., “Integrated Strategy: Market and nonmarket components”, California Management Review, 37(2), 1995, pp. 47-65.
3. “Not all societal problems can be solved through shared value solutions. But shared value offers corporations the opportunity to utilize their skills, resources, and management capability to lead social progress in ways that even the best-intentioned governmental and
social sector organizations can rarely match. In the process, businesses can earn the respect of society again” (Porter M.E., Kramer
M.R., “Creating Shared Value”, Harvard Business Review, January-February 2011).
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da alcuni anni della necessità di realizzare nuove unità
territoriali per la gestione comune dei servizi di medicina generale e specialistica. Si tratta di una sperimentazione che fa fatica a decollare perché il pubblico non ha
le risorse e la capacità progettuale/imprenditoriale per
innescare questo importante cambiamento. Il privato,
però, da solo non lo fa. Un altro esempio è quello della
scuola. Mi avventuro in un campo in
cui il ruolo del privato, soprattutto in
Italia, è limitatissimo.
Oggi vi è la necessità di cambiare, di
pensare a nuovi modelli di scuola e,
senza pensare agli Stati Uniti, in Svezia
è per esempio partito un mercato di
scuole private gestite in cooperazione
con il settore pubblico per sperimentare
modelli educativi diversi. Tema sicuramente molto caldo in Italia, considerando la fatica di far decollare il sistema dell’apprendistato o degli istituti tecnici superiori. Per esempio, si parla di dismissione del patrimonio immobiliare, ma pochi sono i beni privatizzabili tout
court; molti sono beni “difficili” il cui riutilizzo richiede
progetti complessi e con competenze articolate. Queste
operazioni non possono essere gestite solo attraverso
una vendita; esse, piuttosto, richiedono una progettualità condivisa tra pubblico e privato. Ovviamente i cambiamenti radicali sono difficili da realizzare, richiedono cultura, apertura e leadership, espongono a critiche e a rischi che in questo momento la classe politica non è in
grado di gestire. Io credo ci sia la necessità di separare
l’erogazione dalla regolazione del servizio. Questo potrebbe favorire la sperimentazione di modalità di erogazione nuove e riorientare il pubblico verso funzioni di regolazione e controllo, gestite in modo da incentivare la
capacità di innovazione del privato, ma anche del pubblico erogatore o di forme miste.
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TINAGLI Concentrerò il mio intervento soprattutto sulle partnership di tipo finanziario e sulle modalità di governance che consentono a queste partnership di funzionare. Le partnership di tipo finanziario
rappresentano uno snodo rilevante nei processi d’implementazione delle politiche di coesione comunitarie, nazionali e regionali, soprattutto in un momento di caren-
VECCHI L’intervento di Balbo ha evidenziato la necessità di riconfigurare i rapporti tra gli attori pubblici e privati per generare innovazioni di modello auspicate dall’Unione Europea. Passiamo la parola ad Andrea
Tinagli che, dal suo osservatorio nell’ambito della Banca
Europea per gli Investimenti, può aiutarci a capire quali
forme di partnership possono essere impiegate per implementare le politiche di coesione e crescita.
za di risorse pubbliche in cui è necessario iniettare più
efficienza nel sistema. Tra le forme di partnership finanziaria vi è certamente il project financing, strumento di
finanziamento di contratti di collaborazione finalizzati
alla realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche.
Come detto in precedenza, effettivamente in Italia si è
parlato fin dalla fine degli anni novanta di queste forme
di PPP, ma non molto è stato fatto per farle decollare,
come invece è accaduto in altri paesi. Si è fatto qualcosa
nel settore delle opere pubbliche, come nel caso degli
ospedali, dove non vi è un vero rischio di mercato. Perché questo tipo di collaborazione, di tipo contrattuale,
non è stato così diffuso come, invece, è accaduto nel
mondo anglosassone o anche in Francia e Spagna? Quello che vediamo in Italia è che, spesso, la collaborazione
pubblico-privato non è definita, sin dalle sue origini, in
modo chiaro. Pertanto il processo amministrativo necessario per la selezione dell’operatore privato e per la formalizzazione della partnership è molto lungo, complesso e frammentato. I dati sull’Italia mostrano che vi è, infatti, un tasso di mortalità delle procedure di gara molto
elevato e le poche che arrivano a contrattualizzare la
partnership spesso mostrano numerosi problemi in fase
di finanziamento, specie nella chiusura di un contratto
di tipo project financing. Le cause di questa situazione
stanno sia nel pubblico sia nel privato. Un ostacolo è si-
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In Italia si è parlato sin dalla
fine degli anni novanta di
partnership pubblico-privato,
ma non si è fatto molto per
farle decollare
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curamente la mancanza di conoscenza reciproca, che
causa problemi di fattibilità dell’iniziativa, di non chiarezza dei termini contrattuali e quindi di sostenibilità
delle operazioni nel medio-lungo termine. Per esempio,
raramente le amministrazioni conoscono le implicazioni contrattuali e finanziarie di una partnership di questo
tipo per gli operatori privati o le condizioni applicate dal
sistema bancario. Infatti, la partnership non è solo costruzione di un’opera, ma è anche finanziamento e gestione di un contratto che deve consentire di ripagare il
finanziamento nel medio termine. La dimensione finanziaria è punto fondamentale che non può essere trascurato nelle verifiche di fattibilità da parte dell’amministrazione. Quando questo accade, si rendono necessarie modifiche ai contratti in corso, che creano tensioni, talvolta
ricorsi. Questo, assieme al tasso di mortalità registrato,
sta compromettendo il rapporto di fiducia tra le due parti
che è vitale per poter realizzare questo tipo di iniziative,
per andare mano nella mano verso iniziative di così
lungo respiro. Il quadro normativo in sé non rappresenta particolari problemi, essendo peraltro allineato alla direttiva europea, ma prevede ancora certi meccanismi,
come il diritto di prelazione, che riducono la trasparenza e limitano l’intensità della competizione e l’attrazione
di capitali e investitori internazionali.
Il buon funzionamento dei meccanismi di partnership
pubblico-privato sarebbe essenziale per un’efficiente ed
efficace implementazione delle politiche di coesione e
crescita e, tra l’altro, è proprio da queste sostenuto. Per
esempio, il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (il
FESR, uno dei più importanti e consistenti fondi strutturali), che tradizionalmente veniva erogato a fondo perduto, oggi viene in parte utilizzato per sostenere forme di
partnership e coinvestimento, che possono riguardare
non solo le infrastrutture ma anche l’accesso ai capitali o
la capitalizzazione delle piccole e medie imprese oppure
lo sviluppo urbano, attraverso logiche revolving, ovvero
di rimborso. Questi modelli consentono di ottimizzare i
fondi pubblici, di creare sistema e innovazione, negli
strumenti e nei modelli. Infatti, le risorse pubbliche servono per stemperare i rischi (di credito) e per fare in
modo che i privati accettino la sfida di risolvere problematiche che l’amministrazione pubblica non riesce più a
gestire secondo logiche tradizionali. Queste modalità di
partnership finanziaria, che vanno oltre il semplice (ma,
come abbiamo visto, in realtà complesso) project financ-
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ing, pongono la sfida di individuare nuovi modelli di governance. Come selezionare il partner, come si combinano le risorse pubbliche e private, come si gestiscono? I
modelli proposti dall’Unione Europea, per esempio l’iniziativa Jessica, prevedono la costituzione di soggetti indipendenti, super partes, nella logica del fondo di investimento o del trust, in cui competenze pubbliche (la definizione della policy) e competenze private (le tecnicalità)
si fondono per garantire rilevanza, fattibilità, bancabilità
e sostenibilità dei progetti di collaborazione.
VECCHI L’intervento di Tinagli ci ha mostrato le
forme di partnership che vengono proposte dall’Unione Europea per conseguire gli obiettivi di coesione
e sviluppo. Si tratta, soprattutto, di partnership volte a
mettere a sistema fondi pubblici e privati per indirizzarli verso iniziative sostenibili nel lungo termine, superando le tradizionali logiche del fondo perduto, e a ridurre il
rischio di credito per sostenere l’innovazione imprenditoriale, lo sviluppo urbano, le green energy e le grandi infrastrutture. La parola passa ora a Stefano Antonelli, che
si occupa da sempre di risorse umane, prima come responsabile della formazione in Ferrero e oggi nel gruppo
GiGroup. Il tema delle competenze come fattore alla base
di occupazione e produttività è sicuramente un ambito rilevante in cui pubblico e privato si incontrano e scontrano e in cui sarebbero auspicabili iniziative sperimentali
congiunte.
ANTONELLI Riallacciandomi anche a quello che è
stato detto in precedenza, io credo che in questo
momento il fare sistema sia un punto fondamentale. La
necessità di fare sistema non riguarda solo il rapporto
pubblico-privato ma anche l’associazionismo imprenditoriale e il funzionamento del settore privato in Italia. In
Italia il privato è un settore molto segmentato. La base
produttiva formata prevalentemente da piccole imprese
rende difficile la creazione di poli di innovazione basati
su gruppi o reti di imprese. La carenza di competenze
manageriali, la presenza di stili di gestione autoritario paternalistici e la chiusura culturale frenano il processo di
collaborazione e, in un momento di crisi come questo, il
rischio è che pochi riescano ad avere successo. Se la creazione di reti di impresa non viene fatta in modo autonomo dal privato, serve un supporto pubblico, che però non
può essere basato solo sulla logica degli incentivi. Altri-
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menti non si riesce a innescare un processo di cambiamento culturale. Stesso ragionamento vale per il mercato del lavoro, rispetto al quale sarebbe molto importante
ricostruire un rapporto tra pubblico e privato per investire seriamente sull’insegnamento e la formazione di competenze. Il finanziamento della formazione professionale è diventato ormai più un tema amministrativo burocratico che di contenuto, e non è in
grado di premiare la capacità di innovare i modelli formativi. Non sempre
viene finanziato ciò che merita di essere
finanziato, quello che è utile, quello che
serve per la ricerca, quello che serve per
creare nuovi mestieri, quello che serve
per creare competenze. Altro tema, correlato, su cui credo serva fare sistema
nel mercato del lavoro, è la creazione di
nuova occupazione, che interessa diversi target, primo fra tutti quello dei giovani. Credo che la riforma del lavoro abbia
posto un grande accento sull’apprendistato e sulla centralità delle scuole, al
fine di costruire piani formativi che sostengano l’ingresso nel mondo del lavoro. Ovviamente per far funzionare
queste politiche serve una collaborazione che faccia
perno anche su una rinnovata cultura del mondo imprenditoriale. Gli sgravi contributivi sono molto importanti, ma ci si deve impegnare anche a lavorare con efficacia sul piano formativo e sperimentare modelli che
consentano di coniugare lo sviluppo di conoscenze e
competenze dentro e fuori dal luogo di lavoro. La sfida
dell’apprendistato e dell’individuazione di modelli in
grado di formare nuove competenze può essere affrontata anche attraverso iniziative di collaborazione pubblicoprivato. Un secondo target su cui serve più pensiero strategico e programmazione è la forza lavoro over 50. In
questo caso, l’esigenza è l’individuazione di modelli che
consentano a coloro che hanno più di 50 anni di continuare a lavorare nell’impresa senza essere dei “mal sopportati”. La riforma delle pensioni ha allungato la vita lavorativa e questo pone le imprese di fronte a potenziali
situazioni di ridotta produttività o all’esigenza di ricollocare persone non più adeguate al mestiere che stanno facendo. L’ultimo tema su cui mi soffermo è la necessità di
recuperare i mestieri e il lavoro manuale e artigianale,
che spesso rappresenta uno dei fattori chiave del succes-
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so di molte aziende del made in Italy. Anche questo è un
ambito su cui è necessario sperimentare attraverso logiche di potenziale collaborazione pubblico-privato. GiGroup alla fine del 2012 ha fatto una ricerca su un campione assolutamente significativo di giovani da cui è
emerso che il 93%, tra i 15 e i 29 anni, non vuole fare un
lavoro manuale. Ma il dato più preoccupante riguarda i
In Italia il settore privato
è molto segmentato:
la base di piccole imprese rende
difficile creare poli di
innovazione basati su gruppi
o reti di imprese
genitori: il 94% non vuole che i propri figli facciano un
lavoro manuale. Per questo motivo servono iniziative
pubblico-privato per diffondere la cultura dell’importanza del lavoro manuale e il ritorno alle scuole di mestiere.
BRUSONI Vorrei sottolineare, a tal proposito, che
il lavoro manuale di per sé non è antitetico a un
lavoro intellettuale molto raffinato.
ANTONELLI Certamente, basti pensare che spes-
BRUSONI Dagli interventi fin qui fatti sta emergendo un profilo molto interessante delle collaborazioni pubblico-privato e un aspetto che mi sembra di
cogliere è la ricerca di una sostenibilità, non solo nella relazione in sé che lega pubblico e privato, ma la costruzione di una collaborazione come veicolo per raggiungere
una sostenibilità sociale ed economica in un contesto fortemente modificato dalla crisi. Chiediamo quindi a Schepers, che da sempre lavora per e con le istituzioni comu-
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so per entrare nell’impresa bisogna iniziare facendo lavoro manuale o ricordare che i gradi imprenditori
italiani hanno proprio avviato le loro aziende partendo da
un’attività artigianale.
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pubblico-privato: forme di interazione in evoluzione
nitarie, come l’Unione Europea sta orientando e supportando il tema della sostenibilità nell’ambito delle e attraverso le collaborazioni pubblico-privato.
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SCHEPERS Considering the question you addressed to me, I would like to make a distinction
between various forms of business-government relations
depending of the objectives. Principally I see three forms
in Europe. One, which you already discussed and it is
common in many countries and a little at EU level itself,
is the traditional PPP, which is after all strictly commercially driven by the company which is trying to develop
with public authorities a product/service and share the
risk, costs and resources. Both parties can benefit from it
because of the risk-sharing and long term commitment
of each other, but experience in many countries shows
that they are very difficult to manage and do not always
bring the results that both parties sought from them. The
second format of business-government cooperation is
the lobby. We need to understand why the American lobbying model has made so much advance in the last 10-15
years in Brussels and how little this model actually fits
with EU and which kind of benefits/problems it brings.
The lobbying model is based on two different logics:
companies are looking at the single market or at the global market. They follow obviously a market perspective,
however policy, even at EU level, is national, it is determined by national elections and national priorities and these are aggregated at
the EU level to define something like a
European policy framework. This policy
framework that hurts some business
models, or aspects of business model,
make companies trying to change these
policies at their advantage. But they fail
to understand they are not just lobbying
against the European Commission;
there is also a dominant role played by
national governments. This is why you
see in the last ten years a decline in the
role of trade associations because they can only functions
at the lowest common denominator. The third format,
which is appearing in Brussels, is the cooperative model.
I don’t call it partnership because of the confusion with
PPP, which are in effect public-private projects. The cooperative model, which you see developed by few, but
very large, companies, is essentially based on a coherence
between market interest and public interest in order to
define together what is called the research of common
good. Whereby companies no longer look solely at their
own existing business models, but explore how policy
can evolve driven by interests of member states, consumers interests, ecological demands or whatever, they
try to understand how to manage emerging risks, but
also new opportunities. This last model is much more innovative because it is more inclusive and forward looking, than the traditional American model and you can see
very well the results of this. Let’s take the example of car
manufacturing. The biggest lobby effort in Washington
has been undertaken by GM and Chrysler in order to actually limit environmental regulation in their sector and
you all know the results of this attitude. Look then at the
German model where you have seen companies actually
work in cooperation with government, activities and big
German research organizations, Fraunhofer ISI, Max
Planck among others, not in symbiotic manner, but
closely together to actually define ever higher levels of environmental and quality standards and the results this
strategy brought compared to the US. The problem is
that neither Member States Governments nor the EU
Commission on one side and very few company boards,
on the other side, are actually thinking in terms of alignment. So how to align corporate strategy to public policy-
An emerging model of
partnership is the cooperative
model, based on the research
of coherence between market
and public interest
84
making? In the EU is particularly tricky since European
policy making, as I said, does seldom start from a single
European interest, but starts from an aggregation of different interests. In this conflicting situation, short term
commercial interest takes over and businesses return to
the classic lobbying paradigm just to protect their short
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economia & management 4 - 2013
term profitability, thus forgetting that EU actually want to
reorganise the markets, to introduce new criteria in markets, such as environmental or health, consumer protection or quite simply bringing down barriers among national markets. In my own personal view, this is one of
the reasons of the economic crisis. Indeed, we have a governance crisis not only in the Eurozone, but also in economic policy making, market organization, trade policy and so on. I personally
think that the best model to overcome
this situation is the business-government cooperation model developed in
Nordic countries, Norway, Sweden and
particularly Finland and also Denmark.
Currently also Germany, the Netherlands and Austria are trying to copy it.
This model of cooperation is one of the
reason why these countries are at the top
of competitiveness rankings. I was recently comparing Norway to France. In
France the majority of universities do not want to work
with companies for ideological reasons, driven by a concept of academic independence. In Norway this is absolutely standard. Large companies, like Statoil and Universities like Trontheim or Stafvanger, have a very intense
research cooperation and businesses help universities to
develop spin-offs, jointly owned, which bring dividends
to the universities to be reinvested in further research.
How do I foresee the evolution of BGR? There’s the need
of a large investment in research in order to understand
them. It is a field of research often developed under a
very theoretic approach; therefore, it has received less attention from practitioners and has generated a limited
impact. There has a lot to change in boardrooms and in
governments, and it will be required.
focus>forum
BALBO Da questo primo giro di tavolo è chiaramente emerso quanto sia difficile fare bene le
cose e soprattutto quanto sia difficile creare partnership
pubblico-privato efficaci, rispettose dell’interesse pubblico e di quello privato e sostenibili. Per lo meno sgombriamo il campo dal fatto che le partnership siano la panacea.
Prima di arrivare al tema dell’impact investing vorrei dire
VECCHI Gli spunti dati da Schepers ci consentono
di focalizzare l’attenzione su un tema caro a Luciano Balbo, che ha realizzato in Italia il primo fondo di impact investing, con l’obiettivo di raccogliere e investire capitali privati in nuove iniziative imprenditoriali capaci di
generare innovazioni di tipo sociale. Chiederei quindi a
Balbo una riflessione sul ruolo dell’impact investing
come fattore propulsore di innovazioni imprenditoriali,
molte delle quali richiedono una nuova concezione di
collaborazione pubblico-privato.
una cosa un po’ provocatoria: credo che, relativamente all’Italia, quando il pubblico si muove verso partnership
pubblico-privato è perché non ha risorse da investire direttamente. In realtà, se si vogliono creare modelli innovativi di collaborazione, in ambito formativo, del lavoro o
della sanità, è necessario fare un atto coraggioso e allocare una parte di risorse della spesa pubblica a iniziative di
coinvestimento con un soggetto privato che si assuma il
rischio gestionale. Altrimenti, si continua a desiderare
innovazioni tenendo in vita i modelli tradizionali di erogazione dei servizi pubblici. Ovviamente serve coraggio
per fare questo, ma è l’unico modo per provare a generare cambiamento. Questo cambiamento necessariamente
richiede una collaborazione, considerando che non può
essere fatto in modo autonomo, dal pubblico o dal privato. Il rischio di non fare mi sembra ben più alto del rischio di sperimentare. Venendo al tema dell’impact investing, che oggi è la mia attività principale, credo che sia
un ambito in cui può essere possibile avviare modalità
sperimentali di collaborazione pubblico-privato in settori
quali, per esempio, la sanità e la scuola, in cui la domanda di servizi innovativi è alta. In particolare, la sfida dell’impact investing è quella di attirare ricchezza privata su
iniziative imprenditoriali innovative finalizzate a proporre un’offerta di servizi alternativi per rispondere alle esigenze sempre più complesse dei cittadini. Ovviamente
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Se si vogliono creare modelli
innovativi di collaborazione,
in ambito formativo, del lavoro
o della sanità, è necessario
fare un atto coraggioso
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pubblico-privato: forme di interazione in evoluzione
sono segmenti di business in cui le aspettative di ritorno
sono relativamente basse. All’inizio questo tipo di iniziative ha bisogno di investitori pionieri, magari anche con
il supporto di fondazioni; però, se questi modelli funzionano, sono convinto che potranno attirare nuovo risparmio privato, soprattutto perché nel prossimo futuro non
penso che vi saranno molte opportunità di conseguire ritorni double digit. A conferma di questo, mi piace ricordare che la media dei ritorni conseguiti dal mercato del venture capital in Europa (citando i dati dell’European Venture Capital Association) negli ultimi dieci anni è circa il
3%. Per concludere, credo che l’impact investing possa
rappresentare un terreno in cui pubblico e privato possono avviare collaborazioni sperimentali per dimostrare al
Mercato e allo Stato che esistono soluzioni intermedie sostenibili ed efficaci, su cui far confluire una parte delle risorse pubbliche e private.
BRUSONI Mi sto chiedendo che predisposizione
occorre per essere pionieri coraggiosi. Vedo un
grandissimo spazio per un’innovazione culturale, che mi
sembra molto difficile e molto impegnativa, nella quale
non è facile capire chi debba prendere la leadership dei
primi passi.
BALBO Concordo sulla grande difficoltà. Credo
che l’unica forza di percorrere strade difficili
venga dall’impossibilità di percorrere strade vecchie e chi
ha risorse finanziarie sta capendo che o si investe su
nuovi asset, su nuove opportunità o, forse, i ritorni generati dalla liquidità continueranno a scendere.
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VECCHI Certamente un ostacolo a questi processi
di innovazione è l’elevata corruzione e politicizzazione delle istituzioni, che sembrano favorire quei progetti imprenditoriali rivolti più a estrarre valore fine a se
stesso che a generare innovazione e cambiamento. Tra
l’altro, il coinvestimento privato sarebbe un’importante
cartina al tornasole della fattibilità dell’investimento e
della gestione. Questo è un po’ l’approccio che sta perseguendo l’Unione Europea con l’introduzione, già in questo periodo di programmazione, ma ancor di più nel
prossimo, 2014-2020, di modelli di collaborazione finalizzati a sostituire il tradizionale contributo pubblico a
fondo perduto. Chiediamo quindi a Tinagli di darci le sue
impressioni su questa prospettiva.
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TINAGLI Nell’ambito della nuova programmazione, definita sulla base degli obiettivi strategici
2020, il concetto di partnership assume un ruolo fondamentale, non solo per la realizzazione di investimenti
hard, ambito su cui la BEI, per esempio, lavora sin dalla
sua creazione, ma anche per gli investimenti richiesti per
lo sviluppo della knowledge economy o, più in generale,
nel rapporto tra Unione Europea e Stati membri o, ancora più in generale, nell’ambito delle politiche di sviluppo
che si fondano su un concetto di collaborazione. Nell’ambito della nuova programmazione i progetti saranno eligibili se dimostreranno, ex ante, value for money e sostenibilità finanziaria di medio e lungo termine. Infatti,
esattamente come accadde per il piano Marshall, che si
fondava su prestiti e non su contributi a fondo perduto,
la prossima programmazione si baserà largamente su
strumenti di tipo revolving che dovranno stimolare il cofinanziamento pubblico e privato. Il budget della nuova
programmazione non è ancora approvato ma è atteso sostanzialmente in linea con quello della precedente: stiamo parlando di circa 350 miliardi di euro; BEI ha beneficiato di un aumento di capitale che consentirà di erogare
20 miliardi di euro in più di finanziamenti all’anno, che
si sommano agli attuali 50 per i prossimi tre anni. Questo significa che l’aumento di capitale permetterà di finanziare nuovi progetti per 180 miliardi di euro. Ovviamente l’attivazione di queste risorse richiede imprenditorialità, capacità di innovazione e di progettualità, ma
anche partnership, perché queste iniziative impongono
una condivisione di rischio e una corresponsabilizzazione. Come dicevo prima, questa nuova impostazione della
politica di coesione ha bisogno non solo di nuovi strumenti di ingegneria finanziaria, ma anche di un diverso
modello di governance. Più partnership e modalità differenti di finanziamento non significano, comunque, arretramento del pubblico nella definizione degli obiettivi di
policy, che rimarranno sempre una prerogativa delle istituzioni comunitarie, nazionali e regionali. Cambiano,
piuttosto, le regole con cui le risorse sono allocate per
raggiungere gli obiettivi di policy, già, tra l’altro, a livello
di stanziamento per singolo Stato membro. Esso dipenderà dai risultati ottenuti e si baserà su meccanismi di
premialità valutata in itinere. L’introduzione di meccanismi di premialità, di strumenti revolving e di modelli di
partnership richiede il coinvolgimento di professionisti
che aiutino il pubblico, ma anche il privato, a far funzio-
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nare questi meccanismi complessi, per esempio a trovare il giusto equilibrio tra contributo pubblico e capitali
privati, il corretto rendimento o a selezionare gli investimenti. Servono professionisti che sappiano coniugare
competenze di policy con competenze di management,
ovvero che abbiano una conoscenza del pubblico e del
privato. Un ruolo, in questo, potrebbe essere giocato dai
gestori di impact investing. Il salto che è
richiesto al pubblico è molto importante: ovvero passare da erogatore di contributi mediante bandi a soggetto che promuove e struttura progetti sostenibili.
Specularmente, anche nel privato vi è bisogno di un importante cambiamento,
perché troppo abituato a logiche di tipo
assistenziale. Nella precedente programmazione sono state avviate alcune
iniziative, abbiamo citato prima Jessica,
ma c’è anche Jeremie, che consente di
utilizzare fondi strutturali per costituire
fondi di venture capital o fondi di garanzia per supportare l’accesso al mercato
dei capitali delle PMI, che sono state un primo banco di
prova e che in molti casi hanno dimostrato quanto il passaggio a questi nuovi modelli richieda tempi di incubazione lunghi e un importante cambiamento culturale.
focus>forum
delle iniziative Jessica e Jeremie si è vista anche la nascita
di alleanze pubblico-privato per la creazione di soggetti
nuovi, come per esempio è accaduto nel caso di Equiter,
l’infrastructure fund di Intesa San Paolo, e il Politecnico
di Torino nel campo dell’efficienza energetica, che possono sicuramente dare impulsi di innovazione, mettendo a
sistema sensibilità diverse e conoscenze tecniche.
Servono professionisti che
sappiano coniugare competenze
di policy e di management,
del pubblico e del privato.
Potrebbero essere i gestori
di impact investing
TINAGLI Sicuramente sì. Per esempio, la Commissione ha chiesto a BEI di giocare un ruolo importante per l’attivazione di Jeremie e di Jessica, proprio per
la sua natura e per le sue caratteristiche di banca pubblica di sviluppo, che ha sempre operato come snodo tra le
politiche pubbliche e i mercati dei capitali. Al nostro interno abbiamo, per esempio, creato una struttura di assistenza tecnica ai soggetti pubblici e privati, chiamata anche a
stimolare processi di knowledge sharing. Nell’ambito
soggetti nuovi, non solo capaci di creare un ponte,
ma anche di generare innovazioni. Antonelli, dalla prospettiva della vostra azienda si intravvedono spazi per
giocare un ruolo di ponte tra il pubblico e il privato?
ANTONELLI Sicuramente le agenzie per il lavoro,
come GiGroup, possono fungere da tramite tra il
pubblico e il privato nella gestione di quello che sta succedendo nel mercato del lavoro. Credo che le agenzie per
il lavoro private possano essere il veicolo per supportare
l’inserimento di persone nei posti giusti e per aiutarle ad
avere una formazione adeguata. Credo, inoltre, che esse
possano aiutare anche nella definizione di politiche attive per persone che in questo momento hanno difficoltà
a rimanere all’interno del loro posto di lavoro. Inoltre,
possono essere un tramite sostanziale per aiutare l’incontro tra domanda e offerta e sostenere la produttività. È un
elemento su cui la riforma del mercato del lavoro poteva
insistere di più. Per giocare un ruolo attivo e determinante serve sempre più integrazione e sistema. Bisogna evitare frammentazione e confusione di ruoli tra i centri
pubblici per l’impiego, le agenzie per il lavoro e altri enti
che potrebbero muoversi nello stesso perimetro. Qui ri-
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BRUSONI Provo a interpretare trasversalmente e
collegare i commenti che sono stati fatti. Mi sembra che stia emergendo la necessità di un nuovo soggetto, un attore laterale o una terza parte o intermediario
culturale, che diventa lo snodo critico per consentire, da
un lato, il dialogo fra due parti e, dall’altro, per riconfigurare il loro rapporto. Mi sembra di capire che serva un intermediario sensibile, evoluto, sperimentatore e innovatore che consenta la quadratura del cerchio.
BRUSONI È emersa la necessità di individuare
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pubblico-privato: forme di interazione in evoluzione
torno a quanto detto prima: c’è bisogno di chiarezza nel
sistema affinché pubblico e privato collaborino per il
bene comune, per supportare lo sviluppo di occupazione
e produttività.
BRUSONI Sentiamo il punto di vista di Schepers
sulla necessità di un terzo soggetto che faccia da
ponte tra pubblico e privato.
SCHEPERS I don’t think that a third party could
prove helpful. On the contrary, it may complicate
the alignment and understanding between business and
government. The lack of alignment is evident, for example, in the innovation policy, where the EU Commission
fails to take an inclusive approach. Lots of innovations
that could turn Europe into a competitive economy are
ignored due to a narrow technology focus. You can have
lot of innovation in traditional companies too, just look
at Spanish Inditex group that has innovates the textile industry becoming the world leader, or the Italians SMEs.
They are too much ignored in the Commission thinking.
The second problem I see is that funds allocation is based
on lobbying by Governments and trade associations. It’s
not demand driven, it’s lobby driven and it’s fragmented.
I’ve to say that I’m very sceptical about Horizon 2020,
since it is based on the same assumptions and methodologies of Lisbon 2000, and Lisbon strategy broadly
failed. To create innovation, new instruments should be
put in place. If the Commission will use the traditional
regulatory and funding model, the risk of failure of innovative policy is high.
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BALBO Vorrei fare un commento sulla necessità o
meno di individuare un soggetto che faccia da
ponte. Il problema è effettivamente difficile e non riguarda solo come gestire il dialogo e il rapporto economico tra
le due parti. Ritorno alla necessità di separare regolatore
ed erogatore. Soprattutto in Italia, è difficile per il pubblico, che in molti settori è contemporaneamente erogatore
e gestore, fare contratti con i privati, anche per i numerosi vincoli e ostacoli posti dai sindacati. Ma anche per il
freno al cambiamento posto dai gestori privati stessi che
hanno rendite di posizione o piccoli feudi da difendere.
Se invece ci fossero, come li chiamo io, dei “piccoli pezzi
di budget pubblico” affidati a soggetti sì pubblici ma non
coinvolti sul fronte dell’erogazione, e che quindi non
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hanno problemi di riconversione del personale e delle
loro attività, si potrebbero sperimentare nuove formule e
nuovi servizi. Ovviamente si tratta di soggetti intermedi,
selezionati sulla base delle competenze, a cui si affidano
risorse e determinati obiettivi da raggiungere.
VECCHI Sicuramente c’è bisogno di fare buone
partnership capaci di generare risultati e portare
cambiamenti. Il meccanismo delle partnership in un
contesto politico e sociale tradizionale rischia di distruggere valore e generare rendite di posizione a scapito dell’interesse pubblico complessivo.
BALBO Ovviamente quando dico “piccoli pezzi di
budget pubblico” non faccio riferimento al 10%,
ma all’1% o allo 0,5% delle risorse pubbliche complessive, che sono comunque risorse ingenti. Certo, non avrebbe molto senso fare sperimentazioni troppo piccole perché non sarebbero significative. Invece, sarebbe opportuno individuare iniziative con la scala adeguata per generare risultati che possano essere chiaramente valutati, sia
da soggetti indipendenti sia dai cittadini.
BRUSONI È senz’altro importante in questa prospettiva riuscire ad avviare questi meccanismi di
partnership, individuare indicatori e disseminare i risultati e le buone pratiche. Questo è, peraltro, proprio uno
degli obiettivi che si sono posti alcuni Alumni Bocconi
nell’ambito del Topic dedicato alle collaborazioni pubblico-privato.
ANTONELLI Vorrei aggiungere che c’è una dimensione culturale su cui bisogna lavorare. Quando le
risorse sono scarse, lavorare su criteri di selettività è fondamentale. Non ci possiamo permettere i tagli lineari. Ma
questo significa trovare il coraggio o forse, più ancora, le
competenze per individuare le spese utili, che si trasformano in investimenti, e quelle inutili. Poi c’è bisogno di
cambiare la cultura imprenditoriale, elemento che è stato
ricordato da Tinagli nel suo intervento. Abbiamo bisogno
di ritrovare una cultura imprenditoriale che sappia innovare, che sappia rischiare. Purtroppo l’assistenzialismo e
talvolta la corruzione hanno viziato il mercato.
TINAGLI Sono pienamente d’accordo sulla necessità di un cambiamento culturale. In questa fase
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quello che mi fa paura è forse la spinta a identificare e talvolta imporre modelli che si sono dimostrati vincenti a
certe latitudini e longitudini e che forse non lo sono in
altri contesti. Per esempio, si cita spesso il modello nordeuropeo come modello vincente e quindi di riferimento.
Ma la dimensione spaziale conta e le condizioni di contesto devono essere attentamente valutate. Basti pensare al
rischio paese interiorizzato dai tassi di
interesse, giusto per usare un esempio a
me familiare. Senza dubbio è importante identificare modelli che funzionano e
cercare di capirne le motivazioni, ma bisogna evitare di creare prodotti standard,
altrimenti il rischio è di isolare ancor di
più le cosiddette realtà “lagging behind”.
tiva. Se la sovranità dello Stato nazionale è oggi limitata
all’esterno dall’integrazione internazionale, lo è anche all’interno, essendo emersi ovunque livelli di governo subnazionali – le Regioni, i Comuni, le aree metropolitane –
che sempre più spesso, dovendo rispondere a contesti locali, non si sentono rappresentati dal livello nazionale, interpretando in modo diverso sul loro territorio gli effetti
Bisogna fare comunità per
ridurre l’incertezza economica,
contenere il rischio sociale,
garantire una struttura
istituzionale capace di
rappresentare l’interesse collettivo
fondamentale che le istituzioni,
forse anche con lo stimolo degli obiettivi di performance posti da Bruxelles,
identifichino modalità per accompagnare le aree più deboli a sperimentare e a
individuare propri modelli vincenti. Ovviamente, anche
in queste modalità di accompagnamento vi è bisogno di
coraggio e innovazione per superare i tradizionali modelli di assistenza tecnica previsti dai fondi strutturali che
abbiamo visto funzionare poco.
BIANCHI Una prima riflessione derivata dall’ascolto di questa conversazione su pubblico e
privato è legata agli stessi concetti di pubblico e di privato (PP). Dalla fine del secolo scorso il mondo nel suo insieme è cambiato, determinando fratture che ci obbligano a ridisegnare le relazioni che strutturano la vita collettiva. La crescita e la stessa economia mondiale hanno
visto segni di integrazione tali da obbligarci a parlare di
globalizzazione dell’economia, mentre gli Stati hanno
visto ridursi in proporzione la loro sovranità effettiva. In
passato – un passato che appare lontanissimo – l’ambito
di azione dello Stato era prominente rispetto all’ambito di
azione delle forze di mercato, tanto che era compito dello
Stato regolare, garantire e, se necessario, sanzionare i
comportamenti economici. Oggi i mercati sono più estesi degli Stati e la stessa attività di regolazione appare limitata e parziale, come ha dimostrato proprio la grande
crisi che sta segnando questa fase della nostra vita collet-
della concorrenza internazionale e oggi del prolungarsi
della crisi economica. Questi cambiamenti, e in particolare questo dilatarsi della crisi, stanno generando pesanti trasformazioni nel tessuto sociale, frammentandolo in
sottogruppi instabili, disperdendone le capacità di rappresentazione collettiva. In una situazione come questa è
tanto più necessario fare sistema. Direi piuttosto: bisogna fare comunità. Fare comunità per ridurre l’incertezza economica, contenere il rischio sociale, garantire una
struttura istituzionale capace di rappresentare l’interesse
collettivo di una società in così rapida trasformazione. In
questo senso un’interazione fra pubblico e privato è necessaria, tanto più se torniamo alla specifica definizione
in cui il pubblico deve garantire quei beni che per loro natura devono essere accessibili a tutti i membri della comunità, e anzi ne caratterizzano la stessa identità, e per
privato intendiamo quella varietà di organizzazioni che
producono beni singolarmente appropriabili e quindi definiscono, generando risorse, la stessa dinamica della società. Consideriamo allora innovazione e territorio i principali fattori di questa dinamica sociale, ma vi aggiungiamo anche i diritti e doveri dei cittadini e la capacità di
questi di generare risorse per la società stessa. Possiamo
così individuare quattro ambiti rilevanti per la nostra ri-
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VECCHI In questo processo è
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pubblico-privato: forme di interazione in evoluzione
flessione. Il primo ambito, territorio-cittadinanza in cui
si sviluppano politiche di welfare, il secondo ambito, cittadinanza-innovazione in cui si sviluppano le politiche
educative, il terzo ambito, innovazione-risorse, è quello
della ricerca, dello sviluppo produttivo, delle nuove iniziative economiche, e infine il quarto, risorse-territorio,
in cui si devono radicare le iniziative sviluppate negli ambiti precedenti in un sistema territoriale che sia però reso
accogliente e ricettivo alle politiche di crescita. In questi
quattro ambiti la cooperazione pubblico-privato non è
solo necessaria, ma diventa il modo in cui si realizza e
viene gestita la stessa crescita e, nel lungo periodo, la
stessa qualità della vita dei cittadini.
Innanzitutto nell’area del welfare la cooperazione tra
pubblico e privato si sviluppa generando condizioni di inclusione sociale, per non disperdere l’unità della comunità locale ed evitare un’area di conflitto ai suoi margini. Diviene perciò essenziale promuovere e sviluppare soggetti
associativi, volontari, partecipativi e capaci di generare
coesione dal basso e garantire resilienza sociale in presenza di choc esterni. Lo abbiamo visto in Emilia nei giorni del terremoto. Il territorio non sarebbe stato in grado
di reagire rapidamente in termini sia di emergenza sia di
ricostruzione senza l’immenso sforzo dei tanti diversi circoli di “volontariato esperto” che strutturano la realtà locale. Qui, io credo, il primo ambito di cooperazione PP
deve essere proprio rivolto a promuovere quel “volontariato esperto” che copre situazioni molto diverse fra loro,
dall’assistenza e tutela in situazioni di svantaggio sociale,
più o meno gravi, fino a quelle attività culturali che costituiscono in molti casi un collante essenziale delle comunità locali. Nei molti casi di disagio sociale la capacità di
promuovere soggetti terzi, né pubblici né privati, ma comunitari, diviene un elemento essenziale per consolidare la società e rendere la comunità locale più densa, più
solida, più articolata e complessa. Nella nostra prospettiva, tanto più il disagio è “socializzato” – cioè gestito nell’ambito di organizzazioni sociali – tanto meno il disagio
è sanitarizzato, cioè gestito da strutture sanitarie. Questo
vuol dire che l’intervento delle strutture ospedaliere può
ridursi al minimo necessario, essenzialmente le emergenze e le acuzie, lasciando alla varietà delle strutture sociali, in accordi PP, i bisogni di accoglienza, assistenza,
accompagnamento, aiuto a chi si trova in condizioni
svantaggiate. Egualmente negli ambiti educativi vi è la
possibilità di delineare sistemi integrati PP che nell’insie-
90
me possano plasmarsi su realtà sempre più complesse.
Nell’esperienza emiliano-romagnola la via di sistemi educativi integrati è ormai consolidata da vent’anni, in particolare nelle scuole dell’infanzia. Da parte nostra credo
che oggi sia particolarmente rilevante l’esperienza di integrazione nelle scuole professionali. La nostra legge n. 5
del giugno 2011 dispone che il primo anno della scuola
professionale sia unitario per gli istituti statali e per i centri di formazione privati, per poter delineare i percorsi
personalizzati che portino poi a proseguire verso il corso
quinquennale di diploma o verso il percorso triennale di
qualifica. Anche in questo caso vi è un accordo tra un soggetto pubblico (gli istituti professionali di Stato, cioè dipendenti dal governo nazionale), un soggetto privato (i
centri di formazione, generalmente emanati da associazioni imprenditoriali o da enti religiosi, quindi soggetti
comunitari) e un pubblico, la Regione che qui gioca il
ruolo di regolatore, a testimonianza di una geometria
non sempre scontata tra i diversi attori. L’altra azione condotta dalla Regione Emilia-Romagna in campo educativo
è la creazione della Rete Politecnica, con gli istituti tecnici superiori, corsi post-diploma, di livello terziario, cioè
universitario non accademico, creati come fondazioni di
diritto privato, coinvolgenti fin dall’inizio almeno un istituto professionale, un centro professionale, un’università, un’istituzione locale, un’impresa. Le dieci fondazioni
create in Emilia-Romagna sono a loro volta associate in
una Rete Politecnica che ne gestisce le azioni comuni.
Tale azione viene finanziata dalla Regione con fondi europei, dimostrando come i rapporti PP richiedano una
progettazione sempre più complessa, così da garantirne
la sostenibilità nel tempo. La possibilità di strutturare relazioni PP diviene oggi elemento competitivo tra territori. La case-story di Berluti mi sembra a tal proposito rilevante. Louis Vuitton, la multinazionale leader nel settore
dei beni di lusso, decide di entrare nel segmento top delle
calzature da uomo. Per questo acquisisce il marchio Berluti, da posizionare sopra i marchi Vuitton e Marc Jacob,
già posseduti, ma necessita di un sito per fabbricare prodotti di una così alta gamma e quindi di una così alta qualità manifatturiera. Viene individuata la città di Ferrara,
dove in passato diversi calzaturifici artigiani erano falliti.
Individuati alcuni maestri artigiani è stata avviata, d’intesa fra Regione e impresa, una scuola di mestiere, per formare i duecento nuovi calzolai che produrranno questi
prodotti di alta fascia, mentre con Comune e Provincia
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veniva siglato un accordo per la costruzione del nuovo
impianto, che costituirà l’headquarters dell’impresa, operante a livello globale. La capacità di strutturare e gestire
relazioni PP diviene oggi cruciale per risolvere grandi
problemi nazionali: per esempio, non si riuscirà a mettere in sicurezza il sistema scolastico nazionale, ricostruendo scuole antisismiche e energy-saving, senza una nuova
modalità di relazione PP che coinvolga
diversi soggetti, fra loro diversi ma complementari. Bisognerà costituire fondi
immobiliari, a cui i Comuni dovranno
conferire le scuole da dismettere, in
cambio delle nuove scuole sicure. Una
tale operazione richiederebbe uno straordinario sforzo progettuale e organizzativo, per realizzare il quale bisogna
formare manager capaci e sensibili, essenziali per realizzare accordi effettivamente sostenibili nel tempo. In conclusione, una società complessa, coesa e dinamica genera sviluppo, ma tale società
va costruita consolidando relazioni tra
tutti i soggetti, pubblici e privati, che strutturano le comunità locali, per la realizzazione delle quali occorrono capacità e competenze attentamente formate. Il ruolo della
scuola, delle università, della formazione permanente è
cruciale in questa fase di necessario rilancio del nostro
paese, e quindi la riflessione qui avanzata è doppiamente rilevante, perché segnala una via per consolidare la nostra comunità nazionale, “serrandone le fila”, ma nel contempo ne evidenzia il bisogno essenziale, strategico, di
una scuola per gestire relazioni più avanzate, per ritessere la trama e l’ordito del nostro tessuto sociale.
focus>forum
e cambiamento, e come forma di risposta alla crisi, e la necessità di supportare lo sviluppo dei possibili modelli di
collaborazione attraverso l’individuazione di nuove competenze e di nuove professionalità, anche con la sperimentazione, l’analisi e la disseminazione di casi di successo, su cui sia gli operatori pubblici sia quelli privati possano fare leva. In particolare, lo sviluppo di competenze
BRUSONI E VECCHI Questo confronto ha
messo in evidenza come le collaborazioni
pubblico-privato stiano assumendo un ruolo pivotale nei
processi economici e sociali e, soprattutto, che il loro assetto deve essere di volta in volta plasmato in modo da
adeguarsi al bisogno cui dare risposta, quindi con modalità molto diverse le une dalle altre. Benché la prospettiva
dei nostri interlocutori abbia sviluppato l’analisi del modello di collaborazione o della dimensione a loro più familiare, sembrano emergere alcuni tratti comuni. Tra questi
riteniamo particolarmente significativi gli aspetti che
identificano le collaborazioni come veicolo di innovazione
deve riguardare pubblico e privato. Anzi, proprio percorsi
di formazione congiunti e applicati a situazioni concrete
potrebbero facilitare il processo di coevoluzione e conoscenza reciproca. La raccolta e lo studio (inclusa la misurazione delle performance) di casi di successo, o comunque di casi in cui la collaborazione, per valutazione di tutti
i soggetti coinvolti, ha funzionato e ha generato valore, e
la loro successiva disseminazione, è un processo fondamentale per creare evidenze utili all’attrazione di operatori privati e a stimolare i policy maker nella definizione di
un ecosistema (regole ma anche cultura) che sia in grado
di accogliere e sostenere queste forme di collaborazione.
L’avvio della nuova programmazione dei fondi comunitari rappresenta sicuramente un primo banco di prova per
sostenere in modo sostanziale forme di collaborazione innovative, non solo come integrazione di risorse finanziarie (pubblico-privato) ma anche e soprattutto come ambito in cui sperimentare modelli evoluti di partnership, specie con riferimento a ricerca e innovazione, mercato del
lavoro, educazione, servizi socio-sanitari. È interessate
notare come dagli esempi siano emerse differenti “categorie” di pubblico e di privato coinvolte nelle collaborazioni. Nell’ambito pubblico è importante riconoscere il ruolo
giocato dai differenti livelli di governo (Unione Europea,
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Sperimentazione, analisi,
disseminazione di casi
di successo e percorsi di
formazione congiunti possono
facilitare la conoscenza
reciproca e l’innovazione
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economia & management 4 - 2013
pubblico-privato: forme di interazione in evoluzione
Stato, Regione, Comune) e soprattutto fare in modo che
il flusso (di risorse, potere, informazioni) tra i diversi livelli sia adeguato a sostenere le diverse forme di collaborazione. È indubbio che l’interazione e le partnership con
gli operatori privati richiedano chiarezza di regole e ruoli.
Se così non è, il privato si allontana dal pubblico e si manifesta un rischio elevato di non capitalizzare le esperienze positive, addirittura di distruggere risorse e disperdere
fiducia. Una diversità di ruoli si è vista anche nel settore
privato. Gli esempi citati hanno evidenziato l’esistenza di
privati “differenti”, ai due estremi: da un lato quello totalmente non profit, come le associazioni espressione della
società civile, e dall’altro quello tradizionale for profit.
Negli ultimi anni si sta affermando una terza tipologia,
l’impresa sociale, che combina generazione di valore sociale e finanziario e proprio grazie a questa minor tensione alla performance finanziaria (che non significa inefficienza) è in grado di sperimentare nuovi modelli e ap-
procci alla creazione di valore sociale. È quindi importante riconoscere quale di queste tipologie di privato, in funzione dei diversi ambiti di riferimento, può essere più
adeguato a fare sistema con il pubblico per creare valore
condiviso, in modo sostenibile, e quale tipologia di “competenza pubblica” è necessario sviluppare perché si instauri un rapporto proficuo che mantenga e valorizzi le
diversità.
Il Topic sulle collaborazioni pubblico-privato nell’ambito
della Bocconi Alumni Association e il neonato Osservatorio sull’Impact Investing realizzato da SDA Bocconi e
Fondazione Oltre si propongono di costituire i due ambiti in cui rendere stabile e costruttivo un continuo confronto, l’analisi e discussione di casi concreti da cui apprendere e, se possibile, estendere a un più ampio contesto e uditorio la proposta di modelli di approccio a problematiche ricorrenti ed emergenti nello scenario nazionale e internazionale. π
QUESTO FORUM È STATO PROMOSSO DA TOPIC sulle collaborazioni pubblico-privato della Bocconi Alumni Association.
I
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l Topic sulle collaborazioni pubblico-privato della Bocconi Alumni Association si pone l’obiettivo di essere punto di incontro,
confronto e riflessione per discutere e mettere a sistema, sulla base delle esperienze concrete più significative e dello “stato
dell’arte” della letteratura esistente, modelli di collaborazione che hanno generato valore. Inoltre l’obiettivo è capire come può
essere misurato questo valore e quindi riflettere sulle condizioni di scalabilità e replicabilità delle iniziative di successo, con
l’idea di cercare di contribuire a spostare in avanti, verso nuovi settori/modalità di cooperazione la “frontiera” della collaborazione pubblico-privato.
Riccardo Aimerito co-fondatore e partner di ERA ed ERA Kapital, Topic Leader del gruppo di lavoro (Topic) della Bocconi
Alumni Association (BAA) sulle collaborazioni pubblico-privato per la creazione di valore condiviso
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