Monografia sulla scrittrice

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Monografia sulla scrittrice
Prime prove
Ai primi di gennaio del 1964, Giovanna Righini Ricci riceve
una lettera che attendeva con trepidazione. Il mittente è una
personalità di tutto riguardo. Lo scrittore Francesco Serantini le comunica un messaggio appena ricevuto da Giovanni
Spadolini, direttore de Il Resto del Carlino il quale faceva
sapere “che il Suo racconto oltre che sul Carlino Sera, apparirà contemporaneamente su Nazione Sera di Firenze”2.
Qualche giorno dopo, l’incontro con il grande pubblico: i
lettori del quotidiano più diffuso in Emilia Romagna, leggono per la prima volta sulla terza pagina una colonna firmata “Giovanna Ricci”, allora da poco insegnante di lettere
in una scuola media di Milano.
Il racconto in questione, Il nonno, è una breve novella di
schietto sapore autobiografico, che vede protagonista l’avo
paterno della scrittrice e che un mese prima, con il titolo Nel
Cavo della mano, aveva vinto il concorso letterario dell’associazione bolognese “Famiglia Romagnola”. A presiedere
quella giuria troviamo proprio lui, l’anziano Francesco
Serantini, il celebre autore di tante storie romagnole già
all’apice della sua fortuna letteraria, il quale, a tal punto
conquistato da quelle pagine, ne aveva finalmente sollecitato la pubblicazione su Il Resto del Carlino, del quale egli
stesso era assiduo collaboratore.
Il nonno offriva ai lettori un incisivo ritratto di quel mondo
rurale della bassa Romagna, in provincia di Ravenna, dal
quale Giovanna Righini Ricci proveniva. In quella campagna, a Lugo di Romagna, nella borgata di San Bernardino,
l’autrice era nata il 7 settembre 1933, in una famiglia di
modeste condizioni. di professione mezzadro, il padre
sapeva tuttavia leggere, scrivere e all’occorrenza anche recitare poesie; e non mancava neppure, in casa Ricci, una piccola biblioteca di famiglia, dove, accanto alla letteratura
rosa, non mancavano omero, Hugo, Manzoni, Maupassant.
Nella vicina Conselice, Giovanna Ricci frequenta con profitto le scuole elementari e medie. durante la guerra, con
un comando tedesco insediato nella loro abitazione, i Ricci
vivono il loro momento più difficile, ma ne esce fortunatamente indenne. Il successo scolastico ben presto inizia a
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marcare la diversità di Giovanna da quel mondo rurale
dove i figli per lo più intraprendono il mestiere dei padri,
per scoprirne un altro incantato e dal richiamo irresistibile:
la lettura. Molti anni più tardi lei stessa avrebbe rievocato
quei momenti con queste parole: “mi immergevo nella lettura circondata da un bel numero di mele. Quando il libro
era finito, il sole declinava già verso l’orizzonte e i torsoli
disseminati per terra intorno a me rivelavano quanto quella
lettura fosse stata divorante”3.
Al periodo liceale - Giovanna Ricci consegue la maturità
classica a Lugo nel 1953 - risalgono (accanto alle prime letture di Maupassant e di Giorgio Scerbanenco) anche le
prime prove di scrittura. Il suo primo romanzo inedito è un
genuino autoritratto della giovane scrittrice, dove Giovanna
si specchia nella protagonista, Anna, una ragazza desiderosa di istruirsi per occuparsi dei bambini e dei ragazzi.
Abbandonato il sogno di diventare medico pediatra – il
corso di studi sarebbe stato troppo oneroso per la famiglia
– Giovanna Ricci si iscrive alla facoltà di lettere: a Bologna
si laurea con lode nel 1957 con la tesi “Motivi psicologici
nelle novelle di Maupassant”, lavoro che per certi aspetti
va considerato come il primo manifesto programmatico
della sua attività di scrittrice.
Si consuma intanto il distacco dalla Romagna e dalla famiglia. Giovanna Righini Ricci si sposa nel 1958 e si trasferisce
a San donato Milanese. Qui, qualche anno più tardi, entra
come insegnante di lettere nella nuova scuola media, esito
di una storica riforma dell’obbligo scolastico. Intanto scrive
e pubblica brevi racconti: esordisce nel 1959 con L’ombra dei
sogni, che compare nell’ antologia Poeti e novellieri di oggi e
di domani.
Ben prima del gennaio del 1964, Giovanna Righini Ricci
aveva tuttavia ricevuto, oltre a quello di Serantini, un altro
autorevole incoraggiamento. Il racconto Nel cavo della mano,
che risale al 1962 e appare poco dopo anche sulla prestigiosa rivista di cultura romagnola “La Piè”, diretta da Aldo
Spallacci, viene inviato anche al settimanale “Amica” che
lo pubblica in una sua rubrica. Questa volta è dino Buzzati,
che presiedeva la giuria della rubrica letteraria, a lodarne
la semplicità e la precisione, qualità che “bastano per capire
che è sulla strada giusta”4.
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L’anima del racconto rivela una personalità letteraria ormai
ben definita, come del resto risulta evidente nel giudizio
finale di Nel cavo della mano redatta dalla giuria del premio
della Famiglia Romagnola: “Nel cavo della mano. Una
pagina autobiografica lineare, semplice, schietta nella sua
naturale immediatezza, pura di fronzoli e di orpelli. La
famiglia contadina, con i suoi marmocchi scalzi e mocciosi,
le donne taciturne e alacri, l’ardore autoritario e rude, la
campagna col suo verde, le sue nevi, il pulsare della mietitura e il letargo gelido dell’inverno, tutto è sentito e rappresentato con accenti commossi e colori smaglianti da una
penna che ubbidisce docile ed elastica alla immaginazione
di una mente capace di sentire profondamente e di rendere
con pienezza di intuito ciò che vede e che, a distanza di
tempo, la fa ancora fortemente vibrare. All’autrice non
difettano ali per ben più alti voli”5.
da questo momento la biografia letteraria di Giovanna
Righini Ricci conosce l’avvio di una intensa stagione narrativa. Le già solide motivazioni che inducono Giovanna a
raccontare il proprio mondo (e a raccontarsi) ricevono ora
nuovi e decisivi impulsi dalle amicizie letterarie strette negli
ambienti della Famiglia Romagnola. Accanto al sodalizio
con Francesco Serantini (di alcuni suoi romanzi Giovanna
Righini Ricci curerà anni più tardi l’adattamento scolastico)
troviamo il nome meno noto di Paolo Lorenzetti, critico letterario, preside di liceo e principale animatore della Famiglia Romagnola, che giocherà un importante ruolo di
mentore in questa prima fase della biografia letteraria di
Giovanna. è lui a pronosticare ampie fortune all’autrice in
campo narrativo, a vedere in lei “una Grazia deledda romagnola dotata dello stesso senso di realismo e dello stesso
spirito di osservazione” a volere che il talento di Giovanna,
“alla quale non difettano ali per ben più alti voli” fosse riconosciuto oltre la cerchia della Famiglia Romagnola.
E i frutti che maturano in questo periodo a San donato
Milanese sono i numerosi racconti, fra cui vari inediti, scritti
fra il 1963 e il 1966 periodo nel quale prende corpo anche la
prima idea del romanzo Nel cavo della mano, che rappresenta
lo sviluppo tematico del racconto d’esordio Il nonno. Ecco
allora uscire dalla sua macchina da scrivere i rapidi ma
intensi scorci narrativi: Ziridoni, Alle acque, Nebbia e Canapi-
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na, e altri racconti brevi come Spartire il pane, Angeli di terra,
L’ultimo Barbanera, Sosta alla casa paterna, Le vittorie di Pirro.
Accanto alla guerra partigiana, anima e sfondo di alcuni di
questi primi racconti, vive lo scenario di una Romagna
ancora agricola e contadina ma che tuttavia comincia ad
avvertire le inquietudini dei tempi nuovi. Nella sua scrittura, costruita sull’idea che ogni tema può giungere all’espressione artistica purché riviva compiutamente nella coscienza
dell’autore, la tensione nostalgica e il sapore autobiografico
rievocano un microcosmo rurale che con il passare del
tempo, appare sempre più irriconoscibile di fronte alla
nuova civiltà urbana che avanza. Il tema attorno al quale la
scrittrice orchestra le sue variazioni è il senso di alcune
vicende umane e sociali tipiche degli anni Cinquanta e Sessanta, vicende segnate dallo sradicamento che domina la
psicologia dei personaggi, pervade la descrizione dei luoghi
e prende corpo nei dialoghi serrati e intensi: “Vecchi come
siete chi si prenderà cura di voi, se vi ammalate? I vicini?
Ma quali vicini, se il paese è a cinque chilometri e le case
dei contadini nei dintorni sono tutte abbandonate?! d’inverno poi, in questa casupola sparsa senza luce elettrica!
Intorno terra e terra! Ci siete rimasti soltanto voi”6.
Così si apre un’altra storia, L’ultimo Barbanera, dove l’autrice
racconta il congedo dalla terra, il dilemma fra città e campagna, la sconsolata e amara rassegnazione dei due anziani
protagonisti, che dopo ostinate resistenze i figli convincono
a trasferirsi in città. Nella nuova casa, sotto “un cielo sporco
di antenne e di camini”, anche il Barbanera, il tradizionale
lunario contadino, resta ormai l’inutile simbolo di un
mondo tramontato per sempre. Ma è in Le Vittorie di Pirro
che il contrasto generazionale assume i toni più sofferti. Qui
il distacco dalla campagna e dalla famiglia d’origine è vissuto dal giovane protagonista come trasgressione, insofferenza e prepotente bisogno di fuga. Lo sradicamento
diventa negazione esistenziale: “per mia madre, dal
momento che avevo lasciato la campagna, la mia casa, mi
ero perduto per sempre, sradicato, legna da ardere”7.
L’inquietudine di Pirro, la sua vita errabonda in una Roma
anonima e grigia, si dipana in un tormento irrisolto che
l’autrice riesce a rappresentare in una brillante prova di
analisi psicologica. di diverso segna ma senza concessioni
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al lieto fine, Angeli di terra narra la storia di Lillo, un orfano
di guerra, dove la descrizione psicologica e quella naturalistica rievocano l’infanzia irrequieta del personaggio che
nelle pagine finali, torna a visitare i luoghi della fanciullezza ormai irriconoscibili. Infine ritroviamo l’autrice protagonista in Sosta alla casa paterna, intensa e delicata pagina di
diario estivo. Il legame affettivo con le radici è qui ambivalente: intenso ripiego nostalgico e nello stesso tempo sorgente di slancio vitale e di forza interiore, accettazione del
presente con “l’abito e la grinta di sempre”.
Lezione di stile
Queste opere denotano anzitutto una indubbia maturità stilistica dell’autrice, frutto del suo talento, dei suoi studi e
delle sue interminabili letture. Vale qui la pena soffermarsi
sul fatto che l’autrice ha assimilato la lezione di Maupassant, in primo luogo quel realismo psicologico che ha reso
inconfondibile lo scrittore francese e tanta parte della letteratura di quel paese, che Giovanna amava e della quale
aveva una profonda conoscenza. Maupassant rappresenta
il grande maestro, nel dare voce narrante ai sentimenti e alle
pulsioni umane; in secondo luogo, nell’opera complessiva
dello scrittore francese, la problematica psicologica trova la
sua espressione più compiuta nelle novelle. L’autrice la sintetizza efficacemente in una frase - “La psicologia di Maupassant novelliere è tutta nell’azione” - un principio
narrativo che Giovanna farà interamente proprio.
Nelle novelle, l’autore rivela lo stato d’animo dei personaggi, la loro psicologia e la sua abilità letteraria consiste nel
farlo “indirettamente”: gli stati della mente vengono rappresentati descrivendo l’agire dei personaggi, i vari aspetti
del loro comportamento: il linguaggio, i loro gesti, le posture del corpo, i dati fisici caratteristici, ecc. Anche il paesaggio, l’ambiente naturale rispecchia in Maupassant
l’universo psicologico: “sfondo naturale, animali, cose vivono dello stato d’animo e della sensibilità del protagonista,
prendono luce e colore dai suoi sentimenti, si illuminano
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della sue gioie, si piegano tristi e sommessi al suo dolore”.
Per quanto estimatrice del suo stile, Giovanna Righini Ricci
(che vale la pena ricordarlo è una insegnante di idee progressiste) non condivide tuttavia la concezione della vita,
improntata ad un pessimismo radicale, che Maupassant
riversa a piene mani nelle sue opere. Né tanto meno è
disposta ad accogliere la concezione della donna. Il grande
errore psicologico di Maupassant consiste nell’aver visto
nella donna: “solo l’essere odioso, voluto dalla natura per
la procreazione dei figli oppure l’oggetto di lusso, lo strumento del piacere. Egli che era tanto profondo in fatto di
psicologia non ha mai capito la donna e non ha mai cercato
di indovinare la sua vera natura, egli che nella sua analisi
fu sempre così poliedrico seppe vedere un solo tipo di
donna”8.
Nei Motivi la nostra autrice matura la scelta definitiva del
proprio stile narrativo: una sapiente economia espressiva
capace con “un solo termine di mostraci tutto il personaggio nel quale e attraverso il quale l’autore parla vive sente
gioisce soffre”. L’interesse per Maupassant sarà del resto
ricorrente nella sua attività letteraria: basta ricordare la traduzione di alcuni suoi racconti adattati per la scuola media
(L’avventura di Walter Schnaffs e altre novelle), su indicazione
della casa editrice, i riferimenti all’autore che si ritrovano
nei suoi scritti e nella corrispondenza con i suoi giovani lettori.
Nel cavo della mano
“La nostra era una famiglia numerosa, con tanti zii, tanti
fratelli. A quel tempo si abitava nella vecchia casa di via
Lombardina, dalle pietre corrose dal tempo. Eravamo una
grande famiglia, con tanti zii e tanti nipoti. Comandava su
tutti nonno tranquillo, gran lavoratore… Nessuno dei suoi
figli, neppure mio padre osava alzare la voce contro di lui,
nemmeno mio padre. Noi ragazzi si andava a lucertole, a
nidi o al fiume, e ci si divertiva un mondo a camminare sui
sassi del greto: un sasso scivolava, si perdeva l’equilibrio e
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si finiva allegramente nell’acqua chiara, con gli zoccoli e i
calzini sbrindellati. A mezzogiorno, nonna Tugnina ci chiamava a perdifiato: arrivavamo affamati, attraverso le stoppie, incuranti delle brucianti punture che poi, con calma,
fasciavamo con una foglia fresca. Nonna Tugnina dava a
ognuno una scodella e un cucchiaio; e tutti a mangiare,
seduti sui gradini della scala, un pezzo di pane in tasca e la
scodella sulle ginocchia. Quando la porta si apriva, ci arrivava il vociare dei grandi che mangiavano alla tavola. Su
tutto il frastuono si levava, imperiosa, la voce del nonno”9.
L’incipit de Il nonno è lo stesso del romanzo Nel cavo della
mano, pubblicato nel 1970. A quelle parole d’esordio la scrittrice resterà fedele fino alla riedizione dell’opera con il titolo
Un pugno di terra, nel 1982, adattata per i giovani lettori
della scuola media ma senza sostanziali variazioni. Quando
esce Nel cavo della mano, opera finalista al Premio Settembrini nel 1971, l’autrice è peraltro ormai un nome affermato
nella letteratura per ragazzi, avendo al suo attivo due
romanzi (Le cicale, Il segreto della Cisa) e una raccolta di racconti.
Giovanna Righini Ricci scrive Nel cavo della mano a San
donato Milanese e rievoca la sua Romagna rurale mentre
dalla finestra vede la campagna lombarda soccombere alle
fabbriche, alle strade e a interi quartieri. Come un organismo dotato di vita propria, il breve ritratto familiare pubblicato su “Il Resto del Carlino” è così lievitato in una vera
e propria galleria di personaggi. Ventisette episodi rapidi e
incisivi compongono un disegno narrativo in cui l’autrice
racconta l’infanzia trascorsa in Romagna. Piccolo come “un
pugno di terra nel cavo della mano” dentro lo sguardo della
memoria ma senza confini nell’originario vissuto infantile,
il microcosmo di via Lombardina, è il paradiso perduto
dove una variopinta messa in scena di caratteri e tipi
umani, anima lo spazio della memoria.
La scrittrice consegna ai suoi lettori il suo album di famiglia
fatto di personaggi in azione, descritti con pochi ed essenziali tratti. Libro della memoria e romanzo autobiografico,
dove si alternano la commedia e il dramma, l’idillio e
l’asciutto realismo, restituisce “il quadro di una piccola
società patriarcale dove vicende, passioni, sentimenti e
dolori seguono il ritmo delle stagioni”10.
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Il caleidoscopio di volti episodi e vicende, dove uomini,
donne e bambini vivono immersi in una religiosa comunione con la terra “che è la loro ragione di esistere”, ruota attorno a nonno Tranquillo, il patriarca autorevole, che accanto
a nonna Tugnina, è il personaggio onnipresente nel libro,
simbolico di un mondo ormai tramontato, insieme ai tanti
personaggi carichi di umanità”.
“Un microcosmo grezzo ma perfetto” dove, accanto ai familiari, colorano il racconto le figure del villaggio rurale; dal
calzolaio alla cucitrice, dal barrocciaio al venditore di cocomeri, al parroco. Tra di essi spiccano l’eccentrico ziridoni
sul quale circolavano le più fantasiose leggende.
“Godeva fama di stregone e quando passava per le stradette di campagna qualche vecchia superstiziosa si segnava,
furtivamente. Noi bambini invece ci fermavamo incantati
davanti alla sua bicocca a contemplare le starne cose sparpagliate nel cortiletto: bambole dalla faccia nera, mostruose,
appese ad una trave che oscillavano come impiccate,
segnando ogni variazione del tempo; pietre sepolcrali, raccolte nei cimiteri; ampolle allineate al sole, lungo il muro,
piene di liquido nero che vibrava appena, quando vi saettava sopra una lucertola; sedie spagliate, bigonce senza
fondo, poltrone sdrucite e stracci sparsi ovunque fra la gramigna”11.
Nel cavo della mano è una saga famigliare che restituisce il
ritratto semplice e genuino della madre, descritta nei suoi
gesti umili di lavoratrice fra le mura domestiche, e nei
campi: “la vedevo solo la sera quando mi lavava i piedi e
mi metteva a letto. Mia madre faceva il bucato di notte. Si
muoveva leggera dal paiuolo al mastello; il lanternino a
petrolio che reggeva con una mano, gettava lunghe occhiate
gialle attorno”12. Un’altra figura femminile è Canapina, una
giovane contadina “dai fianchi sodi e dagli occhi arditi” che
respinge con coraggio e fermezza le attenzioni morbose del
torbido Nebbia, lo sfaticato del paese.
Si tratta di persone realmente esistite, che la poetica neorealista di Giovanna Righini Ricci trasforma in personaggi letterari attraverso pagine che descrivono fedelmente la civiltà
contadina romagnola fra gli anni trenta e Quaranta. Il viaggio nella memoria rievoca quel mondo con le sue stagioni,
i suoi riti, le sue superstizioni, i suoi lavori (la mietitura, la
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vendemmia, la cottura del pane, la fienagione), come pure
i valori di fondo: la solidarietà, il senso di appartenenza alla
comunità, la sacralità della famiglia, dove gli anziani contano davvero e a quali si doveva il massimo rispetto13. Ecco
perché Nel cavo della mano riveste un certo interesse anche
dal punto di vista antropologico (folclorico), documentando
un repertorio di consuetudini, credenze popolari. Più di un
commentatore ha colto “l’invenzione poetica” che pervade
queste pagine dove il sentimento della terra natale raggiunge la sua espressione più compiuta come in nessun’altra
opera della scrittrice.
Quello di Giovanna Righini Ricci è un linguaggio sereno e
senza lacrime, che scorre nel piacere di narrare e che vede
nella memoria una risorsa indispensabile per proseguire il
viaggio nella storia da protagonisti consapevoli. La letteratura diviene così una forma di comprensione storica – della
storia personale e di quella collettiva – che rifugge sia da
un ripiego in un passato magari rassicurante sia da una
accettazione acritica del progresso, di quella modernizzazione che ha investito paesi, città e campagne d’Italia negli
anni Cinquanta del secolo scorso14.
La Romagna tra memoria e autobiografia
Prima a Milano poi a Torino, Giovanna Righini Ricci trascorre anni di feconda creatività nella sua carriera di autrice
e insieme di educatrice. Nel frattempo a Nel cavo della mano
si sono aggiunti altri libri come Verdi Battaglie, Il ballo delle
cicale e Incontri d’estate, che gli valgono i primi significativi
riconoscimenti nel campo della letteratura giovanile. Giovanna Righini Ricci pubblica inoltre alcuni testi scolastici
innovativi sul piano pedagogico, in primo luogo nel campo
dell’educazione sessuale, e poi nelle materie di italiano, storia, educazione civica.
Come insegnante (ed esperta di psicologia adolescenziale)
partecipa attivamente ai fermenti innovativi che investono
la scuola dell’obbligo dopo l’istituzione degli organi collegiali. Nelle scuole medie i suoi libri di narrativa sono secon-
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di solo a I Promessi Sposi, primo fra tutti Le scapole dell’angelo,
il libro del 1973 che raggiungendo una tiratura di ottocentomila copie e una permanenza nelle scuole di oltre 35 anni,
ha dato alla scrittrice una indiscussa notorietà in campo
nazionale.
Eppure la sua vena creativa tanto prolifica non poteva convivere a lungo con i gravosi impegni scolastici. Così, agli
inizi degli anni ottanta quando Un Pugno di terra, attraverso
le scuole, arriva nelle mani dei giovani lettori, l’autrice, ora
residente a Bologna, ha da poco lasciato l’insegnamento per
dedicarsi interamente alla letteratura giovanile. Finalmente
può girare l’Italia per incontrare il pubblico dei suoi lettori.
Sono per lo più le scuole medie ad invitarla per parlare con
i ragazzi di un suo libro. Fra le pagine della fitta corrispondenza che ne nasce, anche Un pugno di terra riscuote interesse da più parti premiando lo stile dell’autrice, il suo
realismo psicologico, che consiste nel raccontare l’universo
interiore attraverso il linguaggio delle cose.
Il romanzo della memoria, che rievoca a tinte vivaci il
mondo rurale del passato, che a noi “moderni” appare “così
piccino da potersi chiudere in un pugno di terra, stretto nel
cavo di una mano”, riesce dunque a parlare anche ai ragazzi
degli anni ottanta e Novanta. Un pugno di terra ha evidentemente ancora molto da dire anche in quegli anni, come
del resto oggi, allorché la civiltà contadina, morta e sepolta,
è divenuta un oggetto di culto per musei e sagre cittadine.
Su che cosa invita a riflettere il romanzo autobiografico
della scrittrice? Certamente, sul rapporto fra le generazioni,
sui mutamenti sociali del secondo dopoguerra, sul rapporto
con le radici, sul valore del legame con la propria terra (e
con la terra tout court).
Qui, come in altri romanzi, il messaggio forte ai ragazzi è
l’invito a mantenere vivi i legami con la propria cultura
d’origine, che se correttamente intesa e vissuta, rappresenta
una risorsa importante per la crescita personale tanto più
in una società in cui lo sviluppo industriale tende a reciderli
e ad indebolirli.
Queste pagine, in definitiva, non fanno altro che anticipare
uno dei temi ricorrenti della sua opera narrativa, dove il
legame con la terra d’origine, solitamente problematico, si
ripropone ai giovani protagonisti in contesti sociali e geo-
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grafici assai lontani dalla Romagna di Un pugno di terra.
Numerosi sono infatti i personaggi dei suoi libri che si trovano ad affrontare l’esperienza dello sradicamento e che
meritano qui una breve digressione.
è così per Lorenzo, il protagonista di Le scapole dell’Angelo
(1973) - e la sua esperienza si può accostare a quella di
Maria Rosa in Le cicale - un ragazzo da poco immigrato nella
Milano del miracolo economico, ma che fatica a liberarsi da
una paralizzante nostalgia per l’infanzia vissuta nel paese
del sud, che gli impedisce di guardare avanti. Si tratta di un
sentimento malinconico che svanisce solo quando il ragazzo riesce ad inserirsi in modo partecipe e consapevole nella
nuova realtà, dove in fondo egli è chiamato a costruire la
propria esistenza insieme ai familiari e agli amici. durante
una visita ai nonni, oltretutto egli si accorge che anche il
paese natale non è più il luogo idilliaco di un tempo, che
anche laggiù modernità e progresso hanno cambiato il paesaggio, le abitudini e la mentalità della gente.
Lo sradicamento può essere allora il prezzo da pagare per
realizzare i propri sogni? Non la pensa così il giovane tuareg Hassan - in Il sogno di Hassan (1985) - un’altra figura di
immigrato, questa volta dal Marocco, che affronta ogni
sorta di peripezie, prima di coronare il suo sogno, quello di
tornare in patria, sposarsi e aprire un ristorante a Marrakech. Sono infatti la sua profonda religiosità e la fede nei
valori della sua cultura d’origine, che gli infondono quella
forza d’animo che sarà valido scudo contro i colpi dell’avversa fortuna.
Sempre nel medesimo ambito tematico, diversa è invece la
vicenda di Aigle Noir, protagonista di una storia ambientata
in Canada in Alla fine del sentiero (1985), un altro esemplare
romanzo sul multiculturalismo dove la scrittrice non esita
a denunciare le ipocrisie della cultura dominante. Questo
giovane pellerossa ribelle vive il dramma dell’impatto della
sua gente, confinata nella riserva indiana, con la cultura tecnologica. Anch’egli, chiuso (solo) contro tutti nella difesa
ad oltranza della propria identità etnica, non fa che coltivare
l’utopia di un passato che non potrà mai più rivivere, incapace com’è di superare il muro di incomprensione che separa la sua gente dai cosiddetti “bianchi”. Anche Aigle Noir
appare come un disadattato che rifiuta di affrontare corag-
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giosamente il suo tempo, di conciliare l’antico con il nuovo.
Solo l’amicizia con Chiara, una ragazza italiana, lo convince
di essere arrivato alla fine di un sentiero ad aprirsi ad una
più matura consapevolezza.
L’amore per la terra, matrice di valori genuini - e motivo
ispiratore di una moderna coscienza ecologica - ha ispirato
a Giovanna Righini Ricci figure di anziani, descritte con
un’aura di simpatia e di ammirazione che l’autrice sembra
negare invece ai personaggi adulti, in particolare le madri
e i padri, figure spesso ansiose e vittime di pregiudizi.
Ecco allora che personaggi come il nonno Tranquillo e
Tugnina, diventano prototipi di altri indimenticabili ritratti
di anziani, primi fra tutti Gaspar, Briseide e papà Vatel in
Là dove soffia il Mistral (1985), il romanzo “ecologico”
ambientato in Francia nella regione della Camargue, del
quale parleremo. Anche qui, in uno scenario dove la natura
domina incontrastata l’autrice delinea due avi autorevoli e
saggi di una famiglia numerosa che comprende figli, generi
e nipoti. Sono loro, umili depositari della tradizione, ad
incarnare il senso più autentico della terra; mentre, nella
giovane protagonista del romanzo, Camilla, che più di altri
avverte il fascino di quell’ambiente selvaggio, è possibile
riconoscere la stessa autrice, che non di rado traspone in
ambienti esotici i motivi (aspetti) della propria autobiografia.
Meno legata alla tradizione è più interessata alla modernità
è invece la protagonista dell’ultimo romanzo dell’autrice, il
postumo In viaggio con la nonna (1997). Anche qui occupa la
scena una squisita figura, di nome Susanna, attiva, curiosa
e piena di energia, che tiene in pugno con savoir faire una
comitiva di nipoti durante una avventurosa vacanza estiva
a bordo di un camper. Qui Giovanna Righini Ricci, registra
un altro segno dei tempi e cioè il ruolo crescente che i nonni
svolgono nell’ educazione dei ragazzi accanto e spesso in
sostituzione, come vicari e/o supplenti, dei genitori.
Nei suoi libri, Giovanna Righini Ricci si è avventurata in
mondi lontani dalla sua Romagna; dalla Francia all’Egitto,
dal Canada al Marocco, dal Messico alla savana, ha offerto
ai suoi giovani lettori nuovi orizzonti da esplorare, altre culture con le quali confrontarsi e dialogare, inedite esperienze
di viaggio e di avventura. Si tratta di percorsi narrativi ani-
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mati da una corrente profonda che la scrittrice attinge dalla
memoria, dall’esperienza come dal proprio immaginario,
vale a dire quel “culto mistico della terra, che domina,
sovrano, tutto il paesaggio e sottolinea, commenta, risolve
ogni sensazione, ogni situazione”15.
è questo un motivo che ricorre con particolare intensità di
accenti nel romanzo Ombre sul Nilo (1990), ambientato in
Egitto. Nel finale della storia l’autrice sente intimamente
come proprie le parole messe in bocca alla protagonista,
Mary Beth, dopo una rischiosa avventura nel deserto e
l’idillio amoroso con il giovane arabo Khalil che l’ha liberata
dai rapitori: “io sola conosco la magia di questa terra, una
magia che mi canta dentro e che mi fa più ricca”.
dopo questo excursus nella produzione più tarda della
scrittrice torniamo ai mitici anni Sessanta, allorché Giovanna Righini Ricci si cimenta con altre e più impegnative sfide
letterarie.
Il rosmarino è fiorito
“Il rosmarino è fiorito”: la frase era uno dei tanti messaggi
in codice usato dagli alleati per comunicare via radio con i
partigiani durante la Resistenza per annunciare operazioni
di sostegno militare e logistico. Certamente udita durante
la sua infanzia conselicese, quella frase diviene il titolo di
un racconto che nel 1965 vince il primo premio al concorso
“Resistenza Vado Ligure” (al quale avevano partecipato 150
autori), pagine che ricevono anche il plauso di Gianni Rodari, membro di quella giuria16.
Il racconto narra la vicenda di Cesare, il giovanissimo protagonista che, spiando di nascosto una riunione partigiana
nella casa paterna viene a conoscenza di una informazione
segreta. Sarà l’ansia di comunicare la scoperta che ben presto lo coinvolge nella lotta clandestina accanto al padre. Ciò
che qui anzitutto importa sottolineare è che con Il rosmarino
è fiorito Giovanna Righini Ricci debutta nella narrativa giovanile. Parte da queste pagine, la missione alla quale dedicherà l’intera sua esistenza: scrivere per i ragazzi.
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Nello stile e nel contenuto, la storia di Cesare esemplifica
la raccolta dei sei racconti che alla fine del 1965 vede la luce
con il titolo di Verdi Battaglie, il suo primo libro scritto per i
più giovani e che, ancora inedito, nello stesso anno ottiene
una segnalazione al premio Villa Taranto.
A guidare la narrazione è un realismo tanto più fedele
quanto più rievoca le vicende autobiografiche dell’autrice,
o riferisce fatti uditi da protagonisti di storie vissute in
prima persona, dove l’autrice muta soltanto il nome dei
personaggi. L’abilità stilistica riesce tuttavia a mitigare le
situazioni più drammatiche, adattandole alla sensibilità dei
ragazzi e a rendere la lettura avvincente e allo steso tempo
formativa. I protagonisti di questi racconti sono ragazzi che
l’indole ingenua e impulsiva spinge in situazioni difficili e
tragiche nelle quali tuttavia proprio loro emergono come
testimoni di valori autentici e universali. Così il sentimento
della lealtà e la solidarietà pervadono le pagine di Il segreto,
dove Gianni e Mimma procurano cibo a un gruppo di clandestini decimati dalla malaria. L’amicizia disinteressata fino
al sacrificio domina invece la vicenda di Alberto, il figlio
del podestà, protagonista di Erano tutti miei amici, che cade
sotto una raffica mentre, per salvare l’amico Gino porta la
notizia di un imminente rastrellamento ad un covo partigiano. Non sono eroi ma ragazzi con tutte le loro debolezze
strappati alla loro spensierata esistenza e proiettati nel vortice di un conflitto che “non comprendono ma di cui sono
costretti a subire le conseguenze”17.
Il messaggio educativo di queste storie, altro omaggio alla
“terra” che attinge al medesimo background di Nel cavo
della mano, la scrittrice lo dichiara apertamente nell’introduzione: “Questi racconti pur avendo come sfondo la lotta
di liberazione, non sono stati scritti con lo scopo precipuo
di celebrarla, ma in particolare per educare i ragazzi alla
non violenza e per inculcare in essi il sentimento dell’amicizia e l’avversione alla guerra”.
Non con ammonimenti, né con vuote dichiarazioni di principio ma attraverso le vicissitudini dei giovani personaggi,
l’autrice intende coltivare l’avversione ad ogni forma di
tirannia, educando alla giustizia e a quei valori civili che
animano ogni giorno il suo impegno di educatrice d’ avanguardia nella nuova suola media dell’ obbligo. Natalino
26
Guerra, già insegnante di Giovanna al liceo Trisi di Lugo e
autorevole protagonista della Resistenza in Romagna, in un
convegno dedicato alla scrittrice nel 1998, ha ribadito questo punto e cioè che in tutte le sue opere “vivono e palpitano
i valori di umanità, di solidarietà, di pace, che sono diventati patrimonio della nostra Costituzione”18.
Sulla linea del fuoco
Tra il 1968 e il 1972, l’autrice cura l’adattamento per le scuole medie, di L’ultimo vangelo, il romanzo sulla Resistenza di
Fiorino Soldi con il titolo Gente del Po; nello stesso periodo
pubblica una versione aggiornata di Verdi Battaglie con il
titolo Ragazzi sulla linea del fuoco (1971) e, postuma, nel 1995,
in Erano tutti amici. Rispetto a Verdi Battaglie, le due raccolte
oltre ad offrire un’ ambientazione storica più ricca, includono due nuovi racconti, il Rosmarino è fiorito, del quale si
è detto, e Gli stivali.
Queste storie ci restituiscono uno sguardo inedito sulla lotta
di liberazione, quello dei ragazzi: ecco allora che la Resistenza è compassione per Berto, nel racconto dal titolo omonimo, è dolente pietà per Alberto (in Nella palude), è
maledizione contro la guerra per Gianni e Mimma (Il Segreto), è lotta fino alla libertà per Cesare (Il rosmarino è fiorito),
è lunghissima notte tremenda per Aldo (La Ca’ Bassa), è fratellanza europea per Anna e Giacomino (Il dono). Infine, nel
racconto più emblematico, è la sofferenza dei vincitori come
dei vinti per Silvia, protagonista de Gli stivali.
Silvia è una bimba di otto anni, che ha ricevuto dal comandante l’ordine di pulire gli stivali degli ufficiali tedeschi. La
sua casa è stata occupata dai militari, ma un giorno scopre
con sorpresa che anche nel nemico si apre uno spiraglio di
umanità: “Ma inaspettatamente una manona si cala sulla
testa di Silvia e la voce di Heisleb tuona insolitamente bonaria: “Sehr gut: molto bene! Tu essere brafa pampina. Io avere
funf, cinque, come te, in Germania. Poi con la sua manona
traccia in aria una invisibile scala per spiegare che il maggiore
dei suoi figli gli arriva al petto ma gli altri sono più piccini,
27
anzi uno gli arriva solo fino al polpaccio. Silvia per la prima
volta senza paura si accorge che il grosso Sleb sta sorridendo
e i suoi occhi luccicano tra le rughe come se fossero argento
liquido. Si allontana allora tutta turbata con la mente invasa
dall’immagine di cinque tedeschi biondi e grossi con le gote
rosse come quelle del padre; e tutti calzano i loro bravi stivali:
piccini, piccini quelli dell’ultimo nato, via via più grossi e
robusti quelli degli altri fratelli. Perché certamente calzeranno lunghi stivali neri, tutti i bambini del grosso ‘Sleb’! Anzi,
è molto probabile che siano nati già stivalati, loro!”19.
è questo il racconto che forse più di altri getta una luce di
pietà anche sugli invasori che stanno per soccombere, ormai
vinti; anche l’ufficiale tedesco è stanco della guerra, sogna la
pace degli affetti familiari che forse non ritroverà. Troviamo
qui una sensibilità toccante che esprime meglio di ogni altro
concetto la terribile inumanità della guerra e che la scrittrice
affida ai pensieri di una bambina. Quando apprende della
fine di Sleb, avvenuta nella battaglia sul Senio, Silvia pensa
tra sé e sé: “Il grosso Sleb non tornerà più. Non si sentirà più
la sua voce tuonare imperiosa nello studio: non più stivali
giganteschi da lucidare, mai più. Vorrebbe sentirsi contenta,
sollevata, ma non ci riesce proprio. davanti ai suoi occhi c’è
una casa silenziosa, investita dalla tormenta, lassù nella gelida lontana Germania e ci sono, allineati in ordine decrescente
in una gelida cucina, dieci stivaletti, tutti in fila, che aspettano, aspetteranno, invano giorno dopo giorno, il ritorno dall’Italia dei grossi, protettivi stivali del papà”20.
Così, mentre la guerra suscita “una dolente pietà per tutte le
vittime inconsapevoli di una illogica violenza”21, in queste
pagine i ragazzi sulla linea del fuoco, non più bambini ma
non ancora giovani, sono protagonisti di vicende più grandi
di loro delle quali faticano a comprendere il senso, vissute in
modo grottesco o tragico in casolari sperduti, tra valli e paludi. Essi testimoniano con forza e limpidezza valori morali ed
universali che spesso gli adulti nel loro pericoloso gioco, sembrano dimenticare. Con la loro spontanea umanità salvano i
valori perenni della giustizia, affermando le premesse per un
domani più libero e civile. Ma la vera grande risorsa etica dei
ragazzi resta l’amicizia, un sentimento dalle potenzialità davvero straordinarie e che ritroveremo puntualmente nelle storie più avvincenti della scrittrice.
28
Scrivere per i ragazzi
Tutto cresce nell’Italia del miracolo economico: reddito pro
capite, consumi, scolarizzazione. Sui banchi della nuova
scuola media dell’obbligo cresce una nuova generazione di
italiani. Negli stessi anni esordisce la TV dei ragazzi, e Alberto
Manzi istruisce gli italiani con il suo celebre programma televisivo Non è mai troppo tardi. Anche il mondo della letteratura
per l’infanzia conosce una rapida espansione. Vecchi e nuovi
editori danno vita a collane di narrativa rivolte ai giovanissimi, nascono riviste e premi letterari. Bologna ospita nel
1964 la prima fiera internazionale del libro per ragazzi mentre a Bari e a Padova si inaugurano le prime cattedre universitarie di Storia della letteratura per l’infanzia. Sono anni in
cui questo genere letterario è legato a nomi celebri come
Gianni Rodari, Giana Anguissola, Marcello Argilli, Reneè
Reggiani, donatella ziliotto e lo stesso Alberto Manzi.
è attraverso una serrata riflessione critica sulla letteratura
nella scuola e più in generale sul rapporto fra ragazzi e lettura che Giovanna Righini Ricci definisce il proprio progetto narrativo. Come avvicinare i giovani alla lettura? è
questo il problema che muove la sua riflessione. L’autrice
parte dal presupposto che né i classici della narrativa giovanile né tanto meno quelli della letteratura tout court offrano una soluzione adeguata. dei primi, nonostante il valore
letterario e pedagogico, i giovani lettori sembrano non
avvertire più il fascino. Sono infatti storie dalle quali i giornali, i fumetti, il cinema, la radio, la televisione attingono a
piene mani e con mezzi audiovisivi ben più seducenti della
semplice lettura. Anche per chi non possiede una biblioteca
personale, per queste storie è dunque venuto meno l’interesse perché “non c’è più nulla da scoprire”.
In secondo luogo, i classici. Seppure modelli perfetti di
prosa, essi restano pur sempre opere rivolte agli adulti,
scritte con un linguaggio e con argomentazioni spesso non
congeniali alla mentalità dei ragazzi22. Inoltre, l’autrice ritiene antipedagogico e antistorico ostinarsi a far capire a preadolescenti privi di adeguata preparazione culturale la
finezza della prosa manzoniana, imponendo loro sollecitazioni che non li toccano.
29
Giovanna Righini Ricci, fautrice di una scuola a misura di
alunno, coglie per tempo il mutamento della mentalità giovanile negli anni del boom economico. Avverte con lucidità
l’esigenza di ridefinire i rapporto dei ragazzi con il libro e
la lettura: “L’ho già letto!; “Ho visto il film e so già come va
a finire”, si sente rispondere spesso l’insegnante che, il
cuore gonfio di ricordi lontani e dolcissimi, incoraggia la
scelta di un libro da parte dei suoi allievi. Ci deve pur essere
una profonda ragione sotto questo disinteresse per un bel
libro che intere generazioni hanno letto e riletto con gioia
sempre rinnovata? Superficialità dei nostri adolescenti!
Qualcuno sarà indotto a esclamare, drastico e amaro. Io
penso invece che la causa vada ricercata nel radicale cambiamento di gusti e di sensibilità che sembra scavare un
abisso fra due generazioni successive senza più possibilità
alcuna di intesa. In apparenza rudi e spregiudicati, sono
invece profondamente sensibili e ricettivi; vivono in un
mondo dove anche l’arte e la letteratura vivono e muoiono
nello spazio di un mattino; si tratta di una generazione che
bolla senza pietà tutto ciò che è trito banale e scontato, che
è guidata da un mirabile seppur irrequieto e inconsapevole,
senso critico che vuole partecipare attivamente ad ogni
espressione della vita e della realtà”23.
Qual é allora il primo passo da compiere per conquistare i
ragazzi alla lettura? Come evitare che i testi di narrativa,
scelti dagli insegnanti sulla base di preferenze personali che
inevitabilmente riflettono il punto di vista degli adulti, finiscano per diventare libri scolastici che si è obbligati a leggere con distacco rassegnato e senza partecipazione?
Per l’autrice occorre anzitutto entrare nella psicologia dei
giovani lettori, interpretare i loro miti, arricchire l’offerta
narrativa con testi veramente nuovi adatti alle loro esigenze. La narrazione, che come si è visto segue il canone stilistico del realismo psicologico, deve essere incentrata sull’
“azione” e dunque “veloce, concreta, tutto cose e niente
digressioni”, e deve prestarsi anche alla lettura ad alta voce,
in grado cioè di competere con la narrazione audio-visiva
offerta dai mass media.
Quanto ai messaggi, la scrittrice sa bene che l’autore desideroso di divulgare una morale esplicita difficilmente troverà il favore dei giovani. L’intento didascalico è infatti un
30
retaggio ottocentesco che finisce per togliere al lettore la
sensazione gradevole di una lettura “assolutamente libera
e piacevole”: di fronte al monito il ragazzo abbandona la
lettura perché la trama perde il respiro e diviene noiosamente prevedibile. Per Giovanna Righini Ricci, nel libro per
ragazzi la morale della storia deve essere sempre intuitiva,
implicita o nascosta. In altre parole, il messaggio deve formare il tessuto connettivo della vicenda e non sovrapporsi
ad essa, come una voce fuori campo che ammonisce o consiglia il ragazzo distogliendolo dalla sua avvincente lettura.
In terzo luogo la cosiddetta “l’identificazione”. In una letteratura per ragazzi degna di questo nome, occorrono infatti trame con personaggi “reali” nei quali i ragazzi si possano
riconoscere ritrovando in essi esperienze vissute in prima
persona. Si tratta di personaggi “specchio”, attori di intrecci
che traggono spunto dalla vita quotidiana dei giovani. La
scrittrice ha in mente un universo autonomo, quello dei
preadolescenti, con una psicologia sua propria, ben distinto
dall’infanzia come pure dal mondo dei giovani e degli adulti. “Tutti i protagonisti dei romanzi di Giovanna sono ragazzi che agiscono, reagiscono, pensano e parlano come
ragazzi”24. Nella scuola media dell’obbligo, l’opera di narrativa deve inoltre essere soprattutto occasione di dialogo
con i ragazzi: “ciascuno deve ritrovare in essa la sua frazione di universo, il suo “microcosmo”. Quindi l’opera di narrativa deve avere dei validi principi morali, presentare una
certa varietà di tipi e di personaggi – anche negativi, perché
proprio attraverso l’analisi critica del comportamento del
cattivo, attraverso l’inchiesta sul perché del suo aberrante
operare che i preadolescenti, con un procedimento alla
rovescia, arrivano induttivamente all’acquisizione dei
valori veri. […] come risulta invece fiacco e melenso il
discorso sul buono sempre così scontatamente nel giusto,
sempre così razionale! […] Presentare i fatti con stile fluido
e realistico ricco di azione e aderente ai tempi, con quadri
di breve respiro. L’opera va infatti letta e discussa in classe,
senza vuoti e senza ricorrere al ripiego di affidare ai ragazzi la lettura domestica di pagine che essi dovranno poi
malinconicamente riassumere e commentare per la lezione
successiva”25.
31
Siamo di fronte ad un progetto letterario, che, assumendo
come principio il punto di vista dei ragazzi – e Verdi Battaglie risulta emblematico a riguardo - ribalta quello che si
potrebbe definire “il paradigma “adultocentrico” della letteratura giovanile. è inoltre un disegno in totale sintonia
con il suo impegno pedagogico per il rinnovamento della
scuola, impegno che molti anni più tardi così avrebbe ricordato: “Con l’ardore dei pionieri e l’anima piena di tensioni
ideali […] tessevo e ritessevo le ardue trame di una progettazione che doveva conferire una fisionomia veramente
democratica alla nuova scuola, per renderla misura di alunno, adeguata cioè sia alla comunità che ai singoli, a qualunque ceto appartenessero e qualunque fosse il loro livello di
partenza e la loro potenzialità di sviluppo”26.
La narrativa di Giovanna Righini Ricci, la sua passione di
scrivere libri nuovi per lettori nuovi, che si affida ora al
romanzo come forma letteraria privilegiata, nasce e si alimenta di continuo dal dialogo educativo quotidiano con i
ragazzi. ora la letteratura entra nella loro psicologia e parla
il loro stesso linguaggio.
Libri nuovi
dei cinque romanzi che precedono Le scapole dell’angelo, due
sono intrecci narrativi che traggono spunto dall’esperienza
che l’autrice compie tra il 1964 e il 1970 come insegnante di
lettere presso la scuola media Redaelli di Milano. Le cicale,
primo romanzo della scrittrice, e Il Ballo delle cicale27, sua
continuazione, offrono un affresco variopinto e vivace di un
gruppo di allieve. Raccontano un microcosmo giovanile
tipico degli anni Sessanta: le ragazze amano ritrovarsi in un
garage tappezzato con le foto dei loro idoli - Bobby Solo,
Celentano e i Beatles - per discutere veri e propri ordini del
giorno, come ad esempio “calze di nylon e azione da condurre contro le madri che si ostinano a comperare alle figlie
ormai adolescenti, lunghi indistruttibili calzettoni eternamente a scacchi rossi e blu”28.
Entra così in scena un “cast” di personaggi ben assortiti: la
32
volitiva e generosa Sandra, leader del gruppo, che dà prova
di maturità assumendo le redini della fabbrica dopo la
morte del padre; Elisa, antitesi di Sandra, cicala ricca e viziata che passa da un flirt all’altro paga di una scintillante
superficialità; Cristina ragazza inquieta e insicura che alla
fine un po’ a sorpresa matura la scelta dell’attività missionaria; la timida Maria Rosa che vive il suo risveglio esistenziale nella lotta contro le discriminazioni sociali nel paese
natale del sud.
Le due storie, tutte al femminile e ambientate nella grande
città industriale del nord, privilegiano gli scenari extrascolastici cogliendo in presa diretta le vicende quotidiane e la
psicologia delle protagoniste. Innamoramenti e sogni, gesti
di solidarietà e confessioni scandiscono i fitti dialoghi e di
queste ragazze alla difficile ricerca della propria identità.
La scrittrice ne narra le vicende dalla preadolescenza alle
soglie della maturità partecipando ai loro drammi, ne rivive
le incomprensioni con gli adulti. Si tratta di due tipici
romanzi specchio pensati per soddisfare il desiderio dell’
adolescente di identificarsi in qualcuno dei personaggi ma
che sono rivolti anche a genitori ed educatori, per invitarli
ad affrontare le crisi adolescenziali “con animo sgombro da
ogni superficiale atteggiamento di riprovazione”.
Esemplari, le figure femminili che in qualche modo rispecchiano il formidabile mutamento del ruolo della donna
nella società di allora; la donna non più unicamente in veste
di madre ma anche protagonista nella società e nel mondo
del lavoro29. Fra queste, innanzitutto Sandra, che entra a far
parte di quella galleria di giovanissime donne, ammirevoli
per dignità e carattere, che Giovanna Righini Ricci ha raccontato in tanti suoi romanzi: da Camilla (La dove soffia il
Mistral), da Mary Beth (Ombre sul Nilo) a Chiara (Alla fine
del sentiero).
L’esigenza di un dialogo costruttivo tra genitori e figli, tra
giovani ed adulti come condizione di crescita personale dei
ragazzi è tema ricorrente anche ne Il segreto della Cisa30
(1968). Questa volta sono però i personaggi maschili a
dominare la scena e a fare emergere con più nettezza il conflitto generazionale tipico di quegli anni. Ecco la protesta
che l’autrice mette in bocca a Sandro, uno dei protagonisti:
“Anche il nonno si mette a farmi prediche; non ci si salva
33
più in questa casa! Non volete capire che il mondo è cambiato e che voi vivete ancora sulle nuvole?! Basta che mi
piacciano i capelli lunghi, che desideri una camicia a fiori,
che abbia degli amici, che subito sono tuoni e fulmini. Ma
io vivo nel mio tempo, non nel vostro! Ho quattordici anni
non sessanta, e mi piacciono le cose della mia età; che male
c’è? Che male faccio? I miei amici hanno sempre denaro in
tasca, vanno al cinema di sera con le ragazze, e io sempre
qui, fra dei vecchi, in compagnia delle galline, a letto con le
galline, che il sole è ancora alto, controllato, rimproverato,
asfissiato”31.
Questo suo secondo romanzo, è un’avventura ambientato in
una piccola località della Romagna, dove un gruppo di adolescenti trascinati da Piero, appassionato di archeologia, scopre una botola accanto alla “Cisa”, un rudere risalente
all’epoca di Caterina Sforza. Convinti dell’ esistenza di un
tesoro, dopo vari tentativi, la spensierata comitiva trova il
tanto ricercato forziere. L’impresa di svolge in gran segreto,
e naturalmente all’insaputa dei genitori con i quali i rapporti
si fanno ogni giorno più tesi. Ma un giorno, durante una
esplorazione sotterranea, spaventati dai serpenti e dopo aver
rischiato di soffocare, Piero e compagni decidono finalmente
di avvisare le autorità e di far intervenire gli esperti. Il segreto
è svelato, mentre la vicenda, che scuote la quiete sonnolenta
del paese, si conclude con un viaggio premio dei ragazzi in
città, per visitare il loro tesoro ora esposto in un museo.
In questa trama avvincente, dai dialoghi vivi e incalzanti,
ricca di suspense e colpi di scena, emerge nitida la personalità dei giovani protagonisti, che l’autrice dispone con
accurata regia narrativa. Ecco allora Piero, sognatore ma
risoluto nell’azione, che conduce l’impresa con ostinazione
ma anche con responsabilità e senso del limite; ecco il mite
e assennato Sandro, alle prese con un padre severo ma in
fondo comprensivo; e poi Nicola, il più infantile del gruppo,
bugiardo ma espansivo. Fra genitori che sbagliano e una
nonna (ancora una volta) saggia e comprensiva, il romanzo
affronta il difficile rapporto di questi adolescenti con gli
adulti in un divenire esistenziale che fa crescere in consapevolezza gli uni e gli altri.
La vacanza come occasione di crescita personale attraverso
nuove esperienze: ecco un contesto narrativo che ritrovia-
34
mo anche in Incontri d’estate32 (1972) e che ricorre con una
certa frequenza nei romanzi di Giovanna Righini Ricci. La
scelta di una simile ambientazione alternativa al tempo scolastico e lavorativo consente infatti di rappresentare i comportamenti di ragazzi nella loro spontaneità offrendo ai
lettori il gusto dell’inatteso e dell’imprevedibile, in luoghi
lontani dalla ordinaria monotonia quotidiana. E ciò consente all’acume psicologico dell’autrice di rappresentare al
meglio due tipi di relazioni affettive, quelle tra coetanei, e
quelle sempre problematiche e tendenzialmente conflittuali
fra genitori e figli.
La storia narrata in Incontri d’estate si svolge dapprima in
un camping sulla riviera adriatica dove Alida, la protagonista quindicenne trascorre le vacanze con la famiglia fra
vacanzieri provenienti da mezza Europa. Qui i genitori di
questa ragazza timida e piena di dubbi incarnano tutt’altro
che il genitore perfetto. Il padre, figura volutamente marginale nella narrazione (similmente ad altri personaggi
paterni dell’autrice), è un signore convinto che basti lavorare per la famiglia per essere a posto con coscienza e soddisfatti del dovere compiuto. dal canto suo la madre, donna
autoritaria e vittima di pregiudizi, non vede tuttavia di
buon occhio le amicizie estive della figlia, il leale Mohammed e l’allegro Helmuth due bravi ragazzi che riescono a
togliere Alida dai guai allorché la giovane viene coinvolta
nell’ esperienza della droga da due ragazze danesi (verso
le quali l’autrice evita ogni condanna moralistica). è a questo punto che, inevitabilmente, il già tormentato rapporto
con la madre culmina nel dramma mettendo fine alla villeggiatura in riviera.
La famiglia milanese decide allora di proseguire le vacanze
in montagna. dallo spensierato edonismo della riviera l’ambientazione si sposta al clima sereno e contemplativo di un
campeggio alpino: nel mutato scenario l’autrice ricompone
le tensioni, complice la quiete della natura incontaminata.
Intanto nuove amicizie rimettono in moto l’intreccio. Ecco
allora Paolo, coprotagonista del romanzo, il cui sentimento
di tenera amicizia per Alida, alla fine lo spinge a superare
la propria indole pigra e abulica; la signora Agata, solitaria
naturalista che infonderà nella protagonista quella sicurezza interiore che la ragazza non riusciva a trovare.
35
La narrazione resa ricca movimentata dai dialoghi e da una
folla di personaggi minori, offre diffusi esempi di gergo
adolescenziale. Queste pagine, inoltre anticipano quei temi
sociali, come la tutela ecologica e i pregiudizi razziali, che
avrebbero assunto un rilievo crescente nella narrativa di
Giovanna Righini Ricci.
Educare con la letteratura
Giovanna Righini Ricci ha dunque inventato un modo originale di fare letteratura per ragazzi. Le sue storie trovano
lettori sempre più numerosi per lo più attraverso il circuito
della narrativa scolastica, ambito nel quale la scrittrice si
pone come figura decisamente innovativa. Alla fine degli
anni Sessanta il suo autonomo progetto narrativo-educativo, ben avviato, ha trovato ampi riscontri e soprattutto si
preannuncia come un paradigma letterario ricco di potenzialità e nuovi sviluppi. E che non passa inosservato: così
anche la Rai si accorge della scrittrice che per il programma
radiofonico La Radio per le scuole si cimenta con tre storie
destinate ai più piccoli, andate in onda nel 1970: Duna la
cangurina tutta azzurra; Fipo, pinguino bugiardo; Sigfrido, asinello giocherellone33. Qui, come in altre opere letterarie,
accanto alle sue doti narrative, l’autrice mette a frutto le sua
eccellente preparazione in campo psicopedagogico. Il suo
insegnamento ‘a misura di alunno’ pone la massima attenzione nel calibrare la proposta narrativa in relazione alle
varie fasce d’età, convinta che gli interessi letterari dei giovani in età evolutiva sono in relazione alle fase delle sviluppo psicologico. Ecco come l’autrice, sia pure con un certo
schematismo, delinea il suo progetto: “da dove veniamo
tutti noi? L’interrogativo che spesso affascina il ragazzo
verso i 10-11 anni quando ancora vive immerso nel contesto
familiare, lo orienta verso i racconti fantastici e verso una
narrativa che gli presenti il mondo degli affetti familiari, la
psicologia dei bambini e dei ragazzi, la vita degli animali.
Verso i 12-13 anni comincia il distacco dalla famiglia, il preadolescente scopre attraverso il gruppo dei pari, la propria
36
dimensione sociale. Chi sono io? Qual è il mio ruolo nei
confronti degli altri? Questi sono gli interrogativi dominanti
in questa fase, tutta protesa a scoprire la propria interiorità
agitata da nuove e sconosciute pulsioni durante le quali lo
appassionano “i romanzi in cui viene proposta la vita associativa e la problematica tipica dell’età evolutiva, i rapporti
con gli amici, l’altro sesso, gli adulti, la comunità, l’amore,
il problema della libertà e dei suoi limiti”. dove sto andando? dove stiamo andando tutti noi?: verso i 14-15 anni nella
fase in cui il ragazzo matura la propria capacità critica,
nasce l’interesse verso una narrativa che rappresenti l’individuo alle prese con i problemi dell’umana convivenza”34.
La letteratura per ragazzi svolge così una funzione pedagogica essenziale: rappresenta cioè uno dei veicoli più efficaci
per suscitare nei lettori la motivazione all’apprendimento,
poiché la narrativa, in quanto forma di comunicazione
immediata dà voce alle pulsioni interne, ai sentimenti e alla
fantasia “con un approccio ludico e apparentemente svagato, che crea però vivo interesse e desiderio di approfondire”35.
L’interesse per la sfera emotiva dell’età preadolescenziale
ha inoltre portato la nostra insegnante ad introdurre, già
negli anni ‘Sessanta, l’educazione sessuale nella scuola
media dell’obbligo “quando ancora essa poteva apparire
un’audacia inaudita, da antesignani temerari”36. è principalmente in questo ambito che la sua passione di educatrice
d’avanguardia la spinge ad affrontare incomprensioni, pregiudizi e arcaici tabù. Per la Righini Ricci, la scuola a misura
di alunno non ha il solo scopo di istruire ma è un luogo
dove i ragazzi devono avere la possibilità di affrontare e
discutere apertamente anche i loro problemi personali. è in
questa forma di dialogo che l’autrice si cimenta ogni giorno
e lo fa attraverso i diari, la dinamica di gruppo e un costate
atteggiamento di ascolto attivo, convinta che nella scuola
dell’obbligo si debba essere “sempre meno professori e
sempre più educatori”. Anna Robiglio collega di scuola
della scrittrice, ricorda che “lei era rimasta giovane dentro
e della giovinezza aveva conservato lo stupore e l’entusiasmo; ho notato in lei questa strana dualità fra la donna colta
e matura e la fanciulla stupita della vita. Persone come Giovanna erano guardate un po’ storto dai conservatori […]
37
innovativa, sempre attenta ad ogni svolta nel campo del
sapere e della didattica, amava il suo lavoro e amava i suoi
alunni ed era ricambiata con affetto e stima. Nella nostra
scuola ha portato indubbiamente una ventata di novità, che,
se dapprima ha trovato molta resistenza, poi è stata seguita,
grazie a lei, anche da insegnanti ostinatamente tradizionalisti”37.
Il ragazzo venuto dal sud
La full immersion scolastica di ogni giorno offre in continuazione alla scrittrice quegli spunti narrativi destinati a
diventare opere letterarie compiute. E dai banchi di scuola
nasce una delle sue storie più celebri, quella di Lorenzo, il
ragazzo venuto dal sud, protagonista di Le scapole dell’angelo38, un romanzo pubblicato nel 1973 che esprime in modo
forse più compiuto il mondo narrativo della scrittrice negli
anni Settanta.
L’opera che ha dato all’autrice la notorietà nazionale nel
campo della letteratura giovanile prende spunto dal diario
di un suo alunno, vittima di un pestaggio, “il quale una
mattina venne a scuola senza occhiali con un occhio pesta
e tanta disperazione in viso. Unendo la sua storia con la cronaca giornaliera dei suoi compagni, ho fatto un libro”39. La
scuola media in questione, la “Galilei” di San donato Milanese, è un edificio di lusso destinato ai figli dei dipendenti
del più importante complesso industriale della zona ma è
frequentata anche da quelli di immigrati residenti in bicocche di fortuna e dai ragazzi delle ultime cascine rimaste tra
le marcite.
La scrittrice ci porta qui agli antipodi della tranquilla campagna romagnola di Nel cavo della mano. è questa periferia
metropolitana che fa da sfondo ad una storia che si muove
in un crogiuolo di contrasti: fra campagna e città, fra nuovi
arrivati e residenti, fra ricchi e poveri. In questo teatro narrativo, Lorenzo, tredicenne figlio di operai da poco immigrati, vive in prima persona il trauma dell’ inserimento nel
nuovo contesto sociale.
38
Il libro si configura come vero e proprio romanzo di formazione40 e racconta la storia della sua maturazione in “presa
diretta” con l’esperienza di vicende che favoriscono di volta
in volta il passaggio da una sterile inerzia ad una fattiva
combattività.
La situazione iniziale del protagonista, è tutta dominata dal
suo stato d’animo dopo l’ aggressione subita: “lo sconforto
gli dilagò dentro ed ebbe paura di tutto, dei teppisti, del
domani, della vita futura”. Con l’angoscia è la nostalgia a
scandire le sue giornate monotone in uno struggente desiderio di tornare alla casa natale del sud, paradiso perduto
della sua infanzia. Ad alimentare la sua sfiducia si aggiunge
poi un altro rovello: il sospetto che il fidanzato della sorella
sia coinvolto in una rapina ad un supermercato. Né in famiglia né a scuola Lorenzo trova comprensione e disponibilità
all’ascolto. In classe esprime il suo disagio con un atteggiamento scontroso che lo isola dai compagni. Solo l’incontro
con Rossella, una ragazzina timida e sensibile, apre lentamente una breccia nella sua solitudine. L’amicizia appaga
finalmente il suo urgente bisogno di confidarsi, liberandolo
a poco a poco dalla sua corazza di sfiducia.
Ma altre difficoltà sopraggiungono. Quando il licenziamento incombe sui genitori, Lorenzo avverte il senso di un disastro irreparabile gravare sulle sue spalle. Nel dramma c’è
per lui tuttavia un risvolto di speranza, allorché si attivano
inaspettate solidarietà, quella familiare innanzitutto. Così
dopo varie peripezie, in quelle strade suburbane a lui tanto
straniere, Lorenzo incontra finalmente un padre insolito,
che lo avvicina durante un corteo sindacale: “vedrai che ce
la faremo! E Lorenzo si sentì salire lacrime di fierezza per
quel plurale che di colpo li accomunava, annullando ogni
distanza”41. La solidarietà non manca nemmeno tra i compagni di scuola, che poco tempo prima avevano soccorso
come volontari il rione popolare allagato e che ora organizzano per lui una festa e raccolgono fondi da destinare agli
operai impegnati nell’ occupazione della fabbrica.
Anche il ritorno al paese natale in visita ai parenti lo induce
ad una consapevolezza più matura. Perfino la campagna
della sua infanzia, dove la nonna ha venduto la terra per la
superstrada, ha ceduto il passo a moderni edifici e industrie. Contrappunto a questa vicenda a lieto fine, il dialogo
39
confidenziale con Rossella, l’amica da sempre vissuta in
città, che gli infonde fiducia nella giustizia, e dunque il
coraggio di raccontare finalmente al commissario di polizia
i suoi sospetti sulla rapina al supermercato.
In conclusione, la storia di Lorenzo è un susseguirsi di esperienze che lo immettono in un ambiente sociale complesso
e dinamico, dove egli impara ad esistere scoprendosi protagonista del proprio divenire, consapevole che di fronte
alla miseria morale e materiale c’è pur sempre la forza di
resistere, la caparbietà a farsi uomini e cittadini responsabili.
opera di autentico impegno civile e democratico, Le scapole
dell’angelo si distingue dalle precedenti per il forte accento
sulle problematiche sociali e tipiche della moderna società
industriale: la violenza, la difesa del posto di lavoro, l’inquinamento, la condizione abitativa. Alla denuncia dello
sfruttamento minorile, in particolare, si ispira la poesia di
Carlo Martini (dalla quale è tratto il titolo del libro) che
Lorenzo legge davanti ai suoi compagni e propone alla
discussione. Ma in primo piano resta sempre l’arduo problema dell’inserimento degli immigrati nel nuovo contesto
urbano. Il protagonista – e come lui Maria Rosa di Le Cicale
e Il ballo delle cicale – rappresenta infatti una figura tipica
delle città industriali del nord negli anni Sessanta e Settanta;
un ambiente dove la scuola svolge il suo compito di educazione alla convivenza civile.
Il messaggio del libro è un tentativo di risposta a tale sfida
educativa. I problemi sociali affrontati in questo come in
altri romanzi restano così aperti a soluzioni alternative:
“saranno i giovani lettori a trarre conclusioni dopo aver
preso coscienza della realtà e averne analizzato aspetti e
componenti, a fare la loro scelta, libera e consapevole, coerente con la loro personalità, il loro grado di maturità, le
loro convinzioni, il loro concetto dell’esistenza e dell’umana
convivenza”42.
Nel rovente clima sociale e politico degli anni Settanta, il
romanzo si propone come “libro aperto” che narrando la
dinamica esistenziale dei preadolescenti sa conquistare
l’immediato consenso dei lettori attraverso il processo di
identificazione con i personaggi.
Nel rifiuto dell’ideologia e coerentemente alla sua etica pro-
40
fessionale Giovanna Righini Ricci “non indica nei suoi
romanzi delle piste politiche precise, come fecero tanti scrittori, né offrì una uscita di sicurezza religiosa”43. Insiste invece sul fatto che i preadolescenti, in quanto persone in
divenire, sono estremamente vulnerabili e per questo motivo mette in guardia gli educatori a non fare dei ragazzi “dei
robot asserviti alle sue ideologie ma dei cittadini liberi di
scegliere, di dire sì oppure no, di acquisire una loro personalità; abbia quindi sempre lo scrupolo della verità, della
obiettività, il rispetto delle idee altrui e farà dei suoi ragazzi
degli individui amanti della verità, dell’obiettività, rispettosi delle idee altrui, cioè degli individui ‘politici’ e non
‘faziosi’.44
Sono parole che indicano la via maestra di un’etica della cittadinanza, in un decennio segnato da ideologie e radicalismi di vario segno.
durante un convegno dedicato all’autrice tenutosi a Lugo
di Romagna nel 1996, la scrittrice Alessandra Jesi Soligoni
non ha esitato parlare di “irruzione di Le scapole dell’angelo
venuto a scuotere l’immobilismo della narrativa scolastica”45. è una valutazione certamente condivisa dai tanti insegnanti di allora, se si pensa alla sua presenza nelle scuole
di ogni regione d’Italia nei successivi trentacinque anni; fortuna e ampia diffusione, confermata anche da una indagine
sulle adozioni di testi narrativi condotta da Rita d’Amelio46
che nel 1975 lo segnala al terzo posto nelle scuole dell’Italia
settentrionale.
Intanto anche altri romanzi della Righini Ricci guadagnano
uno spazio rilevante nel circuito nazionale delle adozioni
scolastiche. Nel 1983, una indagine sui testi di narrativa presenti nelle scuole genovesi promossa dal Centro studi sulla
letteratura giovanile del Comune di Genova, mostra che le
opere più adottate dopo I Promessi Sposi sono proprio i
romanzi di Giovanna Righini Ricci: Ragazzi sulla linea del
fuoco, Incontri d’estate, La collina delle iguane, La dove soffia il
Mistral.
Quando Le scapole dell’angelo arriva nelle librerie, Giovanna
Righini Ricci si è da poco trasferita a Torino dove, dal 1973,
insegna presso la scuola media Perotti. L’immagine di
copertina di quel romanzo fresco di stampa, riporta del
resto una figura simbolo della città - una madre dallo sguar-
41
do spaesato che appena scesa dal treno, tiene per mano un
bambino e porta una valigia di cartone - ritratto fedele di
uno scenario che si ripeteva ogni giorno quando il treno del
sole, proveniente da Reggio Calabria, scaricava alla stazione
di Porta Nuova centinaia di persone con il foglio di ingaggio della Fiat.
Giovanna Righini Ricci, insegna, scrive, con l’attenzione
costantemente rivolta alle sfide della società moderna. Pratica la lettura dei quotidiani a scuola e al tema dell’ immigrazione dedica una sperimentazione didattica di
interclasse a distanza fra i suoi alunni e i loro coetanei di
Termini Imerese. Ne nasce un dialogo a tutto campo fra i
ragazzi che dibattono sulla droga, la famiglia, la solitudine,
il sesso, i mass media, le ingiustizie sociali. L’iniziativa
diviene un caso esemplare di innovazione didattica e nel
1976 andrà in onda nel programma Rai “La TV dei ragazzi”.
La passione per la scrittura, che in questi anni l’autrice ha
dovuto un po’ sacrificare alle pubblicazioni scolastiche, la
spinge ben presto a dedicarsi interamente alla narrativa.
Giovanna Righini Ricci lascia l’insegnamento nel 1978 per
dare nuove gambe al progetto letterario concepito quindici
anni prima; la scrittrice si sente chiamata a sfide ancor più
impegnative ora che la sua notorietà si è consolidata fra gli
insegnanti e soprattutto tra i giovani lettori, che da ogni
parte d’Italia la impegnano in scambi epistolari sempre più
frequenti.
Verso una letteratura ecologica
Un tratto distintivo di Le scapole dell’angelo è la totale assenza della natura con i suoi cicli, le sue suggestioni i suoi tipi
umani caratteristici, annullata com’è da un paesaggio
metropolitano che domina incontrastato la narrazione. In
quanto storia tipicamente urbana, rappresenta tuttavia
quasi una eccezione nella vasta produzione narrativa della
scrittrice, che avrebbe riproposto una ambientazione simile,
in I giorni della luna crescente, nel 1987 e in parte nel romanzo
Il sogno di Hassan.
42
E attraverso la vicenda di Lorenzo – una storia che per la
sua ambientazione urbana si colloca agli antipodi di Un
pugno di terra – dove la vita della grande città industriale
del nord pulsa frenetica, e così ostile minacciosa agli occhi
del protagonista, che l’autrice, sia pure in modo episodico,
tocca il tema ecologico. La rappresentazione fedele della
realtà sociale nella quale agiscono i suoi protagonisti, porta
così le sue storie a denunciare il disagio ambientale che nel
testo emerge a tratti, desunta dalla cronaca cittadina o più
semplicemente dalla vita quotidiana: “Lorenzo guardò
sotto: l’acqua nera, orlata di schiuma aggrediva con violenza i piloni smangiati […]. Come sempre gli uomini inquinano la natura. Un momento fa si respirava ossigeno,
adesso si respira veleno […] plastica! Il mondo intero fra
poco sarà sommerso da contenitori di plastica, indistruttibili e la terra diventerà un immenso immondezzaio […]. da
quando hanno costruito l’aeroporto non c’è più un istante
di pace […] lo trova giusto lei che a ogni pioggia ci si infili
mezzo metro di acqua sotto il letto? […] miasmi mefitici di
un fiume irrimediabilmente inquinato dagli scarichi industriali”47.
Nel corso degli anni Settanta, attenta ad anticipare le sfide
del mondo contemporaneo, l’autrice riserva una sensibilità
tutta particolare per le contraddizioni del progresso e della
società opulenta. Così mentre l’inquinamento ambientale
diviene una sorta di emergenza nazionale dopo il disastro
ambientale di Seveso, avvenuto nel 1976, Giovanna Righini
Ricci ha già da tempo dato voce alla coscienza ecologica
attraverso le sue storie, con l’intento di educare i ragazzi al
rispetto per la natura e le sue leggi, condizione essenziale
per “formare degli esseri veramente liberi, responsabili e
completi”48.
Storie di animali
Giovanna Righini Ricci ha sempre nutrito un profondo
amore per gli animali, e una vivissima compassione per le
loro sofferenze. è questo uno dei motivi che l’hanno resa
43
particolarmente sensibile alle problematiche ecologiche che
i protagonisti delle sue opere spesso si trovano ad affrontare. Nei suoi romanzi, del resto, gli animali sono pressoché
onnipresenti, sebbene per lo più in funzione gregaria rispetto ai protagonisti, come nel caso emblematico di Un pugno
di terra.
Questa situazione si rovescia tuttavia in I figli di Kira49 dove
le storie vissute in prima persona dagli animali alludono al
mondo degli affetti familiari e alla psicologia infantile. Le
vicende narrate intendono comunicare il messaggio educativo “in veste colorita e narrativa”, che inserisce “la fantasia
nella realtà, la fiaba nel rigore scientifico, l’immaginazione
nella concretezza” per divertire, commuovere e ottenere che
il lettore viva emotivamente l’insegnamento nascosto. Nella
finzione antropomorfica ecco allora una fauna variegata che
parla, riflette, soffre, gioisce, ma che nello stesso tempo vive
nel suo habitat naturale. Sempre implicita, la morale scaturisce dalle situazioni, scevra da ammonimenti e commisurata alla psicologia propria dell’età infantile. Ecco allora
storie di iniziazione alla vita dall’epilogo triste, come la
vicenda di zobo, un cucciolo del pastore tedesco Kira, che
muore come cavia in un laboratorio; ora lieto come in Zibesti, leone pacifista, allorché le guardie del parco nazionale si
prendono cura del piccolo felino allontanato dalla madre
perché rifiutava la dieta carnivora dei suoi simili. Sono
pagine che mettono in scena le tensioni esistenziali tipiche
dei bambini: il distacco dalle abitudini della prima infanzia,
la difficile conquista dell’autonomia, il senso della condotta
responsabile, come pure il desiderio elementare di giustizia
che anima la storia di djanga, l’elefantessa operaia che riesce a strappare al padrone il diritto ad un trattamento più
umano.
In questi racconti ecologici sugli animali, gli uomini compaiono infatti nella loro ambivalenza: talora custodi saggi
e amorevoli dell’equilibrio naturale, più spesso avidi predatori ai quali gli animali finiscono per soccombere. è contro questa crudeltà irresponsabile che l’autrice inscena il
riscatto finale in La rivolta della collina, dove la riscossa corale
e vittoriosa degli animali del bosco contro un manipolo di
cacciatori ristabilisce finalmente l’ equilibrio turbato: “fu
così che allora gli uomini senza saperlo impararono a rispet-
44
tare gli abitatori della collina i quali mai avrebbero osato
sperare di poter vivere in santa pace il resto dei loro giorni”50.
Troviamo in queste pagine ancora una volta Giovanna
Righini Ricci in veste di scrittrice per l’infanzia – dove il realismo psicologico si unisce al fiabesco – un filone significativo anche se non prevalente nella sua produzione letteraria
che, dopo le favole per la Rai, annovera Il mondo di Paolino51,
una storia raccontata attraverso gli occhi di un bambino e
del suo cane fedele. L’autrice mette in luce il comportamento, la maturazione, il grado di socializzazione acquisito dal
simpatico protagonista nell’affrontare varie circostanze
della vita (come ad esempio la nascita del fratellino) e i rapporti con i diversi componenti della famiglia.
Sempre dedicata alla fauna troviamo infine la pubblicazione coeva Gli animali e l’uomo, un’antologia che raccoglie ventitré racconti di autori italiani, dove gli animali protagonisti
sono colti nella loro psicologia e nel loro rapporto con l’uomo.
Vento di Mistral: raccontare l’ecologia
Se Lorenzo riesce finalmente ad imparare a vivere nella
metropoli lasciandosi alle spalle il paese rurale dell’infanzia, per Camilla, la sedicenne protagonista di La dove soffia
il Mistral, vale un percorso inverso, cioè la fuga, sia pure
temporanea, dalla città per scoprire l’ orizzonte suggestivo
di una natura incontaminata.
Il problema del rapporto uomo-natura, già al centro in I figli
di Kira, viene qui ripreso secondo un approccio più complesso e problematico, dove ecologia e antropologia si innestano organicamente in una narrazione percorsa da
interrogativi esistenziali che toccano tanto la sfera personale
quanto la dimensione collettiva della vicenda umana.
Riguardo all’ambientazione, come già in La collina delle iguane (1977), anche in La dove soffia il Mistral l’autrice varca i
confini nazionali. Le precedenti ambientazioni del bel paese
– Romagna, Milano, la riviera adriatica, la vallata alpina –
45
cedono ora il posto alla Camargue, la regione francese sul
delta del Rodano, che l’autrice visita nel 1979.
Il libro conduce il lettore in un paesaggio battuto dal vento
animato da un a fauna variegata e onnipresente52. Lo
accompagna lungo i sentieri di una “creatura dalle mille
vite”, un paradiso delle biodiversità salvato dal progresso
tecnologico, dove la natura domina sovrana e l’uomo non
è che uno dei tanti esseri che la popolano. “La vedi questa
terra, strana e mutevole, fatta di stagni e paludi, di dune
erranti, flagellate dal vento, di spiagge dardeggiate dal sole?
Questa Camargue, aspra e dura, popolata di tori e di cavalli,
di uccelli e di serpenti? Ebbene, questa è una creatura dalle
mille vite! Essa sembra a volte respingerti, sembra volerti
uccidere; invece è sangue, è vita! Qualcuno ha detto che
tutti noi abbiamo dentro la nostra Camargue, il nostro rifugio e io vorrei tanto che tu lo trovassi qui”53.
Secondo uno schema narrativo ormai collaudato, anche qui
ritroviamo la coppia amicale uomo/donna nelle vesti di
due ragazzi protagonisti, un lui e una lei dai caratteri opposti e complementari, fra i quali nasce un passione tenera e
coinvolgente. La dinamica ed espansiva Camilla, il timido
e introverso Vincente, giungono entrambi dalla città per trascorre le vacanze presso una azienda agricola della Camargue. Tra i due, presi da mille interrogativi esistenziali tipici
della loro età, si accende un’intesa destinata a rinsaldarsi
attraverso avventure e disavventure, tra le quali la liberazione di una bambina tenuta prigioniera in una villa della
zona. In una vicenda che nel finale si colora di giallo i protagonisti imparano a conoscere e ad apprezzare la gente del
luogo e nello stesso tempo maturano, sperimentando non
solo una natura grandiosa e selvaggia ma, sia pure indirettamente, anche il dolore, la malattia e la morte.
La dove soffia il Mistral, forse la più complessa e articolata
tra le opere della scrittrice, si snoda lungo tre piani narrativi
ben intrecciati – il romanzo ecologico, la storia d’amore, l’intreccio poliziesco – un costrutto che denota l’abilità della
narratrice di “moltiplicare le azioni salvaguardando l’unità
dell’ insieme”54. L’avventura estiva dei due amici si muove
come sempre entro una fitta rete di personaggi: genitori,
familiari, nonni, amici, bambini, e una immancabile cerchia
di simpatici animali domestici come cani, gatti e cavalli.
46
Con questo romanzo ambientalista, Giovanna Righini Ricci
torna sul tema narrativo forse a lei più congeniale, quello
della madre-terra, già al centro di Nel cavo della mano. Riproponendo pagine di intenso lirismo, riporta in primo piano
l’antitesi tra città e campagna, tra natura e civiltà, tra progresso e tradizione. La Camargue, simbolo e metafora di
una natura originaria, si impone come uno scenario, naturale e culturale, che sembra assumere quasi il ruolo di protagonista, anziché di semplice contesto geografico. Non
diverso è del resto l’approccio della scrittrice con altre
ambientazioni esotiche: il Messico di La collina delle iguane,
il Marocco, di Il sogno di Hassan, l’Egitto di Ombre sul Nilo,
il Canada di Alla fine del Sentiero e l’Africa tropicale di Nel
vento della savana.
In Là dove soffia il Mistral l’ambientazione agisce sulla psicologia dei personaggi (in molti casi è parte integrante della
loro personalità), che si distinguono tra loro, – e qui c’è un
punto essenziale e tipico della narrativa della Righini Ricci
– proprio per il diverso atteggiamento nei confronti della
terra-natura.
Questa varietà di comportamenti è del resto pienamente
funzionale ad un approccio problematico alla questione
ecologica, che la scrittrice presenta ai lettori attraverso una
pluralità di punti di vista. Il messaggio ecologico emerge
così attraverso il confronto - scontro dei punti di vista e dei
comportamenti piuttosto che enunciare una soluzione precostituita al problema della salvaguardia ambientale. Sotto
questo profilo, i personaggi appaiono divisi in due categorie: da un lato coloro che si scoprono in armonia con l’ambiente della Camargue, dall’altro coloro che non riescono
ad adattarvisi rimanendo insensibili se non addirittura ostili ad un ambiente primitivo e selvaggio.
Il contrasto qui delineato presenta posizioni estreme fra le
quali si collocano atteggiamenti intermedi. Così, perfettamente integrati nell’ambiente della Camargue troviamo
anzitutto i nativi. Ecco allora i nonni Gaspar e Briseide, due
vecchi dignitosi che ricalcano la famiglia patriarcale di
nonno Tranquillo, severi custodi di una saggezza radicata
in un profondo rispetto per la tradizione e la natura. Accanto a loro, tra altri, trova un posto speciale papa Vatel, il vecchio mandriano ostile al progresso e alla tecnologia ma
47
saggio custode della terra al quale l’autrice affida uno dei
messaggi ecologici del romanzo: “il mio gran libro è la natura: Bisogna saperlo leggere per sopravvivere […]. L’uomo
deve capirlo che è una creatura della terra, non un parassita;
se continua a sfruttar la terra, questa un giorno o l’altro se
la scrolla di dosso, come un verme, pluf, finito, per tutti!”55
Vincente, ragazzo orfano che vive col fratello Cesar, resta
invece inizialmente fermo in una posizione di incertezza,
in bilico tra due mondi. Così, nei mesi in cui frequenta il
collegio non pensa ad altro che alla sua Camargue, poi però
appena torna in fattoria si sente a disagio: “non so ancora
se mi piaccia vivere qui, è un mondo che non sempre riesco
a capire, che mi sembra selvaggio, innaturale, fuori dal
tempo”56. Soltanto alla fine, grazie all’amicizia con Camilla
e alle avventurose vicende vissute insieme a lei, supera le
iniziali perplessità e impara ad amare la sua terra.
La scoperta di questo valore è invece preclusa a Babe,
madre di Camilla, collaboratrice ad una rivista femminile,
donna dalla psicologia fragile ed eccentrica che non riesce
affatto ad adattarsi all’ambiente della Camargue. L’autrice
delinea qui un tipo di donna, che per inseguire gli agi della
modernità, finisce per abdicare perfino al ruolo di madre.
Con questa ben riuscita figura di adulta incompiuta che si
rivela perfino bisognosa di protezione, la scrittrice inscena
un patetico rovesciamento dei ruoli, allorché Camilla le
parla come rivolgendosi a un bambino: “Sono un fallimento
come madre vero Milla?”. “No, perché, a me piace una
madre da proteggere”57. Abituata ai comfort della vita urbana, Babe, incapace di sopportare il vento, gli alberi e gli animali, così dichiara il suo disagio:
“Ma questa è una terra di selvaggi! Non sono in grado di
abituarmici: ho bisogno di comodità, di tanti piccoli agi, di
un bagno di schiuma tiepida, di una bella vestaglia, di uno
spettacolo televisivo, di una partita a carte con le amiche.
Lo so che tutto suona tristemente vuoto e frivolo ma non
mi riesce facile vivere nell’austerità”58.
Se la madre di Camilla impersona la cultura del benessere,
ovvero una umanità che ha completamente smarrito il
senso della natura, gli amici di Vincente, Pedro, Manuelito
e Micaela, rappresentano il turismo vandalico e irresponsabile. I tre ragazzi, infatti, si spingono oltre, inscenando gesti
48
di teppismo – uccidono un innocuo serpente e colpiscono
un fenicottero con una lattina di coca cola – una violenza
gratuita sugli animali che suscita il disgusto di Camilla e lo
sdegno dello stesso Vincente.
Testimone di una coscienza ecologica matura è invece il personaggio di Livia, sorella maggiore di Camilla, ecologa di
professione, venuta nella Camargue per studiarne le specie
animali e vegetali, tutelare l’equilibrio ecologico della regione e salvaguardarne la diversità culturale. L’etica ambientalista del romanzo sembra davvero affidata alle parole di
questa studiosa: “Il nostro compito è quello di salvaguardare questo modo di vivere, senza che però diventi troppo
atipico, cercando di accostare per gradi la gente della città
a questo mondo, senza deteriorare la nativa asprezza dei
costumi, di far entrare anche un minimo di tecnologia,
senza alterare il mirabile equilibrio esistente tra l’uomo e la
natura […] Studiamo le misure più adatte per la tutela di
questo paesaggio raro, di una flora e di una fauna ormai
eccezionali; c’è anche da mantenere sotto controllo l’equilibrio delle acque che regolano e influenzano ogni aspetto
della vita della Camargue: una piena o una siccità possono
significare rovina o morte per tutti, uomini, animali, attività.
In più c’è da tenere d’occhio l’afflusso dei turisti che si
fanno di giorno in giorno più numerosi e anche pericolosi
[…] e teniamo sotto controllo la speculazione edilizia”59.
In questo come in altri suoi romanzi, Giovanna Righini Ricci
affida tuttavia ai giovani protagonisti il ruolo di testimoni
principali di nuovi valori. Camilla, altra donna esemplare
nella inesauribile galleria di personaggi della Righini Ricci –
figura nella quale non è difficile riconoscere la stessa autrice60
– è una sedicenne che nonostante l’età ha imparato a dialogare e interagire con gli uomini su un piano di parità e di
coinvolgersi con loro in azioni rischiose. Scopre così l’amore
per Vincente e nello stesso tempo quello per la natura.
Lo sguardo attento e sensibile di Camilla scopre a poco a
poco il fascino della Camargue, lei che appena arrivata nella
casa dei nonni si stupisce ad esempio di non aver visto nessun oggetto di plastica: “Sembra incredibile! La plastica ha
invaso il mondo ma non la Camargue!”61. Anche la protagonista avverte chiaramente il divario culturale fra i nativi
e i turisti:
49
“Solo chi ci è nata e ci vive sempre qui può sentire come
propria la pelle rugosa della Camargue. Noi veniamo dalla
città, siamo avvezzi da sempre ad un rapporto diretto con
le cose costruite dall’uomo, con i prodotti della tecnologia;
noi non conosciamo il contatto diretto con la natura e tutto
ci spaventa. Nessuno ci ha insegnato il linguaggio vero
della natura; siamo come degli analfabeti che si spaventano
di fronte ad un messaggio incomprensibile”62.
Il suo atteggiamento di comprensione diviene piena disponibilità ad ascoltare il linguaggio della natura, dove, alla
fine Camilla si sente davvero a casa propria: “Io invece amo
tutto di questa vallata”63. In definitiva la Camargue non è
soltanto lo scenario di una esperienza che l’ha resa più
matura e consapevole, nel quale peraltro ha scoperto l’affetto per un suo coetaneo, ma un luogo dell’anima nel quale
la protagonista ha ritrovato se stessa.
Negli anni che precedono la nascita dei movimenti e dei
partiti ambientalisti, ancora una volta Giovanna Righini
Ricci, gioca dunque d’anticipo, denunciando i limiti dell’occidente consumistico e mettendo a fuoco le sfide ambientali
di fine millennio.
I diverso rapporto con la terra/natura sembra dunque stabilire il discrimine fra l’autentico e l’inautentico. L’autrice
che pure dedica pagine di intenso lirismo alla bellezza
dell’ambiente naturale, non propone tuttavia improbabili
fughe dalla civiltà. Mette invece l’accento sulla diversità
culturale, in questo caso fra città e campagna, perché è sulla
terra che l’uomo è destinato ad incontrare l’altro, il diverso.
denuncia inoltre, come già in La collina delle iguane, scritto
qualche anno prima, il disagio della civiltà occidentale,
quello cioè di una parte di mondo in cui gli uomini, sottomettendo la natura, si illudono di conquistare la felicità unicamente attraverso il benessere materiale.
50
La forza dell’amore
La dove soffia il Mistral risulta emblematico anche riguardo
ad un’altra esperienza tipica dell’ età giovanile: la scoperta
dell’amore. E paradigmatico in questo senso è la coppia di
Camilla e Vincente, due ragazzi legati non più da una semplice e generica amicizia ma non ancora da amore pieno,
con esplicite connotazioni sessuali. E nondimeno una esperienza coinvolgente dominata da slanci emotivi di tenerezza, di confidenza e di ammirazione reciproca. I due
protagonisti, presi dalle incertezze della loro età, d’altro
canto non sanno ancora bene che cosa sia il vero amore.
Camilla del resto se lo chiede, e ne parla con Livia, la sorella
maggiore:
“ ‘Sai, Livia, oggi mi sono accorta di voler bene a Vincente’
… ‘Non ti sembra presto per dirlo? Lo conosci da pochi
giorni’ …. ‘Si capisce subito se una persona ti garba oppure
no!’… ‘Anche tu e Pierre vi volete molto bene, vero?’ ‘Sì’.
‘Che cosa è per te, l’amore?’ ‘L’amore è tenerezza, fiducia,
dare ricevere, con slancio, con entusiasmo, è affrontare la
vita insieme … è attrazione, è amicizia, è amicizia profonda,
dedizione’ “64.
Nelle storie di Giovanna Righini Ricci, l’amicizia amorosa
fra i due sessi non travalica mai in amore romantico, con le
sue passioni travolgenti ed esclusive. L’autrice ha del resto
ben presente che la psicologia adolescenziale tende facilmente a idealizzare e ad assolutizzare i sentimenti, come
anche alle pulsioni evasive, alle fughe romantico sentimentali.
L’amore raccontato dall’autrice appare come un vissuto
emotivo radicato nell’esperienza ordinaria, quotidiana e nel
quale rivestono un ruolo importante la volontà, e la ragione
e il contesto sociale rappresentato dai familiari, parenti e
amici. di fronte alla tendenza dei giovani a vagheggiare
forme di autorealizzazione orientate all’assolutezza e alla
perfezione, la scrittrice propone una visione “armonica,
equilibrata e matura, che senza nulla togliere alla dimensione sentimentale, non rinuncia al contributo che il buon
senso e la razionalità possono dare ad una vita autonoma e
completa”65. Anziché l’amore in atto, la scrittrice predilige
51
l’amore nascente, sentito come una poesia lieve e impalpabile, perché sapeva bene che “gli adolescenti sono in attesa
di quel sogno”.
L’esperienza amorosa riconduce peraltro ad uno dei caratteri peculiari, già ricordato, dell’intera narrativa della Righini Ricci: quella di essere romanzi di formazione66. Ciò che
l’autrice intende in primo luogo mostrare è che l’esperienza
amicale/amorosa segna un salto di qualità interiore in chi
la vive. L’amore, in altre parole è carico di sorprendenti
potenzialità formative che plasmano in positivo la instabile
personalità dei ragazzi.
Come Lorenzo di Le scapole dell’angelo acquista fiducia in sé
stesso attraverso l’amicizia con Rossella e; così Vincente,
timido e incerto sul proprio futuro, si scopre alla fine coraggioso nel tentativo di proteggere Camilla. (Altre coppie:
Alida e Paolo di Incontri d’Estate, Mary Beth e Khalil in
Ombre sul Nilo, “cementate” dalla comuni esperienze
avventurose). Alla fine della storia o dell’avventura i personaggi sono dunque cambiati: attraverso l’esperienza,
acquisiscono maturità, consapevolezza e maggiore sicurezza in sé stessi, ridefiniscono il proprio sistema di valori;
guadagnano una visione del futuro più ottimistica; anche
scontrandosi e confrontandosi con il mondo degli adulti.
Altri orizzonti narrativi
dopo il 1978, come si è detto, Giovanna Righini Ricci si
mantiene sulla lunghezza d’onda del mondo giovanile
attraverso gli incontri con le scuole e i fitti carteggi con singoli ragazzi, classi di alunni e gli insegnanti. Questi scambi
epistolari, è un caso tipico di come i suoi figli sparsi per il
mondo – in questo modo l’autrice ama definire i suoi
romanzi – diventano mediatori di un dialogo (letterario ed
educativo insieme) continuo e appassionato con i lettori.
Questi carteggi offrono testimonianze importanti sui nuovi
orizzonti narrativi che la scrittrice propone ai ragazzi già a
partire dagli anni Settanta. In una lettera ad una alunna di
Medolla, l’autrice appena tornata dal Marocco racconta alla
52
sua giovane lettrice di aver visto in quel paese il Medioevo
e il duemila, fianco a fianco “in un campetto ai bordi della
strada che da Casablanca conduce a Rabat c’era in fatti un
contadino con la djellaba che arava con il chiodo e l’asinello
mentre a pochi passi strepitava un moderno trattore”67 .
è in questo orizzonte planetario che l’autrice - a partire da
La collina delle iguane e Là dove soffia il Mistral - arricchisce la
sua narrativa di spunti nuovi e più complessi, secondo una
strategia che mira a superare i confini nazionali e culturali,
e in perfetta sintonia con il suo europeismo convinto professato già dagli anni Sessanta. Nel 1984, ai lettori più avveduti che le chiedono i motivi di questa “metamorfosi”, i
quali trovano i suoi ultimi romanzi più impegnativi, l’autrice risponde che il motivo va ricercato nel fatto che: “i lettori stanno maturando assai rapidamente e accorciano i
tempi sia dell’infanzia sia dell’ adolescenza, immergendosi
sempre più rapidamente nel vivo della dinamica esistenziale. Allora per parlare il loro linguaggio devo adeguarmi
alla loro problematica68. La narrativa è parte di un progetto
educativo che mira ad allargare l’orizzonte esperienziale
dei ragazzi, renderli capaci di cogliere gli aspetti globali,
ecologici dell’ esistenza, offrendo loro una visione europea
e mondiale delle esperienze umane. “In un’epoca in cui le
distanze – scrive l’autrice – si sono praticamente annullate
grazie ai prodigi della scienza e della tecnica, e nella quale
i problemi della sopravvivenza futura dell’umanità accomunano tutti gli individui, a qualunque classe sociale
appartengano e in qualsiasi parte del mondo vivano, è
urgente ed essenziale porsi interrogativi esistenziali e cercare di dare ad essi una risposta consapevole””69
Trasformando il mondo in un villaggio globale, i mass
media hanno infranto gli angusti limiti della realtà paesana
e i ragazzi ne subiscono il condizionamento senza la consapevolezza critica del divenire umano e dei rapporti tra
eventi in apparenza lontanissimi. L’autrice fedele alle sue
scelte stilistiche e consapevole delle sfide educative emergenti, approfondisce la componente valoriale della sua narrativa attraverso motivi inediti: storie ambientate in terre
lontane, protagonisti appartenenti a culture extraeuropee,
temi come la fame e il sottosviluppo, la salvaguardia ecologica, il dialogo interculturale.
53
Incontro fra mondi lontani
Il suo nome è White Heron. Solca l’oceano pacifico con
l’equipaggio al completo servizio di facoltosi vacanzieri.
Alex, il giovane italiano cantante di bordo, confida la sua
inquietudine a Mathilde, una ragazza sconvolta dalla tragica fine del fratello minore, disperso in mare tra l’indifferenza generale dei passeggeri: “Sono senza ieri né domani.
Io adesso viaggio, con la smania di sapere; […] io non ho
radici, seguo la nave”70. Sono parole che esprimono un disagio che investe la condizione umana e che si fa più stridente
quando la nave da crociera, simbolo di una civiltà agiata
ma infelice (e che ha smarrito il senso originario della terra),
giunge in Messico.
Così in La collina delle iguane due mondi s’incontrano e sembrano trovare un’emblematica intesa nell’amicizia che Alex
stringe e Felipe, un ragazzo messicano che vive la sua dura
condizione con fantasia e ottimismo. In questo libro l’orizzonte tematico della scrittrice si allarga: entrano i scena le
contraddizioni del mondo contemporaneo. In primo luogo
l’opposizione tra la civiltà occidentale tecnologica, dove
l’uomo cerca di soffocare la propria inquietudine attraverso
il consumismo; e i paesi del terzo mondo, ancora legati a
modelli di vita arcaici, dove arretratezza, miseria e ignoranza coesistono fianco a fianco con il lusso, lo spreco e i privilegi, senza fondersi mai. Gli abitanti del Messico, come
l’autrice fa dire al dottor Erik, medico di bordo, rivolgendosi ad un Alex indignato per la loro indifferenza verso la
morte: “possiedono una schiettezza, una semplicità che noi
occidentali, abituati a secolari convenzioni sociali, scambiamo per indifferenza. Ricorda che questa gente ha ancora
bisogni primari da soddisfare, lotta per la sopravvivenza,
mentre noi godiamo di tutto il necessario e anche del superfluo; non ci può essere un parametro unico di comparazione. Si tratta solo di sapere se sono più felici o più infelici.
Vedi da noi in Svezia non esistono la fame, la miseria, il sottosviluppo: lo Stato protegge accompagna il cittadino dalla
culla alla tomba, con equa ripartizione del benessere. Eppure è molto difficile dire se il modello di vita svedese porti
alla felicità o all’alienazione […]. Io mi domando dove stia
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andando l’umanità, se verso un’era tecnologicamente perfetta, in cui ci sarà assoluta assenza di bisogno e di dolore,
o verso l’alienazione”71.
Come i turisti scacciati dal capo indiano Bella Bella, in Alla
fine del sentiero, anche i passeggeri della White Heron, una
volta sbarcati nel porto messicano, non vedono che gli
aspetti superficiali e folcloristici di questo paese, mentre
Alex, guidato da Felipe – che per tutto il romanzo si esprime sempre nella sua lingua madre – ne coglie la vera essenza, la cultura e la straordinaria umanità.
Un episodio che mostra la distanza culturale ed etica tra i
due mondi è i rifiuto di Felipe di vendere ad un turista il
cagnolino del fratello Jesus. Nonostante la cospicua somma
di denaro offerta che certamente avrebbe alleviato la misera
condizione della sua famiglia, Felipe esige che il cane debba
restare a far compagnia all’infelice Jesus, gravemente
ammalato. La vicenda mette a confronto una civiltà, quella
del turista, che assegna al denaro un ruolo indispensabile
per conseguire la felicità, ad un’altra, nella quale questo
valore, un semplice mezzo per soddisfare bisogni primari,
non può in alcun modo sostituire i valori dell’ amicizia,
degli affetti. è in nome dell’amicizia e della riconoscenza
che Felipe regala invece il cagnolino ad Alex che con la sua
testimonianza ha salvato l’amico messicano da una ingiusta
condanna. Quest’ultimo rinuncia perfino al guadagno di
una giornata lavorativa per condurre l’amico Alex alla collina delle iguane. Tra i pericoli e le meraviglie della palude,
ecco i due ragazzi incamminarsi alla scoperta dell’anima
profonda e leggendaria di un’altra terra, un altro paradiso
naturale.
“Attraversarono di corsa una spiaggetta lunata, di sabbia
bianca dove l’acqua veniva a morire dolcemente tra scogli
neri. Su uno di essi, un grosso pellicano, immoto, le ali penzolanti, guardava fisso il volo dei gabbiani sopra il suo
capo. Si inoltrarono in una stretta gola dirupata: al di là,
nitida contro la roccia turchina dell’oceano, si ergeva la collina, tutta coperta di iguane. Erano migliaia, abbarbicate
alla roccia, pigre e imbambolate sotto il solleone: un tappezzeria vivente! “Eccole là, las iguanas!” si estasiò Felipe. Lo
prese per un braccio e lo trasse vivamente nell’ombra di un
fresco ciuffo di alfalte. Alex lo imitò e tutti e due tacquero a
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lungo, osservando nella gran pace del cielo e del mare, i
lenti spostamenti delle iguane crestate: alcune dormivano
placide, con la lunga coda abbandonata, altre strisciavano
pigramente sulla roccia calda. “Quando il sole è nel punto
più alto la balena bianca appare al Capo di san Luca, balla
un po’ fuori dall’acqua poi scompare. La zia Ines che è di
origine nomade dice che quando compare la balena bianca
colui che la vede muore entro un anno, lui o qualcuno della
sua famiglia”72.
E la collina delle iguane è il luogo segreto ma anche lo spazio interiore dove Felipe nonostante tutto ritrova il suo più
autentico momento di felicità in comunione con la natura.
Qui, nel romanzo più esotico della scrittrice, Alex, l’inquieto
giramondo senza radici, scopre finalmente il senso della
terra che aveva dimenticato durante la sua esistenza errabonda. La chiusa del romanzo riassume il senso di un’avventura: ”Tutti noi abbiamo la nostra ‘collina delle iguane’:
basta saperla riconoscere” al quale farà eco qualche anno
dopo “Tutti noi abbiamo dentro la nostra Camargue”.
Come in altre storie che l’autrice colloca nell’orizzonte della
contemporaneità, quello stesso in cui i ragazzi vivono, il
libro induce dunque il lettore a riflettere sul diverso atteggiamento delle persone nell’affrontare la lotta per la sopravvivenza, la vita, la malattia, la morte, a meditare sul senso
della felicità, a dibattere sul destino del mondo - ma ancora
una volta senza fornire giudizi di merito o indicare le soluzioni “giuste”, o presunte tali, ma con il fine di sviluppare
nei ragazzi la necessaria autonomia di giudizio.
Il messaggio dell’autrice, in ogni caso, si conferma un invito
a superare ogni forma più o meno compiaciuta di tolleranza, nella conquista di una reale e profonda consapevolezza
del valore essenziale della diversità perché “L’incontro tra
persone appartenenti a culture diverse è sempre per la
Righini Ricci, una occasione di crescita e di maturazione,
specie se si tratta di adolescenti alla ricerca della propria
identità”73.
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Storia di un migrante
Negli anni ottanta il fenomeno dell’immigrazione extracomunitaria registrava una incidenza del tutto inimmaginabile rispetto alle ondate che avrebbero investito la nostra
penisola soltanto un decennio più tardi. Giovanna Righini
Ricci, che risiede a Torino fino al 1986, coglie in anticipo il
segno dei tempi e così chiaramente da dedicargli un libro.
Ancora una volta nella fucina letteraria dell’autrice si compie un processo alchemico che dai fatti di cronaca, dalla persone incontrate e dalle cose viste e sentite, distilla la fiction,
secondo un metodo narrativo che conferisce al ‘problema’
(o al fenomeno sociale da indagare) la consistenza di un
personaggio in carne e ossa. L’autrice trova l’attore della
sua trama rocambolesca in un giovane Tuareg, il quale,
come lei stessa rivelerà più tardi ai suoi lettori: “esiste veramente e ora fa da guida turistica guidando in fuoristrada i
viaggiatori che amano visitare attraverso il deserto le
casbah: ho conosciuto la sua terra e la sua gente e mi è rimasto nell’anima un profondo rispetto per i valori che ancora
caratterizzano la società degli uomini blu”74.
Ecco allora entrare in scena il giovane Hassan, protagonista
di un romanzo che anticipa il problema della convivenza e
del dialogo fra le culture. In Il sogno di Hassan il protagonista
abbandona la sua tenda nel deserto per raggiungere Marrakech, la città dei suoi sogni, un’aspirazione che lo allontana dall’ambiente familiare vissuto come angusto e
limitante: “Madre voglio andare laggiù nella città di ocra
rossa! “Io voglio andare via come i miei fratelli” ripeté con
ostinazione. “io voglio vedere le torri di Marrakech, io
voglio vedere i bianchi palazzi dai portali arabescati, io
voglio vedere il mondo, madre!”, gridò Hassan e la sua
voce suonò aspra nel silenzio del mattino”75.
Ma il viaggio si trasforma ben presto in una rocambolesca
peripezia che lo dirotta verso mete del tutto diverse, come
immigrato clandestino prima in Spagna e poi in Italia, a
Torino, dove si ritrova venditore ambulante, mendicante e
infine ballerino acrobata in un circo. Anche in questo caso
evidente risulta il parallelismo con altre opere: come per
Lorenzo di Le scapole dell’angelo e Aigle Noir di Alla fine del
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sentiero, anche per il giovane Tuareg l’impatto con la civiltà
moderna è traumatico, fonte di umiliazioni e sofferenze.
Coraggioso e leale, guidato da una speranza in una esistenza più umana, Hassan riesce tuttavia ad affrontare difficoltà
di ogni sorta senza mai rinunciare alla sua dignità. La sua
profonda religiosità, e la fede nei valori della sua terra,
saranno per lui valido scudo contro i colpi dell’avversa fortuna. L’avventura diviene così una proficua lezione di vita:
il protagonista non si trasforma in un disadattato e alla fine
riesce a coronare il suo sogno. La vicenda di Hassan - un
percorso dalla struttura circolare articolato nelle fasi di a)
allontanamento dal luogo di origine, b) esilio, c) ritorno a
casa - è così un racconto che, attraverso la lezione delle cose,
addita la possibilità di migliorare la propria condizione e
realizzare i propri sogni senza recidere i legami con la propria cultura d’origine. Il protagonista, proiettato in un orizzonte di esperienza completamente nuovo, scopre mare, la
neve, nuovi lavori e ruoli.
La condizione del protagonista esemplifica quella tipica dei
nuovi arrivati, ben più umiliante di quella vissuta da Lorenzo in Le scapole dell’angelo: “Erano parecchi mesi ormai che
si trovava a Torino, dormendo di notte con gli altri in una
soffitta umida e fatiscente e lavorando di giorno agli ordini
dell’uomo dai capelli rossi. E sempre erano rimbrotti, per
le vendite scarse, per la poca volontà che ci mettevano.
Soprattutto Hassan e Ibrahim venivano accusati di essere
stupidi e inerti: erano i più giovani e vendevano poco. Gli
altri percorrevano invece ogni giorno chilometri e chilometri supplicando, insistenti e afflitti, finché qualcuno comprava un accendino, una coperta di lana, un tappeto.
Ibrahim e Hassan no, non se la sentivano di mendicare di
umiliarsi e i loro fardelli tornavano alla soffitta pressoché
intatti, ed erano rimproveri a non finire e minacce e castighi
e notti passate senza chiudere un occhio, con il freddo che
attanagliava le carni e la fame che mordeva lo stomaco”76.
L’odissea di Hassan prosegue in un continuo alternarsi di
schiavitù e fughe dove l’adattamento a situazioni più disparate è di volta in volta vissuto dal protagonista come un presente provvisorio, nell’attesa che il sogno diventi realtà.
Le vicissitudini del protagonista, il suo incontro con una
cultura diversa, si configura come una sorta di “viaggio ini-
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ziatico” che segna il passaggio dall’ adolescenza all’età
adulta. Similmente ai personaggi delle fiabe, egli esaudisce
un suo sogno: conoscere il mondo e le sue meraviglie, conquistarsi una propria indipendenza e magari riuscire anche
a far fortuna77.
Se in La collina delle iguane troviamo un ragazzo italiano che
incontra una cultura diversa, ne Il sogno di Hassan è un
ragazzo straniero a scoprire la realtà europea e che dopo
averne fatto esperienza “torna rinvigorito nel proprio alveo,
rinforza la sua identità, pur avendo imparato a conoscere
la diversità”. Riguardo a questo romanzo, che indica un
percorso auspicabile nell’incontro fra le culture, daniele
Giancane ha osservato che “l’incontro con l’altro non deve
divenire abdicazione alla propria identità, ma anzi riscoperta delle fondamenta di questa e allo stesso tempo accettazione della pari dignità dell’ altrui identità ed ai bisogni
essenziali dell’essere umano, ad ogni latitudine”78.
Chiara e Aigle Noir: culture a confronto
L’uomo è in quanto comunica, è tanto più ricco di interiorità, consapevolezza, socialità quanto più è in grado di esprimere compiutamente se stesso, il suo mondo intimo, di
renderne partecipi gli altri, di scambiare con gli altri le sue
esperienze, di interagire con il mondo circostante79.
Educare alla contemporaneità, o in altri termini alla globalizzazione, significa allora attrezzare i ragazzi alle sfide di
un mondo in cui i mezzi di comunicazione di massa superano ormai ogni frontiera, annullano le distanze tra le persone e fra i popoli della terra. Ne consegue il rapido
sgretolarsi di valori e consuetudini millenarie che cedono
al dilagare della cultura piatta e uniforme dell’era tecnologica, che snatura le persone e le rende disadattate. L’era di
Internet è alle porte: lo scrittore per ragazzi, l’educatore
hanno il compito di fabbricare antidoti in un mondo sempre
e più povero di veri ideali, che non siano quelli dell’ arrivismo e del consumismo.
Sulla base di questa consapevolezza – siamo negli anni
59
dell’avvento della televisione a colori e l’autrice è particolarmente attenta al rapporto fra media ed educazione – la
sua nuova produzione letteraria, intende calare i lettori nel
cosiddetto il villaggio globale, espressione molto in voga in
quegli anni coniata dal sociologo canadese Marshall Mac
Luhan. In questo nuovo contesto, destinato a plasmare l’immaginario di una generazione, “la pacifica convivenza –
scrive la Righini Ricci – richiede a tutti noi contatti con persone molto diverse, per cultura e modo di essere, e uno sforzo per accettare degli altri ciò che ci unisce al di là e al di
sopra di ciò che ci divide”80.
In questo orizzonte problematico l’autrice concepisce una
delle migliori pagine della sua letteratura, rivolte agli adulti
di domani affinché siano motivati, resi responsabili e addestrati a convivere con le realtà più diverse.
Nel maggio del 1985 Giovanna Righini Ricci scrive ai ragazzi di Mirandola informandoli del nuovo libro che sta portando a termine, un romanzo ambientato fra gli irochesi del
Canada, nella Riserva Indiana di Caughnawaga. Racconta
la storia di un giovane pellerossa chiuso in una squallida
riserva e pieno di rancori contro coloro che sono, secondo
lui, responsabili di un vero e proprio genocidio.
In Alla fine del sentiero81 ritroviamo il topos della letteratura
multiculturale di Giovanna Righini Ricci: l’incontro fra il
giovane italiano e quello di altra cultura82. Il libro racconta
la vicenda di Chiara, in vacanza nei dintorni di Quebec,
presso lo zio Luigi da anni emigrato in Canada. L’evento
che innesca la trama è l’incontro della ragazza con Aigle
Noir, coprotagonista, il giovane indiano ribelle, la cui condizione è segnata dal trauma dell’identità perduta. Anche i
vincoli familiari e comunitari sono stati recisi: il padre alcolizzato, la sorella dedita alla droga, i membri della sua tribù
dispersi e ridotti alla fame, sfruttati e costretti a lavori umilianti. Non stupisce dunque il suo totale risentimento verso
i “bianchi” visti come nemici e oppressori: “Ieri i bianchi
sono venuti a prendere le nostre praterie, i nostri boschi e
le nostre risorse, e ci hanno cacciati nelle riserve, a morire
di stenti, come cani rognosi; ieri ci avete portato le vostre
malattie schifose, che la mia gente non conosceva, e avete
fatto morire i nostri bambini, i nostri vecchi! Ieri avete bruciato le cervella dei nostri guerrieri con l’alcool! oggi
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distruggete quello che resta della mia gente con la droga! E
non c’è pace, non c’è legge, non c’è giustizia, quando si tratta della mia gente, quando a soffrire, a morire è solo un selvaggio!”83
Similmente a quanto accade in Là dove soffia il Mistral riguardo alla questione ecologica, anche in Alla fine del sentiero
Giovanna Righini Ricci affronta i vari aspetti del problema,
concernente la minoranza etnica degli irochesi della riserva
indiana, attraverso i diversi e contrapposti atteggiamenti
dei personaggi. Se Aigle Noir (aquila nera) incarna la figura
del ribelle intransigente, Kateri, la moglie indiana dello zio
Luigi, e direttrice della scuola nella riserva irochese, rappresenta il vero trait d’union fra passato e presente, il punto di
equilibrio fra la sua etnia di provenienza e il mondo contemporaneo. Sa cavalcare e tirare con l’arco ma conosce anche le
lingue, sa usare il computer, guida l’automobile e apprezza
perfino Giuseppe Verdi; ha insomma assimilato la cultura dei
bianchi. oltretutto, essendo discendente da una indiana convertita al cristianesimo, osserva con convinzione i rituali
della religione cattolica e, come scrivono Francesco e Giovanni Masini, “Se pensiamo che la cristianizzazione dei pellerossa è stata adottata come motivazione per la conquista del
Nuovo Mondo, non può sfuggire l’amara ironia della situazione”84.
diversa invece è la posizione di Luigi, il marito italiano di
Kateri. La sua visione etnocentrica, inquinata da stereotipi
e pregiudizi, non conosce alternative ad un completa assimilazione degli indiani nella società dei bianchi, della quale
sembra ignorare i disvalori. Egli non si avvede che, come
spesso accade nell’incontro tra civiltà cosiddette “avanzate”
e culture “minoritarie”, “bollate” come primitive, sono proprio queste ultime ad evidenziare contraddizioni e ipocrisie
nella cultura dominante.
In stridente contrasto con la figura di Kateri si pone anche
l’atteggiamento dei turisti, che l’autrice, anche in questa storia, non esita a mettere in cattiva luce; nient’altro muove
infatti la loro superficiale curiosità fuorché gli aspetti più
folcloristici della cultura indiana, peraltro considerata selvaggia. Essi riducono a spettacolo la tragedia di un popolo
che non vuole rinnegare se stesso per piegarsi alla frenesia
consumistica, che finisce per distruggere i suoi valori e le
61
sue tradizioni. Ecco allora il drammatico episodio in cui il
capo indiano Bella Bella scaccia i turisti che vorrebbero visitare il suo villaggio, perché vuole essere un uomo e non un
fenomeno da baraccone, zimbello dei vacanzieri.
In Bella Bella, Aigle Noir vede una figura esemplare, un
esempio di resistenza ad oltranza all’invadenza culturale
dei “bianchi”. Egli resta comunque un adolescente prigioniero delle illusioni del passato, la cui condizione esistenziale è ben espressa da Kateri: “Io spero che Aigle Noir
affronti coraggiosamente l’esistenza di oggi. Ma deve arrivare da solo a questa meta. ogni volta che ho voluto fargli
accettare le regole del divenire umano ha creduto che volessi asservirlo ai bianchi ed è fuggito via. Invece io volevo che
superasse il muro d’ombra e di incomprensione che separa
la mia gente dagli altri, volevo che mi aiutasse a rendere la
nostra gente meno infelice. Aigle Noir non ha ancora capito
quanto io, nel mio lavoro, abbia bisogno di persone della
nostra stirpe che sappiano conciliare l’antico col nuovo”85.
Le parole della donna esprimono chiaramente un punto di
vista adulto e ragionevole, tali da apparire come la soluzione più logica del problema. Eppure non fanno breccia nel
cuore di Aigle Noir; sono del resto sempre falliti i tentativi
di Kateri di “integrare” il giovane pellerossa. Solo una esperienza emotivamente coinvolgente, anche in questo caso
una amicizia, può portare Aigle Noir a maturare un diverso
livello di consapevolezza.
E sarà proprio Chiara, aperta ai mondi e alle culture diverse, libera da pregiudizi e interessata al valore delle persone,
ad aprire una breccia in quel muro d’ombra. Tra i due, nati
e cresciuti in ambienti lontani e radicalmente diversi, si crea
a poco a poco una comprensione autentica e spontanea, che
si dipana anche qui in uno scenario naturale miracolosamente intatto. Fra i due, Giovanna Righini Ricci inscena un
esempio illuminante di dialogo interculturale:
“ ‘E adesso che è così vecchio come fa a sopravvivere?’
‘Bella Bella sa che la sua fine è vicina’. disse Aigle Noir,
solenne. ‘Ma gli altri, i bambini avrebbero il diritto di andare via di qui, di condurre una vita diversa’ incalzò Chiara.
Il viso di Aigle Noir era nero come la tempesta: “Quale vita
diversa! Proruppe: “Quella dell’alcool, della droga, della
delinquenza, dell’indegnità?”.
62
Chiara non mollò la presa: “poco lontano da qui c’è la scuola, il progresso, la lotta alle malattie, la cultura […]”.
Aigle Noir scosse la testa dubbioso. “Anche mio nonno vive
ancora nella vecchia casa di campagna che lo ha visto nascere!, proseguì con veemenza Chiara: “Ma l’ha fornita di luce
elettrica, di acqua corrente, e possiede un frigorifero, il telefono, la televisione! Lui dice di volere ancora fare il contadino, ma nel suo orticello sperimenta nuove varietà di
fragole che danno frutti quasi tutto l’anno! Ecco, questo per
me è giusto: accettare il progresso che aiuta la vita, alleggerendo la fatica umana, liberando dal bisogno!”. Tacque e
guardò preoccupata il viso di Aigle Noir. Il ragazzo taceva
ora a testa bassa”86.
Il sentimento che il giovane irochese prova per Chiara, –
che, per di più, contro la volontà del padre Ernesto, lo ha
sottratto alla condanna con l’accusa di omicidio, dopo aver
provato la sua innocenza fornendogli un sicuro alibi – lo
spinge verso un’ intesa con quel mondo prima tanto ostile.
Lui che aveva sempre rifiutato di essere chiamato con il suo
nome di cittadino canadese, così saluta Chiara in partenza
per l’Italia: “Chiamami, chiamami Pierre! Proruppe il ragazzo, a un tratto, con gli occhi accesi; e nel momento in cui
pronunciava quel nome, capì di essere giunto alla fine del
sentiero e di essere pronto a imboccare la strada maestra.
Arrivederci Pierre! Mentre dentro il petto le si accendeva
una girandola di luci””87.
Ad appena un anno dalla sua pubblicazione, Alla fine del
sentiero vince il premio di Letteratura per l’infanzia Città di
Bitritto (in cui la giuria è composta anche da ragazzi) e sollecita gli innumerevoli commenti dei suoi lettori. Così, ai
ragazzi delusi per il mancato lieto fine della vicenda, Giovanna Righini Ricci risponde di aver sollecitato i lettori a
“continuare mentalmente la storia e di inserire un finale
personale: io infatti non credo al vissero sempre felici e contenti e amo lasciare aperto il finale88.
Anche in questo romanzo la vita adolescenziale si configura
come sorgente di valori autentici: l’autrice affida ancora una
volta l’incontro tra due mondi al sentimento di amicizia,
vissuto dai protagonisti come evento che imprime una svolta nel loro percorso esistenziale e diviene conquista di consapevolezza, spirito critico e maturità psicologica.
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Idillio e avventura nel deserto
I numerosi incontri con i ragazzi delle scuole, da una città
all’altra, sono anche occasioni per dissolvere diffusi luoghi
comuni e stereotipi che circondano lo scrittore per ragazzi.
Giovanna osserva al riguardo che fra i giovanissimi che le
scrivono, “diversi mi immaginano piccola, vecchia e grassa,
con una gran crocchia di capelli bianchi e tondi occhialini
sul naso! Misteri dell’immaginario collettivo!”.
Per rendere gli incontri stimolanti ed efficaci, Giovanna
Righini Ricci raccomanda ogni volta agli insegnanti di preparare con cura gli alunni. Vuole infatti incontrare non semplici spettatori ma ragazzi che abbiano letto alcuni dei suoi
libri e intendano rivolgerle delle domande, muovere obiezioni, discutere delle tesi, essere in una parola protagonisti
dell’incontro. Questo feeling ininterrotto, alimenta ben presto una mole impressionante di corrispondenza alla quale
la scrittrice, da Bologna dove risiede dal 1986, risponde
sempre, senza eccezioni. è questo carteggio che le consente
di “saltare sulla frequenza d’onda dei giovani”89.
Nel frattempo i giovani stanno infatti cambiando; sui banchi della scuola media siedono ragazzi nati negli anni Settanta. La televisione a colori è entrata in ogni casa,
occupando un tempo crescente nella vita quotidiana dei
giovani; sta per cominciare anche in Italia l’era dei videogiochi, dei walkman e dei primi home computer mentre gli
effetti speciali e la grafica computerizzata rilanciano attraverso la cinematografia il genere fantascientifico.
In questo nuovo clima culturale Giovanna Righini Ricci
scrive il suo romanzo più avventuroso ed in qualche modo
più eroico, un altro elogio del multiculturalismo e un invito
a superare le anguste prospettive eurocentriche della cultura occidentale.
Aggiudicandosi il premio Lunigiana nel 1990 e il premio
Valtenesi, nel 1991, Ombre sul Nilo, pubblicato nel 1990, presenta un intreccio ricco di suspense giocato in un altro scenario esotico e irreale del deserto egiziano. Sul filo di una
trama incalzante che si snoda fra dialoghi serrati e scorci di
paesaggio come una sequenza cinematografica, l’autrice
tesse un’altra delle sue avvincenti storie.
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Concepito durante il suo viaggio in Egitto nel 1986, il
romanzo narra la vicenda di Mary Beth, un’adolescente
figlia di un giornalista americano, sequestrata da misteriosi
guerriglieri mentre sta trascorrendo una vacanza sul Nilo
con la famiglia. Scatta allora l’affannosa ricerca della ragazza da parte dei familiari e della polizia. Ma mentre le indagini procedono senza esito, è il giovane musulmano Kalil,
che la rintraccia e riesce a liberarla, mettendo a repentaglio
la propria vita. Generoso, amante della giustizia e pieno di
umana solidarietà, porta con sé Mary Beth lungo l’avventurosa peripezia del ritorno a casa.
Va peraltro sottolineato che Kalil sembra distinguersi nettamente nella affollata galleria dei personaggi della nostra
scrittrice. Per un verso, egli rappresenta un giovane normale – nel romanzo lavora al tourist shop della Nefertiti Queen
la nave che trasporta i turisti lungo la valle del Nilo – che
sogna di laurearsi in Italia per “entrare un giorno in un
gruppo di esperti che si battono per armonizzare rispetto
della natura e progresso tecnologico”90. dall’altro, il suo
ruolo prevalente nel romanzo resta tuttavia quello di un
piccolo eroe, caso unico nella narrativa della Righini Ricci;
se per eroe si intende colui che porta a termine con successo
una impresa nobile ma rischiosa, dove il rischio riguarda la
perdita della vita o della libertà. Profondo conoscitore della
sua terra, egli riesce infatti a liberare Mary Beth dalla prigionia grazie alle sue virtù: astuzia, perseveranza, coraggio,
sangue freddo, e tanta fede in Allah.
desta poi meraviglia nel lettore il fatto che egli riesca a portare a termine una così ardua impresa senza fare ricorso alla
violenza. La scrittrice ci presenta un personaggio moralmente ineccepibile la cui condotta risponde in pieno alla
descrizione che lo zio tutore rilascia alla polizia:
“Ho fatto crescere Kalil nella mia casa e gli ho insegnato il
rispetto della legge di dio e di quella degli uomini. Egli è
innamorato della sua terra, del suo deserto […]. è un ragazzo dalle qualità eccezionali: leale, generoso con tutti. Mai
farebbe qualche cosa in contrasto con i principi che gli ho
inculcato! A costo della sua vita! Mai Kalil tradirebbe l’amicizia. Mai farebbe del male a una donna. Il suo codice
d’onore è ferreo”91.
Sotto questo profilo, il giovane egiziano resta una figura
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assai diversa dagli altri personaggi maschili di Giovanna
Righini Ricci; da Sandro di Il segreto della Cisa a Paolo di
Incontri d’ estate, da Lorenzo di Le scapole dell’Angelo ad Alex
di La collina delle Iguane, o Vincente di La dove soffia il Mistral,
come pure di Hassan e di Aigle Noir.
A complicare la vicenda, grava tuttavia su di lui il sospetto
di essere complice con i rapitori. Perfino una volta terminata felicemente l’avventura quel pregiudizio persiste contro
ogni evidenza, che l’autrice mette in bocca alla madre di
Mary Beth: “nessuno mi leva dalla testa che quel ragazzo,
quel Kalil, quel pezzente!, era d’accordo con i tuoi rapitori!”. Mary Beth balzò in piedi: “Tu non puoi pensare una
cosa del genere! Sei ingiusta, ingiusta!”.
Sono parole che esprimono un motivo ricorrente delle sue
storie, ovvero la denuncia della superficiale insensibilità
dell’uomo occidentale, incapace di confronto e di ascolto.
Tutt’altro messaggio emerge invece dalla straordinaria esperienza della ragazza americana. Con Kalil, Mary Beth divide
stenti e disagi, ma conosce anche il fascino di un altro Egitto,
i valori della cultura araba e di una fede islamica autentica.
E, immancabile, è nel viaggio che la riporterà a casa, attraverso una rocambolesca trafila tra predoni, tempeste di sabbia, i
rapitori alle calcagna, che nasce l’idillio tra i due, la promessa
d’amore (un sentimento universale che oltrepassa le barriere
tra le culture) il desiderio di vivere per sempre insieme.
Come Camilla è conquistata dalla Camargue – e da Vincente che la protegge in un momento difficile – così Mary Beth,
una volta scoperto l’Egitto insieme al suo salvatore, matura
un atteggiamento completamente diverso nei confronti
della cultura occidentale, alla quale appartiene. Basta pensare all’ostinazione con cui la ragazza intende conservare i
vestiti, miseri e laceri, indossati durante la prigionia e il
lungo viaggio verso casa e che la madre intende eliminare
per cancellare ogni segno della dolorosa vicenda. L’Egitto
è divenuto ai suoi occhi un paese dell’anima, parte di lei:
“Allora Mary Beth vide aprirsi davanti ai suoi occhi ancora
lontano il nastro lussureggiante del Nilo, che ora più che
mai le parve il dio padre degli antichi egizi, fonte di vita. In
quel paesaggio essenziale, si sentiva improvvisamente rinfrancata, come se non avesse conosciuto mai un’altra esistenza: la cultura europea con la sua tecnologia avanzata, il
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suo consumismo e il suo divenire frenetico, era una cosa
lontana, irreale. ‘Non possiedo neanche uno spazzolino da
denti’ pensò a un tratto divertita: ‘E non me ne importa
niente!’. E anche la sua bella casa di Roma, dotata di ogni
comfort, le sembrò di colpo estranea, irreale così come i bei
vestiti firmati, gli amici chiassosi, i divertimenti costosi: così
futili, così remoti! Mary Beth aggrappata alla sella, non
avvertiva più la stanchezza, né la sete. In quel paesaggio
essenziale si sentiva improvvisamente rinfrancata, a suo
agio, come se non avesse conosciuto mai un’altra esistenza,
una dimensione diversa: la cultura europea, con la sua tecnologia avanzata, il suo consumismo e il suo divenire frenetico, era una cosa lontana, irreale!”92.
Sono parole che esprimono chiaramente una critica dell’eurocentrismo e dell’etnocentrismo; un rifiuto cioè a giudicare
gli altri secondo il proprio sistema di valori, la convinzione
che dalle differenze culturali è invece possibile ricavare una
lezione positiva. In questo intreccio sentimentale dove la
poetica dell’incontro è al tempo stesso storia di formazione
e messaggio di civiltà, l’amore per Kalil e per la sua terra –
a incontrarsi non sono le culture ma le persone – divengono
infine esperienza di risveglio ad una vita più matura e consapevole: “io sola conosco la magia di questa terra, una
magia che mi canta dentro e che mi fa più ricca”93.
Dentro la scrittura. Un’ape bottinatrice
Quando Giovanna Righini Ricci racconta ai ragazzi il proprio mestiere di scrittrice, paragona se stessa ad un’ape operaia: come il laborioso insetto fa provvista di miele così
l’autrice raccoglie le esperienze dei “suoi” ragazzi, dando
voce alle loro ansie, alle loro attese, alle loro problematiche
esistenziali. I suoi lettori di Quiliano, in provincia di Savona, così ricordano la scrittrice dopo averla incontrata nel
1989: “La signora Righini Ricci si definisce un’ape bottinatrice, una saccheggiatrice di ragazzi; adesso che ha lasciato
la scuola, i fiori dai quali raccoglie il nettare sono i ragazzi
che lei incontra su e giù per l’ Italia”94.
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La metafora dell’ape bottinatrice riassume l’originale
“interrelazione narrativo creativa” che l’autrice istaura con
i ragazzi, unendo la comunicazione letteraria alla prassi
pedagogica: come nell’insegnamento a misura di alunno i
ragazzi sono protagonisti della propria formazione, così
anche rispetto alla creazione letteraria l’autrice assegna loro
un ruolo attivo di compartecipi alle sue scelte narrative.
L’immagine dell’ape saccheggiatrice individua, anzitutto,
la fase che precede la elaborazione e la stesura dell’opera
narrativa, quell’atteggiamento di ricezione attiva raccogliendo episodi realmente accaduti, offerti dai lettori.
La conoscenza del lettore e del suo orizzonte esistenziale è
del resto il presupposto del suo realismo narrativo. Lo scrittore per ragazzi deve essere “sensibile come un barometro
ai mutamenti dei tempi, dei costumi, delle mode”. Ecco perché i suoi romanzi nascono tutti da esperienze reali: l’autrice ha necessità di vedere con i propri occhi l’ambiente che
descrive, e di conoscere direttamente o indirettamente i personaggi.
Negli anni dell’insegnamento Giovanna Righini Ricci aveva
sempre rispettato il carattere spontaneo, facoltativo e segreto dei diari personali. Molti suoi romanzi hanno del resto
preso spunto da quegli elaborati e dalle vicende, liete o tristi, dei loro estensori. Accanto ai diari personali degli alunni, l’autrice ha tratto ispirazione dalle circostanze più
disparate: viaggi, letture di classici e di gialli (Giovanna
Righini Ricci apprezzava in particolare Georges Simenon)
di quotidiani che faceva leggere anche in classe, di ricordi
d’infanzia e di episodi narrati da amici e parenti.
Nella prospettiva del realismo psicologico, la creazione letteraria richiede un atteggiamento del tutto peculiare, poiché
“essere scrittori significa guardare la realtà con occhi diversi”. Per chiarire in che modo la soggettività dell’autore
guida l’elaborazione artistico narrativa, la scrittrice ama
citare speso questo brano di Maupassant: “Bisogna guardare tutto quello che si vuole esprimere molto a lungo e con
estrema attenzione, per scoprire gli aspetti che nessuno ha
ancora colto. Per descrivere ad esempio un fuoco che fiammeggia o un albero nella pianura, restiamo là di fronte, a
guardare fino a che quell’albero e quel fuoco non rassomiglino più, a nessun altro albero, a nessun altro fuoco95.
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Questa presa diretta sulle cose configura dunque un processo di identificazione, empatia, rispetto a personaggi e
situazioni che si intendono descrivere. Nasce da un esercizio di osservazione meditativa del reale, come si legge nella
lettera ai ragazzi di Mirandola: “Se vedo un bambino che
gioca con un cucciolo, un vecchietto che sbriciola un biscotto ai passeri, un gatto randagio sopra un cornicione, io mi
fisso subito nella contemplazione e quelle immagini mi
restano dentro, come una musica; poi un giorno quando
prendo in mano la penna, riemergono trionfanti e mi recano
la gioia che si prova ritrovando dei cari amici”96.
A Giovanna Righini Ricci i libri nascono dentro “in mesi di
silenzioso travaglio”: la gioia della creazione letteraria, il
suo momento aurorale, si ritrova in un’altra lettera dal tono
ironico che bene esprime la metafora della gestazione:
“cammino per strada pensando ai miei personaggi, stendo
il bucato descrivendo mentalmente una burrasca sulla foresta canadese, brucio l’arrosto meditando sull’alta marea
della Baja di Fundy e così, quando mi metto alla macchina
da scrivere, esso scorre fuori tutto intero, senza pause né
ripensamenti: il tempo di rileggere il manoscritto, di correggerlo e ribatterlo ed è fatto! Tre, quattro mesi in
tutto!””97.
Ma tra l’ideazione di un romanzo e la sua consegna all’editore, sta il lavoro narrativo vero e proprio, ossia quel processo stilistico razionale e critico che l’autrice articola in due
fasi. La prima privilegia l’impalcatura essenziale del periodo, per conferire alla narrazione chiarezza, espressività e
adeguamento alla cultura del lettore, affinché possa calarsi
nel vivo della vicenda; “quindi spazio alla immediatezza
delle situazioni attraverso scansioni rapide, visive, all’indagine introspettiva”98. Una volta individuate le forme verbali
adatte a conferire vivacità all’azione e delineata una impalcatura sintattica accessibile a tutti, la scrittura entra nella
fase conclusiva dove subentra la ricerca meticolosa “dell’aggettivazione, fondamentale per evocare l’atmosfera, stimolare la fantasia, creare una suggestione; ottenere
insomma che la parola si faccia immagine, colore, musica,
vita e ridiventi onnipotente99.
è anche grazie alla loro parola viva che le storie di Giovanna Righini Ricci confermino la loro validità anche a distanza
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di anni, come dimostrano le numerose riedizioni di sue
opere negli anni Novanta: Le stagioni dell’ arcobaleno (1990),
versione rivista di Le Cicale (1967) e Il ballo delle cicale (1970);
Il tesoro di Caterina (1990), che ripropone la trama di Il segreto
della Cisa (1968); Due di noi (1992), nuova versione di Incontri
d’estate (1972); Un rifugio in fondo al mare (1992), che riprende
le storie di animali di I figli di Kira (1973); Sogni di mondi lontani (1992), che ripercorre la storia di La colina delle iguane
(1977); Erano tutti amici (1995), versione rivista di Ragazzi
sulla linea del fuoco (1971), e infine Il sogno di Hassan (1996).
è questo lavoro fatto di “originalità e serio mestiere”100 a
ricevere un riconoscimento significativo nel 1992, quando
l’autrice viene insignita del Premio Altino in omaggio a un
progetto narrativo che ha trovato ampio consenso fra i lettori e gli educatori (mentre più disattenta si è mostrata la
critica): un attestato che onora la sua intera opera “per l’alta
professionalità e per la disponibilità dimostrata nell’avvicinare i giovani alle espressioni dell’arte”101.
Nella savana. Tra natura e civiltà
La suggestione della natura esotica, la scoperta dell’altro,
la maturazione attraverso esperienze in situazioni difficili
trovano la loro espressione forse più compiuta in Nel vento
della savana, primo romanzo postumo dell’autrice e che
ripropone le suggestioni de La mia Africa di Karen Blixen
(che nel 1985 aveva conosciuto anche la celebre e popolare
versione cinematografica di Sydney Pollack). L’opera era
del resto attesa dai suoi lettori, come testimonia una lettera
alla scrittrice dei ragazzi della scuola media Foresti di Conselice, curiosi di sapere qualcosa sul nuovo libro “riguardante quella bambina ritrovata ai margini della savana. Ha
già scelto il titolo? Secondo noi un argomento del genere
potrebbe riscuotere molto successo”102. dal canto suo, pochi
mesi dopo rivolgendosi alla platea dei ragazzi di Quarto
d’Altino, Giovanna Righini Ricci propone di dedicare l’incontro ad un nuovo libro in gestazione “ambientato nella
savana; sono convinta che mi potete dare degli stimoli tal-
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mente importanti da poter continuare il mio lavoro”.
Il noto fatto di cronaca a cui si ispira il romanzo è il caso di
Baby Hospital, la misteriosa bambina scimmia ritrovata nel
1984 in un villaggio del Senegal, divenuto ben presto meta
di studiosi da tutto il mondo, venuti ad indagare il fenomeno di un essere umano allevato da primati. Nel vento della
savana, dove la natura primordiale domina l’intreccio come
nelle pagine di La dove soffia il Mistral, racconta l’ipotetica
storia della bambina inserendola nell’ avventura di tre
ragazzi europei.
La prima parte della vicenda si svolge in Sudafrica, dove i
protagonisti, due ragazzi olandesi di famiglia agiata, trascorrono una vacanza. La scrittrice presenta il paese africano in chiave realistica, mettendone in luce i contrasti: la
struggente bellezza della natura e l’inquietante violenza
dell’apartheid, la ricchezza e il privilegio dei bianchi e la
condizione di sfruttamento degli indigeni. Attraverso gli
occhi di Jan, il protagonista maschile della storia, Giovanna
Righini Ricci narra episodi di forte impatto emotivo che
suonano di aperta condanna all’avidità dell’uomo bianco,
come nel caso dell’elefante ucciso dai bracconieri nel parco
nazionale.
Il dramma della segregazione razziale viene proposto ai lettori attraverso una tecnica narrativa che, come in La dove
soffia il Mistral, mette a confronto le opinioni. è quanto accade in una dialogo tra James, un giovane aristocratico inglese, apertamente razzista e Maika, la ragazza olandese
protagonista del romanzo: “Adesso che noi bianchi ci stiamo dando da fare per concedere anche ai negri e ai coloured
alcuni diritti, si scannano tra loro. Io dico che questa terrà è
nostra da sempre. Noi siamo della stirpe dei dominatori e
loro, loro saranno sempre degli schiavi, capaci solo di lavorare nelle miniere, sottoterra!”. “Ma perché non si cerca il
modo di vivere in pace, nella cooperazione, in uno stato
multirazziale?”, obietta Maika. James si mise a ridere: “Sei
proprio un piccola illusa: l’uomo è fatto per odiarsi e per
scannarsi non per collaborare!”103.
Per Maika, la vacanza trascorsa in Sudafrica, si è in effetti
rivelata come una autentica presa di coscienza, dopo aver
visto con i suoi occhi la rabbia dei neri nel ghetto di Soweto
a Johannesburg. L’assurdità dell’apartheid si fa strada in un
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crescendo di interrogativi, che occupano i suoi pensieri
prima della partenza: “Perché in questo paese così grande
e così ricco, non c’è posto per tutti e i bianchi e i neri non
riescono a vivere in pace? Non c’è neppure una persona di
colore su questo aereo! Ma allora dove e quando viaggiano
i neri del Sudafrica per andare all’estero? E come sono gli
aerei che li prendono a bordo? Verrà un giorno in cui saremo tutti insieme, senza barriere razziali? E io in verità sono
o non sono razzista? Sono tanti anni che trascorro le vacanze in Sudafrica ma non ho mai avuto contatti con la gente
di colore! Come faccio a saperlo se c’è affinità tra di noi?
Nessun mi ha mai aiutato a capire e ad accettare ciò che ci
accumuna e ciò che invece è diverso, perché io potessi accettarlo o rifiutarlo. In questo è molto migliore di me Chris: lui
ha un misterioso amichetto di colore che gli vuole molto
bene e gli regala perfino il suo assegai! [punta di una antica
lancia zulu] Sì, Chris è molto migliore di me e forse saprà
costruire una società più giusta!”104.
durante il volo del ritorno in Europa, la ragazza conosce
Jan, anch’egli olandese, il coprotagonista della storia. L’incontro inaugura la seconda parte del romanzo che l’autrice
apre con un colpo di scena: una sparatoria fra agenti di sicurezza e alcuni guerriglieri dirottatori provoca un disastro
aereo dove gli unici superstiti sono i due ragazzi, e il piccolo
Chris fratello di Maika. Sperduti nella savana, si trovano
così ad affrontare la disperata lotta per la sopravvivenza.
La natura si erge contro di loro con il suo volto più spietato
e crudele.
L’uomo occidentale è completamente disarmato di fronte a
questa sfida. Nella tragica circostanza, la figura di Jan, colui
che in qualche modo tenta di fronteggiare la situazione
prendendosi cura dei compagni, assume un ruolo emblematico. L’autrice potrebbe farne un piccolo eroe, ma alla
fine preferisce delineare un personaggio realistico, in cui i
giovani lettori possano facilmente identificarsi. La lotta per
la sopravvivenza gli infligge un angosciante dilemma: cercare di salvarsi da solo o condividere il destino insieme a
Maika e a Chris? L’istinto di fuga prevale ma è la suggestione della natura a dettargli quel pensiero di saggezza che lo
fa tornare sui suoi passi. La contemplazione del cielo stellato della savana risveglia in lui un sentimento religioso:
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“Jan rimase a fissare quello spettacolo e un po’ di calma
scese finalmente in lui. “dio esiste!” pensò. “Il mondo è
troppo bello, per essere frutto solo del caso!”. A un tratto
un pensiero terribile gli traversò la mente: “Se dio esiste,
che cosa penserà adesso di me?” […] ho abbandonato una
ragazzina e un bambino morente in mezzo alla savana […]
ogni voce di vento era una voce maligna che gli sussurrava
all’orecchio: “Vigliacco! Vigliacco!”. E allora l’immagine di
Maika che si sarebbe risvegliata e non lo avrebbe trovato
accanto a sé gli divenne intollerabile”105.
Con il ravvedimento di Jan si ricompone la solidarietà fra i
tre che ora si rimettono in marcia alla disperata ricerca di
acqua e di cibo. A questo punto, un altro colpo di scena
interviene a portare il lettore nel cuore di tutta la vicenda,
allorché, allo stremo delle forze, i ragazzi vengono soccorsi
da una singolare creatura, a capo di una tribù di babbuini.
dal ritratto di Baby Hospital emana tutta la bellezza e la
forza di una persona divenuta una cosa sola con la natura:
“Una ragazza alta e robusta, dai lunghissimi capelli di un
nero corvino: il viso largo e sereno, cotto dal sole, era illuminato da due grandi occhi neri, dalla luce incredibile.
Indossava una specie di tonaca, gli strappi, tenuti assieme
da lunghe spine, mostravano una pelle molto abbronzata e
piena di cicatrici. Aveva grandi piedi nudi, grandi mani e
un portamento regale e incedeva in mezzo ai babbuini a
testa alta nel sole come una sovrana”106.
Baby dei babbuini, così la ragazza ama definirsi, si prende
cura dei tre sottraendoli al loro tragico destino. Il personaggio eroico del romanzo, narra loro la sua storia, che l’ascoltano sbalorditi. Racconta di essere stata allevata dai primati
fin dalla tenera età dopo aver perduto i genitori, poi reclusa
dagli uomini in un ospedale e di nuovo fuggita con i babbuini, a capo dei quali vive e che cerca di proteggere in ogni
modo dai cacciatori. La ragazza, che ancora possiede qualche ricordo della sua infanzia e sa esprimersi in un francese
stentato, rappresenta il trait d’union tra il mondo animale
e il mondo umano, tra natura e cultura-civiltà. Il richiamo
al mito del buon selvaggio è un monito all’ uomo della
nostra epoca, così incapace di fare buon uso degli strumenti
che gli consentono di dominare la natura.
L’incontro dei tre protagonisti con questa ragazza cresciuta
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nella savana libera e lontana dalla civiltà si trasforma così
in una straordinaria lezione di vita e di solidarietà. Come
dice Jan: “dopo una esperienza come questa, niente sarà più
come prima. Credo che dentro sarò migliore. Questa terribile avventura ci ha fatto capire il vero senso della vita”107.
Nel vento della savana propone dunque al lettore in un orizzonte problematico aperto, offrendo, come scrive l’autrice
nella presentazione: “una suggestione, una speranza, per
gli esseri dell’era tecnologica, i quali sanno esplorare l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, ma non sanno
leggere, utilizzare i messaggi del grande e meraviglioso
libro della natura”108.
Una generazione allo specchio
Narratrice dei mondi lontani e che affronta i complessi temi
sociali della contemporaneità, l’instancabile vena letteraria
di Giovanna Righini Ricci, ha tuttavia mantenuto vivo fino
alla fine anche l’altro filone della sua produzione, quello
cioè avviato negli anni Sessanta con Le cicale e Il ballo delle
cicale (ripubblicati nel 1990 con il titolo Le stagioni dell’arcobaleno) e dedicato alla vita adolescenziale colta nella sue
quotidiane vicende, in famiglia, a scuola e con gli amici.
Anche I giorni della luna crescente, del 1987, e In viaggio con
la nonna, ultimo romanzo della scrittrice, uscito postumo
nel 1997, rientrano in questo ambito narrativo, volto a scoprire il mondo delle amicizie e delle dinamiche familiari, e
che predilige intrecci senza avventura ma certamente più
ricchi di analisi psicologica.
“dodicenne fanciullo, io la tua vita / giorno per giorno
posso dirti, ed ora / per ora”. Sono i versi di Umberto Saba
che preludono a I giorni della luna crescente, il romanzo finalista nel 1998 al premio Le Palme d’oro di San Benedetto del
Tronto e primo classificato un anno dopo al premio “Il piacere di leggere – scuola media” del sistema della Bassa
modenese.
Anche in questa storia, come in Le cicale e in Il ballo delle cicale, la scrittrice devia dal suo schema narrativo consueto
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incentrato sulla coppia e ci presenta un cast variegato di
protagonisti. Maurizio, Gianni, Floriana, Massimo, Andrea,
Roberta, Angelo, Ilaria: ecco i personaggi in carne e ossa al
centro di piccole storie che si svolgono separatamente e
talora si incontrano. Questi ragazzi di scuola media stanno
trascorrendo i giorni della loro luna crescente verso la giovinezza e la maturità; una stagione della vita dove, “sotto
la tranquilla superficie, vibra tutto un mare in tempesta,
fatto di ansie e di attese, di dubbi e di scontentezze”.
Sono i giovani degli anni ottanta, amanti del calcio e impegnati nello sport, frequentano corsi di danza e di musica,
vestono jeans e calzano Timberland, si ritrovano in paninoteca e ascoltano le canzoni di Sting nei loro walk-man.
Attraverso le loro vicende di ogni giorno, la narrazione
affronta ancora una volta i nodi dell’esperienza adolescenziale: da un lato incomprensioni, rabbie, proteste, gioie, scoperte ed entusiasmi, come pure il forte bisogno di
autonomia e al tempo stesso di protezione, che segnano il
cammino spesso tortuoso sulla via della crescita; dall’altro
le disattenzioni degli adulti spesso incapaci di capire: “I
ragazzi sono molto precoci, oggigiorno: non è facile stabilire
che cosa sia o non sia giusto per loro”. Intervenne la madre
di Nicola: “E poi il mestiere di genitori è il più difficile che
esista per un padre e una madre gli esami non finiscono
mai, per dirla come Eduardo de Filippo […]. Come fare per
rendere questi ragazzi più forti, più preparati, meno vulnerabili?”109
Il romanzo racconta la cosiddetta età di mezzo, ponendola
in relazione sia all’infanzia, attraverso le figure dei fratelli
minori, che al mondo degli adulti. Tre categorie di personaggi, dunque. Accanto a genitori ora incerti e apprensivi,
ora superficiali e scontrosi, spiccano tra un episodio e l’altro
figure significative di adulti, figure amicali che, diversamente dai familiari, riescono a farsi veramente ascoltare dai
ragazzi. è il caso del dottor Xerofilli, un medico che intrattiene i suoi giovani pazienti – Silvia, fratturata ad una
gamba in seguito ad un incidente stradale e Angelo, il piccolo che ha perso la parola dopo il terremoto in Irpinia nel
quale avevano perso la vita i suoi genitori – raccontando le
proprie favole, vere e proprie storie nella storia, terapie del
sorriso, capaci di “sciogliere i grumi di dolore e di paura
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che imprigionano le tenere anime dei due bambini”110.
Si tratta di una modalità comunicativa che all’insegna dell’umorismo rompe gli schemi convenzionali, e che si pone
in sintonia con la sensibilità dei ragazzi.
Nelle vicende quotidiane di questo gruppo di adolescenti,
amicizia, solidarietà e amore sono esperienze che si intrecciano a tutta la gamma dei conflitti interpersonali, ma che
al contempo si aprono ai problemi dell’attualità a loro contemporanea: la droga, l’emarginazione sociale, la delinquenza minorile, il sottosviluppo e la solidarietà con il terzo
mondo. Ambientato nella città italiana del nord degli anni
ottanta, I giorni della luna crescente riesce come sempre ad
essere specchio delle problematiche giovanili (personali,
interpersonali, sociali) dove il lettore chiarifica le domande
i bisogni che sente urgere ancora oscuramente dentro di sé.
Nel camper di granny Susy
Nelle storie di Giovanna Righini Ricci spesso entrano in
scena personaggi adulti significativi, figure per lo più esterne alla cerchia familiare. Solitamente ricoprono ruoli socialmente riconosciuti e nella narrazione appaiono in veste di
consiglieri esemplari che orientano ragazzi senza prediche
e ammonimenti, ma attraverso strategie comunicative indirette, allegoriche e allusive. Ecco allora Maso, il vecchio orologiaio di Il segreto della Cisa; Agata, la solitaria naturalista
in Incontri d’estate, il commissario di polizia di Le scapole
dell’Angelo, l’indiana Kateri in Alla fine del sentiero, grand
mere, la zia di Jan in Nel vento della Savana, infine Xerofilli,
il medico affabulatore di I giorni della luna crescente.
In linea con questa tipologia di personaggi, l’adulto significativo sembra trionfare nell’ultimo romanzo della scrittrice, In viaggio con la nonna, questa volta nei panni di Susanna,
la nonna americana tornata in Italia dopo una lunga assenza. Granny Susy, “motore” del racconto, rappresenta davvero quel nuovo tipo donna, che sebbene in tarda età, non
accetta di rinchiudere l’esistenza tra le pareti domestiche
ma ama lanciare sempre nuove sfide alla vita. Una di queste
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consiste nel vedere cosa può succedere “a dei ragazzi legati
da vincoli di sangue, ma non di amicizia, di consuetudine
o di interessi, quando sono costretti dalla convivenza a
risolvere democraticamente i piccoli problemi di ogni giorno”111.
Uscito postumo nel 1998 - anno in cui nella letteratura giovanile si inaugura la stagione del fantasy con le storie di
Harry Potter - vincitore del Premio Valtenesi nello stesso
anno, il romanzo conduce da una generazione all’altra e
questa volta offre uno spaccato dell’ universo giovanile
degli anni Novanta. Ecco il ritratto di Edoardo: “Edoardo
aveva 14 anni, forse perché tormentato da problemi che non
era in grado di risolvere, da qualche tempo mangiava troppo. Così era decisamente sovrappeso e ne soffriva. Ma non
sapeva come uscire dal perverso circuito psicologico che lo
spingeva ad ingozzarsi perché era nervoso e a essere nervoso perché si vedeva sempre più grosso. Indossando una
maglietta fuori misura con la scritta The Creeps in blu elettrico sul petto e sulla schiena, sedeva impaziente su uno
sgabello di cucina incitando la madre a sbrigarsi a preparargli il robusto panino che le aveva chiesto e in cui pretendeva che venissero infilati altri nuovi ingredienti”.
E il ritratto di Alessio:
“Alessio si tolse gli occhiali. Rimase per un po’ con le dita
sulle palpebre chiuse per attenuare la fastidiosa sensazione
di vertigine che avvertiva quando restava troppo a lungo
concentrato davanti al computer. Non faceva che ripetersi
che avrebbe finito per diventare cieco, che gli sarebbe venuto un attacco epilettico a furia di guardare omini e animaletti sfrecciare come meteore sullo schermo colorato. Era un
inventore di video game: quando si ha l’ispirazione bisogna
seguirla e non preoccuparsi di nient’ altro! Lo chiamavano
l’Einstein della tastiera, non avrebbe mai rinunciato al suo
hobby, nel quale, bisognava proprio riconoscerlo, era davvero un maestro. Aveva ideato dei giochi che avevano
divertito perfino i professori”112.
Edoardo e Alessio appartengono alla nutrita schiera dei
nove nipoti dell’intraprendente Susanna (Monica e Francesca, Elena e Cristina, Samantha e Matteo, Riccardo) che i
genitori hanno di buon grado affidato a lei per trascorrere
una vacanza a Gardaland, a bordo di uno spazioso camper.
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Soprattutto nella seconda parte l’intreccio si dipana attraverso una vicenda movimentata dove non mancano episodi
inquietanti come il ritrovamento di un cadavere, e i casi di
droga e di schiavismo in cui si imbattono i ragazzi. Al centro della trama resta comunque l’abilità di granny Susy nella quale è facilmente riconoscibile la sensibilità educativa
della scrittrice - nel tenere unito attraverso il dialogo il pittoresco gruppo di nipoti durante una vacanza che, come
sempre, diviene esperienza autentica di convivenza.
dopo quasi un terzo di secolo, In viaggio con la nonna chiude
il lungo impegno letterario ed educativo di Giovanna Righini Ricci, scomparsa prematuramente nell’autunno del 1993,
senza avere avuto il tempo di mettere sulla carta altre e
appassionanti storie che fino alla fine urgevano in lei.
Il senso della sua vocazione è racchiuso nelle parole del
marito Ido Righini: “Sono sicuro che Giovanna mi ha voluto
bene, ma il suo vero grande amore sono stati i ragazzi e la
scuola”.
EPILOGO
Giunti al termine di questo viaggio in uno straordinario
universo narrativo che storia dopo storia ha preso vita nel
corso di un trentennale mestiere di scrivere, non resta che
condividere, anche per le opere qui presentate, quanto l’autrice di Piccole donne, Louisa May Alcott, esigeva in un libro
per ragazzi: “si apre con aspettazione e si chiude con profitto”.
Non pare poi superfluo rilevare come, parlando ad almeno
tre generazioni di giovani, dagli anni Sessanta alle soglie
del 2000, l’autrice abbia saputo misurasi con una sfida davvero ardua, quella cioè di creare lettori e non soltanto di
scrivere libri per ragazzi.
Giovanna Righini Ricci ha offerto l’avventura della sua
parola a soggetti nella cosiddetta età evolutiva - quella fase
della vita che Rainer Maria Rilke chiamava lo spazio di
mezzo tra i giocattoli e il mondo - con il chiaro intento di
offrire ai giovani una riserva di ottimismo e di fiducia per
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affrontare le sfide e i compiti che li attendono nella vita.
Con il gradimento dei ragazzi e il favore degli insegnanti,
Giovanna Righini Ricci ha cercato di educare i ragazzi alla
scelta libera e consapevole dei valori capaci di motivare un
progetto autonomo di vita113.
Solidarietà, tolleranza, amicizia, amore, libertà: ecco il catalogo etico che anima le storie di Giovanna Righini Ricci,
valori per vivere nel mondo e per cambiarlo nella prospettiva di un progresso etico e non solo tecnologico. Valori
radicati in vicende vissute e ‘convissute’ in prima persona,
e fatti propri attraverso un atteggiamento “problematico”
all’esperienza, capace cioè di leggere la realtà come campo
del “possibile” (e del sogno). Un messaggio che muove in
direzione diametralmente opposta alle ideologie, alle utopie, ai miti e agli ideali astratti e vuoti, tentazioni “evasive”
sempre all’opera. Valori che di conseguenza nulla hanno a
che fare con opzioni assolute e metastoriche, ma che, in
quanto beni incarnati appartengono alla relatività della
dimensione umana, alla sua finitezza storica114.
A questa sensibilità etica Giovanna Righini Ricci ha unito
un costante e infaticabile “andare verso il mondo”, una
fame di realtà che le ha consentito di intuire con occhio sicuro gli scenari del futuro. In questo senso, la sua visione ha
anticipato fin dai primi anni Settanta le tematiche dominanti nel mondo globalizzato del ventunesimo secolo, come il
multiculturalismo e la salvaguardia ecologica del pianeta.
L’opera letteraria di Giovanna Righini Ricci, in conclusione,
si presenta come un’unica grande storia fatta di tante storie.
Il messaggio, lo stile e il carattere fortemente unitario della
sua narrativa hanno elevato la scrittrice a protagonista di
primo piano nel rinnovamento della letteratura giovanile
del novecento italiano.
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