Monografia sulla scrittrice
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Monografia sulla scrittrice
Prime prove Ai primi di gennaio del 1964, Giovanna Righini Ricci riceve una lettera che attendeva con trepidazione. Il mittente è una personalità di tutto riguardo. Lo scrittore Francesco Serantini le comunica un messaggio appena ricevuto da Giovanni Spadolini, direttore de Il Resto del Carlino il quale faceva sapere “che il Suo racconto oltre che sul Carlino Sera, apparirà contemporaneamente su Nazione Sera di Firenze”2. Qualche giorno dopo, l’incontro con il grande pubblico: i lettori del quotidiano più diffuso in Emilia Romagna, leggono per la prima volta sulla terza pagina una colonna firmata “Giovanna Ricci”, allora da poco insegnante di lettere in una scuola media di Milano. Il racconto in questione, Il nonno, è una breve novella di schietto sapore autobiografico, che vede protagonista l’avo paterno della scrittrice e che un mese prima, con il titolo Nel Cavo della mano, aveva vinto il concorso letterario dell’associazione bolognese “Famiglia Romagnola”. A presiedere quella giuria troviamo proprio lui, l’anziano Francesco Serantini, il celebre autore di tante storie romagnole già all’apice della sua fortuna letteraria, il quale, a tal punto conquistato da quelle pagine, ne aveva finalmente sollecitato la pubblicazione su Il Resto del Carlino, del quale egli stesso era assiduo collaboratore. Il nonno offriva ai lettori un incisivo ritratto di quel mondo rurale della bassa Romagna, in provincia di Ravenna, dal quale Giovanna Righini Ricci proveniva. In quella campagna, a Lugo di Romagna, nella borgata di San Bernardino, l’autrice era nata il 7 settembre 1933, in una famiglia di modeste condizioni. di professione mezzadro, il padre sapeva tuttavia leggere, scrivere e all’occorrenza anche recitare poesie; e non mancava neppure, in casa Ricci, una piccola biblioteca di famiglia, dove, accanto alla letteratura rosa, non mancavano omero, Hugo, Manzoni, Maupassant. Nella vicina Conselice, Giovanna Ricci frequenta con profitto le scuole elementari e medie. durante la guerra, con un comando tedesco insediato nella loro abitazione, i Ricci vivono il loro momento più difficile, ma ne esce fortunatamente indenne. Il successo scolastico ben presto inizia a 13 marcare la diversità di Giovanna da quel mondo rurale dove i figli per lo più intraprendono il mestiere dei padri, per scoprirne un altro incantato e dal richiamo irresistibile: la lettura. Molti anni più tardi lei stessa avrebbe rievocato quei momenti con queste parole: “mi immergevo nella lettura circondata da un bel numero di mele. Quando il libro era finito, il sole declinava già verso l’orizzonte e i torsoli disseminati per terra intorno a me rivelavano quanto quella lettura fosse stata divorante”3. Al periodo liceale - Giovanna Ricci consegue la maturità classica a Lugo nel 1953 - risalgono (accanto alle prime letture di Maupassant e di Giorgio Scerbanenco) anche le prime prove di scrittura. Il suo primo romanzo inedito è un genuino autoritratto della giovane scrittrice, dove Giovanna si specchia nella protagonista, Anna, una ragazza desiderosa di istruirsi per occuparsi dei bambini e dei ragazzi. Abbandonato il sogno di diventare medico pediatra – il corso di studi sarebbe stato troppo oneroso per la famiglia – Giovanna Ricci si iscrive alla facoltà di lettere: a Bologna si laurea con lode nel 1957 con la tesi “Motivi psicologici nelle novelle di Maupassant”, lavoro che per certi aspetti va considerato come il primo manifesto programmatico della sua attività di scrittrice. Si consuma intanto il distacco dalla Romagna e dalla famiglia. Giovanna Righini Ricci si sposa nel 1958 e si trasferisce a San donato Milanese. Qui, qualche anno più tardi, entra come insegnante di lettere nella nuova scuola media, esito di una storica riforma dell’obbligo scolastico. Intanto scrive e pubblica brevi racconti: esordisce nel 1959 con L’ombra dei sogni, che compare nell’ antologia Poeti e novellieri di oggi e di domani. Ben prima del gennaio del 1964, Giovanna Righini Ricci aveva tuttavia ricevuto, oltre a quello di Serantini, un altro autorevole incoraggiamento. Il racconto Nel cavo della mano, che risale al 1962 e appare poco dopo anche sulla prestigiosa rivista di cultura romagnola “La Piè”, diretta da Aldo Spallacci, viene inviato anche al settimanale “Amica” che lo pubblica in una sua rubrica. Questa volta è dino Buzzati, che presiedeva la giuria della rubrica letteraria, a lodarne la semplicità e la precisione, qualità che “bastano per capire che è sulla strada giusta”4. 14 L’anima del racconto rivela una personalità letteraria ormai ben definita, come del resto risulta evidente nel giudizio finale di Nel cavo della mano redatta dalla giuria del premio della Famiglia Romagnola: “Nel cavo della mano. Una pagina autobiografica lineare, semplice, schietta nella sua naturale immediatezza, pura di fronzoli e di orpelli. La famiglia contadina, con i suoi marmocchi scalzi e mocciosi, le donne taciturne e alacri, l’ardore autoritario e rude, la campagna col suo verde, le sue nevi, il pulsare della mietitura e il letargo gelido dell’inverno, tutto è sentito e rappresentato con accenti commossi e colori smaglianti da una penna che ubbidisce docile ed elastica alla immaginazione di una mente capace di sentire profondamente e di rendere con pienezza di intuito ciò che vede e che, a distanza di tempo, la fa ancora fortemente vibrare. All’autrice non difettano ali per ben più alti voli”5. da questo momento la biografia letteraria di Giovanna Righini Ricci conosce l’avvio di una intensa stagione narrativa. Le già solide motivazioni che inducono Giovanna a raccontare il proprio mondo (e a raccontarsi) ricevono ora nuovi e decisivi impulsi dalle amicizie letterarie strette negli ambienti della Famiglia Romagnola. Accanto al sodalizio con Francesco Serantini (di alcuni suoi romanzi Giovanna Righini Ricci curerà anni più tardi l’adattamento scolastico) troviamo il nome meno noto di Paolo Lorenzetti, critico letterario, preside di liceo e principale animatore della Famiglia Romagnola, che giocherà un importante ruolo di mentore in questa prima fase della biografia letteraria di Giovanna. è lui a pronosticare ampie fortune all’autrice in campo narrativo, a vedere in lei “una Grazia deledda romagnola dotata dello stesso senso di realismo e dello stesso spirito di osservazione” a volere che il talento di Giovanna, “alla quale non difettano ali per ben più alti voli” fosse riconosciuto oltre la cerchia della Famiglia Romagnola. E i frutti che maturano in questo periodo a San donato Milanese sono i numerosi racconti, fra cui vari inediti, scritti fra il 1963 e il 1966 periodo nel quale prende corpo anche la prima idea del romanzo Nel cavo della mano, che rappresenta lo sviluppo tematico del racconto d’esordio Il nonno. Ecco allora uscire dalla sua macchina da scrivere i rapidi ma intensi scorci narrativi: Ziridoni, Alle acque, Nebbia e Canapi- 15 na, e altri racconti brevi come Spartire il pane, Angeli di terra, L’ultimo Barbanera, Sosta alla casa paterna, Le vittorie di Pirro. Accanto alla guerra partigiana, anima e sfondo di alcuni di questi primi racconti, vive lo scenario di una Romagna ancora agricola e contadina ma che tuttavia comincia ad avvertire le inquietudini dei tempi nuovi. Nella sua scrittura, costruita sull’idea che ogni tema può giungere all’espressione artistica purché riviva compiutamente nella coscienza dell’autore, la tensione nostalgica e il sapore autobiografico rievocano un microcosmo rurale che con il passare del tempo, appare sempre più irriconoscibile di fronte alla nuova civiltà urbana che avanza. Il tema attorno al quale la scrittrice orchestra le sue variazioni è il senso di alcune vicende umane e sociali tipiche degli anni Cinquanta e Sessanta, vicende segnate dallo sradicamento che domina la psicologia dei personaggi, pervade la descrizione dei luoghi e prende corpo nei dialoghi serrati e intensi: “Vecchi come siete chi si prenderà cura di voi, se vi ammalate? I vicini? Ma quali vicini, se il paese è a cinque chilometri e le case dei contadini nei dintorni sono tutte abbandonate?! d’inverno poi, in questa casupola sparsa senza luce elettrica! Intorno terra e terra! Ci siete rimasti soltanto voi”6. Così si apre un’altra storia, L’ultimo Barbanera, dove l’autrice racconta il congedo dalla terra, il dilemma fra città e campagna, la sconsolata e amara rassegnazione dei due anziani protagonisti, che dopo ostinate resistenze i figli convincono a trasferirsi in città. Nella nuova casa, sotto “un cielo sporco di antenne e di camini”, anche il Barbanera, il tradizionale lunario contadino, resta ormai l’inutile simbolo di un mondo tramontato per sempre. Ma è in Le Vittorie di Pirro che il contrasto generazionale assume i toni più sofferti. Qui il distacco dalla campagna e dalla famiglia d’origine è vissuto dal giovane protagonista come trasgressione, insofferenza e prepotente bisogno di fuga. Lo sradicamento diventa negazione esistenziale: “per mia madre, dal momento che avevo lasciato la campagna, la mia casa, mi ero perduto per sempre, sradicato, legna da ardere”7. L’inquietudine di Pirro, la sua vita errabonda in una Roma anonima e grigia, si dipana in un tormento irrisolto che l’autrice riesce a rappresentare in una brillante prova di analisi psicologica. di diverso segna ma senza concessioni 16 al lieto fine, Angeli di terra narra la storia di Lillo, un orfano di guerra, dove la descrizione psicologica e quella naturalistica rievocano l’infanzia irrequieta del personaggio che nelle pagine finali, torna a visitare i luoghi della fanciullezza ormai irriconoscibili. Infine ritroviamo l’autrice protagonista in Sosta alla casa paterna, intensa e delicata pagina di diario estivo. Il legame affettivo con le radici è qui ambivalente: intenso ripiego nostalgico e nello stesso tempo sorgente di slancio vitale e di forza interiore, accettazione del presente con “l’abito e la grinta di sempre”. Lezione di stile Queste opere denotano anzitutto una indubbia maturità stilistica dell’autrice, frutto del suo talento, dei suoi studi e delle sue interminabili letture. Vale qui la pena soffermarsi sul fatto che l’autrice ha assimilato la lezione di Maupassant, in primo luogo quel realismo psicologico che ha reso inconfondibile lo scrittore francese e tanta parte della letteratura di quel paese, che Giovanna amava e della quale aveva una profonda conoscenza. Maupassant rappresenta il grande maestro, nel dare voce narrante ai sentimenti e alle pulsioni umane; in secondo luogo, nell’opera complessiva dello scrittore francese, la problematica psicologica trova la sua espressione più compiuta nelle novelle. L’autrice la sintetizza efficacemente in una frase - “La psicologia di Maupassant novelliere è tutta nell’azione” - un principio narrativo che Giovanna farà interamente proprio. Nelle novelle, l’autore rivela lo stato d’animo dei personaggi, la loro psicologia e la sua abilità letteraria consiste nel farlo “indirettamente”: gli stati della mente vengono rappresentati descrivendo l’agire dei personaggi, i vari aspetti del loro comportamento: il linguaggio, i loro gesti, le posture del corpo, i dati fisici caratteristici, ecc. Anche il paesaggio, l’ambiente naturale rispecchia in Maupassant l’universo psicologico: “sfondo naturale, animali, cose vivono dello stato d’animo e della sensibilità del protagonista, prendono luce e colore dai suoi sentimenti, si illuminano 17 della sue gioie, si piegano tristi e sommessi al suo dolore”. Per quanto estimatrice del suo stile, Giovanna Righini Ricci (che vale la pena ricordarlo è una insegnante di idee progressiste) non condivide tuttavia la concezione della vita, improntata ad un pessimismo radicale, che Maupassant riversa a piene mani nelle sue opere. Né tanto meno è disposta ad accogliere la concezione della donna. Il grande errore psicologico di Maupassant consiste nell’aver visto nella donna: “solo l’essere odioso, voluto dalla natura per la procreazione dei figli oppure l’oggetto di lusso, lo strumento del piacere. Egli che era tanto profondo in fatto di psicologia non ha mai capito la donna e non ha mai cercato di indovinare la sua vera natura, egli che nella sua analisi fu sempre così poliedrico seppe vedere un solo tipo di donna”8. Nei Motivi la nostra autrice matura la scelta definitiva del proprio stile narrativo: una sapiente economia espressiva capace con “un solo termine di mostraci tutto il personaggio nel quale e attraverso il quale l’autore parla vive sente gioisce soffre”. L’interesse per Maupassant sarà del resto ricorrente nella sua attività letteraria: basta ricordare la traduzione di alcuni suoi racconti adattati per la scuola media (L’avventura di Walter Schnaffs e altre novelle), su indicazione della casa editrice, i riferimenti all’autore che si ritrovano nei suoi scritti e nella corrispondenza con i suoi giovani lettori. Nel cavo della mano “La nostra era una famiglia numerosa, con tanti zii, tanti fratelli. A quel tempo si abitava nella vecchia casa di via Lombardina, dalle pietre corrose dal tempo. Eravamo una grande famiglia, con tanti zii e tanti nipoti. Comandava su tutti nonno tranquillo, gran lavoratore… Nessuno dei suoi figli, neppure mio padre osava alzare la voce contro di lui, nemmeno mio padre. Noi ragazzi si andava a lucertole, a nidi o al fiume, e ci si divertiva un mondo a camminare sui sassi del greto: un sasso scivolava, si perdeva l’equilibrio e 18 si finiva allegramente nell’acqua chiara, con gli zoccoli e i calzini sbrindellati. A mezzogiorno, nonna Tugnina ci chiamava a perdifiato: arrivavamo affamati, attraverso le stoppie, incuranti delle brucianti punture che poi, con calma, fasciavamo con una foglia fresca. Nonna Tugnina dava a ognuno una scodella e un cucchiaio; e tutti a mangiare, seduti sui gradini della scala, un pezzo di pane in tasca e la scodella sulle ginocchia. Quando la porta si apriva, ci arrivava il vociare dei grandi che mangiavano alla tavola. Su tutto il frastuono si levava, imperiosa, la voce del nonno”9. L’incipit de Il nonno è lo stesso del romanzo Nel cavo della mano, pubblicato nel 1970. A quelle parole d’esordio la scrittrice resterà fedele fino alla riedizione dell’opera con il titolo Un pugno di terra, nel 1982, adattata per i giovani lettori della scuola media ma senza sostanziali variazioni. Quando esce Nel cavo della mano, opera finalista al Premio Settembrini nel 1971, l’autrice è peraltro ormai un nome affermato nella letteratura per ragazzi, avendo al suo attivo due romanzi (Le cicale, Il segreto della Cisa) e una raccolta di racconti. Giovanna Righini Ricci scrive Nel cavo della mano a San donato Milanese e rievoca la sua Romagna rurale mentre dalla finestra vede la campagna lombarda soccombere alle fabbriche, alle strade e a interi quartieri. Come un organismo dotato di vita propria, il breve ritratto familiare pubblicato su “Il Resto del Carlino” è così lievitato in una vera e propria galleria di personaggi. Ventisette episodi rapidi e incisivi compongono un disegno narrativo in cui l’autrice racconta l’infanzia trascorsa in Romagna. Piccolo come “un pugno di terra nel cavo della mano” dentro lo sguardo della memoria ma senza confini nell’originario vissuto infantile, il microcosmo di via Lombardina, è il paradiso perduto dove una variopinta messa in scena di caratteri e tipi umani, anima lo spazio della memoria. La scrittrice consegna ai suoi lettori il suo album di famiglia fatto di personaggi in azione, descritti con pochi ed essenziali tratti. Libro della memoria e romanzo autobiografico, dove si alternano la commedia e il dramma, l’idillio e l’asciutto realismo, restituisce “il quadro di una piccola società patriarcale dove vicende, passioni, sentimenti e dolori seguono il ritmo delle stagioni”10. 19 Il caleidoscopio di volti episodi e vicende, dove uomini, donne e bambini vivono immersi in una religiosa comunione con la terra “che è la loro ragione di esistere”, ruota attorno a nonno Tranquillo, il patriarca autorevole, che accanto a nonna Tugnina, è il personaggio onnipresente nel libro, simbolico di un mondo ormai tramontato, insieme ai tanti personaggi carichi di umanità”. “Un microcosmo grezzo ma perfetto” dove, accanto ai familiari, colorano il racconto le figure del villaggio rurale; dal calzolaio alla cucitrice, dal barrocciaio al venditore di cocomeri, al parroco. Tra di essi spiccano l’eccentrico ziridoni sul quale circolavano le più fantasiose leggende. “Godeva fama di stregone e quando passava per le stradette di campagna qualche vecchia superstiziosa si segnava, furtivamente. Noi bambini invece ci fermavamo incantati davanti alla sua bicocca a contemplare le starne cose sparpagliate nel cortiletto: bambole dalla faccia nera, mostruose, appese ad una trave che oscillavano come impiccate, segnando ogni variazione del tempo; pietre sepolcrali, raccolte nei cimiteri; ampolle allineate al sole, lungo il muro, piene di liquido nero che vibrava appena, quando vi saettava sopra una lucertola; sedie spagliate, bigonce senza fondo, poltrone sdrucite e stracci sparsi ovunque fra la gramigna”11. Nel cavo della mano è una saga famigliare che restituisce il ritratto semplice e genuino della madre, descritta nei suoi gesti umili di lavoratrice fra le mura domestiche, e nei campi: “la vedevo solo la sera quando mi lavava i piedi e mi metteva a letto. Mia madre faceva il bucato di notte. Si muoveva leggera dal paiuolo al mastello; il lanternino a petrolio che reggeva con una mano, gettava lunghe occhiate gialle attorno”12. Un’altra figura femminile è Canapina, una giovane contadina “dai fianchi sodi e dagli occhi arditi” che respinge con coraggio e fermezza le attenzioni morbose del torbido Nebbia, lo sfaticato del paese. Si tratta di persone realmente esistite, che la poetica neorealista di Giovanna Righini Ricci trasforma in personaggi letterari attraverso pagine che descrivono fedelmente la civiltà contadina romagnola fra gli anni trenta e Quaranta. Il viaggio nella memoria rievoca quel mondo con le sue stagioni, i suoi riti, le sue superstizioni, i suoi lavori (la mietitura, la 20 vendemmia, la cottura del pane, la fienagione), come pure i valori di fondo: la solidarietà, il senso di appartenenza alla comunità, la sacralità della famiglia, dove gli anziani contano davvero e a quali si doveva il massimo rispetto13. Ecco perché Nel cavo della mano riveste un certo interesse anche dal punto di vista antropologico (folclorico), documentando un repertorio di consuetudini, credenze popolari. Più di un commentatore ha colto “l’invenzione poetica” che pervade queste pagine dove il sentimento della terra natale raggiunge la sua espressione più compiuta come in nessun’altra opera della scrittrice. Quello di Giovanna Righini Ricci è un linguaggio sereno e senza lacrime, che scorre nel piacere di narrare e che vede nella memoria una risorsa indispensabile per proseguire il viaggio nella storia da protagonisti consapevoli. La letteratura diviene così una forma di comprensione storica – della storia personale e di quella collettiva – che rifugge sia da un ripiego in un passato magari rassicurante sia da una accettazione acritica del progresso, di quella modernizzazione che ha investito paesi, città e campagne d’Italia negli anni Cinquanta del secolo scorso14. La Romagna tra memoria e autobiografia Prima a Milano poi a Torino, Giovanna Righini Ricci trascorre anni di feconda creatività nella sua carriera di autrice e insieme di educatrice. Nel frattempo a Nel cavo della mano si sono aggiunti altri libri come Verdi Battaglie, Il ballo delle cicale e Incontri d’estate, che gli valgono i primi significativi riconoscimenti nel campo della letteratura giovanile. Giovanna Righini Ricci pubblica inoltre alcuni testi scolastici innovativi sul piano pedagogico, in primo luogo nel campo dell’educazione sessuale, e poi nelle materie di italiano, storia, educazione civica. Come insegnante (ed esperta di psicologia adolescenziale) partecipa attivamente ai fermenti innovativi che investono la scuola dell’obbligo dopo l’istituzione degli organi collegiali. Nelle scuole medie i suoi libri di narrativa sono secon- 21 di solo a I Promessi Sposi, primo fra tutti Le scapole dell’angelo, il libro del 1973 che raggiungendo una tiratura di ottocentomila copie e una permanenza nelle scuole di oltre 35 anni, ha dato alla scrittrice una indiscussa notorietà in campo nazionale. Eppure la sua vena creativa tanto prolifica non poteva convivere a lungo con i gravosi impegni scolastici. Così, agli inizi degli anni ottanta quando Un Pugno di terra, attraverso le scuole, arriva nelle mani dei giovani lettori, l’autrice, ora residente a Bologna, ha da poco lasciato l’insegnamento per dedicarsi interamente alla letteratura giovanile. Finalmente può girare l’Italia per incontrare il pubblico dei suoi lettori. Sono per lo più le scuole medie ad invitarla per parlare con i ragazzi di un suo libro. Fra le pagine della fitta corrispondenza che ne nasce, anche Un pugno di terra riscuote interesse da più parti premiando lo stile dell’autrice, il suo realismo psicologico, che consiste nel raccontare l’universo interiore attraverso il linguaggio delle cose. Il romanzo della memoria, che rievoca a tinte vivaci il mondo rurale del passato, che a noi “moderni” appare “così piccino da potersi chiudere in un pugno di terra, stretto nel cavo di una mano”, riesce dunque a parlare anche ai ragazzi degli anni ottanta e Novanta. Un pugno di terra ha evidentemente ancora molto da dire anche in quegli anni, come del resto oggi, allorché la civiltà contadina, morta e sepolta, è divenuta un oggetto di culto per musei e sagre cittadine. Su che cosa invita a riflettere il romanzo autobiografico della scrittrice? Certamente, sul rapporto fra le generazioni, sui mutamenti sociali del secondo dopoguerra, sul rapporto con le radici, sul valore del legame con la propria terra (e con la terra tout court). Qui, come in altri romanzi, il messaggio forte ai ragazzi è l’invito a mantenere vivi i legami con la propria cultura d’origine, che se correttamente intesa e vissuta, rappresenta una risorsa importante per la crescita personale tanto più in una società in cui lo sviluppo industriale tende a reciderli e ad indebolirli. Queste pagine, in definitiva, non fanno altro che anticipare uno dei temi ricorrenti della sua opera narrativa, dove il legame con la terra d’origine, solitamente problematico, si ripropone ai giovani protagonisti in contesti sociali e geo- 22 grafici assai lontani dalla Romagna di Un pugno di terra. Numerosi sono infatti i personaggi dei suoi libri che si trovano ad affrontare l’esperienza dello sradicamento e che meritano qui una breve digressione. è così per Lorenzo, il protagonista di Le scapole dell’Angelo (1973) - e la sua esperienza si può accostare a quella di Maria Rosa in Le cicale - un ragazzo da poco immigrato nella Milano del miracolo economico, ma che fatica a liberarsi da una paralizzante nostalgia per l’infanzia vissuta nel paese del sud, che gli impedisce di guardare avanti. Si tratta di un sentimento malinconico che svanisce solo quando il ragazzo riesce ad inserirsi in modo partecipe e consapevole nella nuova realtà, dove in fondo egli è chiamato a costruire la propria esistenza insieme ai familiari e agli amici. durante una visita ai nonni, oltretutto egli si accorge che anche il paese natale non è più il luogo idilliaco di un tempo, che anche laggiù modernità e progresso hanno cambiato il paesaggio, le abitudini e la mentalità della gente. Lo sradicamento può essere allora il prezzo da pagare per realizzare i propri sogni? Non la pensa così il giovane tuareg Hassan - in Il sogno di Hassan (1985) - un’altra figura di immigrato, questa volta dal Marocco, che affronta ogni sorta di peripezie, prima di coronare il suo sogno, quello di tornare in patria, sposarsi e aprire un ristorante a Marrakech. Sono infatti la sua profonda religiosità e la fede nei valori della sua cultura d’origine, che gli infondono quella forza d’animo che sarà valido scudo contro i colpi dell’avversa fortuna. Sempre nel medesimo ambito tematico, diversa è invece la vicenda di Aigle Noir, protagonista di una storia ambientata in Canada in Alla fine del sentiero (1985), un altro esemplare romanzo sul multiculturalismo dove la scrittrice non esita a denunciare le ipocrisie della cultura dominante. Questo giovane pellerossa ribelle vive il dramma dell’impatto della sua gente, confinata nella riserva indiana, con la cultura tecnologica. Anch’egli, chiuso (solo) contro tutti nella difesa ad oltranza della propria identità etnica, non fa che coltivare l’utopia di un passato che non potrà mai più rivivere, incapace com’è di superare il muro di incomprensione che separa la sua gente dai cosiddetti “bianchi”. Anche Aigle Noir appare come un disadattato che rifiuta di affrontare corag- 23 giosamente il suo tempo, di conciliare l’antico con il nuovo. Solo l’amicizia con Chiara, una ragazza italiana, lo convince di essere arrivato alla fine di un sentiero ad aprirsi ad una più matura consapevolezza. L’amore per la terra, matrice di valori genuini - e motivo ispiratore di una moderna coscienza ecologica - ha ispirato a Giovanna Righini Ricci figure di anziani, descritte con un’aura di simpatia e di ammirazione che l’autrice sembra negare invece ai personaggi adulti, in particolare le madri e i padri, figure spesso ansiose e vittime di pregiudizi. Ecco allora che personaggi come il nonno Tranquillo e Tugnina, diventano prototipi di altri indimenticabili ritratti di anziani, primi fra tutti Gaspar, Briseide e papà Vatel in Là dove soffia il Mistral (1985), il romanzo “ecologico” ambientato in Francia nella regione della Camargue, del quale parleremo. Anche qui, in uno scenario dove la natura domina incontrastata l’autrice delinea due avi autorevoli e saggi di una famiglia numerosa che comprende figli, generi e nipoti. Sono loro, umili depositari della tradizione, ad incarnare il senso più autentico della terra; mentre, nella giovane protagonista del romanzo, Camilla, che più di altri avverte il fascino di quell’ambiente selvaggio, è possibile riconoscere la stessa autrice, che non di rado traspone in ambienti esotici i motivi (aspetti) della propria autobiografia. Meno legata alla tradizione è più interessata alla modernità è invece la protagonista dell’ultimo romanzo dell’autrice, il postumo In viaggio con la nonna (1997). Anche qui occupa la scena una squisita figura, di nome Susanna, attiva, curiosa e piena di energia, che tiene in pugno con savoir faire una comitiva di nipoti durante una avventurosa vacanza estiva a bordo di un camper. Qui Giovanna Righini Ricci, registra un altro segno dei tempi e cioè il ruolo crescente che i nonni svolgono nell’ educazione dei ragazzi accanto e spesso in sostituzione, come vicari e/o supplenti, dei genitori. Nei suoi libri, Giovanna Righini Ricci si è avventurata in mondi lontani dalla sua Romagna; dalla Francia all’Egitto, dal Canada al Marocco, dal Messico alla savana, ha offerto ai suoi giovani lettori nuovi orizzonti da esplorare, altre culture con le quali confrontarsi e dialogare, inedite esperienze di viaggio e di avventura. Si tratta di percorsi narrativi ani- 24 mati da una corrente profonda che la scrittrice attinge dalla memoria, dall’esperienza come dal proprio immaginario, vale a dire quel “culto mistico della terra, che domina, sovrano, tutto il paesaggio e sottolinea, commenta, risolve ogni sensazione, ogni situazione”15. è questo un motivo che ricorre con particolare intensità di accenti nel romanzo Ombre sul Nilo (1990), ambientato in Egitto. Nel finale della storia l’autrice sente intimamente come proprie le parole messe in bocca alla protagonista, Mary Beth, dopo una rischiosa avventura nel deserto e l’idillio amoroso con il giovane arabo Khalil che l’ha liberata dai rapitori: “io sola conosco la magia di questa terra, una magia che mi canta dentro e che mi fa più ricca”. dopo questo excursus nella produzione più tarda della scrittrice torniamo ai mitici anni Sessanta, allorché Giovanna Righini Ricci si cimenta con altre e più impegnative sfide letterarie. Il rosmarino è fiorito “Il rosmarino è fiorito”: la frase era uno dei tanti messaggi in codice usato dagli alleati per comunicare via radio con i partigiani durante la Resistenza per annunciare operazioni di sostegno militare e logistico. Certamente udita durante la sua infanzia conselicese, quella frase diviene il titolo di un racconto che nel 1965 vince il primo premio al concorso “Resistenza Vado Ligure” (al quale avevano partecipato 150 autori), pagine che ricevono anche il plauso di Gianni Rodari, membro di quella giuria16. Il racconto narra la vicenda di Cesare, il giovanissimo protagonista che, spiando di nascosto una riunione partigiana nella casa paterna viene a conoscenza di una informazione segreta. Sarà l’ansia di comunicare la scoperta che ben presto lo coinvolge nella lotta clandestina accanto al padre. Ciò che qui anzitutto importa sottolineare è che con Il rosmarino è fiorito Giovanna Righini Ricci debutta nella narrativa giovanile. Parte da queste pagine, la missione alla quale dedicherà l’intera sua esistenza: scrivere per i ragazzi. 25 Nello stile e nel contenuto, la storia di Cesare esemplifica la raccolta dei sei racconti che alla fine del 1965 vede la luce con il titolo di Verdi Battaglie, il suo primo libro scritto per i più giovani e che, ancora inedito, nello stesso anno ottiene una segnalazione al premio Villa Taranto. A guidare la narrazione è un realismo tanto più fedele quanto più rievoca le vicende autobiografiche dell’autrice, o riferisce fatti uditi da protagonisti di storie vissute in prima persona, dove l’autrice muta soltanto il nome dei personaggi. L’abilità stilistica riesce tuttavia a mitigare le situazioni più drammatiche, adattandole alla sensibilità dei ragazzi e a rendere la lettura avvincente e allo steso tempo formativa. I protagonisti di questi racconti sono ragazzi che l’indole ingenua e impulsiva spinge in situazioni difficili e tragiche nelle quali tuttavia proprio loro emergono come testimoni di valori autentici e universali. Così il sentimento della lealtà e la solidarietà pervadono le pagine di Il segreto, dove Gianni e Mimma procurano cibo a un gruppo di clandestini decimati dalla malaria. L’amicizia disinteressata fino al sacrificio domina invece la vicenda di Alberto, il figlio del podestà, protagonista di Erano tutti miei amici, che cade sotto una raffica mentre, per salvare l’amico Gino porta la notizia di un imminente rastrellamento ad un covo partigiano. Non sono eroi ma ragazzi con tutte le loro debolezze strappati alla loro spensierata esistenza e proiettati nel vortice di un conflitto che “non comprendono ma di cui sono costretti a subire le conseguenze”17. Il messaggio educativo di queste storie, altro omaggio alla “terra” che attinge al medesimo background di Nel cavo della mano, la scrittrice lo dichiara apertamente nell’introduzione: “Questi racconti pur avendo come sfondo la lotta di liberazione, non sono stati scritti con lo scopo precipuo di celebrarla, ma in particolare per educare i ragazzi alla non violenza e per inculcare in essi il sentimento dell’amicizia e l’avversione alla guerra”. Non con ammonimenti, né con vuote dichiarazioni di principio ma attraverso le vicissitudini dei giovani personaggi, l’autrice intende coltivare l’avversione ad ogni forma di tirannia, educando alla giustizia e a quei valori civili che animano ogni giorno il suo impegno di educatrice d’ avanguardia nella nuova suola media dell’ obbligo. Natalino 26 Guerra, già insegnante di Giovanna al liceo Trisi di Lugo e autorevole protagonista della Resistenza in Romagna, in un convegno dedicato alla scrittrice nel 1998, ha ribadito questo punto e cioè che in tutte le sue opere “vivono e palpitano i valori di umanità, di solidarietà, di pace, che sono diventati patrimonio della nostra Costituzione”18. Sulla linea del fuoco Tra il 1968 e il 1972, l’autrice cura l’adattamento per le scuole medie, di L’ultimo vangelo, il romanzo sulla Resistenza di Fiorino Soldi con il titolo Gente del Po; nello stesso periodo pubblica una versione aggiornata di Verdi Battaglie con il titolo Ragazzi sulla linea del fuoco (1971) e, postuma, nel 1995, in Erano tutti amici. Rispetto a Verdi Battaglie, le due raccolte oltre ad offrire un’ ambientazione storica più ricca, includono due nuovi racconti, il Rosmarino è fiorito, del quale si è detto, e Gli stivali. Queste storie ci restituiscono uno sguardo inedito sulla lotta di liberazione, quello dei ragazzi: ecco allora che la Resistenza è compassione per Berto, nel racconto dal titolo omonimo, è dolente pietà per Alberto (in Nella palude), è maledizione contro la guerra per Gianni e Mimma (Il Segreto), è lotta fino alla libertà per Cesare (Il rosmarino è fiorito), è lunghissima notte tremenda per Aldo (La Ca’ Bassa), è fratellanza europea per Anna e Giacomino (Il dono). Infine, nel racconto più emblematico, è la sofferenza dei vincitori come dei vinti per Silvia, protagonista de Gli stivali. Silvia è una bimba di otto anni, che ha ricevuto dal comandante l’ordine di pulire gli stivali degli ufficiali tedeschi. La sua casa è stata occupata dai militari, ma un giorno scopre con sorpresa che anche nel nemico si apre uno spiraglio di umanità: “Ma inaspettatamente una manona si cala sulla testa di Silvia e la voce di Heisleb tuona insolitamente bonaria: “Sehr gut: molto bene! Tu essere brafa pampina. Io avere funf, cinque, come te, in Germania. Poi con la sua manona traccia in aria una invisibile scala per spiegare che il maggiore dei suoi figli gli arriva al petto ma gli altri sono più piccini, 27 anzi uno gli arriva solo fino al polpaccio. Silvia per la prima volta senza paura si accorge che il grosso Sleb sta sorridendo e i suoi occhi luccicano tra le rughe come se fossero argento liquido. Si allontana allora tutta turbata con la mente invasa dall’immagine di cinque tedeschi biondi e grossi con le gote rosse come quelle del padre; e tutti calzano i loro bravi stivali: piccini, piccini quelli dell’ultimo nato, via via più grossi e robusti quelli degli altri fratelli. Perché certamente calzeranno lunghi stivali neri, tutti i bambini del grosso ‘Sleb’! Anzi, è molto probabile che siano nati già stivalati, loro!”19. è questo il racconto che forse più di altri getta una luce di pietà anche sugli invasori che stanno per soccombere, ormai vinti; anche l’ufficiale tedesco è stanco della guerra, sogna la pace degli affetti familiari che forse non ritroverà. Troviamo qui una sensibilità toccante che esprime meglio di ogni altro concetto la terribile inumanità della guerra e che la scrittrice affida ai pensieri di una bambina. Quando apprende della fine di Sleb, avvenuta nella battaglia sul Senio, Silvia pensa tra sé e sé: “Il grosso Sleb non tornerà più. Non si sentirà più la sua voce tuonare imperiosa nello studio: non più stivali giganteschi da lucidare, mai più. Vorrebbe sentirsi contenta, sollevata, ma non ci riesce proprio. davanti ai suoi occhi c’è una casa silenziosa, investita dalla tormenta, lassù nella gelida lontana Germania e ci sono, allineati in ordine decrescente in una gelida cucina, dieci stivaletti, tutti in fila, che aspettano, aspetteranno, invano giorno dopo giorno, il ritorno dall’Italia dei grossi, protettivi stivali del papà”20. Così, mentre la guerra suscita “una dolente pietà per tutte le vittime inconsapevoli di una illogica violenza”21, in queste pagine i ragazzi sulla linea del fuoco, non più bambini ma non ancora giovani, sono protagonisti di vicende più grandi di loro delle quali faticano a comprendere il senso, vissute in modo grottesco o tragico in casolari sperduti, tra valli e paludi. Essi testimoniano con forza e limpidezza valori morali ed universali che spesso gli adulti nel loro pericoloso gioco, sembrano dimenticare. Con la loro spontanea umanità salvano i valori perenni della giustizia, affermando le premesse per un domani più libero e civile. Ma la vera grande risorsa etica dei ragazzi resta l’amicizia, un sentimento dalle potenzialità davvero straordinarie e che ritroveremo puntualmente nelle storie più avvincenti della scrittrice. 28 Scrivere per i ragazzi Tutto cresce nell’Italia del miracolo economico: reddito pro capite, consumi, scolarizzazione. Sui banchi della nuova scuola media dell’obbligo cresce una nuova generazione di italiani. Negli stessi anni esordisce la TV dei ragazzi, e Alberto Manzi istruisce gli italiani con il suo celebre programma televisivo Non è mai troppo tardi. Anche il mondo della letteratura per l’infanzia conosce una rapida espansione. Vecchi e nuovi editori danno vita a collane di narrativa rivolte ai giovanissimi, nascono riviste e premi letterari. Bologna ospita nel 1964 la prima fiera internazionale del libro per ragazzi mentre a Bari e a Padova si inaugurano le prime cattedre universitarie di Storia della letteratura per l’infanzia. Sono anni in cui questo genere letterario è legato a nomi celebri come Gianni Rodari, Giana Anguissola, Marcello Argilli, Reneè Reggiani, donatella ziliotto e lo stesso Alberto Manzi. è attraverso una serrata riflessione critica sulla letteratura nella scuola e più in generale sul rapporto fra ragazzi e lettura che Giovanna Righini Ricci definisce il proprio progetto narrativo. Come avvicinare i giovani alla lettura? è questo il problema che muove la sua riflessione. L’autrice parte dal presupposto che né i classici della narrativa giovanile né tanto meno quelli della letteratura tout court offrano una soluzione adeguata. dei primi, nonostante il valore letterario e pedagogico, i giovani lettori sembrano non avvertire più il fascino. Sono infatti storie dalle quali i giornali, i fumetti, il cinema, la radio, la televisione attingono a piene mani e con mezzi audiovisivi ben più seducenti della semplice lettura. Anche per chi non possiede una biblioteca personale, per queste storie è dunque venuto meno l’interesse perché “non c’è più nulla da scoprire”. In secondo luogo, i classici. Seppure modelli perfetti di prosa, essi restano pur sempre opere rivolte agli adulti, scritte con un linguaggio e con argomentazioni spesso non congeniali alla mentalità dei ragazzi22. Inoltre, l’autrice ritiene antipedagogico e antistorico ostinarsi a far capire a preadolescenti privi di adeguata preparazione culturale la finezza della prosa manzoniana, imponendo loro sollecitazioni che non li toccano. 29 Giovanna Righini Ricci, fautrice di una scuola a misura di alunno, coglie per tempo il mutamento della mentalità giovanile negli anni del boom economico. Avverte con lucidità l’esigenza di ridefinire i rapporto dei ragazzi con il libro e la lettura: “L’ho già letto!; “Ho visto il film e so già come va a finire”, si sente rispondere spesso l’insegnante che, il cuore gonfio di ricordi lontani e dolcissimi, incoraggia la scelta di un libro da parte dei suoi allievi. Ci deve pur essere una profonda ragione sotto questo disinteresse per un bel libro che intere generazioni hanno letto e riletto con gioia sempre rinnovata? Superficialità dei nostri adolescenti! Qualcuno sarà indotto a esclamare, drastico e amaro. Io penso invece che la causa vada ricercata nel radicale cambiamento di gusti e di sensibilità che sembra scavare un abisso fra due generazioni successive senza più possibilità alcuna di intesa. In apparenza rudi e spregiudicati, sono invece profondamente sensibili e ricettivi; vivono in un mondo dove anche l’arte e la letteratura vivono e muoiono nello spazio di un mattino; si tratta di una generazione che bolla senza pietà tutto ciò che è trito banale e scontato, che è guidata da un mirabile seppur irrequieto e inconsapevole, senso critico che vuole partecipare attivamente ad ogni espressione della vita e della realtà”23. Qual é allora il primo passo da compiere per conquistare i ragazzi alla lettura? Come evitare che i testi di narrativa, scelti dagli insegnanti sulla base di preferenze personali che inevitabilmente riflettono il punto di vista degli adulti, finiscano per diventare libri scolastici che si è obbligati a leggere con distacco rassegnato e senza partecipazione? Per l’autrice occorre anzitutto entrare nella psicologia dei giovani lettori, interpretare i loro miti, arricchire l’offerta narrativa con testi veramente nuovi adatti alle loro esigenze. La narrazione, che come si è visto segue il canone stilistico del realismo psicologico, deve essere incentrata sull’ “azione” e dunque “veloce, concreta, tutto cose e niente digressioni”, e deve prestarsi anche alla lettura ad alta voce, in grado cioè di competere con la narrazione audio-visiva offerta dai mass media. Quanto ai messaggi, la scrittrice sa bene che l’autore desideroso di divulgare una morale esplicita difficilmente troverà il favore dei giovani. L’intento didascalico è infatti un 30 retaggio ottocentesco che finisce per togliere al lettore la sensazione gradevole di una lettura “assolutamente libera e piacevole”: di fronte al monito il ragazzo abbandona la lettura perché la trama perde il respiro e diviene noiosamente prevedibile. Per Giovanna Righini Ricci, nel libro per ragazzi la morale della storia deve essere sempre intuitiva, implicita o nascosta. In altre parole, il messaggio deve formare il tessuto connettivo della vicenda e non sovrapporsi ad essa, come una voce fuori campo che ammonisce o consiglia il ragazzo distogliendolo dalla sua avvincente lettura. In terzo luogo la cosiddetta “l’identificazione”. In una letteratura per ragazzi degna di questo nome, occorrono infatti trame con personaggi “reali” nei quali i ragazzi si possano riconoscere ritrovando in essi esperienze vissute in prima persona. Si tratta di personaggi “specchio”, attori di intrecci che traggono spunto dalla vita quotidiana dei giovani. La scrittrice ha in mente un universo autonomo, quello dei preadolescenti, con una psicologia sua propria, ben distinto dall’infanzia come pure dal mondo dei giovani e degli adulti. “Tutti i protagonisti dei romanzi di Giovanna sono ragazzi che agiscono, reagiscono, pensano e parlano come ragazzi”24. Nella scuola media dell’obbligo, l’opera di narrativa deve inoltre essere soprattutto occasione di dialogo con i ragazzi: “ciascuno deve ritrovare in essa la sua frazione di universo, il suo “microcosmo”. Quindi l’opera di narrativa deve avere dei validi principi morali, presentare una certa varietà di tipi e di personaggi – anche negativi, perché proprio attraverso l’analisi critica del comportamento del cattivo, attraverso l’inchiesta sul perché del suo aberrante operare che i preadolescenti, con un procedimento alla rovescia, arrivano induttivamente all’acquisizione dei valori veri. […] come risulta invece fiacco e melenso il discorso sul buono sempre così scontatamente nel giusto, sempre così razionale! […] Presentare i fatti con stile fluido e realistico ricco di azione e aderente ai tempi, con quadri di breve respiro. L’opera va infatti letta e discussa in classe, senza vuoti e senza ricorrere al ripiego di affidare ai ragazzi la lettura domestica di pagine che essi dovranno poi malinconicamente riassumere e commentare per la lezione successiva”25. 31 Siamo di fronte ad un progetto letterario, che, assumendo come principio il punto di vista dei ragazzi – e Verdi Battaglie risulta emblematico a riguardo - ribalta quello che si potrebbe definire “il paradigma “adultocentrico” della letteratura giovanile. è inoltre un disegno in totale sintonia con il suo impegno pedagogico per il rinnovamento della scuola, impegno che molti anni più tardi così avrebbe ricordato: “Con l’ardore dei pionieri e l’anima piena di tensioni ideali […] tessevo e ritessevo le ardue trame di una progettazione che doveva conferire una fisionomia veramente democratica alla nuova scuola, per renderla misura di alunno, adeguata cioè sia alla comunità che ai singoli, a qualunque ceto appartenessero e qualunque fosse il loro livello di partenza e la loro potenzialità di sviluppo”26. La narrativa di Giovanna Righini Ricci, la sua passione di scrivere libri nuovi per lettori nuovi, che si affida ora al romanzo come forma letteraria privilegiata, nasce e si alimenta di continuo dal dialogo educativo quotidiano con i ragazzi. ora la letteratura entra nella loro psicologia e parla il loro stesso linguaggio. Libri nuovi dei cinque romanzi che precedono Le scapole dell’angelo, due sono intrecci narrativi che traggono spunto dall’esperienza che l’autrice compie tra il 1964 e il 1970 come insegnante di lettere presso la scuola media Redaelli di Milano. Le cicale, primo romanzo della scrittrice, e Il Ballo delle cicale27, sua continuazione, offrono un affresco variopinto e vivace di un gruppo di allieve. Raccontano un microcosmo giovanile tipico degli anni Sessanta: le ragazze amano ritrovarsi in un garage tappezzato con le foto dei loro idoli - Bobby Solo, Celentano e i Beatles - per discutere veri e propri ordini del giorno, come ad esempio “calze di nylon e azione da condurre contro le madri che si ostinano a comperare alle figlie ormai adolescenti, lunghi indistruttibili calzettoni eternamente a scacchi rossi e blu”28. Entra così in scena un “cast” di personaggi ben assortiti: la 32 volitiva e generosa Sandra, leader del gruppo, che dà prova di maturità assumendo le redini della fabbrica dopo la morte del padre; Elisa, antitesi di Sandra, cicala ricca e viziata che passa da un flirt all’altro paga di una scintillante superficialità; Cristina ragazza inquieta e insicura che alla fine un po’ a sorpresa matura la scelta dell’attività missionaria; la timida Maria Rosa che vive il suo risveglio esistenziale nella lotta contro le discriminazioni sociali nel paese natale del sud. Le due storie, tutte al femminile e ambientate nella grande città industriale del nord, privilegiano gli scenari extrascolastici cogliendo in presa diretta le vicende quotidiane e la psicologia delle protagoniste. Innamoramenti e sogni, gesti di solidarietà e confessioni scandiscono i fitti dialoghi e di queste ragazze alla difficile ricerca della propria identità. La scrittrice ne narra le vicende dalla preadolescenza alle soglie della maturità partecipando ai loro drammi, ne rivive le incomprensioni con gli adulti. Si tratta di due tipici romanzi specchio pensati per soddisfare il desiderio dell’ adolescente di identificarsi in qualcuno dei personaggi ma che sono rivolti anche a genitori ed educatori, per invitarli ad affrontare le crisi adolescenziali “con animo sgombro da ogni superficiale atteggiamento di riprovazione”. Esemplari, le figure femminili che in qualche modo rispecchiano il formidabile mutamento del ruolo della donna nella società di allora; la donna non più unicamente in veste di madre ma anche protagonista nella società e nel mondo del lavoro29. Fra queste, innanzitutto Sandra, che entra a far parte di quella galleria di giovanissime donne, ammirevoli per dignità e carattere, che Giovanna Righini Ricci ha raccontato in tanti suoi romanzi: da Camilla (La dove soffia il Mistral), da Mary Beth (Ombre sul Nilo) a Chiara (Alla fine del sentiero). L’esigenza di un dialogo costruttivo tra genitori e figli, tra giovani ed adulti come condizione di crescita personale dei ragazzi è tema ricorrente anche ne Il segreto della Cisa30 (1968). Questa volta sono però i personaggi maschili a dominare la scena e a fare emergere con più nettezza il conflitto generazionale tipico di quegli anni. Ecco la protesta che l’autrice mette in bocca a Sandro, uno dei protagonisti: “Anche il nonno si mette a farmi prediche; non ci si salva 33 più in questa casa! Non volete capire che il mondo è cambiato e che voi vivete ancora sulle nuvole?! Basta che mi piacciano i capelli lunghi, che desideri una camicia a fiori, che abbia degli amici, che subito sono tuoni e fulmini. Ma io vivo nel mio tempo, non nel vostro! Ho quattordici anni non sessanta, e mi piacciono le cose della mia età; che male c’è? Che male faccio? I miei amici hanno sempre denaro in tasca, vanno al cinema di sera con le ragazze, e io sempre qui, fra dei vecchi, in compagnia delle galline, a letto con le galline, che il sole è ancora alto, controllato, rimproverato, asfissiato”31. Questo suo secondo romanzo, è un’avventura ambientato in una piccola località della Romagna, dove un gruppo di adolescenti trascinati da Piero, appassionato di archeologia, scopre una botola accanto alla “Cisa”, un rudere risalente all’epoca di Caterina Sforza. Convinti dell’ esistenza di un tesoro, dopo vari tentativi, la spensierata comitiva trova il tanto ricercato forziere. L’impresa di svolge in gran segreto, e naturalmente all’insaputa dei genitori con i quali i rapporti si fanno ogni giorno più tesi. Ma un giorno, durante una esplorazione sotterranea, spaventati dai serpenti e dopo aver rischiato di soffocare, Piero e compagni decidono finalmente di avvisare le autorità e di far intervenire gli esperti. Il segreto è svelato, mentre la vicenda, che scuote la quiete sonnolenta del paese, si conclude con un viaggio premio dei ragazzi in città, per visitare il loro tesoro ora esposto in un museo. In questa trama avvincente, dai dialoghi vivi e incalzanti, ricca di suspense e colpi di scena, emerge nitida la personalità dei giovani protagonisti, che l’autrice dispone con accurata regia narrativa. Ecco allora Piero, sognatore ma risoluto nell’azione, che conduce l’impresa con ostinazione ma anche con responsabilità e senso del limite; ecco il mite e assennato Sandro, alle prese con un padre severo ma in fondo comprensivo; e poi Nicola, il più infantile del gruppo, bugiardo ma espansivo. Fra genitori che sbagliano e una nonna (ancora una volta) saggia e comprensiva, il romanzo affronta il difficile rapporto di questi adolescenti con gli adulti in un divenire esistenziale che fa crescere in consapevolezza gli uni e gli altri. La vacanza come occasione di crescita personale attraverso nuove esperienze: ecco un contesto narrativo che ritrovia- 34 mo anche in Incontri d’estate32 (1972) e che ricorre con una certa frequenza nei romanzi di Giovanna Righini Ricci. La scelta di una simile ambientazione alternativa al tempo scolastico e lavorativo consente infatti di rappresentare i comportamenti di ragazzi nella loro spontaneità offrendo ai lettori il gusto dell’inatteso e dell’imprevedibile, in luoghi lontani dalla ordinaria monotonia quotidiana. E ciò consente all’acume psicologico dell’autrice di rappresentare al meglio due tipi di relazioni affettive, quelle tra coetanei, e quelle sempre problematiche e tendenzialmente conflittuali fra genitori e figli. La storia narrata in Incontri d’estate si svolge dapprima in un camping sulla riviera adriatica dove Alida, la protagonista quindicenne trascorre le vacanze con la famiglia fra vacanzieri provenienti da mezza Europa. Qui i genitori di questa ragazza timida e piena di dubbi incarnano tutt’altro che il genitore perfetto. Il padre, figura volutamente marginale nella narrazione (similmente ad altri personaggi paterni dell’autrice), è un signore convinto che basti lavorare per la famiglia per essere a posto con coscienza e soddisfatti del dovere compiuto. dal canto suo la madre, donna autoritaria e vittima di pregiudizi, non vede tuttavia di buon occhio le amicizie estive della figlia, il leale Mohammed e l’allegro Helmuth due bravi ragazzi che riescono a togliere Alida dai guai allorché la giovane viene coinvolta nell’ esperienza della droga da due ragazze danesi (verso le quali l’autrice evita ogni condanna moralistica). è a questo punto che, inevitabilmente, il già tormentato rapporto con la madre culmina nel dramma mettendo fine alla villeggiatura in riviera. La famiglia milanese decide allora di proseguire le vacanze in montagna. dallo spensierato edonismo della riviera l’ambientazione si sposta al clima sereno e contemplativo di un campeggio alpino: nel mutato scenario l’autrice ricompone le tensioni, complice la quiete della natura incontaminata. Intanto nuove amicizie rimettono in moto l’intreccio. Ecco allora Paolo, coprotagonista del romanzo, il cui sentimento di tenera amicizia per Alida, alla fine lo spinge a superare la propria indole pigra e abulica; la signora Agata, solitaria naturalista che infonderà nella protagonista quella sicurezza interiore che la ragazza non riusciva a trovare. 35 La narrazione resa ricca movimentata dai dialoghi e da una folla di personaggi minori, offre diffusi esempi di gergo adolescenziale. Queste pagine, inoltre anticipano quei temi sociali, come la tutela ecologica e i pregiudizi razziali, che avrebbero assunto un rilievo crescente nella narrativa di Giovanna Righini Ricci. Educare con la letteratura Giovanna Righini Ricci ha dunque inventato un modo originale di fare letteratura per ragazzi. Le sue storie trovano lettori sempre più numerosi per lo più attraverso il circuito della narrativa scolastica, ambito nel quale la scrittrice si pone come figura decisamente innovativa. Alla fine degli anni Sessanta il suo autonomo progetto narrativo-educativo, ben avviato, ha trovato ampi riscontri e soprattutto si preannuncia come un paradigma letterario ricco di potenzialità e nuovi sviluppi. E che non passa inosservato: così anche la Rai si accorge della scrittrice che per il programma radiofonico La Radio per le scuole si cimenta con tre storie destinate ai più piccoli, andate in onda nel 1970: Duna la cangurina tutta azzurra; Fipo, pinguino bugiardo; Sigfrido, asinello giocherellone33. Qui, come in altre opere letterarie, accanto alle sue doti narrative, l’autrice mette a frutto le sua eccellente preparazione in campo psicopedagogico. Il suo insegnamento ‘a misura di alunno’ pone la massima attenzione nel calibrare la proposta narrativa in relazione alle varie fasce d’età, convinta che gli interessi letterari dei giovani in età evolutiva sono in relazione alle fase delle sviluppo psicologico. Ecco come l’autrice, sia pure con un certo schematismo, delinea il suo progetto: “da dove veniamo tutti noi? L’interrogativo che spesso affascina il ragazzo verso i 10-11 anni quando ancora vive immerso nel contesto familiare, lo orienta verso i racconti fantastici e verso una narrativa che gli presenti il mondo degli affetti familiari, la psicologia dei bambini e dei ragazzi, la vita degli animali. Verso i 12-13 anni comincia il distacco dalla famiglia, il preadolescente scopre attraverso il gruppo dei pari, la propria 36 dimensione sociale. Chi sono io? Qual è il mio ruolo nei confronti degli altri? Questi sono gli interrogativi dominanti in questa fase, tutta protesa a scoprire la propria interiorità agitata da nuove e sconosciute pulsioni durante le quali lo appassionano “i romanzi in cui viene proposta la vita associativa e la problematica tipica dell’età evolutiva, i rapporti con gli amici, l’altro sesso, gli adulti, la comunità, l’amore, il problema della libertà e dei suoi limiti”. dove sto andando? dove stiamo andando tutti noi?: verso i 14-15 anni nella fase in cui il ragazzo matura la propria capacità critica, nasce l’interesse verso una narrativa che rappresenti l’individuo alle prese con i problemi dell’umana convivenza”34. La letteratura per ragazzi svolge così una funzione pedagogica essenziale: rappresenta cioè uno dei veicoli più efficaci per suscitare nei lettori la motivazione all’apprendimento, poiché la narrativa, in quanto forma di comunicazione immediata dà voce alle pulsioni interne, ai sentimenti e alla fantasia “con un approccio ludico e apparentemente svagato, che crea però vivo interesse e desiderio di approfondire”35. L’interesse per la sfera emotiva dell’età preadolescenziale ha inoltre portato la nostra insegnante ad introdurre, già negli anni ‘Sessanta, l’educazione sessuale nella scuola media dell’obbligo “quando ancora essa poteva apparire un’audacia inaudita, da antesignani temerari”36. è principalmente in questo ambito che la sua passione di educatrice d’avanguardia la spinge ad affrontare incomprensioni, pregiudizi e arcaici tabù. Per la Righini Ricci, la scuola a misura di alunno non ha il solo scopo di istruire ma è un luogo dove i ragazzi devono avere la possibilità di affrontare e discutere apertamente anche i loro problemi personali. è in questa forma di dialogo che l’autrice si cimenta ogni giorno e lo fa attraverso i diari, la dinamica di gruppo e un costate atteggiamento di ascolto attivo, convinta che nella scuola dell’obbligo si debba essere “sempre meno professori e sempre più educatori”. Anna Robiglio collega di scuola della scrittrice, ricorda che “lei era rimasta giovane dentro e della giovinezza aveva conservato lo stupore e l’entusiasmo; ho notato in lei questa strana dualità fra la donna colta e matura e la fanciulla stupita della vita. Persone come Giovanna erano guardate un po’ storto dai conservatori […] 37 innovativa, sempre attenta ad ogni svolta nel campo del sapere e della didattica, amava il suo lavoro e amava i suoi alunni ed era ricambiata con affetto e stima. Nella nostra scuola ha portato indubbiamente una ventata di novità, che, se dapprima ha trovato molta resistenza, poi è stata seguita, grazie a lei, anche da insegnanti ostinatamente tradizionalisti”37. Il ragazzo venuto dal sud La full immersion scolastica di ogni giorno offre in continuazione alla scrittrice quegli spunti narrativi destinati a diventare opere letterarie compiute. E dai banchi di scuola nasce una delle sue storie più celebri, quella di Lorenzo, il ragazzo venuto dal sud, protagonista di Le scapole dell’angelo38, un romanzo pubblicato nel 1973 che esprime in modo forse più compiuto il mondo narrativo della scrittrice negli anni Settanta. L’opera che ha dato all’autrice la notorietà nazionale nel campo della letteratura giovanile prende spunto dal diario di un suo alunno, vittima di un pestaggio, “il quale una mattina venne a scuola senza occhiali con un occhio pesta e tanta disperazione in viso. Unendo la sua storia con la cronaca giornaliera dei suoi compagni, ho fatto un libro”39. La scuola media in questione, la “Galilei” di San donato Milanese, è un edificio di lusso destinato ai figli dei dipendenti del più importante complesso industriale della zona ma è frequentata anche da quelli di immigrati residenti in bicocche di fortuna e dai ragazzi delle ultime cascine rimaste tra le marcite. La scrittrice ci porta qui agli antipodi della tranquilla campagna romagnola di Nel cavo della mano. è questa periferia metropolitana che fa da sfondo ad una storia che si muove in un crogiuolo di contrasti: fra campagna e città, fra nuovi arrivati e residenti, fra ricchi e poveri. In questo teatro narrativo, Lorenzo, tredicenne figlio di operai da poco immigrati, vive in prima persona il trauma dell’ inserimento nel nuovo contesto sociale. 38 Il libro si configura come vero e proprio romanzo di formazione40 e racconta la storia della sua maturazione in “presa diretta” con l’esperienza di vicende che favoriscono di volta in volta il passaggio da una sterile inerzia ad una fattiva combattività. La situazione iniziale del protagonista, è tutta dominata dal suo stato d’animo dopo l’ aggressione subita: “lo sconforto gli dilagò dentro ed ebbe paura di tutto, dei teppisti, del domani, della vita futura”. Con l’angoscia è la nostalgia a scandire le sue giornate monotone in uno struggente desiderio di tornare alla casa natale del sud, paradiso perduto della sua infanzia. Ad alimentare la sua sfiducia si aggiunge poi un altro rovello: il sospetto che il fidanzato della sorella sia coinvolto in una rapina ad un supermercato. Né in famiglia né a scuola Lorenzo trova comprensione e disponibilità all’ascolto. In classe esprime il suo disagio con un atteggiamento scontroso che lo isola dai compagni. Solo l’incontro con Rossella, una ragazzina timida e sensibile, apre lentamente una breccia nella sua solitudine. L’amicizia appaga finalmente il suo urgente bisogno di confidarsi, liberandolo a poco a poco dalla sua corazza di sfiducia. Ma altre difficoltà sopraggiungono. Quando il licenziamento incombe sui genitori, Lorenzo avverte il senso di un disastro irreparabile gravare sulle sue spalle. Nel dramma c’è per lui tuttavia un risvolto di speranza, allorché si attivano inaspettate solidarietà, quella familiare innanzitutto. Così dopo varie peripezie, in quelle strade suburbane a lui tanto straniere, Lorenzo incontra finalmente un padre insolito, che lo avvicina durante un corteo sindacale: “vedrai che ce la faremo! E Lorenzo si sentì salire lacrime di fierezza per quel plurale che di colpo li accomunava, annullando ogni distanza”41. La solidarietà non manca nemmeno tra i compagni di scuola, che poco tempo prima avevano soccorso come volontari il rione popolare allagato e che ora organizzano per lui una festa e raccolgono fondi da destinare agli operai impegnati nell’ occupazione della fabbrica. Anche il ritorno al paese natale in visita ai parenti lo induce ad una consapevolezza più matura. Perfino la campagna della sua infanzia, dove la nonna ha venduto la terra per la superstrada, ha ceduto il passo a moderni edifici e industrie. Contrappunto a questa vicenda a lieto fine, il dialogo 39 confidenziale con Rossella, l’amica da sempre vissuta in città, che gli infonde fiducia nella giustizia, e dunque il coraggio di raccontare finalmente al commissario di polizia i suoi sospetti sulla rapina al supermercato. In conclusione, la storia di Lorenzo è un susseguirsi di esperienze che lo immettono in un ambiente sociale complesso e dinamico, dove egli impara ad esistere scoprendosi protagonista del proprio divenire, consapevole che di fronte alla miseria morale e materiale c’è pur sempre la forza di resistere, la caparbietà a farsi uomini e cittadini responsabili. opera di autentico impegno civile e democratico, Le scapole dell’angelo si distingue dalle precedenti per il forte accento sulle problematiche sociali e tipiche della moderna società industriale: la violenza, la difesa del posto di lavoro, l’inquinamento, la condizione abitativa. Alla denuncia dello sfruttamento minorile, in particolare, si ispira la poesia di Carlo Martini (dalla quale è tratto il titolo del libro) che Lorenzo legge davanti ai suoi compagni e propone alla discussione. Ma in primo piano resta sempre l’arduo problema dell’inserimento degli immigrati nel nuovo contesto urbano. Il protagonista – e come lui Maria Rosa di Le Cicale e Il ballo delle cicale – rappresenta infatti una figura tipica delle città industriali del nord negli anni Sessanta e Settanta; un ambiente dove la scuola svolge il suo compito di educazione alla convivenza civile. Il messaggio del libro è un tentativo di risposta a tale sfida educativa. I problemi sociali affrontati in questo come in altri romanzi restano così aperti a soluzioni alternative: “saranno i giovani lettori a trarre conclusioni dopo aver preso coscienza della realtà e averne analizzato aspetti e componenti, a fare la loro scelta, libera e consapevole, coerente con la loro personalità, il loro grado di maturità, le loro convinzioni, il loro concetto dell’esistenza e dell’umana convivenza”42. Nel rovente clima sociale e politico degli anni Settanta, il romanzo si propone come “libro aperto” che narrando la dinamica esistenziale dei preadolescenti sa conquistare l’immediato consenso dei lettori attraverso il processo di identificazione con i personaggi. Nel rifiuto dell’ideologia e coerentemente alla sua etica pro- 40 fessionale Giovanna Righini Ricci “non indica nei suoi romanzi delle piste politiche precise, come fecero tanti scrittori, né offrì una uscita di sicurezza religiosa”43. Insiste invece sul fatto che i preadolescenti, in quanto persone in divenire, sono estremamente vulnerabili e per questo motivo mette in guardia gli educatori a non fare dei ragazzi “dei robot asserviti alle sue ideologie ma dei cittadini liberi di scegliere, di dire sì oppure no, di acquisire una loro personalità; abbia quindi sempre lo scrupolo della verità, della obiettività, il rispetto delle idee altrui e farà dei suoi ragazzi degli individui amanti della verità, dell’obiettività, rispettosi delle idee altrui, cioè degli individui ‘politici’ e non ‘faziosi’.44 Sono parole che indicano la via maestra di un’etica della cittadinanza, in un decennio segnato da ideologie e radicalismi di vario segno. durante un convegno dedicato all’autrice tenutosi a Lugo di Romagna nel 1996, la scrittrice Alessandra Jesi Soligoni non ha esitato parlare di “irruzione di Le scapole dell’angelo venuto a scuotere l’immobilismo della narrativa scolastica”45. è una valutazione certamente condivisa dai tanti insegnanti di allora, se si pensa alla sua presenza nelle scuole di ogni regione d’Italia nei successivi trentacinque anni; fortuna e ampia diffusione, confermata anche da una indagine sulle adozioni di testi narrativi condotta da Rita d’Amelio46 che nel 1975 lo segnala al terzo posto nelle scuole dell’Italia settentrionale. Intanto anche altri romanzi della Righini Ricci guadagnano uno spazio rilevante nel circuito nazionale delle adozioni scolastiche. Nel 1983, una indagine sui testi di narrativa presenti nelle scuole genovesi promossa dal Centro studi sulla letteratura giovanile del Comune di Genova, mostra che le opere più adottate dopo I Promessi Sposi sono proprio i romanzi di Giovanna Righini Ricci: Ragazzi sulla linea del fuoco, Incontri d’estate, La collina delle iguane, La dove soffia il Mistral. Quando Le scapole dell’angelo arriva nelle librerie, Giovanna Righini Ricci si è da poco trasferita a Torino dove, dal 1973, insegna presso la scuola media Perotti. L’immagine di copertina di quel romanzo fresco di stampa, riporta del resto una figura simbolo della città - una madre dallo sguar- 41 do spaesato che appena scesa dal treno, tiene per mano un bambino e porta una valigia di cartone - ritratto fedele di uno scenario che si ripeteva ogni giorno quando il treno del sole, proveniente da Reggio Calabria, scaricava alla stazione di Porta Nuova centinaia di persone con il foglio di ingaggio della Fiat. Giovanna Righini Ricci, insegna, scrive, con l’attenzione costantemente rivolta alle sfide della società moderna. Pratica la lettura dei quotidiani a scuola e al tema dell’ immigrazione dedica una sperimentazione didattica di interclasse a distanza fra i suoi alunni e i loro coetanei di Termini Imerese. Ne nasce un dialogo a tutto campo fra i ragazzi che dibattono sulla droga, la famiglia, la solitudine, il sesso, i mass media, le ingiustizie sociali. L’iniziativa diviene un caso esemplare di innovazione didattica e nel 1976 andrà in onda nel programma Rai “La TV dei ragazzi”. La passione per la scrittura, che in questi anni l’autrice ha dovuto un po’ sacrificare alle pubblicazioni scolastiche, la spinge ben presto a dedicarsi interamente alla narrativa. Giovanna Righini Ricci lascia l’insegnamento nel 1978 per dare nuove gambe al progetto letterario concepito quindici anni prima; la scrittrice si sente chiamata a sfide ancor più impegnative ora che la sua notorietà si è consolidata fra gli insegnanti e soprattutto tra i giovani lettori, che da ogni parte d’Italia la impegnano in scambi epistolari sempre più frequenti. Verso una letteratura ecologica Un tratto distintivo di Le scapole dell’angelo è la totale assenza della natura con i suoi cicli, le sue suggestioni i suoi tipi umani caratteristici, annullata com’è da un paesaggio metropolitano che domina incontrastato la narrazione. In quanto storia tipicamente urbana, rappresenta tuttavia quasi una eccezione nella vasta produzione narrativa della scrittrice, che avrebbe riproposto una ambientazione simile, in I giorni della luna crescente, nel 1987 e in parte nel romanzo Il sogno di Hassan. 42 E attraverso la vicenda di Lorenzo – una storia che per la sua ambientazione urbana si colloca agli antipodi di Un pugno di terra – dove la vita della grande città industriale del nord pulsa frenetica, e così ostile minacciosa agli occhi del protagonista, che l’autrice, sia pure in modo episodico, tocca il tema ecologico. La rappresentazione fedele della realtà sociale nella quale agiscono i suoi protagonisti, porta così le sue storie a denunciare il disagio ambientale che nel testo emerge a tratti, desunta dalla cronaca cittadina o più semplicemente dalla vita quotidiana: “Lorenzo guardò sotto: l’acqua nera, orlata di schiuma aggrediva con violenza i piloni smangiati […]. Come sempre gli uomini inquinano la natura. Un momento fa si respirava ossigeno, adesso si respira veleno […] plastica! Il mondo intero fra poco sarà sommerso da contenitori di plastica, indistruttibili e la terra diventerà un immenso immondezzaio […]. da quando hanno costruito l’aeroporto non c’è più un istante di pace […] lo trova giusto lei che a ogni pioggia ci si infili mezzo metro di acqua sotto il letto? […] miasmi mefitici di un fiume irrimediabilmente inquinato dagli scarichi industriali”47. Nel corso degli anni Settanta, attenta ad anticipare le sfide del mondo contemporaneo, l’autrice riserva una sensibilità tutta particolare per le contraddizioni del progresso e della società opulenta. Così mentre l’inquinamento ambientale diviene una sorta di emergenza nazionale dopo il disastro ambientale di Seveso, avvenuto nel 1976, Giovanna Righini Ricci ha già da tempo dato voce alla coscienza ecologica attraverso le sue storie, con l’intento di educare i ragazzi al rispetto per la natura e le sue leggi, condizione essenziale per “formare degli esseri veramente liberi, responsabili e completi”48. Storie di animali Giovanna Righini Ricci ha sempre nutrito un profondo amore per gli animali, e una vivissima compassione per le loro sofferenze. è questo uno dei motivi che l’hanno resa 43 particolarmente sensibile alle problematiche ecologiche che i protagonisti delle sue opere spesso si trovano ad affrontare. Nei suoi romanzi, del resto, gli animali sono pressoché onnipresenti, sebbene per lo più in funzione gregaria rispetto ai protagonisti, come nel caso emblematico di Un pugno di terra. Questa situazione si rovescia tuttavia in I figli di Kira49 dove le storie vissute in prima persona dagli animali alludono al mondo degli affetti familiari e alla psicologia infantile. Le vicende narrate intendono comunicare il messaggio educativo “in veste colorita e narrativa”, che inserisce “la fantasia nella realtà, la fiaba nel rigore scientifico, l’immaginazione nella concretezza” per divertire, commuovere e ottenere che il lettore viva emotivamente l’insegnamento nascosto. Nella finzione antropomorfica ecco allora una fauna variegata che parla, riflette, soffre, gioisce, ma che nello stesso tempo vive nel suo habitat naturale. Sempre implicita, la morale scaturisce dalle situazioni, scevra da ammonimenti e commisurata alla psicologia propria dell’età infantile. Ecco allora storie di iniziazione alla vita dall’epilogo triste, come la vicenda di zobo, un cucciolo del pastore tedesco Kira, che muore come cavia in un laboratorio; ora lieto come in Zibesti, leone pacifista, allorché le guardie del parco nazionale si prendono cura del piccolo felino allontanato dalla madre perché rifiutava la dieta carnivora dei suoi simili. Sono pagine che mettono in scena le tensioni esistenziali tipiche dei bambini: il distacco dalle abitudini della prima infanzia, la difficile conquista dell’autonomia, il senso della condotta responsabile, come pure il desiderio elementare di giustizia che anima la storia di djanga, l’elefantessa operaia che riesce a strappare al padrone il diritto ad un trattamento più umano. In questi racconti ecologici sugli animali, gli uomini compaiono infatti nella loro ambivalenza: talora custodi saggi e amorevoli dell’equilibrio naturale, più spesso avidi predatori ai quali gli animali finiscono per soccombere. è contro questa crudeltà irresponsabile che l’autrice inscena il riscatto finale in La rivolta della collina, dove la riscossa corale e vittoriosa degli animali del bosco contro un manipolo di cacciatori ristabilisce finalmente l’ equilibrio turbato: “fu così che allora gli uomini senza saperlo impararono a rispet- 44 tare gli abitatori della collina i quali mai avrebbero osato sperare di poter vivere in santa pace il resto dei loro giorni”50. Troviamo in queste pagine ancora una volta Giovanna Righini Ricci in veste di scrittrice per l’infanzia – dove il realismo psicologico si unisce al fiabesco – un filone significativo anche se non prevalente nella sua produzione letteraria che, dopo le favole per la Rai, annovera Il mondo di Paolino51, una storia raccontata attraverso gli occhi di un bambino e del suo cane fedele. L’autrice mette in luce il comportamento, la maturazione, il grado di socializzazione acquisito dal simpatico protagonista nell’affrontare varie circostanze della vita (come ad esempio la nascita del fratellino) e i rapporti con i diversi componenti della famiglia. Sempre dedicata alla fauna troviamo infine la pubblicazione coeva Gli animali e l’uomo, un’antologia che raccoglie ventitré racconti di autori italiani, dove gli animali protagonisti sono colti nella loro psicologia e nel loro rapporto con l’uomo. Vento di Mistral: raccontare l’ecologia Se Lorenzo riesce finalmente ad imparare a vivere nella metropoli lasciandosi alle spalle il paese rurale dell’infanzia, per Camilla, la sedicenne protagonista di La dove soffia il Mistral, vale un percorso inverso, cioè la fuga, sia pure temporanea, dalla città per scoprire l’ orizzonte suggestivo di una natura incontaminata. Il problema del rapporto uomo-natura, già al centro in I figli di Kira, viene qui ripreso secondo un approccio più complesso e problematico, dove ecologia e antropologia si innestano organicamente in una narrazione percorsa da interrogativi esistenziali che toccano tanto la sfera personale quanto la dimensione collettiva della vicenda umana. Riguardo all’ambientazione, come già in La collina delle iguane (1977), anche in La dove soffia il Mistral l’autrice varca i confini nazionali. Le precedenti ambientazioni del bel paese – Romagna, Milano, la riviera adriatica, la vallata alpina – 45 cedono ora il posto alla Camargue, la regione francese sul delta del Rodano, che l’autrice visita nel 1979. Il libro conduce il lettore in un paesaggio battuto dal vento animato da un a fauna variegata e onnipresente52. Lo accompagna lungo i sentieri di una “creatura dalle mille vite”, un paradiso delle biodiversità salvato dal progresso tecnologico, dove la natura domina sovrana e l’uomo non è che uno dei tanti esseri che la popolano. “La vedi questa terra, strana e mutevole, fatta di stagni e paludi, di dune erranti, flagellate dal vento, di spiagge dardeggiate dal sole? Questa Camargue, aspra e dura, popolata di tori e di cavalli, di uccelli e di serpenti? Ebbene, questa è una creatura dalle mille vite! Essa sembra a volte respingerti, sembra volerti uccidere; invece è sangue, è vita! Qualcuno ha detto che tutti noi abbiamo dentro la nostra Camargue, il nostro rifugio e io vorrei tanto che tu lo trovassi qui”53. Secondo uno schema narrativo ormai collaudato, anche qui ritroviamo la coppia amicale uomo/donna nelle vesti di due ragazzi protagonisti, un lui e una lei dai caratteri opposti e complementari, fra i quali nasce un passione tenera e coinvolgente. La dinamica ed espansiva Camilla, il timido e introverso Vincente, giungono entrambi dalla città per trascorre le vacanze presso una azienda agricola della Camargue. Tra i due, presi da mille interrogativi esistenziali tipici della loro età, si accende un’intesa destinata a rinsaldarsi attraverso avventure e disavventure, tra le quali la liberazione di una bambina tenuta prigioniera in una villa della zona. In una vicenda che nel finale si colora di giallo i protagonisti imparano a conoscere e ad apprezzare la gente del luogo e nello stesso tempo maturano, sperimentando non solo una natura grandiosa e selvaggia ma, sia pure indirettamente, anche il dolore, la malattia e la morte. La dove soffia il Mistral, forse la più complessa e articolata tra le opere della scrittrice, si snoda lungo tre piani narrativi ben intrecciati – il romanzo ecologico, la storia d’amore, l’intreccio poliziesco – un costrutto che denota l’abilità della narratrice di “moltiplicare le azioni salvaguardando l’unità dell’ insieme”54. L’avventura estiva dei due amici si muove come sempre entro una fitta rete di personaggi: genitori, familiari, nonni, amici, bambini, e una immancabile cerchia di simpatici animali domestici come cani, gatti e cavalli. 46 Con questo romanzo ambientalista, Giovanna Righini Ricci torna sul tema narrativo forse a lei più congeniale, quello della madre-terra, già al centro di Nel cavo della mano. Riproponendo pagine di intenso lirismo, riporta in primo piano l’antitesi tra città e campagna, tra natura e civiltà, tra progresso e tradizione. La Camargue, simbolo e metafora di una natura originaria, si impone come uno scenario, naturale e culturale, che sembra assumere quasi il ruolo di protagonista, anziché di semplice contesto geografico. Non diverso è del resto l’approccio della scrittrice con altre ambientazioni esotiche: il Messico di La collina delle iguane, il Marocco, di Il sogno di Hassan, l’Egitto di Ombre sul Nilo, il Canada di Alla fine del Sentiero e l’Africa tropicale di Nel vento della savana. In Là dove soffia il Mistral l’ambientazione agisce sulla psicologia dei personaggi (in molti casi è parte integrante della loro personalità), che si distinguono tra loro, – e qui c’è un punto essenziale e tipico della narrativa della Righini Ricci – proprio per il diverso atteggiamento nei confronti della terra-natura. Questa varietà di comportamenti è del resto pienamente funzionale ad un approccio problematico alla questione ecologica, che la scrittrice presenta ai lettori attraverso una pluralità di punti di vista. Il messaggio ecologico emerge così attraverso il confronto - scontro dei punti di vista e dei comportamenti piuttosto che enunciare una soluzione precostituita al problema della salvaguardia ambientale. Sotto questo profilo, i personaggi appaiono divisi in due categorie: da un lato coloro che si scoprono in armonia con l’ambiente della Camargue, dall’altro coloro che non riescono ad adattarvisi rimanendo insensibili se non addirittura ostili ad un ambiente primitivo e selvaggio. Il contrasto qui delineato presenta posizioni estreme fra le quali si collocano atteggiamenti intermedi. Così, perfettamente integrati nell’ambiente della Camargue troviamo anzitutto i nativi. Ecco allora i nonni Gaspar e Briseide, due vecchi dignitosi che ricalcano la famiglia patriarcale di nonno Tranquillo, severi custodi di una saggezza radicata in un profondo rispetto per la tradizione e la natura. Accanto a loro, tra altri, trova un posto speciale papa Vatel, il vecchio mandriano ostile al progresso e alla tecnologia ma 47 saggio custode della terra al quale l’autrice affida uno dei messaggi ecologici del romanzo: “il mio gran libro è la natura: Bisogna saperlo leggere per sopravvivere […]. L’uomo deve capirlo che è una creatura della terra, non un parassita; se continua a sfruttar la terra, questa un giorno o l’altro se la scrolla di dosso, come un verme, pluf, finito, per tutti!”55 Vincente, ragazzo orfano che vive col fratello Cesar, resta invece inizialmente fermo in una posizione di incertezza, in bilico tra due mondi. Così, nei mesi in cui frequenta il collegio non pensa ad altro che alla sua Camargue, poi però appena torna in fattoria si sente a disagio: “non so ancora se mi piaccia vivere qui, è un mondo che non sempre riesco a capire, che mi sembra selvaggio, innaturale, fuori dal tempo”56. Soltanto alla fine, grazie all’amicizia con Camilla e alle avventurose vicende vissute insieme a lei, supera le iniziali perplessità e impara ad amare la sua terra. La scoperta di questo valore è invece preclusa a Babe, madre di Camilla, collaboratrice ad una rivista femminile, donna dalla psicologia fragile ed eccentrica che non riesce affatto ad adattarsi all’ambiente della Camargue. L’autrice delinea qui un tipo di donna, che per inseguire gli agi della modernità, finisce per abdicare perfino al ruolo di madre. Con questa ben riuscita figura di adulta incompiuta che si rivela perfino bisognosa di protezione, la scrittrice inscena un patetico rovesciamento dei ruoli, allorché Camilla le parla come rivolgendosi a un bambino: “Sono un fallimento come madre vero Milla?”. “No, perché, a me piace una madre da proteggere”57. Abituata ai comfort della vita urbana, Babe, incapace di sopportare il vento, gli alberi e gli animali, così dichiara il suo disagio: “Ma questa è una terra di selvaggi! Non sono in grado di abituarmici: ho bisogno di comodità, di tanti piccoli agi, di un bagno di schiuma tiepida, di una bella vestaglia, di uno spettacolo televisivo, di una partita a carte con le amiche. Lo so che tutto suona tristemente vuoto e frivolo ma non mi riesce facile vivere nell’austerità”58. Se la madre di Camilla impersona la cultura del benessere, ovvero una umanità che ha completamente smarrito il senso della natura, gli amici di Vincente, Pedro, Manuelito e Micaela, rappresentano il turismo vandalico e irresponsabile. I tre ragazzi, infatti, si spingono oltre, inscenando gesti 48 di teppismo – uccidono un innocuo serpente e colpiscono un fenicottero con una lattina di coca cola – una violenza gratuita sugli animali che suscita il disgusto di Camilla e lo sdegno dello stesso Vincente. Testimone di una coscienza ecologica matura è invece il personaggio di Livia, sorella maggiore di Camilla, ecologa di professione, venuta nella Camargue per studiarne le specie animali e vegetali, tutelare l’equilibrio ecologico della regione e salvaguardarne la diversità culturale. L’etica ambientalista del romanzo sembra davvero affidata alle parole di questa studiosa: “Il nostro compito è quello di salvaguardare questo modo di vivere, senza che però diventi troppo atipico, cercando di accostare per gradi la gente della città a questo mondo, senza deteriorare la nativa asprezza dei costumi, di far entrare anche un minimo di tecnologia, senza alterare il mirabile equilibrio esistente tra l’uomo e la natura […] Studiamo le misure più adatte per la tutela di questo paesaggio raro, di una flora e di una fauna ormai eccezionali; c’è anche da mantenere sotto controllo l’equilibrio delle acque che regolano e influenzano ogni aspetto della vita della Camargue: una piena o una siccità possono significare rovina o morte per tutti, uomini, animali, attività. In più c’è da tenere d’occhio l’afflusso dei turisti che si fanno di giorno in giorno più numerosi e anche pericolosi […] e teniamo sotto controllo la speculazione edilizia”59. In questo come in altri suoi romanzi, Giovanna Righini Ricci affida tuttavia ai giovani protagonisti il ruolo di testimoni principali di nuovi valori. Camilla, altra donna esemplare nella inesauribile galleria di personaggi della Righini Ricci – figura nella quale non è difficile riconoscere la stessa autrice60 – è una sedicenne che nonostante l’età ha imparato a dialogare e interagire con gli uomini su un piano di parità e di coinvolgersi con loro in azioni rischiose. Scopre così l’amore per Vincente e nello stesso tempo quello per la natura. Lo sguardo attento e sensibile di Camilla scopre a poco a poco il fascino della Camargue, lei che appena arrivata nella casa dei nonni si stupisce ad esempio di non aver visto nessun oggetto di plastica: “Sembra incredibile! La plastica ha invaso il mondo ma non la Camargue!”61. Anche la protagonista avverte chiaramente il divario culturale fra i nativi e i turisti: 49 “Solo chi ci è nata e ci vive sempre qui può sentire come propria la pelle rugosa della Camargue. Noi veniamo dalla città, siamo avvezzi da sempre ad un rapporto diretto con le cose costruite dall’uomo, con i prodotti della tecnologia; noi non conosciamo il contatto diretto con la natura e tutto ci spaventa. Nessuno ci ha insegnato il linguaggio vero della natura; siamo come degli analfabeti che si spaventano di fronte ad un messaggio incomprensibile”62. Il suo atteggiamento di comprensione diviene piena disponibilità ad ascoltare il linguaggio della natura, dove, alla fine Camilla si sente davvero a casa propria: “Io invece amo tutto di questa vallata”63. In definitiva la Camargue non è soltanto lo scenario di una esperienza che l’ha resa più matura e consapevole, nel quale peraltro ha scoperto l’affetto per un suo coetaneo, ma un luogo dell’anima nel quale la protagonista ha ritrovato se stessa. Negli anni che precedono la nascita dei movimenti e dei partiti ambientalisti, ancora una volta Giovanna Righini Ricci, gioca dunque d’anticipo, denunciando i limiti dell’occidente consumistico e mettendo a fuoco le sfide ambientali di fine millennio. I diverso rapporto con la terra/natura sembra dunque stabilire il discrimine fra l’autentico e l’inautentico. L’autrice che pure dedica pagine di intenso lirismo alla bellezza dell’ambiente naturale, non propone tuttavia improbabili fughe dalla civiltà. Mette invece l’accento sulla diversità culturale, in questo caso fra città e campagna, perché è sulla terra che l’uomo è destinato ad incontrare l’altro, il diverso. denuncia inoltre, come già in La collina delle iguane, scritto qualche anno prima, il disagio della civiltà occidentale, quello cioè di una parte di mondo in cui gli uomini, sottomettendo la natura, si illudono di conquistare la felicità unicamente attraverso il benessere materiale. 50 La forza dell’amore La dove soffia il Mistral risulta emblematico anche riguardo ad un’altra esperienza tipica dell’ età giovanile: la scoperta dell’amore. E paradigmatico in questo senso è la coppia di Camilla e Vincente, due ragazzi legati non più da una semplice e generica amicizia ma non ancora da amore pieno, con esplicite connotazioni sessuali. E nondimeno una esperienza coinvolgente dominata da slanci emotivi di tenerezza, di confidenza e di ammirazione reciproca. I due protagonisti, presi dalle incertezze della loro età, d’altro canto non sanno ancora bene che cosa sia il vero amore. Camilla del resto se lo chiede, e ne parla con Livia, la sorella maggiore: “ ‘Sai, Livia, oggi mi sono accorta di voler bene a Vincente’ … ‘Non ti sembra presto per dirlo? Lo conosci da pochi giorni’ …. ‘Si capisce subito se una persona ti garba oppure no!’… ‘Anche tu e Pierre vi volete molto bene, vero?’ ‘Sì’. ‘Che cosa è per te, l’amore?’ ‘L’amore è tenerezza, fiducia, dare ricevere, con slancio, con entusiasmo, è affrontare la vita insieme … è attrazione, è amicizia, è amicizia profonda, dedizione’ “64. Nelle storie di Giovanna Righini Ricci, l’amicizia amorosa fra i due sessi non travalica mai in amore romantico, con le sue passioni travolgenti ed esclusive. L’autrice ha del resto ben presente che la psicologia adolescenziale tende facilmente a idealizzare e ad assolutizzare i sentimenti, come anche alle pulsioni evasive, alle fughe romantico sentimentali. L’amore raccontato dall’autrice appare come un vissuto emotivo radicato nell’esperienza ordinaria, quotidiana e nel quale rivestono un ruolo importante la volontà, e la ragione e il contesto sociale rappresentato dai familiari, parenti e amici. di fronte alla tendenza dei giovani a vagheggiare forme di autorealizzazione orientate all’assolutezza e alla perfezione, la scrittrice propone una visione “armonica, equilibrata e matura, che senza nulla togliere alla dimensione sentimentale, non rinuncia al contributo che il buon senso e la razionalità possono dare ad una vita autonoma e completa”65. Anziché l’amore in atto, la scrittrice predilige 51 l’amore nascente, sentito come una poesia lieve e impalpabile, perché sapeva bene che “gli adolescenti sono in attesa di quel sogno”. L’esperienza amorosa riconduce peraltro ad uno dei caratteri peculiari, già ricordato, dell’intera narrativa della Righini Ricci: quella di essere romanzi di formazione66. Ciò che l’autrice intende in primo luogo mostrare è che l’esperienza amicale/amorosa segna un salto di qualità interiore in chi la vive. L’amore, in altre parole è carico di sorprendenti potenzialità formative che plasmano in positivo la instabile personalità dei ragazzi. Come Lorenzo di Le scapole dell’angelo acquista fiducia in sé stesso attraverso l’amicizia con Rossella e; così Vincente, timido e incerto sul proprio futuro, si scopre alla fine coraggioso nel tentativo di proteggere Camilla. (Altre coppie: Alida e Paolo di Incontri d’Estate, Mary Beth e Khalil in Ombre sul Nilo, “cementate” dalla comuni esperienze avventurose). Alla fine della storia o dell’avventura i personaggi sono dunque cambiati: attraverso l’esperienza, acquisiscono maturità, consapevolezza e maggiore sicurezza in sé stessi, ridefiniscono il proprio sistema di valori; guadagnano una visione del futuro più ottimistica; anche scontrandosi e confrontandosi con il mondo degli adulti. Altri orizzonti narrativi dopo il 1978, come si è detto, Giovanna Righini Ricci si mantiene sulla lunghezza d’onda del mondo giovanile attraverso gli incontri con le scuole e i fitti carteggi con singoli ragazzi, classi di alunni e gli insegnanti. Questi scambi epistolari, è un caso tipico di come i suoi figli sparsi per il mondo – in questo modo l’autrice ama definire i suoi romanzi – diventano mediatori di un dialogo (letterario ed educativo insieme) continuo e appassionato con i lettori. Questi carteggi offrono testimonianze importanti sui nuovi orizzonti narrativi che la scrittrice propone ai ragazzi già a partire dagli anni Settanta. In una lettera ad una alunna di Medolla, l’autrice appena tornata dal Marocco racconta alla 52 sua giovane lettrice di aver visto in quel paese il Medioevo e il duemila, fianco a fianco “in un campetto ai bordi della strada che da Casablanca conduce a Rabat c’era in fatti un contadino con la djellaba che arava con il chiodo e l’asinello mentre a pochi passi strepitava un moderno trattore”67 . è in questo orizzonte planetario che l’autrice - a partire da La collina delle iguane e Là dove soffia il Mistral - arricchisce la sua narrativa di spunti nuovi e più complessi, secondo una strategia che mira a superare i confini nazionali e culturali, e in perfetta sintonia con il suo europeismo convinto professato già dagli anni Sessanta. Nel 1984, ai lettori più avveduti che le chiedono i motivi di questa “metamorfosi”, i quali trovano i suoi ultimi romanzi più impegnativi, l’autrice risponde che il motivo va ricercato nel fatto che: “i lettori stanno maturando assai rapidamente e accorciano i tempi sia dell’infanzia sia dell’ adolescenza, immergendosi sempre più rapidamente nel vivo della dinamica esistenziale. Allora per parlare il loro linguaggio devo adeguarmi alla loro problematica68. La narrativa è parte di un progetto educativo che mira ad allargare l’orizzonte esperienziale dei ragazzi, renderli capaci di cogliere gli aspetti globali, ecologici dell’ esistenza, offrendo loro una visione europea e mondiale delle esperienze umane. “In un’epoca in cui le distanze – scrive l’autrice – si sono praticamente annullate grazie ai prodigi della scienza e della tecnica, e nella quale i problemi della sopravvivenza futura dell’umanità accomunano tutti gli individui, a qualunque classe sociale appartengano e in qualsiasi parte del mondo vivano, è urgente ed essenziale porsi interrogativi esistenziali e cercare di dare ad essi una risposta consapevole””69 Trasformando il mondo in un villaggio globale, i mass media hanno infranto gli angusti limiti della realtà paesana e i ragazzi ne subiscono il condizionamento senza la consapevolezza critica del divenire umano e dei rapporti tra eventi in apparenza lontanissimi. L’autrice fedele alle sue scelte stilistiche e consapevole delle sfide educative emergenti, approfondisce la componente valoriale della sua narrativa attraverso motivi inediti: storie ambientate in terre lontane, protagonisti appartenenti a culture extraeuropee, temi come la fame e il sottosviluppo, la salvaguardia ecologica, il dialogo interculturale. 53 Incontro fra mondi lontani Il suo nome è White Heron. Solca l’oceano pacifico con l’equipaggio al completo servizio di facoltosi vacanzieri. Alex, il giovane italiano cantante di bordo, confida la sua inquietudine a Mathilde, una ragazza sconvolta dalla tragica fine del fratello minore, disperso in mare tra l’indifferenza generale dei passeggeri: “Sono senza ieri né domani. Io adesso viaggio, con la smania di sapere; […] io non ho radici, seguo la nave”70. Sono parole che esprimono un disagio che investe la condizione umana e che si fa più stridente quando la nave da crociera, simbolo di una civiltà agiata ma infelice (e che ha smarrito il senso originario della terra), giunge in Messico. Così in La collina delle iguane due mondi s’incontrano e sembrano trovare un’emblematica intesa nell’amicizia che Alex stringe e Felipe, un ragazzo messicano che vive la sua dura condizione con fantasia e ottimismo. In questo libro l’orizzonte tematico della scrittrice si allarga: entrano i scena le contraddizioni del mondo contemporaneo. In primo luogo l’opposizione tra la civiltà occidentale tecnologica, dove l’uomo cerca di soffocare la propria inquietudine attraverso il consumismo; e i paesi del terzo mondo, ancora legati a modelli di vita arcaici, dove arretratezza, miseria e ignoranza coesistono fianco a fianco con il lusso, lo spreco e i privilegi, senza fondersi mai. Gli abitanti del Messico, come l’autrice fa dire al dottor Erik, medico di bordo, rivolgendosi ad un Alex indignato per la loro indifferenza verso la morte: “possiedono una schiettezza, una semplicità che noi occidentali, abituati a secolari convenzioni sociali, scambiamo per indifferenza. Ricorda che questa gente ha ancora bisogni primari da soddisfare, lotta per la sopravvivenza, mentre noi godiamo di tutto il necessario e anche del superfluo; non ci può essere un parametro unico di comparazione. Si tratta solo di sapere se sono più felici o più infelici. Vedi da noi in Svezia non esistono la fame, la miseria, il sottosviluppo: lo Stato protegge accompagna il cittadino dalla culla alla tomba, con equa ripartizione del benessere. Eppure è molto difficile dire se il modello di vita svedese porti alla felicità o all’alienazione […]. Io mi domando dove stia 54 andando l’umanità, se verso un’era tecnologicamente perfetta, in cui ci sarà assoluta assenza di bisogno e di dolore, o verso l’alienazione”71. Come i turisti scacciati dal capo indiano Bella Bella, in Alla fine del sentiero, anche i passeggeri della White Heron, una volta sbarcati nel porto messicano, non vedono che gli aspetti superficiali e folcloristici di questo paese, mentre Alex, guidato da Felipe – che per tutto il romanzo si esprime sempre nella sua lingua madre – ne coglie la vera essenza, la cultura e la straordinaria umanità. Un episodio che mostra la distanza culturale ed etica tra i due mondi è i rifiuto di Felipe di vendere ad un turista il cagnolino del fratello Jesus. Nonostante la cospicua somma di denaro offerta che certamente avrebbe alleviato la misera condizione della sua famiglia, Felipe esige che il cane debba restare a far compagnia all’infelice Jesus, gravemente ammalato. La vicenda mette a confronto una civiltà, quella del turista, che assegna al denaro un ruolo indispensabile per conseguire la felicità, ad un’altra, nella quale questo valore, un semplice mezzo per soddisfare bisogni primari, non può in alcun modo sostituire i valori dell’ amicizia, degli affetti. è in nome dell’amicizia e della riconoscenza che Felipe regala invece il cagnolino ad Alex che con la sua testimonianza ha salvato l’amico messicano da una ingiusta condanna. Quest’ultimo rinuncia perfino al guadagno di una giornata lavorativa per condurre l’amico Alex alla collina delle iguane. Tra i pericoli e le meraviglie della palude, ecco i due ragazzi incamminarsi alla scoperta dell’anima profonda e leggendaria di un’altra terra, un altro paradiso naturale. “Attraversarono di corsa una spiaggetta lunata, di sabbia bianca dove l’acqua veniva a morire dolcemente tra scogli neri. Su uno di essi, un grosso pellicano, immoto, le ali penzolanti, guardava fisso il volo dei gabbiani sopra il suo capo. Si inoltrarono in una stretta gola dirupata: al di là, nitida contro la roccia turchina dell’oceano, si ergeva la collina, tutta coperta di iguane. Erano migliaia, abbarbicate alla roccia, pigre e imbambolate sotto il solleone: un tappezzeria vivente! “Eccole là, las iguanas!” si estasiò Felipe. Lo prese per un braccio e lo trasse vivamente nell’ombra di un fresco ciuffo di alfalte. Alex lo imitò e tutti e due tacquero a 55 lungo, osservando nella gran pace del cielo e del mare, i lenti spostamenti delle iguane crestate: alcune dormivano placide, con la lunga coda abbandonata, altre strisciavano pigramente sulla roccia calda. “Quando il sole è nel punto più alto la balena bianca appare al Capo di san Luca, balla un po’ fuori dall’acqua poi scompare. La zia Ines che è di origine nomade dice che quando compare la balena bianca colui che la vede muore entro un anno, lui o qualcuno della sua famiglia”72. E la collina delle iguane è il luogo segreto ma anche lo spazio interiore dove Felipe nonostante tutto ritrova il suo più autentico momento di felicità in comunione con la natura. Qui, nel romanzo più esotico della scrittrice, Alex, l’inquieto giramondo senza radici, scopre finalmente il senso della terra che aveva dimenticato durante la sua esistenza errabonda. La chiusa del romanzo riassume il senso di un’avventura: ”Tutti noi abbiamo la nostra ‘collina delle iguane’: basta saperla riconoscere” al quale farà eco qualche anno dopo “Tutti noi abbiamo dentro la nostra Camargue”. Come in altre storie che l’autrice colloca nell’orizzonte della contemporaneità, quello stesso in cui i ragazzi vivono, il libro induce dunque il lettore a riflettere sul diverso atteggiamento delle persone nell’affrontare la lotta per la sopravvivenza, la vita, la malattia, la morte, a meditare sul senso della felicità, a dibattere sul destino del mondo - ma ancora una volta senza fornire giudizi di merito o indicare le soluzioni “giuste”, o presunte tali, ma con il fine di sviluppare nei ragazzi la necessaria autonomia di giudizio. Il messaggio dell’autrice, in ogni caso, si conferma un invito a superare ogni forma più o meno compiaciuta di tolleranza, nella conquista di una reale e profonda consapevolezza del valore essenziale della diversità perché “L’incontro tra persone appartenenti a culture diverse è sempre per la Righini Ricci, una occasione di crescita e di maturazione, specie se si tratta di adolescenti alla ricerca della propria identità”73. 56 Storia di un migrante Negli anni ottanta il fenomeno dell’immigrazione extracomunitaria registrava una incidenza del tutto inimmaginabile rispetto alle ondate che avrebbero investito la nostra penisola soltanto un decennio più tardi. Giovanna Righini Ricci, che risiede a Torino fino al 1986, coglie in anticipo il segno dei tempi e così chiaramente da dedicargli un libro. Ancora una volta nella fucina letteraria dell’autrice si compie un processo alchemico che dai fatti di cronaca, dalla persone incontrate e dalle cose viste e sentite, distilla la fiction, secondo un metodo narrativo che conferisce al ‘problema’ (o al fenomeno sociale da indagare) la consistenza di un personaggio in carne e ossa. L’autrice trova l’attore della sua trama rocambolesca in un giovane Tuareg, il quale, come lei stessa rivelerà più tardi ai suoi lettori: “esiste veramente e ora fa da guida turistica guidando in fuoristrada i viaggiatori che amano visitare attraverso il deserto le casbah: ho conosciuto la sua terra e la sua gente e mi è rimasto nell’anima un profondo rispetto per i valori che ancora caratterizzano la società degli uomini blu”74. Ecco allora entrare in scena il giovane Hassan, protagonista di un romanzo che anticipa il problema della convivenza e del dialogo fra le culture. In Il sogno di Hassan il protagonista abbandona la sua tenda nel deserto per raggiungere Marrakech, la città dei suoi sogni, un’aspirazione che lo allontana dall’ambiente familiare vissuto come angusto e limitante: “Madre voglio andare laggiù nella città di ocra rossa! “Io voglio andare via come i miei fratelli” ripeté con ostinazione. “io voglio vedere le torri di Marrakech, io voglio vedere i bianchi palazzi dai portali arabescati, io voglio vedere il mondo, madre!”, gridò Hassan e la sua voce suonò aspra nel silenzio del mattino”75. Ma il viaggio si trasforma ben presto in una rocambolesca peripezia che lo dirotta verso mete del tutto diverse, come immigrato clandestino prima in Spagna e poi in Italia, a Torino, dove si ritrova venditore ambulante, mendicante e infine ballerino acrobata in un circo. Anche in questo caso evidente risulta il parallelismo con altre opere: come per Lorenzo di Le scapole dell’angelo e Aigle Noir di Alla fine del 57 sentiero, anche per il giovane Tuareg l’impatto con la civiltà moderna è traumatico, fonte di umiliazioni e sofferenze. Coraggioso e leale, guidato da una speranza in una esistenza più umana, Hassan riesce tuttavia ad affrontare difficoltà di ogni sorta senza mai rinunciare alla sua dignità. La sua profonda religiosità, e la fede nei valori della sua terra, saranno per lui valido scudo contro i colpi dell’avversa fortuna. L’avventura diviene così una proficua lezione di vita: il protagonista non si trasforma in un disadattato e alla fine riesce a coronare il suo sogno. La vicenda di Hassan - un percorso dalla struttura circolare articolato nelle fasi di a) allontanamento dal luogo di origine, b) esilio, c) ritorno a casa - è così un racconto che, attraverso la lezione delle cose, addita la possibilità di migliorare la propria condizione e realizzare i propri sogni senza recidere i legami con la propria cultura d’origine. Il protagonista, proiettato in un orizzonte di esperienza completamente nuovo, scopre mare, la neve, nuovi lavori e ruoli. La condizione del protagonista esemplifica quella tipica dei nuovi arrivati, ben più umiliante di quella vissuta da Lorenzo in Le scapole dell’angelo: “Erano parecchi mesi ormai che si trovava a Torino, dormendo di notte con gli altri in una soffitta umida e fatiscente e lavorando di giorno agli ordini dell’uomo dai capelli rossi. E sempre erano rimbrotti, per le vendite scarse, per la poca volontà che ci mettevano. Soprattutto Hassan e Ibrahim venivano accusati di essere stupidi e inerti: erano i più giovani e vendevano poco. Gli altri percorrevano invece ogni giorno chilometri e chilometri supplicando, insistenti e afflitti, finché qualcuno comprava un accendino, una coperta di lana, un tappeto. Ibrahim e Hassan no, non se la sentivano di mendicare di umiliarsi e i loro fardelli tornavano alla soffitta pressoché intatti, ed erano rimproveri a non finire e minacce e castighi e notti passate senza chiudere un occhio, con il freddo che attanagliava le carni e la fame che mordeva lo stomaco”76. L’odissea di Hassan prosegue in un continuo alternarsi di schiavitù e fughe dove l’adattamento a situazioni più disparate è di volta in volta vissuto dal protagonista come un presente provvisorio, nell’attesa che il sogno diventi realtà. Le vicissitudini del protagonista, il suo incontro con una cultura diversa, si configura come una sorta di “viaggio ini- 58 ziatico” che segna il passaggio dall’ adolescenza all’età adulta. Similmente ai personaggi delle fiabe, egli esaudisce un suo sogno: conoscere il mondo e le sue meraviglie, conquistarsi una propria indipendenza e magari riuscire anche a far fortuna77. Se in La collina delle iguane troviamo un ragazzo italiano che incontra una cultura diversa, ne Il sogno di Hassan è un ragazzo straniero a scoprire la realtà europea e che dopo averne fatto esperienza “torna rinvigorito nel proprio alveo, rinforza la sua identità, pur avendo imparato a conoscere la diversità”. Riguardo a questo romanzo, che indica un percorso auspicabile nell’incontro fra le culture, daniele Giancane ha osservato che “l’incontro con l’altro non deve divenire abdicazione alla propria identità, ma anzi riscoperta delle fondamenta di questa e allo stesso tempo accettazione della pari dignità dell’ altrui identità ed ai bisogni essenziali dell’essere umano, ad ogni latitudine”78. Chiara e Aigle Noir: culture a confronto L’uomo è in quanto comunica, è tanto più ricco di interiorità, consapevolezza, socialità quanto più è in grado di esprimere compiutamente se stesso, il suo mondo intimo, di renderne partecipi gli altri, di scambiare con gli altri le sue esperienze, di interagire con il mondo circostante79. Educare alla contemporaneità, o in altri termini alla globalizzazione, significa allora attrezzare i ragazzi alle sfide di un mondo in cui i mezzi di comunicazione di massa superano ormai ogni frontiera, annullano le distanze tra le persone e fra i popoli della terra. Ne consegue il rapido sgretolarsi di valori e consuetudini millenarie che cedono al dilagare della cultura piatta e uniforme dell’era tecnologica, che snatura le persone e le rende disadattate. L’era di Internet è alle porte: lo scrittore per ragazzi, l’educatore hanno il compito di fabbricare antidoti in un mondo sempre e più povero di veri ideali, che non siano quelli dell’ arrivismo e del consumismo. Sulla base di questa consapevolezza – siamo negli anni 59 dell’avvento della televisione a colori e l’autrice è particolarmente attenta al rapporto fra media ed educazione – la sua nuova produzione letteraria, intende calare i lettori nel cosiddetto il villaggio globale, espressione molto in voga in quegli anni coniata dal sociologo canadese Marshall Mac Luhan. In questo nuovo contesto, destinato a plasmare l’immaginario di una generazione, “la pacifica convivenza – scrive la Righini Ricci – richiede a tutti noi contatti con persone molto diverse, per cultura e modo di essere, e uno sforzo per accettare degli altri ciò che ci unisce al di là e al di sopra di ciò che ci divide”80. In questo orizzonte problematico l’autrice concepisce una delle migliori pagine della sua letteratura, rivolte agli adulti di domani affinché siano motivati, resi responsabili e addestrati a convivere con le realtà più diverse. Nel maggio del 1985 Giovanna Righini Ricci scrive ai ragazzi di Mirandola informandoli del nuovo libro che sta portando a termine, un romanzo ambientato fra gli irochesi del Canada, nella Riserva Indiana di Caughnawaga. Racconta la storia di un giovane pellerossa chiuso in una squallida riserva e pieno di rancori contro coloro che sono, secondo lui, responsabili di un vero e proprio genocidio. In Alla fine del sentiero81 ritroviamo il topos della letteratura multiculturale di Giovanna Righini Ricci: l’incontro fra il giovane italiano e quello di altra cultura82. Il libro racconta la vicenda di Chiara, in vacanza nei dintorni di Quebec, presso lo zio Luigi da anni emigrato in Canada. L’evento che innesca la trama è l’incontro della ragazza con Aigle Noir, coprotagonista, il giovane indiano ribelle, la cui condizione è segnata dal trauma dell’identità perduta. Anche i vincoli familiari e comunitari sono stati recisi: il padre alcolizzato, la sorella dedita alla droga, i membri della sua tribù dispersi e ridotti alla fame, sfruttati e costretti a lavori umilianti. Non stupisce dunque il suo totale risentimento verso i “bianchi” visti come nemici e oppressori: “Ieri i bianchi sono venuti a prendere le nostre praterie, i nostri boschi e le nostre risorse, e ci hanno cacciati nelle riserve, a morire di stenti, come cani rognosi; ieri ci avete portato le vostre malattie schifose, che la mia gente non conosceva, e avete fatto morire i nostri bambini, i nostri vecchi! Ieri avete bruciato le cervella dei nostri guerrieri con l’alcool! oggi 60 distruggete quello che resta della mia gente con la droga! E non c’è pace, non c’è legge, non c’è giustizia, quando si tratta della mia gente, quando a soffrire, a morire è solo un selvaggio!”83 Similmente a quanto accade in Là dove soffia il Mistral riguardo alla questione ecologica, anche in Alla fine del sentiero Giovanna Righini Ricci affronta i vari aspetti del problema, concernente la minoranza etnica degli irochesi della riserva indiana, attraverso i diversi e contrapposti atteggiamenti dei personaggi. Se Aigle Noir (aquila nera) incarna la figura del ribelle intransigente, Kateri, la moglie indiana dello zio Luigi, e direttrice della scuola nella riserva irochese, rappresenta il vero trait d’union fra passato e presente, il punto di equilibrio fra la sua etnia di provenienza e il mondo contemporaneo. Sa cavalcare e tirare con l’arco ma conosce anche le lingue, sa usare il computer, guida l’automobile e apprezza perfino Giuseppe Verdi; ha insomma assimilato la cultura dei bianchi. oltretutto, essendo discendente da una indiana convertita al cristianesimo, osserva con convinzione i rituali della religione cattolica e, come scrivono Francesco e Giovanni Masini, “Se pensiamo che la cristianizzazione dei pellerossa è stata adottata come motivazione per la conquista del Nuovo Mondo, non può sfuggire l’amara ironia della situazione”84. diversa invece è la posizione di Luigi, il marito italiano di Kateri. La sua visione etnocentrica, inquinata da stereotipi e pregiudizi, non conosce alternative ad un completa assimilazione degli indiani nella società dei bianchi, della quale sembra ignorare i disvalori. Egli non si avvede che, come spesso accade nell’incontro tra civiltà cosiddette “avanzate” e culture “minoritarie”, “bollate” come primitive, sono proprio queste ultime ad evidenziare contraddizioni e ipocrisie nella cultura dominante. In stridente contrasto con la figura di Kateri si pone anche l’atteggiamento dei turisti, che l’autrice, anche in questa storia, non esita a mettere in cattiva luce; nient’altro muove infatti la loro superficiale curiosità fuorché gli aspetti più folcloristici della cultura indiana, peraltro considerata selvaggia. Essi riducono a spettacolo la tragedia di un popolo che non vuole rinnegare se stesso per piegarsi alla frenesia consumistica, che finisce per distruggere i suoi valori e le 61 sue tradizioni. Ecco allora il drammatico episodio in cui il capo indiano Bella Bella scaccia i turisti che vorrebbero visitare il suo villaggio, perché vuole essere un uomo e non un fenomeno da baraccone, zimbello dei vacanzieri. In Bella Bella, Aigle Noir vede una figura esemplare, un esempio di resistenza ad oltranza all’invadenza culturale dei “bianchi”. Egli resta comunque un adolescente prigioniero delle illusioni del passato, la cui condizione esistenziale è ben espressa da Kateri: “Io spero che Aigle Noir affronti coraggiosamente l’esistenza di oggi. Ma deve arrivare da solo a questa meta. ogni volta che ho voluto fargli accettare le regole del divenire umano ha creduto che volessi asservirlo ai bianchi ed è fuggito via. Invece io volevo che superasse il muro d’ombra e di incomprensione che separa la mia gente dagli altri, volevo che mi aiutasse a rendere la nostra gente meno infelice. Aigle Noir non ha ancora capito quanto io, nel mio lavoro, abbia bisogno di persone della nostra stirpe che sappiano conciliare l’antico col nuovo”85. Le parole della donna esprimono chiaramente un punto di vista adulto e ragionevole, tali da apparire come la soluzione più logica del problema. Eppure non fanno breccia nel cuore di Aigle Noir; sono del resto sempre falliti i tentativi di Kateri di “integrare” il giovane pellerossa. Solo una esperienza emotivamente coinvolgente, anche in questo caso una amicizia, può portare Aigle Noir a maturare un diverso livello di consapevolezza. E sarà proprio Chiara, aperta ai mondi e alle culture diverse, libera da pregiudizi e interessata al valore delle persone, ad aprire una breccia in quel muro d’ombra. Tra i due, nati e cresciuti in ambienti lontani e radicalmente diversi, si crea a poco a poco una comprensione autentica e spontanea, che si dipana anche qui in uno scenario naturale miracolosamente intatto. Fra i due, Giovanna Righini Ricci inscena un esempio illuminante di dialogo interculturale: “ ‘E adesso che è così vecchio come fa a sopravvivere?’ ‘Bella Bella sa che la sua fine è vicina’. disse Aigle Noir, solenne. ‘Ma gli altri, i bambini avrebbero il diritto di andare via di qui, di condurre una vita diversa’ incalzò Chiara. Il viso di Aigle Noir era nero come la tempesta: “Quale vita diversa! Proruppe: “Quella dell’alcool, della droga, della delinquenza, dell’indegnità?”. 62 Chiara non mollò la presa: “poco lontano da qui c’è la scuola, il progresso, la lotta alle malattie, la cultura […]”. Aigle Noir scosse la testa dubbioso. “Anche mio nonno vive ancora nella vecchia casa di campagna che lo ha visto nascere!, proseguì con veemenza Chiara: “Ma l’ha fornita di luce elettrica, di acqua corrente, e possiede un frigorifero, il telefono, la televisione! Lui dice di volere ancora fare il contadino, ma nel suo orticello sperimenta nuove varietà di fragole che danno frutti quasi tutto l’anno! Ecco, questo per me è giusto: accettare il progresso che aiuta la vita, alleggerendo la fatica umana, liberando dal bisogno!”. Tacque e guardò preoccupata il viso di Aigle Noir. Il ragazzo taceva ora a testa bassa”86. Il sentimento che il giovane irochese prova per Chiara, – che, per di più, contro la volontà del padre Ernesto, lo ha sottratto alla condanna con l’accusa di omicidio, dopo aver provato la sua innocenza fornendogli un sicuro alibi – lo spinge verso un’ intesa con quel mondo prima tanto ostile. Lui che aveva sempre rifiutato di essere chiamato con il suo nome di cittadino canadese, così saluta Chiara in partenza per l’Italia: “Chiamami, chiamami Pierre! Proruppe il ragazzo, a un tratto, con gli occhi accesi; e nel momento in cui pronunciava quel nome, capì di essere giunto alla fine del sentiero e di essere pronto a imboccare la strada maestra. Arrivederci Pierre! Mentre dentro il petto le si accendeva una girandola di luci””87. Ad appena un anno dalla sua pubblicazione, Alla fine del sentiero vince il premio di Letteratura per l’infanzia Città di Bitritto (in cui la giuria è composta anche da ragazzi) e sollecita gli innumerevoli commenti dei suoi lettori. Così, ai ragazzi delusi per il mancato lieto fine della vicenda, Giovanna Righini Ricci risponde di aver sollecitato i lettori a “continuare mentalmente la storia e di inserire un finale personale: io infatti non credo al vissero sempre felici e contenti e amo lasciare aperto il finale88. Anche in questo romanzo la vita adolescenziale si configura come sorgente di valori autentici: l’autrice affida ancora una volta l’incontro tra due mondi al sentimento di amicizia, vissuto dai protagonisti come evento che imprime una svolta nel loro percorso esistenziale e diviene conquista di consapevolezza, spirito critico e maturità psicologica. 63 Idillio e avventura nel deserto I numerosi incontri con i ragazzi delle scuole, da una città all’altra, sono anche occasioni per dissolvere diffusi luoghi comuni e stereotipi che circondano lo scrittore per ragazzi. Giovanna osserva al riguardo che fra i giovanissimi che le scrivono, “diversi mi immaginano piccola, vecchia e grassa, con una gran crocchia di capelli bianchi e tondi occhialini sul naso! Misteri dell’immaginario collettivo!”. Per rendere gli incontri stimolanti ed efficaci, Giovanna Righini Ricci raccomanda ogni volta agli insegnanti di preparare con cura gli alunni. Vuole infatti incontrare non semplici spettatori ma ragazzi che abbiano letto alcuni dei suoi libri e intendano rivolgerle delle domande, muovere obiezioni, discutere delle tesi, essere in una parola protagonisti dell’incontro. Questo feeling ininterrotto, alimenta ben presto una mole impressionante di corrispondenza alla quale la scrittrice, da Bologna dove risiede dal 1986, risponde sempre, senza eccezioni. è questo carteggio che le consente di “saltare sulla frequenza d’onda dei giovani”89. Nel frattempo i giovani stanno infatti cambiando; sui banchi della scuola media siedono ragazzi nati negli anni Settanta. La televisione a colori è entrata in ogni casa, occupando un tempo crescente nella vita quotidiana dei giovani; sta per cominciare anche in Italia l’era dei videogiochi, dei walkman e dei primi home computer mentre gli effetti speciali e la grafica computerizzata rilanciano attraverso la cinematografia il genere fantascientifico. In questo nuovo clima culturale Giovanna Righini Ricci scrive il suo romanzo più avventuroso ed in qualche modo più eroico, un altro elogio del multiculturalismo e un invito a superare le anguste prospettive eurocentriche della cultura occidentale. Aggiudicandosi il premio Lunigiana nel 1990 e il premio Valtenesi, nel 1991, Ombre sul Nilo, pubblicato nel 1990, presenta un intreccio ricco di suspense giocato in un altro scenario esotico e irreale del deserto egiziano. Sul filo di una trama incalzante che si snoda fra dialoghi serrati e scorci di paesaggio come una sequenza cinematografica, l’autrice tesse un’altra delle sue avvincenti storie. 64 Concepito durante il suo viaggio in Egitto nel 1986, il romanzo narra la vicenda di Mary Beth, un’adolescente figlia di un giornalista americano, sequestrata da misteriosi guerriglieri mentre sta trascorrendo una vacanza sul Nilo con la famiglia. Scatta allora l’affannosa ricerca della ragazza da parte dei familiari e della polizia. Ma mentre le indagini procedono senza esito, è il giovane musulmano Kalil, che la rintraccia e riesce a liberarla, mettendo a repentaglio la propria vita. Generoso, amante della giustizia e pieno di umana solidarietà, porta con sé Mary Beth lungo l’avventurosa peripezia del ritorno a casa. Va peraltro sottolineato che Kalil sembra distinguersi nettamente nella affollata galleria dei personaggi della nostra scrittrice. Per un verso, egli rappresenta un giovane normale – nel romanzo lavora al tourist shop della Nefertiti Queen la nave che trasporta i turisti lungo la valle del Nilo – che sogna di laurearsi in Italia per “entrare un giorno in un gruppo di esperti che si battono per armonizzare rispetto della natura e progresso tecnologico”90. dall’altro, il suo ruolo prevalente nel romanzo resta tuttavia quello di un piccolo eroe, caso unico nella narrativa della Righini Ricci; se per eroe si intende colui che porta a termine con successo una impresa nobile ma rischiosa, dove il rischio riguarda la perdita della vita o della libertà. Profondo conoscitore della sua terra, egli riesce infatti a liberare Mary Beth dalla prigionia grazie alle sue virtù: astuzia, perseveranza, coraggio, sangue freddo, e tanta fede in Allah. desta poi meraviglia nel lettore il fatto che egli riesca a portare a termine una così ardua impresa senza fare ricorso alla violenza. La scrittrice ci presenta un personaggio moralmente ineccepibile la cui condotta risponde in pieno alla descrizione che lo zio tutore rilascia alla polizia: “Ho fatto crescere Kalil nella mia casa e gli ho insegnato il rispetto della legge di dio e di quella degli uomini. Egli è innamorato della sua terra, del suo deserto […]. è un ragazzo dalle qualità eccezionali: leale, generoso con tutti. Mai farebbe qualche cosa in contrasto con i principi che gli ho inculcato! A costo della sua vita! Mai Kalil tradirebbe l’amicizia. Mai farebbe del male a una donna. Il suo codice d’onore è ferreo”91. Sotto questo profilo, il giovane egiziano resta una figura 65 assai diversa dagli altri personaggi maschili di Giovanna Righini Ricci; da Sandro di Il segreto della Cisa a Paolo di Incontri d’ estate, da Lorenzo di Le scapole dell’Angelo ad Alex di La collina delle Iguane, o Vincente di La dove soffia il Mistral, come pure di Hassan e di Aigle Noir. A complicare la vicenda, grava tuttavia su di lui il sospetto di essere complice con i rapitori. Perfino una volta terminata felicemente l’avventura quel pregiudizio persiste contro ogni evidenza, che l’autrice mette in bocca alla madre di Mary Beth: “nessuno mi leva dalla testa che quel ragazzo, quel Kalil, quel pezzente!, era d’accordo con i tuoi rapitori!”. Mary Beth balzò in piedi: “Tu non puoi pensare una cosa del genere! Sei ingiusta, ingiusta!”. Sono parole che esprimono un motivo ricorrente delle sue storie, ovvero la denuncia della superficiale insensibilità dell’uomo occidentale, incapace di confronto e di ascolto. Tutt’altro messaggio emerge invece dalla straordinaria esperienza della ragazza americana. Con Kalil, Mary Beth divide stenti e disagi, ma conosce anche il fascino di un altro Egitto, i valori della cultura araba e di una fede islamica autentica. E, immancabile, è nel viaggio che la riporterà a casa, attraverso una rocambolesca trafila tra predoni, tempeste di sabbia, i rapitori alle calcagna, che nasce l’idillio tra i due, la promessa d’amore (un sentimento universale che oltrepassa le barriere tra le culture) il desiderio di vivere per sempre insieme. Come Camilla è conquistata dalla Camargue – e da Vincente che la protegge in un momento difficile – così Mary Beth, una volta scoperto l’Egitto insieme al suo salvatore, matura un atteggiamento completamente diverso nei confronti della cultura occidentale, alla quale appartiene. Basta pensare all’ostinazione con cui la ragazza intende conservare i vestiti, miseri e laceri, indossati durante la prigionia e il lungo viaggio verso casa e che la madre intende eliminare per cancellare ogni segno della dolorosa vicenda. L’Egitto è divenuto ai suoi occhi un paese dell’anima, parte di lei: “Allora Mary Beth vide aprirsi davanti ai suoi occhi ancora lontano il nastro lussureggiante del Nilo, che ora più che mai le parve il dio padre degli antichi egizi, fonte di vita. In quel paesaggio essenziale, si sentiva improvvisamente rinfrancata, come se non avesse conosciuto mai un’altra esistenza: la cultura europea con la sua tecnologia avanzata, il 66 suo consumismo e il suo divenire frenetico, era una cosa lontana, irreale. ‘Non possiedo neanche uno spazzolino da denti’ pensò a un tratto divertita: ‘E non me ne importa niente!’. E anche la sua bella casa di Roma, dotata di ogni comfort, le sembrò di colpo estranea, irreale così come i bei vestiti firmati, gli amici chiassosi, i divertimenti costosi: così futili, così remoti! Mary Beth aggrappata alla sella, non avvertiva più la stanchezza, né la sete. In quel paesaggio essenziale si sentiva improvvisamente rinfrancata, a suo agio, come se non avesse conosciuto mai un’altra esistenza, una dimensione diversa: la cultura europea, con la sua tecnologia avanzata, il suo consumismo e il suo divenire frenetico, era una cosa lontana, irreale!”92. Sono parole che esprimono chiaramente una critica dell’eurocentrismo e dell’etnocentrismo; un rifiuto cioè a giudicare gli altri secondo il proprio sistema di valori, la convinzione che dalle differenze culturali è invece possibile ricavare una lezione positiva. In questo intreccio sentimentale dove la poetica dell’incontro è al tempo stesso storia di formazione e messaggio di civiltà, l’amore per Kalil e per la sua terra – a incontrarsi non sono le culture ma le persone – divengono infine esperienza di risveglio ad una vita più matura e consapevole: “io sola conosco la magia di questa terra, una magia che mi canta dentro e che mi fa più ricca”93. Dentro la scrittura. Un’ape bottinatrice Quando Giovanna Righini Ricci racconta ai ragazzi il proprio mestiere di scrittrice, paragona se stessa ad un’ape operaia: come il laborioso insetto fa provvista di miele così l’autrice raccoglie le esperienze dei “suoi” ragazzi, dando voce alle loro ansie, alle loro attese, alle loro problematiche esistenziali. I suoi lettori di Quiliano, in provincia di Savona, così ricordano la scrittrice dopo averla incontrata nel 1989: “La signora Righini Ricci si definisce un’ape bottinatrice, una saccheggiatrice di ragazzi; adesso che ha lasciato la scuola, i fiori dai quali raccoglie il nettare sono i ragazzi che lei incontra su e giù per l’ Italia”94. 67 La metafora dell’ape bottinatrice riassume l’originale “interrelazione narrativo creativa” che l’autrice istaura con i ragazzi, unendo la comunicazione letteraria alla prassi pedagogica: come nell’insegnamento a misura di alunno i ragazzi sono protagonisti della propria formazione, così anche rispetto alla creazione letteraria l’autrice assegna loro un ruolo attivo di compartecipi alle sue scelte narrative. L’immagine dell’ape saccheggiatrice individua, anzitutto, la fase che precede la elaborazione e la stesura dell’opera narrativa, quell’atteggiamento di ricezione attiva raccogliendo episodi realmente accaduti, offerti dai lettori. La conoscenza del lettore e del suo orizzonte esistenziale è del resto il presupposto del suo realismo narrativo. Lo scrittore per ragazzi deve essere “sensibile come un barometro ai mutamenti dei tempi, dei costumi, delle mode”. Ecco perché i suoi romanzi nascono tutti da esperienze reali: l’autrice ha necessità di vedere con i propri occhi l’ambiente che descrive, e di conoscere direttamente o indirettamente i personaggi. Negli anni dell’insegnamento Giovanna Righini Ricci aveva sempre rispettato il carattere spontaneo, facoltativo e segreto dei diari personali. Molti suoi romanzi hanno del resto preso spunto da quegli elaborati e dalle vicende, liete o tristi, dei loro estensori. Accanto ai diari personali degli alunni, l’autrice ha tratto ispirazione dalle circostanze più disparate: viaggi, letture di classici e di gialli (Giovanna Righini Ricci apprezzava in particolare Georges Simenon) di quotidiani che faceva leggere anche in classe, di ricordi d’infanzia e di episodi narrati da amici e parenti. Nella prospettiva del realismo psicologico, la creazione letteraria richiede un atteggiamento del tutto peculiare, poiché “essere scrittori significa guardare la realtà con occhi diversi”. Per chiarire in che modo la soggettività dell’autore guida l’elaborazione artistico narrativa, la scrittrice ama citare speso questo brano di Maupassant: “Bisogna guardare tutto quello che si vuole esprimere molto a lungo e con estrema attenzione, per scoprire gli aspetti che nessuno ha ancora colto. Per descrivere ad esempio un fuoco che fiammeggia o un albero nella pianura, restiamo là di fronte, a guardare fino a che quell’albero e quel fuoco non rassomiglino più, a nessun altro albero, a nessun altro fuoco95. 68 Questa presa diretta sulle cose configura dunque un processo di identificazione, empatia, rispetto a personaggi e situazioni che si intendono descrivere. Nasce da un esercizio di osservazione meditativa del reale, come si legge nella lettera ai ragazzi di Mirandola: “Se vedo un bambino che gioca con un cucciolo, un vecchietto che sbriciola un biscotto ai passeri, un gatto randagio sopra un cornicione, io mi fisso subito nella contemplazione e quelle immagini mi restano dentro, come una musica; poi un giorno quando prendo in mano la penna, riemergono trionfanti e mi recano la gioia che si prova ritrovando dei cari amici”96. A Giovanna Righini Ricci i libri nascono dentro “in mesi di silenzioso travaglio”: la gioia della creazione letteraria, il suo momento aurorale, si ritrova in un’altra lettera dal tono ironico che bene esprime la metafora della gestazione: “cammino per strada pensando ai miei personaggi, stendo il bucato descrivendo mentalmente una burrasca sulla foresta canadese, brucio l’arrosto meditando sull’alta marea della Baja di Fundy e così, quando mi metto alla macchina da scrivere, esso scorre fuori tutto intero, senza pause né ripensamenti: il tempo di rileggere il manoscritto, di correggerlo e ribatterlo ed è fatto! Tre, quattro mesi in tutto!””97. Ma tra l’ideazione di un romanzo e la sua consegna all’editore, sta il lavoro narrativo vero e proprio, ossia quel processo stilistico razionale e critico che l’autrice articola in due fasi. La prima privilegia l’impalcatura essenziale del periodo, per conferire alla narrazione chiarezza, espressività e adeguamento alla cultura del lettore, affinché possa calarsi nel vivo della vicenda; “quindi spazio alla immediatezza delle situazioni attraverso scansioni rapide, visive, all’indagine introspettiva”98. Una volta individuate le forme verbali adatte a conferire vivacità all’azione e delineata una impalcatura sintattica accessibile a tutti, la scrittura entra nella fase conclusiva dove subentra la ricerca meticolosa “dell’aggettivazione, fondamentale per evocare l’atmosfera, stimolare la fantasia, creare una suggestione; ottenere insomma che la parola si faccia immagine, colore, musica, vita e ridiventi onnipotente99. è anche grazie alla loro parola viva che le storie di Giovanna Righini Ricci confermino la loro validità anche a distanza 69 di anni, come dimostrano le numerose riedizioni di sue opere negli anni Novanta: Le stagioni dell’ arcobaleno (1990), versione rivista di Le Cicale (1967) e Il ballo delle cicale (1970); Il tesoro di Caterina (1990), che ripropone la trama di Il segreto della Cisa (1968); Due di noi (1992), nuova versione di Incontri d’estate (1972); Un rifugio in fondo al mare (1992), che riprende le storie di animali di I figli di Kira (1973); Sogni di mondi lontani (1992), che ripercorre la storia di La colina delle iguane (1977); Erano tutti amici (1995), versione rivista di Ragazzi sulla linea del fuoco (1971), e infine Il sogno di Hassan (1996). è questo lavoro fatto di “originalità e serio mestiere”100 a ricevere un riconoscimento significativo nel 1992, quando l’autrice viene insignita del Premio Altino in omaggio a un progetto narrativo che ha trovato ampio consenso fra i lettori e gli educatori (mentre più disattenta si è mostrata la critica): un attestato che onora la sua intera opera “per l’alta professionalità e per la disponibilità dimostrata nell’avvicinare i giovani alle espressioni dell’arte”101. Nella savana. Tra natura e civiltà La suggestione della natura esotica, la scoperta dell’altro, la maturazione attraverso esperienze in situazioni difficili trovano la loro espressione forse più compiuta in Nel vento della savana, primo romanzo postumo dell’autrice e che ripropone le suggestioni de La mia Africa di Karen Blixen (che nel 1985 aveva conosciuto anche la celebre e popolare versione cinematografica di Sydney Pollack). L’opera era del resto attesa dai suoi lettori, come testimonia una lettera alla scrittrice dei ragazzi della scuola media Foresti di Conselice, curiosi di sapere qualcosa sul nuovo libro “riguardante quella bambina ritrovata ai margini della savana. Ha già scelto il titolo? Secondo noi un argomento del genere potrebbe riscuotere molto successo”102. dal canto suo, pochi mesi dopo rivolgendosi alla platea dei ragazzi di Quarto d’Altino, Giovanna Righini Ricci propone di dedicare l’incontro ad un nuovo libro in gestazione “ambientato nella savana; sono convinta che mi potete dare degli stimoli tal- 70 mente importanti da poter continuare il mio lavoro”. Il noto fatto di cronaca a cui si ispira il romanzo è il caso di Baby Hospital, la misteriosa bambina scimmia ritrovata nel 1984 in un villaggio del Senegal, divenuto ben presto meta di studiosi da tutto il mondo, venuti ad indagare il fenomeno di un essere umano allevato da primati. Nel vento della savana, dove la natura primordiale domina l’intreccio come nelle pagine di La dove soffia il Mistral, racconta l’ipotetica storia della bambina inserendola nell’ avventura di tre ragazzi europei. La prima parte della vicenda si svolge in Sudafrica, dove i protagonisti, due ragazzi olandesi di famiglia agiata, trascorrono una vacanza. La scrittrice presenta il paese africano in chiave realistica, mettendone in luce i contrasti: la struggente bellezza della natura e l’inquietante violenza dell’apartheid, la ricchezza e il privilegio dei bianchi e la condizione di sfruttamento degli indigeni. Attraverso gli occhi di Jan, il protagonista maschile della storia, Giovanna Righini Ricci narra episodi di forte impatto emotivo che suonano di aperta condanna all’avidità dell’uomo bianco, come nel caso dell’elefante ucciso dai bracconieri nel parco nazionale. Il dramma della segregazione razziale viene proposto ai lettori attraverso una tecnica narrativa che, come in La dove soffia il Mistral, mette a confronto le opinioni. è quanto accade in una dialogo tra James, un giovane aristocratico inglese, apertamente razzista e Maika, la ragazza olandese protagonista del romanzo: “Adesso che noi bianchi ci stiamo dando da fare per concedere anche ai negri e ai coloured alcuni diritti, si scannano tra loro. Io dico che questa terrà è nostra da sempre. Noi siamo della stirpe dei dominatori e loro, loro saranno sempre degli schiavi, capaci solo di lavorare nelle miniere, sottoterra!”. “Ma perché non si cerca il modo di vivere in pace, nella cooperazione, in uno stato multirazziale?”, obietta Maika. James si mise a ridere: “Sei proprio un piccola illusa: l’uomo è fatto per odiarsi e per scannarsi non per collaborare!”103. Per Maika, la vacanza trascorsa in Sudafrica, si è in effetti rivelata come una autentica presa di coscienza, dopo aver visto con i suoi occhi la rabbia dei neri nel ghetto di Soweto a Johannesburg. L’assurdità dell’apartheid si fa strada in un 71 crescendo di interrogativi, che occupano i suoi pensieri prima della partenza: “Perché in questo paese così grande e così ricco, non c’è posto per tutti e i bianchi e i neri non riescono a vivere in pace? Non c’è neppure una persona di colore su questo aereo! Ma allora dove e quando viaggiano i neri del Sudafrica per andare all’estero? E come sono gli aerei che li prendono a bordo? Verrà un giorno in cui saremo tutti insieme, senza barriere razziali? E io in verità sono o non sono razzista? Sono tanti anni che trascorro le vacanze in Sudafrica ma non ho mai avuto contatti con la gente di colore! Come faccio a saperlo se c’è affinità tra di noi? Nessun mi ha mai aiutato a capire e ad accettare ciò che ci accumuna e ciò che invece è diverso, perché io potessi accettarlo o rifiutarlo. In questo è molto migliore di me Chris: lui ha un misterioso amichetto di colore che gli vuole molto bene e gli regala perfino il suo assegai! [punta di una antica lancia zulu] Sì, Chris è molto migliore di me e forse saprà costruire una società più giusta!”104. durante il volo del ritorno in Europa, la ragazza conosce Jan, anch’egli olandese, il coprotagonista della storia. L’incontro inaugura la seconda parte del romanzo che l’autrice apre con un colpo di scena: una sparatoria fra agenti di sicurezza e alcuni guerriglieri dirottatori provoca un disastro aereo dove gli unici superstiti sono i due ragazzi, e il piccolo Chris fratello di Maika. Sperduti nella savana, si trovano così ad affrontare la disperata lotta per la sopravvivenza. La natura si erge contro di loro con il suo volto più spietato e crudele. L’uomo occidentale è completamente disarmato di fronte a questa sfida. Nella tragica circostanza, la figura di Jan, colui che in qualche modo tenta di fronteggiare la situazione prendendosi cura dei compagni, assume un ruolo emblematico. L’autrice potrebbe farne un piccolo eroe, ma alla fine preferisce delineare un personaggio realistico, in cui i giovani lettori possano facilmente identificarsi. La lotta per la sopravvivenza gli infligge un angosciante dilemma: cercare di salvarsi da solo o condividere il destino insieme a Maika e a Chris? L’istinto di fuga prevale ma è la suggestione della natura a dettargli quel pensiero di saggezza che lo fa tornare sui suoi passi. La contemplazione del cielo stellato della savana risveglia in lui un sentimento religioso: 72 “Jan rimase a fissare quello spettacolo e un po’ di calma scese finalmente in lui. “dio esiste!” pensò. “Il mondo è troppo bello, per essere frutto solo del caso!”. A un tratto un pensiero terribile gli traversò la mente: “Se dio esiste, che cosa penserà adesso di me?” […] ho abbandonato una ragazzina e un bambino morente in mezzo alla savana […] ogni voce di vento era una voce maligna che gli sussurrava all’orecchio: “Vigliacco! Vigliacco!”. E allora l’immagine di Maika che si sarebbe risvegliata e non lo avrebbe trovato accanto a sé gli divenne intollerabile”105. Con il ravvedimento di Jan si ricompone la solidarietà fra i tre che ora si rimettono in marcia alla disperata ricerca di acqua e di cibo. A questo punto, un altro colpo di scena interviene a portare il lettore nel cuore di tutta la vicenda, allorché, allo stremo delle forze, i ragazzi vengono soccorsi da una singolare creatura, a capo di una tribù di babbuini. dal ritratto di Baby Hospital emana tutta la bellezza e la forza di una persona divenuta una cosa sola con la natura: “Una ragazza alta e robusta, dai lunghissimi capelli di un nero corvino: il viso largo e sereno, cotto dal sole, era illuminato da due grandi occhi neri, dalla luce incredibile. Indossava una specie di tonaca, gli strappi, tenuti assieme da lunghe spine, mostravano una pelle molto abbronzata e piena di cicatrici. Aveva grandi piedi nudi, grandi mani e un portamento regale e incedeva in mezzo ai babbuini a testa alta nel sole come una sovrana”106. Baby dei babbuini, così la ragazza ama definirsi, si prende cura dei tre sottraendoli al loro tragico destino. Il personaggio eroico del romanzo, narra loro la sua storia, che l’ascoltano sbalorditi. Racconta di essere stata allevata dai primati fin dalla tenera età dopo aver perduto i genitori, poi reclusa dagli uomini in un ospedale e di nuovo fuggita con i babbuini, a capo dei quali vive e che cerca di proteggere in ogni modo dai cacciatori. La ragazza, che ancora possiede qualche ricordo della sua infanzia e sa esprimersi in un francese stentato, rappresenta il trait d’union tra il mondo animale e il mondo umano, tra natura e cultura-civiltà. Il richiamo al mito del buon selvaggio è un monito all’ uomo della nostra epoca, così incapace di fare buon uso degli strumenti che gli consentono di dominare la natura. L’incontro dei tre protagonisti con questa ragazza cresciuta 73 nella savana libera e lontana dalla civiltà si trasforma così in una straordinaria lezione di vita e di solidarietà. Come dice Jan: “dopo una esperienza come questa, niente sarà più come prima. Credo che dentro sarò migliore. Questa terribile avventura ci ha fatto capire il vero senso della vita”107. Nel vento della savana propone dunque al lettore in un orizzonte problematico aperto, offrendo, come scrive l’autrice nella presentazione: “una suggestione, una speranza, per gli esseri dell’era tecnologica, i quali sanno esplorare l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, ma non sanno leggere, utilizzare i messaggi del grande e meraviglioso libro della natura”108. Una generazione allo specchio Narratrice dei mondi lontani e che affronta i complessi temi sociali della contemporaneità, l’instancabile vena letteraria di Giovanna Righini Ricci, ha tuttavia mantenuto vivo fino alla fine anche l’altro filone della sua produzione, quello cioè avviato negli anni Sessanta con Le cicale e Il ballo delle cicale (ripubblicati nel 1990 con il titolo Le stagioni dell’arcobaleno) e dedicato alla vita adolescenziale colta nella sue quotidiane vicende, in famiglia, a scuola e con gli amici. Anche I giorni della luna crescente, del 1987, e In viaggio con la nonna, ultimo romanzo della scrittrice, uscito postumo nel 1997, rientrano in questo ambito narrativo, volto a scoprire il mondo delle amicizie e delle dinamiche familiari, e che predilige intrecci senza avventura ma certamente più ricchi di analisi psicologica. “dodicenne fanciullo, io la tua vita / giorno per giorno posso dirti, ed ora / per ora”. Sono i versi di Umberto Saba che preludono a I giorni della luna crescente, il romanzo finalista nel 1998 al premio Le Palme d’oro di San Benedetto del Tronto e primo classificato un anno dopo al premio “Il piacere di leggere – scuola media” del sistema della Bassa modenese. Anche in questa storia, come in Le cicale e in Il ballo delle cicale, la scrittrice devia dal suo schema narrativo consueto 74 incentrato sulla coppia e ci presenta un cast variegato di protagonisti. Maurizio, Gianni, Floriana, Massimo, Andrea, Roberta, Angelo, Ilaria: ecco i personaggi in carne e ossa al centro di piccole storie che si svolgono separatamente e talora si incontrano. Questi ragazzi di scuola media stanno trascorrendo i giorni della loro luna crescente verso la giovinezza e la maturità; una stagione della vita dove, “sotto la tranquilla superficie, vibra tutto un mare in tempesta, fatto di ansie e di attese, di dubbi e di scontentezze”. Sono i giovani degli anni ottanta, amanti del calcio e impegnati nello sport, frequentano corsi di danza e di musica, vestono jeans e calzano Timberland, si ritrovano in paninoteca e ascoltano le canzoni di Sting nei loro walk-man. Attraverso le loro vicende di ogni giorno, la narrazione affronta ancora una volta i nodi dell’esperienza adolescenziale: da un lato incomprensioni, rabbie, proteste, gioie, scoperte ed entusiasmi, come pure il forte bisogno di autonomia e al tempo stesso di protezione, che segnano il cammino spesso tortuoso sulla via della crescita; dall’altro le disattenzioni degli adulti spesso incapaci di capire: “I ragazzi sono molto precoci, oggigiorno: non è facile stabilire che cosa sia o non sia giusto per loro”. Intervenne la madre di Nicola: “E poi il mestiere di genitori è il più difficile che esista per un padre e una madre gli esami non finiscono mai, per dirla come Eduardo de Filippo […]. Come fare per rendere questi ragazzi più forti, più preparati, meno vulnerabili?”109 Il romanzo racconta la cosiddetta età di mezzo, ponendola in relazione sia all’infanzia, attraverso le figure dei fratelli minori, che al mondo degli adulti. Tre categorie di personaggi, dunque. Accanto a genitori ora incerti e apprensivi, ora superficiali e scontrosi, spiccano tra un episodio e l’altro figure significative di adulti, figure amicali che, diversamente dai familiari, riescono a farsi veramente ascoltare dai ragazzi. è il caso del dottor Xerofilli, un medico che intrattiene i suoi giovani pazienti – Silvia, fratturata ad una gamba in seguito ad un incidente stradale e Angelo, il piccolo che ha perso la parola dopo il terremoto in Irpinia nel quale avevano perso la vita i suoi genitori – raccontando le proprie favole, vere e proprie storie nella storia, terapie del sorriso, capaci di “sciogliere i grumi di dolore e di paura 75 che imprigionano le tenere anime dei due bambini”110. Si tratta di una modalità comunicativa che all’insegna dell’umorismo rompe gli schemi convenzionali, e che si pone in sintonia con la sensibilità dei ragazzi. Nelle vicende quotidiane di questo gruppo di adolescenti, amicizia, solidarietà e amore sono esperienze che si intrecciano a tutta la gamma dei conflitti interpersonali, ma che al contempo si aprono ai problemi dell’attualità a loro contemporanea: la droga, l’emarginazione sociale, la delinquenza minorile, il sottosviluppo e la solidarietà con il terzo mondo. Ambientato nella città italiana del nord degli anni ottanta, I giorni della luna crescente riesce come sempre ad essere specchio delle problematiche giovanili (personali, interpersonali, sociali) dove il lettore chiarifica le domande i bisogni che sente urgere ancora oscuramente dentro di sé. Nel camper di granny Susy Nelle storie di Giovanna Righini Ricci spesso entrano in scena personaggi adulti significativi, figure per lo più esterne alla cerchia familiare. Solitamente ricoprono ruoli socialmente riconosciuti e nella narrazione appaiono in veste di consiglieri esemplari che orientano ragazzi senza prediche e ammonimenti, ma attraverso strategie comunicative indirette, allegoriche e allusive. Ecco allora Maso, il vecchio orologiaio di Il segreto della Cisa; Agata, la solitaria naturalista in Incontri d’estate, il commissario di polizia di Le scapole dell’Angelo, l’indiana Kateri in Alla fine del sentiero, grand mere, la zia di Jan in Nel vento della Savana, infine Xerofilli, il medico affabulatore di I giorni della luna crescente. In linea con questa tipologia di personaggi, l’adulto significativo sembra trionfare nell’ultimo romanzo della scrittrice, In viaggio con la nonna, questa volta nei panni di Susanna, la nonna americana tornata in Italia dopo una lunga assenza. Granny Susy, “motore” del racconto, rappresenta davvero quel nuovo tipo donna, che sebbene in tarda età, non accetta di rinchiudere l’esistenza tra le pareti domestiche ma ama lanciare sempre nuove sfide alla vita. Una di queste 76 consiste nel vedere cosa può succedere “a dei ragazzi legati da vincoli di sangue, ma non di amicizia, di consuetudine o di interessi, quando sono costretti dalla convivenza a risolvere democraticamente i piccoli problemi di ogni giorno”111. Uscito postumo nel 1998 - anno in cui nella letteratura giovanile si inaugura la stagione del fantasy con le storie di Harry Potter - vincitore del Premio Valtenesi nello stesso anno, il romanzo conduce da una generazione all’altra e questa volta offre uno spaccato dell’ universo giovanile degli anni Novanta. Ecco il ritratto di Edoardo: “Edoardo aveva 14 anni, forse perché tormentato da problemi che non era in grado di risolvere, da qualche tempo mangiava troppo. Così era decisamente sovrappeso e ne soffriva. Ma non sapeva come uscire dal perverso circuito psicologico che lo spingeva ad ingozzarsi perché era nervoso e a essere nervoso perché si vedeva sempre più grosso. Indossando una maglietta fuori misura con la scritta The Creeps in blu elettrico sul petto e sulla schiena, sedeva impaziente su uno sgabello di cucina incitando la madre a sbrigarsi a preparargli il robusto panino che le aveva chiesto e in cui pretendeva che venissero infilati altri nuovi ingredienti”. E il ritratto di Alessio: “Alessio si tolse gli occhiali. Rimase per un po’ con le dita sulle palpebre chiuse per attenuare la fastidiosa sensazione di vertigine che avvertiva quando restava troppo a lungo concentrato davanti al computer. Non faceva che ripetersi che avrebbe finito per diventare cieco, che gli sarebbe venuto un attacco epilettico a furia di guardare omini e animaletti sfrecciare come meteore sullo schermo colorato. Era un inventore di video game: quando si ha l’ispirazione bisogna seguirla e non preoccuparsi di nient’ altro! Lo chiamavano l’Einstein della tastiera, non avrebbe mai rinunciato al suo hobby, nel quale, bisognava proprio riconoscerlo, era davvero un maestro. Aveva ideato dei giochi che avevano divertito perfino i professori”112. Edoardo e Alessio appartengono alla nutrita schiera dei nove nipoti dell’intraprendente Susanna (Monica e Francesca, Elena e Cristina, Samantha e Matteo, Riccardo) che i genitori hanno di buon grado affidato a lei per trascorrere una vacanza a Gardaland, a bordo di uno spazioso camper. 77 Soprattutto nella seconda parte l’intreccio si dipana attraverso una vicenda movimentata dove non mancano episodi inquietanti come il ritrovamento di un cadavere, e i casi di droga e di schiavismo in cui si imbattono i ragazzi. Al centro della trama resta comunque l’abilità di granny Susy nella quale è facilmente riconoscibile la sensibilità educativa della scrittrice - nel tenere unito attraverso il dialogo il pittoresco gruppo di nipoti durante una vacanza che, come sempre, diviene esperienza autentica di convivenza. dopo quasi un terzo di secolo, In viaggio con la nonna chiude il lungo impegno letterario ed educativo di Giovanna Righini Ricci, scomparsa prematuramente nell’autunno del 1993, senza avere avuto il tempo di mettere sulla carta altre e appassionanti storie che fino alla fine urgevano in lei. Il senso della sua vocazione è racchiuso nelle parole del marito Ido Righini: “Sono sicuro che Giovanna mi ha voluto bene, ma il suo vero grande amore sono stati i ragazzi e la scuola”. EPILOGO Giunti al termine di questo viaggio in uno straordinario universo narrativo che storia dopo storia ha preso vita nel corso di un trentennale mestiere di scrivere, non resta che condividere, anche per le opere qui presentate, quanto l’autrice di Piccole donne, Louisa May Alcott, esigeva in un libro per ragazzi: “si apre con aspettazione e si chiude con profitto”. Non pare poi superfluo rilevare come, parlando ad almeno tre generazioni di giovani, dagli anni Sessanta alle soglie del 2000, l’autrice abbia saputo misurasi con una sfida davvero ardua, quella cioè di creare lettori e non soltanto di scrivere libri per ragazzi. Giovanna Righini Ricci ha offerto l’avventura della sua parola a soggetti nella cosiddetta età evolutiva - quella fase della vita che Rainer Maria Rilke chiamava lo spazio di mezzo tra i giocattoli e il mondo - con il chiaro intento di offrire ai giovani una riserva di ottimismo e di fiducia per 78 affrontare le sfide e i compiti che li attendono nella vita. Con il gradimento dei ragazzi e il favore degli insegnanti, Giovanna Righini Ricci ha cercato di educare i ragazzi alla scelta libera e consapevole dei valori capaci di motivare un progetto autonomo di vita113. Solidarietà, tolleranza, amicizia, amore, libertà: ecco il catalogo etico che anima le storie di Giovanna Righini Ricci, valori per vivere nel mondo e per cambiarlo nella prospettiva di un progresso etico e non solo tecnologico. Valori radicati in vicende vissute e ‘convissute’ in prima persona, e fatti propri attraverso un atteggiamento “problematico” all’esperienza, capace cioè di leggere la realtà come campo del “possibile” (e del sogno). Un messaggio che muove in direzione diametralmente opposta alle ideologie, alle utopie, ai miti e agli ideali astratti e vuoti, tentazioni “evasive” sempre all’opera. Valori che di conseguenza nulla hanno a che fare con opzioni assolute e metastoriche, ma che, in quanto beni incarnati appartengono alla relatività della dimensione umana, alla sua finitezza storica114. A questa sensibilità etica Giovanna Righini Ricci ha unito un costante e infaticabile “andare verso il mondo”, una fame di realtà che le ha consentito di intuire con occhio sicuro gli scenari del futuro. In questo senso, la sua visione ha anticipato fin dai primi anni Settanta le tematiche dominanti nel mondo globalizzato del ventunesimo secolo, come il multiculturalismo e la salvaguardia ecologica del pianeta. L’opera letteraria di Giovanna Righini Ricci, in conclusione, si presenta come un’unica grande storia fatta di tante storie. Il messaggio, lo stile e il carattere fortemente unitario della sua narrativa hanno elevato la scrittrice a protagonista di primo piano nel rinnovamento della letteratura giovanile del novecento italiano. 79