Il fascino di un`utopia concreta: lo sviluppo umano sostenibile
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Il fascino di un`utopia concreta: lo sviluppo umano sostenibile
Il fascino di un’utopia concreta: lo sviluppo umano sostenibile Domenico Maddaloni1 A partire dagli anni ’80 la teoria e la pratica dello sviluppo sono state invase dall’opposizione radicale tra due approcci ferocemente antagonisti, costruiti in maniera da rappresentare l’uno il rovesciamento speculare e polemico dell’altro. Il primo e più diffuso di questi, dati i mezzi di cui dispone, è il “fondamentalismo del mercato” (Giddens, 1999) predicato e praticato dalle istituzioni economiche internazionali e soprattutto dai custodi dell’ortodossia liberista attivi presso il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio2. Per questo approccio lo sviluppo, nell’accezione di senso comune di un mutamento strutturale associato ad un miglioramento delle condizioni di vita, si esaurisce nell’incremento degli indicatori di crescita della produttività e della produzione, da ottenersi mediante la riduzione al minimo del ruolo dello Stato e la totale apertura delle attività economiche all’iniziativa privata. Il secondo, meno diffuso presso l’opinione pubblica ma assai più presso ricercatori e intellettuali, è ciò che si potrebbe forse definire “teoria del naufragio dello sviluppo”, che viene proposta dagli studiosi del Movimento Antiutilitarista nelle Scienze Sociali o M.A.U.S.S. (Latouche, 1993). Per questo approccio la vicenda dei mutamenti economici e sociali verificatisi negli ultimi secoli tanto al Nord quanto nel Sud del mondo è la storia del fallimento del mito prometeico del Paradiso in Terra, che finirebbe nei molti vicoli ciechi aperti dalle sue contraddizioni: per cui occorrerebbe fuoriuscire dallo sviluppo, coltivando alternative fondate sul ritorno della comunità. Da ciò sembra derivare una lotta senza quartiere – anche se, per la verità, assai impari quanto a risorse - tra i due approcci e tra i seguaci di questi ultimi. In realtà entrambi i paradigmi in questione paiono disegnare i contorni di due utopie negative, il cui perseguimento esporrebbe a rischi di notevole gravità. Il neoliberismo del FMI nega l’autonomia delle dimensioni sociali e culturali dell’esistenza umana ed espone la maggioranza delle persone ai pericoli di una dittatura del mercato, le cui conseguenze economiche e politiche sono state descritte già da Polanyi nel periodo tra le due Guerre Mondiali. L’”antisviluppismo” del M.A.U.S.S. non sembra lasciare in realtà alcuna via d’uscita alle persone ed ai popoli in cerca di una vita migliore: la nuova convivialità fondata sulla libera volontà dei singoli - l’”economia solidale” (Laville, 1998) - è negata in quanto si fonda su presupposti troppo incerti per dare vita a stabili strutture sociali; e così non resta altro che un impossibile ritorno al passato3. Sembra proprio che questi due approcci si distinguano per il radicalismo delle diagnosi e delle terapie, ma non si curino affatto delle tragedie, piccole e immense, che diagnosi e terapie sbagliate possono generare. Esiste la possibilità di uscire dallo scontro frontale tra i due fondamentalismi contrapposti e delineare una teoria ed una pratica adeguate ad uno sviluppo possibile (Maddaloni, 1994)? La risposta a questa domanda a mio parere è positiva e consiste 1 Questo paper è stato ultimato nel luglio 2005. Una sua versione riveduta e corretta è stata pubblicata, con il titolo “Lo sviluppo”, nel volume Materiali di sociologia, a cura di A. Cavicchia Scalamonti (Ipermedium, Napoli, 2006). 2 Come è noto, più ambiguo e ondivago in questo senso è il ruolo svolto dalla Banca Mondiale, le cui opzioni per lo sviluppo si rivelano assai sensibili ai mutamenti del clima di Washington. 3 Ho esposto qualche ulteriore osservazione in merito ai paradigmi liberista e “antisviluppista” in un mio precedente lavoro (Maddaloni, 1998). 1 nello sviluppo umano sostenibile. Questo approccio sembra delineare i contorni e i percorsi di realizzazione di un’utopia concreta e positiva, che affronta senza timore il cambiamento strutturale contemporaneo nella consapevolezza della sua complessità, ma anche della gravità dei problemi che gran parte degli esseri umani si trova costretta ad affrontare. Per questa ragione l’approccio in parola ha conquistato uno spazio sempre crescente sia nella comunità dei ricercatori che presso l’opinione pubblica internazionale e le stesse organizzazioni, pubbliche e nonprofit, attive nel campo della cooperazione allo sviluppo. In questo lavoro cercherò dunque di delineare una breve storia dei concetti di sviluppo umano e di sviluppo sostenibile e di definirne i contenuti e le connessioni reciproche. Contenuti e connessioni che paiono delineare un’alternativa teorica e pratica affascinante, la cui sfida, se raccolta da forze adeguate e all’altezza del compito, potrà certo segnare la storia di questo secolo. 1. Lo sviluppo umano I primi passi in direzione dell’idea che si possa concepire lo sviluppo in relazione alla persona sono stati compiuti già nel corso degli anni ’60. E’ allora che emerge l’opinione secondo cui il mutamento economico - espresso dalla crescita del prodotto e del reddito - è certamente associato alla soddisfazione delle domande di una vita migliore per tutte le persone; ma altrettanto certamente questo processo non è immediatamente traducibile nella dimensione sociale, che si esprime invece nella crescita del “livello” medio e della “qualità” media della vita. Nel sistema internazionale della cooperazione allo sviluppo ciò si traduce nei tentativi di combinare variabili di natura economica e di natura sociale nell’analisi e misurazione del cambiamento strutturale. I tentativi più importanti in questo senso paiono essere: la teoria della growth with redistribution, adottata dalla World Bank di Robert McNamara negli anni ‘70 ma abbandonata con il riallineamento della Banca Mondiale alla (nuova) ortodossia liberista, avvenuto con il cambio di decennio; la teoria dei basic needs (Testi, 1983), adottata invece dall’ILO quale più radicale opzione di politica economica già alla fine degli anni ’60; la teoria dello sviluppo sociale, che appare implicita già nell’atto di fondazione dell’UNRISD – United Nations Research Institute for Social Development –, risalente al 1963. L’approccio della crescita con redistribuzione ha un “motore” alquanto sofisticato, che connette il problema della distribuzione della ricchezza e del reddito, ovvero in primo luogo della riforma agraria, con la questione della crescita del potere d’acquisto dei consumatori locali e quindi dell’espansione dei mercati interni, dunque indicando un percorso di estensione degli sbocchi per gli investimenti che tiene insieme gli interessi del capitale – non quelli della rendita – e quelli dei lavoratori e più in generale dei poveri. Tuttavia è sintomatico del clima di quegli anni, segnato dall’urgenza dei problemi della fame e della povertà in un contesto di gravi tensioni di politica interna e internazionale, che molta maggiore risonanza sia stata invece destata dagli approcci dello sviluppo sociale e della crescita mediante la soddisfazione dei bisogni essenziali. Questi ultimi generano, insieme con le prime riflessioni e ricerche sul welfare nei Paesi del Sud (Midgley, 1995), il tentativo forse più emblematico di dare una sistematicità disciplinare alla nuova apertura dei Development Studies alla dimensione sociale: l’indice del livello di vita di Drewnowski (1976), probabilmente l’antenato più diretto dell’attuale Human Development Index4. In questa prospettiva per 4 Per maggiori dettagli su questa problematica cfr. Maddaloni, 1986. 2 “sviluppo sociale” veniva inteso l’incremento del livello di vita di una popolazione, misurato dal livello di soddisfazione dei bisogni di quest’ultima; a propria volta i bisogni sociali venivano distinti in essenziali e in superiori, a seconda che il soddisfacimento di essi sia considerato indispensabile o meno per la vita individuale, familiare, sociale; a propria volta, i bisogni fondamentali venivano distinti in bisogni fisici e in bisogni culturali, una distinzione non operata per i bisogni superiori che vengono considerati interamente culturali. Ma la teoria e la pratica dei basic needs non sono mai riuscite ad andare oltre i programmi di emergenza per i più poveri, e ciò per due ragioni. La prima è rappresentata dai mutamenti dell’orizzonte politico internazionale a partire forse già dalla fine degli anni ’70, con l’ascesa del fondamentalismo del mercato e le campagne per l’”aggiustamento strutturale” e la “stabilizzazione macroeconomica”, cui qualche anno dopo segue ciò che ho chiamato la teoria del naufragio dello sviluppo. La seconda, forse ancora più importante, è che i seguaci dell’approccio in questione paiono avere disperso le proprie energie in infinite diatribe su ciò che è essenziale considerare “bisogno essenziale”. Il che rappresenta la cartina di tornasole delle contraddizioni in cui l’approccio si è dibattuto (per una critica cfr. Rist, 1997, pp. 165-172). E’ a questo punto della nostra vicenda, tra la fine degli anni ’70 e il principio degli anni ’80, che Amartya Sen comincia a dipanare il filo della sua riflessione sulla povertà e lo sviluppo. Allo studioso indiano infatti spetta il merito di avere elaborato l’approccio delle capacità e dei funzionamenti che costituisce il fondamento teorico più rilevante della nozione, tanto comune oggi, di sviluppo umano. Anche altri studiosi hanno poi potentemente contribuito al radicarsi di una maniera di pensare lo sviluppo che mette al centro al dignità umana. Vale qui la pena di ricordare almeno i preziosi contributi di Avishai Margalit sulla società decente (Margalit, 1998) e di Martha Nussbaum che ha sviluppato l’approccio in una prospettiva di genere (Nussbaum, 2002). Ma Sen ha influenzato il dibattito sullo sviluppo umano più direttamente e più profondamente di qualsiasi altro studioso. E’ per questa ragione che credo sia opportuna, a questo punto, una breve sintesi del suo pensiero sull’argomento. Nel combinare l’indagine teorica e la ricerca empirica sulla diseguaglianza economica, sulla povertà e sul cambiamento sociale nei Paesi sviluppati e in quelli sottosviluppati, lo studioso indiano muove dalla constatazione che lo “sviluppo” è un fenomeno di portata assai più vasta della “crescita” (Sen 1992, pp. 313-339). Mentre infatti quest’ultima può essere intesa come aumento della ricchezza materiale di un’intera società, il primo ha a che vedere con l’aumento del benessere dei singoli individui. Quest’ultimo, lo “star bene”, non può essere identificato con l’opulenza che lo riduce al benessere economico, all’”essere agiato”, e pertanto al possesso di, o all’accesso a, un insieme di beni e servizi. Le due nozioni, per quanto connesse da un evidente rapporto di correlazione, non indicano affatto il medesimo fenomeno: un ricco, sofferente di una malattia cronica, non ha davvero più “benessere” di un uomo più povero ma che sta bene in salute (Sen 1993, pp. 29-58). A parere di Sen è opportuno quindi abbandonare il “feticismo delle merci” che l’analisi economica propone per concentrarsi su un approccio diverso, che appare fondato su una definizione positiva della libertà. In questo senso lo “star bene” non è infatti soltanto l’”essere libero” da rischi di origine naturale o sociale – la libertà negativa di cui l’habeas corpus costituisce l’esempio storico più efficace. Ma è anche l’”essere in grado” di realizzare lo scopo che ci si è prefissati, e quindi “funzionare” in un determinato contesto sociale ed in una specifica dimensione rilevante per l’esistenza dell’individuo (Sen 1992, pp. 122-141). E’ a questo punto che è finalmente possibile introdurre i concetti di “funzionamento” e di “capacità”: 3 La nozione originaria di questo approccio riguarda probabilmente i “funzionamenti” (che) rappresentano parti dello stato di una persona – in particolare le varie cose che ella riesce a fare o ad essere nel corso della sua vita. La capacità di una persona riflette le combinazioni alternative di funzionamenti che ella può conseguire e tra cui può sceglierne una serie. L’approccio si basa su una visione della vita come una combinazione di differenti “modalità di fare e di essere” e valuta la qualità della vita in termini di capacità di conseguire funzionamenti di valore (1993, pp. 95-96). In sostanza, riprendendo alcune intuizioni di Smith e di Marx, l’economistafilosofo indiano sostiene che il benessere non sta nella ricchezza materiale ma nella libertà, nella possibilità di scegliere e di realizzare una pluralità di stili di vita. Questi devono essere valutati in termini di funzionamenti, o “condizioni di esistenza” di un singolo individuo: I funzionamenti rilevanti per il benessere variano da quelli più elementari, quali l’evitare gli stati di morbilità e di mortalità, l’essere adeguatamente nutriti, l’avere mobilità e così via, a numerosi altri funzionamenti più complessi, quali l’essere felici, il raggiungere il rispetto di sé, il prendere parte alla vita della comunità, l’apparire in pubblico senza provare un senso di vergogna (…). Si può sostenere che i funzionamenti costituiscono la condizione di esistere di una persona, e la valutazione del suo benessere deve assumere la forma di una valutazione di questi elementi costitutivi (Sen 1993, p. 106). Ciascun individuo ha il diritto essenziale di accedere ad una molteplicità di combinazioni di funzionamenti, gli stili di vita, tra i quali dovrebbe poter scegliere, ma in relazione a ciascuno dei funzionamenti in questione – ed alla combinazione nel suo insieme – il singolo può misurare le sue capacità, le possibilità di cui in concreto dispone di conseguire quel dato funzionamento, e che variano a seconda degli individui e dei contesti in dipendenza da fattori ecologici, biologici, psicologici, sociali. Le capacità rispecchiano essenzialmente la libertà di acquisire importanti funzionamenti. Esse si concentrano immediatamente sulla libertà in sé, piuttosto che sugli strumenti per acquisire libertà, e identificano le concrete alternative che abbiamo. In tal senso possono essere intese come una rappresentazione della libertà sostanziale. Nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene (Sen 1994, p. 76). In questo senso i compiti di una politica di sviluppo consistono (1) nel promuovere le condizioni che consentono a tutti l’accesso ai livelli minimi di capacità necessari per lo svolgimento dei funzionamenti, e (2) nell’ampliare la varietà di combinazioni di funzionamenti accessibili a ciascuno in un contesto storico sociale determinato. Secondo la Spanò (1999, pp. 29-34) l’approccio di Sen ha il pregio di superare la dicotomia tra “bisogni” assoluti e relativi, o essenziali e inessenziali. I “funzionamenti”, sia fisici che sociali, rimandano ad esigenze umane in sostanza non concepibili se non in senso assoluto, anche se si tratta di “apparire in pubblico senza vergogna”. D’altro canto, i beni necessari per il conseguimento di questi si rivelano dipendenti dal contesto storico ed assumono dunque una forma relativa: per “apparire in pubblico senza vergogna” occorrono la cravatta e le scarpe in alcune società, la toga e i calzari in altre. Ciò spiega per quale ragione il problema della povertà si ponga in termini diversi, ma altrettanto ultimativi, nei Paesi sviluppati del Nord e in quelli sottosviluppati del Sud. In entrambi i contesti la forma estrema dell’ineguaglianza, la povertà, non è semplice deprivazione materiale, la “povertà economica” dell’indagine più consueta sui 4 fenomeni di diseguaglianza. E neanche isolamento sociale, la “povertà relazionale” che è al centro di molte analisi non conformiste sulla povertà, la diseguaglianza e la politica sociale sia nei Paesi del Nord che in quelli del Sud. Ma è impedimento alla libertà positiva di “star bene” causato da incapacitazione, indotta da fattori che è compito della politica rimuovere per quanto sia possibile. Ne deriva anche che l’incapacitazione è una forma di privazione che può non essere risolta da un aumento del reddito a disposizione, ma può richiedere talvolta il ricorso a strumenti di sostegno di natura non monetaria, o l’acquisizione di abilità specifiche già socialmente disponibili, o infine l’estensione dell’universo dei diritti personali, civili o politici o sociali. Nella prospettiva dell’elaborazione di una teoria e di una politica dello sviluppo umano è opportuno, a mio parere, evidenziare due dei punti nodali del discorso di Sen. Il primo è lo sganciamento della problematica della povertà – che, dopotutto, è il fenomeno in nome del quale si è invocato lo sviluppo – dalla dimensione puramente economica e la sua connessione con il tema dell’incapacitazione. Ciò ha l’effetto di moltiplicare gli spazi in relazione ai quali esaminare i fenomeni di diseguaglianza e le politiche di inclusione (Sen 1994, pp. 29-52; 2000, pp. 92-115): di superare il punto di vista di chi concepisce gli esseri umani “solamente secondo una ben definita prospettiva” (Sen 1994, p. 169). Di rendere, dunque, meglio conto della complessità implicata in un processo di sviluppo che sia esaminato dal punto di vista della libertà e della dignità della persona. Il secondo punto da evidenziare è l’affermazione della natura irrinunciabile delle libertà sostanziali, e dunque dei diritti in quanto scopo e mezzo dello sviluppo. Uno dei nuclei centrali del discorso di Sen è infatti la polemica contro i seguaci di un approccio autoritario ed economicistico al problema dello sviluppo, i quali sostengono l’esigenza che le analisi e le politiche di sviluppo si concentrino esclusivamente sui mezzi per far fronte alle “necessità economiche”. Dunque per costoro, come già per Stalin, primum vivere, deinde philosophari: ma Sen mostra che in realtà non esistono prove a sostegno di questa opinione, per quanto diffusa sia tra i funzionari e gli esperti delle organizzazioni internazionali, tra i dirigenti delle banche e delle imprese transnazionali, e tra molti uomini di governo, specie nei Paesi del Sud. Al contrario, esistono numerosi episodi che mostrano come la rinuncia alle libertà ed ai diritti in nome dello sviluppo conducano le politiche poste in essere da governi ed organizzazioni internazionali ad errori talvolta persino catastrofici su molti problemi all’ordine del giorno nell’agenda internazionale, dalla prevenzione delle carestie all’emancipazione femminile, dalla riduzione della crescita demografica al rispetto della diversità culturale (Sen 2000, pp. 163-248). Senza contare, ci ricordano gli analisti alla Lipton (1989) o alla Cohen (1999), che lo squilibrio di potere tra governanti e governati può facilmente tradursi in corruzione, in distorsioni delle politiche pubbliche, in chiusura sociale e in crescita a spirale delle diseguaglianze economiche. Ma soprattutto, La libertà politica e i diritti civili hanno un’importanza diretta, tutta intrinseca, e non necessitano di una giustificazione diretta che invochi i loro effetti sull’economia. Anche quando godono di un’adeguata sicurezza economica, e si trovano in una situazione economica favorevole, coloro che non hanno libertà politica o diritti civili sono privati dell’importante libertà di scegliersi la vita che vogliono e della possibilità di partecipare a decisioni cruciali su questioni di pubblico interesse. Si tratta di privazioni che limitano il vivere sociale e politico e devono essere considerate oppressive anche quando non generano altre sofferenze, come una catastrofe economica. Poiché le libertà civili e politiche sono elementi costitutivi della libertà umana, il vedersele negare è già di per sé uno svantaggio (Sen 2000, pp. 22-23; corsivo mio). In sintesi, se la povertà è assenza di felicità o uno “star male” che deriva da incapacitazione, dall’impossibilità di realizzare se stessi quali esseri umani, il suo 5 rimedio è l’empowerment, la politica di capacitazione che comprende gli interventi e che consentono il dispiegamento delle potenzialità individuali (Livraghi 1999) e collettive delle persone. E’ alimentazione, è salute, è istruzione, è orientamento e formazione, è mobilità territoriale; ma è anche sicurezza personale e tutela giuridica; ed è anche trasparenza dei processi politici, e partecipazione non rituale alle decisioni collettive, e controllo democratico sulle azioni e sulle omissioni delle imprese private e delle istituzioni pubbliche. E’, insomma, sviluppo umano, come dal 1990 lo United Nations Development Programme lo ha definito. E la differenza tra le dimensioni indicate più sopra e quelle comprese nello Human Development Index – in sostanza ancora limitate al reddito, alla salute, all’istruzione – che l’UNDP si sforza di calcolare nei suoi Rapporti sullo sviluppo umano sta ad indicare l’enorme lavoro che è ancora necessario compiere per giungere ad una valutazione più realistica della distribuzione delle opportunità di “star bene” a livello globale (Gasper, 2002). 2. Lo sviluppo sostenibile Nell’elenco delle dimensioni della capacitazione presentato qui sopra manca tuttavia ancora un aspetto cruciale per lo sviluppo dal punto di vista della libertà e della dignità umana. O, per meglio dire, esso è menzionato in forma non esplicita: lo sviluppo umano comporta la tutela della salute delle persone. Ma la tutela della salute comporta la prevenzione e il rimedio (eventuale) a rischi di diverso tenore e gravità: alcuni, e specie quelli che si riferiscono all’infanzia o alla vecchiaia, si rivelano associati alla natura umana. Altri invece appaiono connessi all’avanzare della cultura, all’incessante e sempre più pervicace attività di trasformazione della natura che viene prodotta già dalla semplice presenza umana e poi, molto tempo dopo gli esordi della storia della specie, dalla modernità capitalistica. Ed in questo processo un aspetto su cui occorrerebbe riflettere più a lungo consiste nel fatto che anche i rischi in questione risultano inegualmente distribuiti. Ancora una volta sono i più poveri a pagare il conto: gli operai esposti a processi nocivi o pericolosi in ambienti dalle condizioni igieniche e sanitarie precarie; gli abitanti dei quartieri malsani di catapecchie e baracche situate ai margini delle zone urbane più pregiate; i poveri il cui scarso denaro è speso per i cibi più economici, ma adulterati o già avariati; le donne costrette a percorrere chilometri per procurarsi l’acqua per bere o per cucinare, non diciamo per lavarsi; e l’elenco, naturalmente, potrebbe continuare. Nessuno di questi problemi è nato con la modernità capitalistica e il suo mutamento strutturale (e culturale) permanente. Non c’è dubbio, tuttavia, che con la crescita economica problemi del genere si fanno più evidenti, i rischi più articolati e talvolta più micidiali, e l’elenco delle catastrofi ambientali che paiono connesse all’interazione tra gli uomini e la natura si allunga sempre di più: da Londra a Bhopal, dal Vajont a Chernobyl, da Minamata a Seveso, non c’è ormai quasi più un luogo che non sia stato già esposto al pericolo o possa essere ritenuto immune da questo 5. In un’ottica di sviluppo umano la questione della tutela della salute è pertanto inevitabilmente destinata ad estendersi alla protezione della natura6. Ciò almeno in due 5 Non a caso a partire dagli anni ’80 in sociologia si è sviluppata una serie di riflessioni sulla cosiddetta “tarda modernità” che, da Luhmann a Giddens, da Bauman a Beck, colloca al centro dell’analisi della società contemporanea i concetti di rischio e di incertezza. Da segnalare al riguardo anche il precoce e ancora adesso interessante lavoro di Caramiello (1986). 6 Non importa qui se nell’accezione “riduzionistica” di tutela dell’ambiente naturale o in quella “olistica” di protezione dell’ecosistema, per citare l’alternativa posta in evidenza da Manghi (2000) nel campo della 6 sensi: la protezione della natura preserva le generazioni presenti e future di esseri umani – e in specie i più poveri - dai rischi connessi all’inquinamento dell’ambiente, alla riduzione della biodiversità, all’esaurimento delle risorse; più in generale, la tutela della vita, anche dei viventi non umani, è valore quantomeno compatibile con lo sviluppo umano, se non proprio un suo indispensabile presupposto. In quale modo è possibile allora rappresentare, e misurare, e valutare, le relazioni dinamiche tra l’economia, la società e l’ambiente, per incorporare la “questione ambientale” nel discorso sullo sviluppo e in particolare sullo sviluppo umano? Una maniera di rappresentare le relazioni in questione che potrebbe suscitare l’accordo tra gli scienziati della società e della natura è quella insita nella legge dell’entropia. Quest’ultima afferma che la materia e l’energia dell’universo, il cui ammontare è costante, si possono trasformare in una direzione soltanto, da forme ordinate a disordinate, o da forme disponibili a non disponibili. Ne deriva che, quando si crea un apparente maggior ordine in un qualsiasi punto dell’universo, ciò avviene a spese dell’ambiente circostante, nel quale si crea un disordine maggiore. In sostanza, la legge dell’entropia avverte che le attività umane, comprese quelle che tendono a strutturare ordine e organizzazione, si traducono inevitabilmente in disordine, inquinamento e decadenza dell’ambiente. In questa prospettiva i mutamenti strutturali prodottisi nell’epoca distinta dalla modernità capitalista possono anche essere considerati nei termini di comparsa, consolidamento e sviluppo di un sistema economico e sociale che accelera in misura sempre più consistente i processi di degrado ambientale, pur generando anche gli effetti positivi che possono essere espressi dall’indice dello sviluppo umano. In altri termini, non è possibile sviluppo, ed in realtà non è possibile l’esistenza umana, senza che aumenti il livello di entropia. Una misura possibile dell’entropia prodotta dalla presenza umana è l’”impronta ecologica”, una misura molto usata nella ricerca e nella politica sull’ambiente. In sostanza l’”impronta ecologica” di una popolazione è prodotta dalla combinazione tra tre fattori, identificata dalla formula di Ehrlich e Holdren (in Harrison e Pearce 2001, p. 7): I = P x A x T, nella quale “I” è l’impatto di una popolazione sull’ambiente, “P” la sua dimensione demografica, “A” è la sua “opulenza” (affluence) misurata dal prodotto o dai consumi pro capite, “T” la tecnologia impiegata nelle attività umane di produzione e di consumo, e dunque è variabile in ragione della sua efficienza. Ho allora confrontato i dati relativi all’impronta ecologica al 1996, assunta quale misura dell’entropia generata dalla presenza umana, con quelli relativi all’indice di sviluppo umano al 1999 7. Da questo confronto è possibile ricavare che la correlazione tra impronta ecologica e prodotto pro capite è pari a 0,76; quella tra impronta ecologica ed indice della speranza di vita è pari a 0,65; quella tra impronta ecologica ed indice di educazione è infine pari a 0,60 8. Come per primo nelle scienze sociali ha avvertito Georgescu-Roegen (in Rifkin 2000, p. 83), l’associazione tra lo sviluppo e la dissipazione delle risorse è dunque sempre molto elevata, per quanto sia sensibilmente inferiore per gli indici relativi agli aspetti non direttamente economici del processo in questione. Nei termini qui definiti, l’obiettivo da perseguire per garantire la compatibilità tra lo sviluppo – che è certo anche crescita economica – e ambiente si può identificare allora non in un arresto del processo di crescita dell’entropia, che è impossibile (qualunque sistema, anche non umano, produce entropia) ed inutile (è perché siamo vivi che agiamo sull’ambiente, e dunque lo dissipiamo e lo disturbiamo). Ma in un suo ricerca e della politica ecologica. 7 Fonti: per il valore dell’impronta ecologica, World Wildlife Fund, 2000; per il valore dell’indice di sviluppo umano, UNDP, 2000. 8 Il coefficiente di correlazione tra l’impronta ecologica e l’indice di sviluppo umano nel suo insieme è pari a 0,72. 7 rallentamento che può avvenire, se la formula di Ehrlich e Holdren è valida, intervenendo o sulla popolazione, o sull’”opulenza”, o sulla tecnologia, o su una combinazione tra questi. E’ in questa prospettiva che si inquadra la problematica dello sviluppo sostenibile, già emersa negli anni ’70 con la prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e la costituzione dell’United Nations Environment Programme. Ma il concetto di sviluppo sostenibile emerge soltanto più tardi, con il lavoro compiuto nel corso degli anni ’80 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, o Commissione Brundtlandt, la cui opera conclusiva, Il futuro di noi tutti (Brundtlandt, a cura di, 1990), è ancora oggi citata quale una pietra miliare proprio per la sua definizione del concetto in parola: “Lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni” (cit. in Lanza, 1999, p. 15). Così, a partire dalla fine degli anni ‘80, lo slogan dello “sviluppo sostenibile”, così definito, ha avuto un successo internazionale. Il problema è che, come pongono in evidenza molti tra gli analisti, la diffusione del concetto di sviluppo sostenibile è inversamente proporzionale alla sua precisione ed alla sua applicabilità. Ciò appare già evidente nella definizione proposta in precedenza, nella quale compare un riferimento ai “bisogni” che rappresentano un fenomeno niente affatto riconducibile all’interno di confini definibili con rigore, e compatibile con visioni diverse dello sviluppo (cfr. sopra, paragrafo 1). Non a caso continua a non esserci affatto un accordo totale tra scienziati ed esperti nelle questioni economiche, sociali, ambientali in merito all’urgenza del problema ecologico, né in merito ai fattori sui quali agire per assicurare la sostenibilità, né in merito agli interventi che occorre realizzare. Un quadro sintetico di alcune prospettive di analisi e di intervento in merito ai rapporti tra lo sviluppo e l’ambiente è presentato qui di seguito. Secondo una classificazione ripresa in numerose ricostruzioni della tematica (ad esempio in Auty e Brown, 1997, pp. 5-9; o in Lanza 1999, pp. 20-23), gli orientamenti di studiosi ed esperti si distinguono in due grandi gruppi, il tecnocentrismo e l’ecocentrismo, ciascuno a sua volta distinto in due varianti, una radicale ed una moderata. Si vengono così a definire 4 approcci al problema della sostenibilità ecologica della presenza umana e dello sviluppo. Si tratta, in sintesi, del tecnocentrismo dell’abbondanza, del tecnocentrismo della possibilità, dell’ecocentrismo della consapevolezza, dell’ecocentrismo della catastrofe. Quale di queste opzioni di analisi e di politica è più compatibile con la teoria e con la prassi dello sviluppo umano? Forse è più facile andare per esclusione e dire quale, tra queste opzioni, è più in contrasto con il punto di vista della libertà e della dignità umana. Per il tecnocentrismo dell’abbondanza la gestione dell’ambiente naturale va sottoposta all’imperativo della massimizzazione del prodotto in un mercato autoregolato, nel quale il meccanismo dei prezzi assicurerà la sostituzione dei fattori che divengono scarsi a causa dell’esaurimento delle risorse naturali. Questo approccio è infatti associato alla teoria economica ortodossa, secondo la quale il progresso tecnico si rivelerà in grado, come lo è stato in passato, di sostituire i fattori di produzione più costosi – e quindi più rari – con altri più economici, perché più abbondanti o perché più produttivi. Ed ha avuto, almeno sinora, ragione nell’invocare la combinazione tra economia di mercato, ricerca scientifica e innovazione tecnologica quale fattore di soluzione al problema dell’esaurimento delle risorse, che aveva ispirato molte delle analisi iniziali in materia di ambiente e sviluppo. Ma fornisce risposte quantomeno avventurose, se non potenzialmente catastrofiche, ad altri problemi, quale quello dello sviluppo dei Paesi del Sud del mondo, per i quali l’“affidarsi al mercato”, in rapporto all’ambiente, si traduce: (1) nell’accelerare il processo di sfruttamento degli ecosistemi 8 e di riduzione della biodiversità, che già si verificherebbe in conseguenza dell’incremento della popolazione, per aumentare la produzione di materie prime e di derrate agricole da destinare all’esportazione; (2) nel decentrare i processi di produzione a più elevato impatto ambientale, che così realizzano alte performances di crescita economica al prezzo di severi danni all’ambiente; (3) nel destinare a questi Paesi i rifiuti derivanti da attività che non possono essere facilmente delocalizzate, ad esempio le scorie delle centrali elettriche ad energia atomica (French 2000, pp. 52-62). Ora, i primi due fenomeni più sopra indicati – lo sfruttamento agricolo e industriale del territorio e l’esportazione dei processi lavorativi più inquinanti - vengono considerati dei prezzi inevitabili da pagare per giungere infine allo sviluppo. Anche i Paesi del Nord hanno subito l’elevato impatto ambientale dell’agricoltura per il mercato e dell’industria estrattiva, chimica, siderurgica, e in generale di processi di produzione estensivi e scarsamente efficienti. Da questo punto di vista ai Paesi del Sud non sembra toccare altro che ripetere un percorso già noto, per quanto duro possa essere, in direzione della crescita e della modernizzazione. In questa prospettiva c’è tuttavia da rilevare che i Paesi in questione si trovano a dover fare i conti con migliaia di sostanze, prodotte da altri, che non sono in grado di controllare adeguatamente (ibidem, p. 52). E più in generale con l’impatto di processi ai quali manca una costruzione o un radicamento sociale ed ecologico, con il risultato che la strategia grow first, clean up later si è tradotta in perdite irreversibili e in costi elevati (Thomas e Belt 1997), perdipiù sopportabili soltanto laddove degli effetti di sviluppo si siano infine realmente prodotti. Ma il terzo – il commercio dei rifiuti - genera problemi etici e politici rilevanti, dal momento che mette in evidenza i costi, non soltanto ecologici, delle interdipendenze asimmetriche che si vengono a produrre in un mercato mondiale nel quale interagiscono “liberamente” attori che si trovano a livelli di crescita diversi e sempre più distanti, e dunque con un ineguale potere di mercato9 (French 2000, pp. 52-55). Infine, non va dimenticato che – come ho ricordato all’inizio del paragrafo – a pagare il conto sono i più indifesi: le fabbriche che inquinano e le discariche dei rifiuti tossici e nocivi non vengono create nei pressi dei quartieri governativi o residenziali, ma a ridosso delle baraccopoli. Insomma, a quanto sembra il tecnocentrismo dell’abbondanza non fornisce affatto soluzioni adeguate al problema dei rapporti con l’ambiente. Dal punto di vista dello sviluppo umano il rendimento dell’ecocentrismo della catastrofe è, se possibile, ancora peggiore. Mentre per il tecnocentrismo dell’abbondanza non c’è, in sostanza, un problema di sostenibilità dello sviluppo, dal momento che l’economia di mercato, il progresso della razionalità scientifica e tecnica e la diffusione del benessere sono in grado di risolvere tutti i problemi, l’ecocentrismo della catastrofe rifiuta integralmente lo sviluppo “realmente esistente”, e dunque anche la problematica della sostenibilità. Che sia dovuto alla rapacità dei processi di dominio, di sfruttamento e di consumo del capitalismo storico, o al carattere inumano e innaturale della razionalità massimizzante della modernità, o ad una combinazione di questi, il fallimento dello sviluppo è considerato totale e non può che aprire la strada ad una configurazione totalmente differente dei rapporti tra l’uomo e la natura (Latouche 1993). Ad essere rifiutato qui, dunque, non è il mito dell'inevitabilità del progresso, ma l’idea di progresso in quanto tale. La storia degli ultimi secoli è ritenuta storia del dominio delle forze impersonali dell’economia e della tecnica sull’umanità e sulla natura; oppure viene descritta come il tempo della degradazione, della progressiva corruzione dell’equilibrio originario tra l’uomo e la natura espresso nel mito dell’Età 9 E’ per questa ragione che fin dal 1989 l’UNEP ha cercato di promuovere, con la c. d. Convenzione di Basilea, una regolamentazione del mercato internazionale dei rifiuti tossici: regolamentazione internazionale che naturalmente non regola i movimenti illegali da Paese a Paese. Cose già note, naturalmente, a chi risiede nelle economie illegali di mercato radicate in Terra di Lavoro, nel nolano o nel vesuviano. 9 dell’Oro (Rifkin 2000, pp. 43-49). Ne deriva che, se si desidera scongiurare l’apocalisse ecologica ritenuta imminente, è necessario restaurare l’armonia comunitaria perduta, in particolare attraverso una qualche forma di riconsacrazione della natura (ibidem, pp. 379-388), in particolare attraverso una drastica riduzione della popolazione mondiale e un cambiamento di scala della produzione e dei consumi, per riportare in tempi brevi l’impronta ecologica degli esseri umani a livelli accettabili per le altre specie viventi. Il risultato è che, nel tentativo di dimostrare ciò, si finisce (ad esempio in Latouche 1993, pp. 65-96) per equiparare l’aumento della speranza di vita – riscontrabile sia nei Paesi del Nord che in quelli del Sud, ad eccezione che nel periodo in cui ha imperversato l’”aggiustamento strutturale” – all’accanimento terapeutico e ad affermarlo espressione di una “cultura della morte”. Oppure non ci si accorge che i danni inferti dalla crescita economica all’ambiente riducono, ma non azzerano gli effetti positivi (ampiamente migliorabili) di questa sullo sviluppo umano di una determinata popolazione. Non resta, dunque, che cercare una strategia di crescita economica e di investimenti sociali compatibili con la tutela della natura nel confronto e nella mediazione tra il tecnocentrismo della possibilità e l’ecocentrismo della consapevolezza. Per il primo è necessario un intervento pubblico sui processi di crescita economica, che si sostiene potrebbero dopotutto anche non essere distinti da una sostituibilità infinita tra i fattori di produzione, per garantire la salvaguardia dell’ambiente naturale e la solidarietà tra i compresenti e con le generazioni future. Occorre dunque intervenire attivamente nei processi di innovazione tecnologica, di crescita economica e di mutamento sociale e culturale, con l’imposizione di regole, di incentivi e di sanzioni rivolte a promuovere la sostenibilità dello sviluppo. Nel secondo si trova l’appello ad un’iniziativa pubblica internazionale per promuovere, in una prospettiva ecosistemica, un rallentamento della crescita economica, un cambiamento dei suoi contenuti in senso ecologicamente e socialmente sostenibile, una redistribuzione del prodotto a beneficio dei Paesi e dei ceti più poveri, un ripensamento e una regolazione dell’attività scientifica e dell’innovazione tecnologica. Che cosa può significare un confronto e una mediazione tra queste due posizioni? Può significare conservare il patrimonio naturale, ma anche per valorizzarlo; favorire l’innovazione, ma d’accordo con un elementare principio di precauzione; e tenendo conto che il rapporto tra l’economia, la società e la natura va considerato in una prospettiva sia locale che globale; e perdipiù anche in un’ottica duplice, cioè guardando sia al presente che al futuro. Una sfida certo difficile, in cui occorrono sforzi continui ed erculei per separare il grano del possibile dal loglio prodotto in grande quantità dagli interessi capitalistici o dei poteri politici, ma anche dalle forze dell’irrazionalità e del misticismo. Ma non mi sembra vi sia altra scelta che affrontarla. A questo punto credo ormai sia chiaro perché lo sviluppo sostenibile sia importante per la prospettiva dello sviluppo umano. Ma è vero anche il contrario, cioè che lo sviluppo umano risulta importante dal punto di vista dello sviluppo sostenibile. Per capire questo punto, è opportuno ripartire dalla formula di Ehrlich e Holdren, la quale dice che l’impatto umano sulla natura (I) è funzione della numerosità della popolazione (P), dei modelli di consumo praticati da questa (A), dei processi di produzione e distribuzione dei prodotti e servizi consumati (T). Consideriamo innanzitutto il problema della popolazione. Da questo punto di vista si nota che l’esperienza storica di tutti i Paesi, tanto del Nord quanto del Sud, segue il modello della “transizione demografica”: un incremento della popolazione dovuto ad un’elevata natalità associata ad una riduzione della mortalità, cui segue una graduale riduzione della natalità – al punto che oggi vi sono alcuni Paesi del Nord, tra i quali l’Italia, che stanno affrontando il problema della “crescita zero” o addirittura negativa della popolazione. In questo campo la grande preoccupazione degli studiosi, dei media e dei 10 politici occidentali sta nel fatto che nei Paesi del Sud la transizione demografica è ancora ben lungi dall’essere completa: benché il tasso di incremento demografico sia quasi ovunque in diminuzione, permane una tendenza alla crescita che spinge a chiedere e a sostenere misure talvolta autoritarie di controllo demografico. Con effetti talvolta perversi, quali quelli notati in Cina con lo squilibrio di genere nelle nascite (a favore dei maschi) indotto da aborti selettivi e infanticidi. Ma una politica di sviluppo umano può fare molto meglio: con la crescita economica, e la connessa trasformazione nella struttura dell’occupazione che incentiva le donne al lavoro extradomestico; con la diffusione dell’istruzione, che rende le donne più consapevoli dell’esistenza di un’ampia gamma di scelte di vita; con l’espansione dei sistemi di protezione sociale, che rende meno importante la numerosità della famiglia per la sopravvivenza dei suoi membri anziani; con la piena attribuzione alle donne della titolarità dei diritti sessuali e riproduttivi, ovvero del diritto di decidere che fare del proprio corpo, e quando farlo. Ma ancora più importante è l’interazione tra gli aspetti materiali e non materiali dello sviluppo umano, ad esempio tra l’aumento del reddito, la diffusione dell’istruzione e il riconoscimento della libertà politica (ad esempio cfr. Sen, 2000, p. 157). Per quanto si riferisce ai modelli di consumo, è evidente che la crescita economica ha quale inevitabile effetto un aumento dei beni a disposizione di ciascuno, sia in termini di tipologie che in termini di numerosità, e quindi comporta un certo grado di trasformazione, ovvero di dissipazione, delle risorse. Tuttavia è possibile contenere gli effetti negativi del consumo, secondo due percorsi associati ad una politica di sviluppo umano. Il primo è la transizione, segnalata già a suo tempo da Inglehart (1983), dai bisogni “materiali” ai bisogni “postmaterialistici”, e quindi dal consumo orientato ai beni a quello rivolto in prevalenza ai servizi, e quindi a minore impatto sull’ambiente. Una transizione associata alla crescita economica, i cui effetti positivi possono tuttavia essere moltiplicati da una politica adeguata, in maniera particolare nel campo dell’istruzione, dei consumi culturali, della tutela e valorizzazione del paesaggio e del patrimonio storico-artistico. Il secondo è associato alla natura intrinsecamente pubblica di alcuni beni utili alla sopravvivenza, alla riproduzione o allo sviluppo umano, e che non è dunque utile produrre o consumare secondo logiche di mercato o privatistiche. Dal punto di vista dello sviluppo umano è quindi possibile agire politicamente per spostare il modello di consumi prevalente da modalità individualistiche a modalità collettive. Gli esempi di Sen (2000, pp. 132-134) riguardano la difesa nazionale, la polizia, la protezione dell’ambiente, la sanità, l’istruzione: ma a questo elenco si possono aggiungere anche altri importanti settori, e in particolare i trasporti10. Un ragionamento analogo può essere applicato all’ultima variabile da tenere sotto controllo, ovvero la tecnologia e quindi i processi di produzione. Qui addirittura l’esigenza di protezione dell’ambiente può scaturire direttamente dall’obiettivo di sviluppo umano, già menzionato in precedenza, della tutela della salute dei lavoratori, dei cittadini e anche delle generazioni future. Anche qui la crescita economica può aiutare, in quanto associata alla transizione da processi ad elevato consumo di risorse naturali ed elevato inquinamento a processi a consumo di risorse più ridotto e ad inquinamento minore. Ma anche qui occorre che la politica sia vigile: incentivando la sostituzione delle tecnologie più obsolete; favorendo la diffusione di sistemi di controllo; sorvegliando e reprimendo i comportamenti devianti degli operatori economici e dei singoli cittadini11. 10 Qui un confronto tra le metropoli europee e le grandi aree urbane del nostro Paese può essere impietoso, ma assai efficace nell’evidenziare i danni da congestione e da inquinamento arrecati sia all’economia che all’ambiente dalla prevalenza assoluta dei trasporti individuali su quelli collettivi. 11 E’ per ragioni politiche che, ad esempio, vi sono più pannelli solari installati in Germania, noto Paese del Sud, che in Italia. Lo Stato tedesco ha concesso incentivi in questo senso ai condomini e alle famiglie; 11 Osservazioni conclusive Nel primo paragrafo di questo lavoro mi sono concentrato sul lungo processo che ha condotto all’emersione di un interesse per la persona nel campo delle ricerche e delle politiche di sviluppo, sino all’elaborazione del concetto oggi assai diffuso di sviluppo umano. Nel paragrafo successivo invece ho prestato attenzione al problema dei rapporti tra il sistema economico e sociale e l’ambiente naturale ed alla possibilità di delineare un percorso di sviluppo ecologicamente sostenibile. Da entrambi i punti di vista centrale si è rivelato l’approccio proposto da Sen, che ha connesso i problemi della lotta alla povertà, della crescita economica, del rapporto con l’ambiente in maniera da evidenziare il legame inscindibile tra lo sviluppo e la libertà, nel senso positivo di accesso ad opportunità di scelta che consentano di “star bene”. Una libertà che nasce sulla base della crescita economica, ma che trova un decisivo fattore di espansione proprio nella diffusione e nell’estensione dei diritti civili, politici, sociali che costituiscono il fondamento della democrazia politica e della coesione sociale. E che proprio da questo intreccio tra libertà, crescita, diritti fa derivare la possibilità che si ritrovi un equilibrio tra le società umane e l’ambiente naturale: un equilibrio al momento minacciato dall’incremento demografico, dalle diseguaglianze sociali, da un modello di crescita orientato più dai profitti che dai bisogni. Cosicché, come del resto osservano sia Anthony Giddens (1999) che lo stesso Edgar Morin (Morin e Kern, 2001) 12 , l’attenzione per la libertà e la dignità umana, estesa al punto da comprendere la cosiddetta “questione ecologica” quale suo cruciale elemento costitutivo, diviene il perno intorno al quale far ruotare la “politica della vita” nell’epoca della seconda o tarda modernità13. Così, l’idea dello sviluppo umano sostenibile acquista i connotati di un’utopia positiva e concreta. Un’utopia, perché assicurare dignità e libertà a tutti gli esseri umani è un compito che ha i connotati della “sfida impossibile”. Ma positiva, perché considera il futuro in termini non predeterminati, ma aperti e suscettibili di cambiamento di fronte ad un intervento umano che sia consapevole, sul piano epistemologico, e responsabile, nella dimensione etica. Consapevole della complessità del mondo sociale, di quello della natura e delle interazioni tra questi; responsabile nei confronti degli attori implicati dalle decisioni possibili (Berger, 1981). E concreta, perché può essere declinata in una serie di campi d’indagine e di intervento in relazione ai quali è possibile identificare gli strumenti di azione e di valutazione più adeguati in ciascuna circostanza. Ciò spiega il suo fascino di fronte ai dogmatismi reciprocamente contrapposti del neoliberismo e dell’antisviluppismo; o, almeno, spero, le ragioni per cui la preferisco io. Riferimenti bibliografici Auty, R. M., Brown, K. 1997 quello italiano se ne è guardato bene, forse per non disturbare il business della privatizzazione. 12 A questo riguardo cfr. anche Beck (2000, 2001). 13 Ma senza dimenticare, come purtroppo in alcuni momenti sembra fare l’ottimo Giddens, che la consueta “politica dell’emancipazione” socialdemocratica non perde affatto la sua attualità – anzi, casomai la aumenta - in un’epoca in cui si approfondiscono e si moltiplicano i divari tra le regioni e tra le classi. 12 An Overview of Approaches to Sustainable Development, in R. M. Auty, K. Brown (editors), Approaches to Sustainable Development, Pinter, London-Washington. Beck, U. 2000 La società del rischio, Carocci, Roma (ed. or. 1986). Beck, U. 2001 La società globale del rischio, Asterios, Trieste (ed. or. 1999). 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