libricino 2016

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libricino 2016
AUSER Volontariato di Forlì - Onlus
Associazione per l'Autogestione dei Servizi e la Solidarietà
XXVI Concorso letterario
“DARE VITA AGLI ANNI”
Organizzato da AUSER Volontariato di Forlì – ONLUS
per racconti e poesie
Col Patrocinio del Comune di Forlì
Assessorato alla Cultura, Politiche Giovanili, Turismo, Pari Opportunità
Elaborati premiati
Anno 2016
In copertina:
Dipinto di Kobi Rabenu
Dare vita agli anni –2016
Nel ricordo di MARIO VESPIGNANI
ALLA MIA DONNA
Non conoscevo l’AMORE.
Non avrei mai creduto si potesse
amare tanto intensamente.
Dalla notte dei tempi,
dagli albori del mondo
ci viene questa dolce parola:
AMORE.
A regolare le leggi dell’Universo,
alla base di tutto il creato,
c’era forse una sola parola:
AMORE.
Ma ben presto si trasformò
in Odio, Invidia, Guerra e Dolore.
Oggi l’AMORE
che dovrebbe ispirare la vita
di tutti gli uomini
è una cosa negletta, meschina.
Oggi è l’oro il padrone del mondo,
è su lui che si fanno i baratti
e l’AMORE è rimasto per pochi,
per quegli esseri semplici e buoni
che si stringono al petto felici.
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Dare vita agli anni –2016
Forse è questo l’AMORE
tanto tempo inseguito,
forse è questo l’AMORE
tante volte sognato,
forse è questo l’AMORE
che ci viene oltre l’arco del tempo,
che ci fa esser simili
ai primi abitatori della Terra.
Come vorrei
che la restante vita che ci attende,
in perfetta comunione d’intenti,
portasse solo e sempre: AMORE
Mario Vespignani
25.10.1963
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Dare vita agli anni –2016
Sommario

Sezione “Racconto”
1° classificato: Di madre in figlia, Enza Valpiani
p. 9
2° classificato: La casa del boia, Sara Zatelli
p. 15
3° classificato: L’ora della coscienza alla fine del tempo incosciente,
Gianluca Alberti
p. 21
Segnalato: I due orfanelli, Stefania Zaccheroni
p. 25
Sezione “Poesia”
1° classificato: Come cambiano i colori, Bruno Centomo
2° classificato ex aequo: Entusiasmo di madre, Giuseppe Mandia
2° classificato ex aequo: Echi dal passato, Irene Ricci
3° classificato: La mia età, Manuela Monti
Segnalato: Le parole che non so dire, Stefano Baldini
Segnalato: Inciampo, Daniela Cortesi
p. 30
p. 32
p. 34
p. 36
p. 38
p. 41
Ringraziamenti
p. 43
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Dare vita agli anni –2016
Commissione giudicatrice:
Sezione “Racconto”
Davide Argnani
Rosanna Ricci
Viola Talentoni
Graziella Valentini
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Dare vita agli anni –2016
I CLASSIFICATO
DI MADRE IN FIGLIA
Enza Valpiani
Motivazione: Lo scritto si è distinto per la capacità di interpretare al
meglio le caratteristiche di un racconto. Coerenza, equilibrio di
sequenze, caratterizzazione dei personaggi, in particolare quello della
madre, diventano motivo di attenzione e di riflessione in chi legge.
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Dare vita agli anni –2016
DI MADRE IN FIGLIA
Enza Valpiani
In coda a pochi chilometri dal casello di Piacenza, il continuo lampeggiare di
ambulanze e polizia fanno presagire lunghi tempi di attesa, perciò lancia uno
sguardo rassegnato alla fila di veicoli che la precede e spegne definitivamente il
motore. Appena a metà di questo viaggio, così difficile da affrontare, già un
imprevisto la costringe a fermarsi; per fortuna l’appuntamento che l’attende a
Torino è fissato per domani, così ha tutto il tempo di accettare con calma anche
il ritardo che si prospetta. Alcuni automobilisti davanti a lei, invece, hanno
lasciato la vettura e sono andati a curiosare, camminano avanti e indietro,
sbraitando a passi lunghi; lei no, non pensa proprio di chiedere notizie
sull’incidente, per una sua forma di pudore di fronte alla sofferenza. Solamente
in Italia ha imparato che cos’è il dolore, non ci sono state ferite nella sua
adolescenza, impressa nella sua memoria come un’altra vita, vissuta in Brasile
tra le fazende sperdute nel Rio Grande del Sud, a Garibaldi. Curioso, pensa, a
Garibaldi, eroe nazionale, in Italia sono state dedicate ovunque piazze,
monumenti, strade, ma neanche mai una piccola città o paese. In Brasile,
invece, l’eroe aveva avuto questo onore, ed in fondo quando lei viveva laggiù,
grazie a quel nome si sentiva un poco più vicina all’ Italia che aveva lasciato
con l’inconsapevolezza dei suoi cinque anni. Si era sempre chiesta che cosa
aveva spinto suo padre a fare questo passo, abbandonare i parenti e gli amici a
Torino ed emigrare con la famiglia in Brasile; la fine della guerra lo aveva
lasciato in fondo piuttosto benestante, aveva tuttavia voluto mettere radici ed
attività commerciali in un luogo così sconosciuto e lontano. Lei aveva vissuto
quel tempo come una fiaba, per la magia di quella natura ancora selvaggia e
lussureggiante. Uno sguardo allo specchietto retrovisore per controllare la lunga
fila di veicoli che si è formata dietro di lei, poi i suoi occhi indugiano a
scrutarsi, ravviando con un gesto abitudinario il biondo ciuffo di capelli un po’
ribelli. L’immagine che le rimanda lo specchio è quella, rassicurante, di una
donna matura molto giovanile, grandi occhi azzurri, zigomi alti nell’incarnato
delicato. Si era chiesta tante volte perché mai così bionda e chiara di carnagione
l’avevano chiamata “Morena”, quando non c’erano state mai nemmeno altre
donne con quel nome in famiglia. Lei invece per le sue figlie aveva scelto due
nomi luminosi, (come quello di sua madre) ed il ruolo di madre era forse per lei
il più importante che aveva voluto assumere nella vita. Donna impegnata, colta,
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Dare vita agli anni –2016
ricca di amicizie, moglie, soprattutto madre, ma non una madre prevaricatrice
bensì “presente”, questo sì, questo per lei significava la maternità.
Premurosamente le figlie si erano dichiarate disponibili ad accompagnarla in
questa prova, se lo avesse desiderato, ma lei aveva rifiutato, con affettuosa
fermezza; era del resto una cosa che la riguardava intimamente e voleva
affrontarla da sola. Aveva così cominciato questo viaggio verso Torino con
piena coscienza che non sarebbe stata una passeggiata, non un ritorno alla città
delle origini per svago e tantomeno per una rimpatriata coi parenti, ormai tutti
deceduti. La chiamata le era giunta improvvisa e l’aveva davvero turbata. Per di
più non amava troppo guidare a lungo ed un viaggio di 400 chilometri non era
forse la scelta più comoda; eppure aveva preferito non prendere il treno, le
avrebbe lasciato troppo tempo per riflettere sull’ incontro. Questa sosta forzata
ora, invece, la costringe a rimanere in attesa, sola coi suoi pensieri al bordo
dell’autostrada. Si deve rilassare un po’, è sul punto di chiamare le figlie,
sorridenti coi nipotini sullo sfondo del display del telefonino, poi rinuncia per
non allarmarle; ora, mentre fissa lungamente il nastro di asfalto accanto alla fila
di veicoli, si snodano i suoi pensieri in una direzione incontrollata. Dei tanti
viaggi fatti nella sua vita verso Torino, le si presenta alla memoria il primo,
purtroppo indimenticabile. Un viaggio comodo, in un piroscafo che attraversava
l’oceano. Sfilava davanti ai suoi occhi una lunga teoria di immagini luminose,
di acque azzurre, solcate da branchi di pesci che seguivano la bianca schiuma
della nave; di notte poi, in quel silenzio che soffocava anche i minimi rumori,
dominava il rollio delle onde e le luci delle città costiere si riflettevano
sull’acqua come un presepe animato. Se fosse stata una crociera di piacere
sarebbe stata una esperienza esaltante, ma la dimensione in cui la viveva era
tutt’altra, era e sarebbe rimasto per sempre il viaggio della vita, quello che
chiudeva la porta del passato e lasciava di fronte una incognita totale. Tutto il
giorno, tutti i giorni di quel lungo viaggio, rimaneva rivolta verso l’oblò della
cabina, che le riempiva le ore di azzurro, anche perché nella direzione opposta
una piccola vetrage le rimandava sempre e solo l’immagine della porta di
fronte, perennemente chiusa e buia. Bastavano gli occhi di suo padre,
continuamente fissi in quella direzione, a imporle di volgere la testa altrove e
fingere di leggere uno dei libri che aveva con precisione impilato sul sedile
vuoto alla sua destra, una fila in portoghese ed una in italiano, già in bilico in
quella realtà a doppia direzione. Amava tanto la lettura, era stata per lei una
finestra aperta sul mondo, in quegli assolati pomeriggi brasiliani, sotto la
chioma della grande palma, accanto alla villa. I suoi le avevano procurato anche
tanti libri in italiano, per tenere viva la lingua madre che rischiava di
dimenticare, o di falsare, con quelle inflessioni piemontesi che cinguettavano in
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casa. Glieli portava trionfante suo padre la sera, quando rincasava abbracciando
teneramente le sue donne, lei e soprattutto sua madre: scambiava occhiate
complici e felici con quella giovane moglie, bella e prosperosa, che viveva in
adorazione per lui, preparandogli i più gustosi manicaretti. Era proprio così che
lei aveva sempre pensato a sua madre, l’archetipo della Madre, portatrice di
cibo e forse per questo, crescendo, le aveva lasciato intatto il suo regno, la
cucina, e si era dedicata ad altro, ad esempio alla lettura di libri di storia
dell’arte. Così aveva imparato ad identificare gli stili nel tempo e anche i
monumenti di quella Italia lontana. Per questo, appena entrata nella cabina della
nave, anche senza leggerne la didascalia, aveva subito riconosciuto i soggetti
delle foto in bianco e nero che ornavano le pareti: il Colosseo, il Duomo di
Milano, la torre di Pisa e, quasi un gioco del destino, la mole Antonelliana e la
Basilica della Grande Madre di Torino ... Si era soffermata poi, in quei dodici
giorni terribili, a contemplare a lungo l’architettura della basilica di San Pietro;
come la definiva il suo libro? Il più importante esempio di arte Barocca. Adesso
anche lei aveva esperienza viva di questo stile: aveva accarezzato a lungo la
decorazione a putti e volute barocche della cassa che suo padre aveva scelto
pochi giorni prima e che insieme ad alcune suppellettili riempiva di sé la cabina
di fronte. Aveva avuto tutto il tempo in quel viaggio di immaginarsela, la
magica e raffinata Torino, anche lei con i suoi palazzi barocchi e le sue regge,
ma ancora non sapeva quanto l’avrebbe amata; avrebbe imparato col tempo a
riconoscerne i profumi segreti, nelle caffetterie d’epoca dove dalle preziose
tazzine col bordo dorato si espande l’aroma del cioccolato o del “bicirin”. Che
abisso dal clima solare e ridente delle terre del Rio Grande agli inverni nebbiosi
e bui! Solo la neve le sarebbe piaciuta, come una soffice rivelazione. Certo,
anche lei da bambina sapeva che cosa era la neve, come una cosa che tutti
sanno, vista sui libri, nelle fotografie, nei biglietti di Natale che come uno
stereotipo anche in Brasile erano decorati di slitte, pupazzi e bianchi fiocchi, ma
in realtà in tutti gli anni in cui aveva vissuto laggiù non aveva mai visto la neve.
Solo a Torino e poi a Forlì sarebbe stata affascinata dalla sua leggerezza ed
inconsistenza, e, mentre tutti la consideravano un peso ed una difficoltà, lei
avrebbe sempre amato quella sensazione nuova e lieve, di scioglierne un poco
tra le dita. Come era stato doloroso quel viaggio in nave, che azzerava la sua
vita a nemmeno diciotto anni! Le sembrava di avere perduto per sempre la gioia
di vivere e la leggerezza, chiusa tra quelle pareti ondeggianti, in un tempo
dilatato dal mutismo di suo padre e lo sguardo perduto oltre quella porta, nella
cabina chiusa a chiave, dove il corpo di sua madre, poco più del doppio dei suoi
anni, impallidita all’improvviso e perduta in un istante, era rinchiuso per sempre
in una splendida cassa di noce intagliata a volute barocche. La riscuotono suoni
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di clacson; lo sventolio di bandierine segnaletiche le indica che il flusso del
traffico sta riprendendo e la colonna di veicoli avanza; dell’incidente non
restano che pochi indizi, sull’asfalto è facile cancellare con perizia tutte le
tracce, come è difficile invece rimuovere le ferite dell’anima -pensa- anche a
distanza di cinquant’anni. L’arrivo a Torino la coglie quasi di sorpresa, tanto
l’assorbe l’impegno nella guida. Non aveva scelto il solito albergo nei pressi di
piazza Vittorio, ma uno più decentrato, vicino al luogo dell’appuntamento. Alla
reception l’impiegato, cortese ma un po’ distratto, dopo una rapida occhiata alla
foto del documento d’identità, si accinge a trascrivere i dati, numero e luogo del
rilascio. “Dunque è romagnola” dice e poi, senza nemmeno aspettare la risposta,
“si sente dall’accento”. Lei non ha coraggio né voglia di rispondere che no, che
la Romagna è terra di residenza ma lei è torinese e se lo sente ancora dentro un
poco di “compostezza piemontese”. La parlata poi, figurarsi, se il portiere
avesse avuto più orecchio avrebbe potuto distinguere una esse dolce, un suono
strascicato, musicale come una samba, altro che “esse” romagnola! Sorride
comunque all’impiegato che, credendola turista, le chiede se è interessata ad
una visita guidata al Museo Egizio, da poco ristrutturato. La coglie un brivido.
Un flash le ricorda quando l’aveva visto la prima volta, in gioventù, appena
arrivata a Torino, in compagnia delle zie che non aveva mai conosciuto prima e
che volevano farle da guida in città; con le loro buone intenzioni l’avevano
accompagnata in una lunga teoria di sale e teche piene di gioielli, geroglifici,
reperti, ma anche di corpi mummificati e male conservati… Risponde
cortesemente di no, accenna di essere a Torino per un impegno preciso e dice
che vedrà certamente questo restauro in una occasione migliore. Con un largo
anticipo l’indomani si avvia a piedi al vicino luogo dell’appuntamento, mentre
cammina si sofferma a frugare con lo sguardo le numerose statue di stile
neoclassico che spuntano qua e là tra le piante ormai spoglie ed intirizzite nei
vialetti silenziosi ed ordinati. Quando entra nell’edificio espone all’usciere la
sua pratica e viene indirizzata allo studio del dottore che ha firmato la lettera
di convocazione; mentre lui si alza cortesemente per stringerle la mano, lei si
stupisce un poco per la mascherina protettiva, appesa al collo sul lungo
camice bianco, poi pensa che, anche se piuttosto particolare, è pur sempre un
medico, attento alle precauzioni. Parlano brevemente degli aspetti formali,
burocratici della questione, delle date, delle cifre; il dottore quasi si scusa della
necessità di questa operazione … lo spazio … le richieste … il tempo. Lei
annuisce accondiscendente, adesso ha fretta di concludere questo incontro.
Entrano da una porta laterale nella grande sala bianca, dove già li aspettano gli
addetti, che si posizionano le rispettive mascherine sulla bocca, con sussiego,
smorzando le oziose chiacchiere sportive che avevano scambiato nell’attesa.
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L’atmosfera è strana, quasi onirica, ma le sensazioni sono reali, scandite dallo
stridio dei trapani con cui questi uomini armeggiano; pochi minuti ed il pesante
coperchio di noce intagliato viene sollevato non senza fatica. Il dottore,
anatomo-patologo, le chiede di eseguire il riconoscimento, e lei guarda: a
contatto con l’aria, il velo e parte dell’abito si dissolvono in una nuvola di
polvere e, come in una visione irreale, le appare dopo cinquant’anni quel volto,
tanto sognato e pianto, straordinariamente intatto. Avevano fatto un lavoro
perfetto, laggiù nel Rio Grande, preparando il suo corpo per conservarlo a
lungo, durante il rimpatrio, nel viaggio per mare e poi fino al cimitero
monumentale di Torino. Il dottore, vedendo il suo sguardo fisso ma “assente”,
attende con discrezione, poi è titubante nel ripetere di nuovo la domanda di
riconoscimento, necessaria per poter operare poi la cremazione del corpo
prescritta dalla legge dopo un determinato numero di anni, ed aggiunge con
discrezione “Capisco … l’emozione … è … naturale”. No, non può capire, e
non è affatto “naturale”, perché quello che rende lucidi i suoi occhi non è solo
l’emozione di questo ultimo incontro con sua madre; in fondo lei aveva sempre
saputo che mentre cresceva, amava, aveva figlie, ed amici e carriera e viaggi,
sua madre in questo cimitero era rimasta intatta, preservata dallo scorrere del
tempo. Lo sapeva, ma ora lei, madre e nonna, si trova catturata in un labirinto di
specchi, fissando quel taglio di occhi e quegli zigomi armoniosi, quasi un
marchio per le donne della sua famiglia, e pensa che non è affatto naturale che
appartengano ancora (e per qualche ora solamente) all’immagine di sua madre,
più giovane di ciascuna delle sue figlie, in un gioco assurdo di matrioske che
non riesce a rimettere l’una in grembo all’altra.
Indugia per un attimo, frastornata, poi risponde allo sguardo interrogativo dei
presenti “ Sì, certo, è lei, potete procedere … naturalmente”.
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II CLASSIFICATO
LA CASA DEL BOIA
Sara Zatelli
Motivazione: Il corpus narrativo, ricco di dialogo, ha radici nel fantastico, ma
è anche una metafora della realtà. Il racconto scorre agile e nitido e propone
sensazioni e sentimenti senza tempo.
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LA CASA DEL BOIA
Sara Zatelli
La bassa nebbia avvolgeva tutto, mentre le prime luci dell’alba cercavano
di illuminare il cielo confuso. Il silenzio era totale ed ogni passo era un
azzardo. I ciottoli scivolosi avevano lasciato posto ad un ghiaino fine, sul
quale le sue suole di cuoio tendevano a scricchiolare. Di fianco solo erba
alta, bagnata, costellata di erbacce. Meglio i sassi, alla fine. Avanzò
lentamente, respirando l’umidità bassa. Era quello il giorno, non c’era
alternativa, la sfida era stata lanciata e non poteva tirarsi indietro. L’alta
fila di pioppi si faceva vicina e la sagoma della torre massiccia si
delineava, spiccando sopra il contrafforte. Una luce fioca si espandeva da
dietro le sue mura, sicuramente una torcia che ardeva ad illuminare il
bastione. Trattenne il respiro, mentre il sentiero si insinuava nel tratto che
accedeva al contrafforte. Solo silenzio, solo nebbia. Nemmeno gli uccelli
uscivano con quel tempo, solo le lumache, silenziose e viscide come il
fossato in cui sarebbe finita se fosse caduta dalla torre. La vide, nera nel
buio, con le sue piccole feritoie e la luce sinistra che illuminava l’aria
attorno. Conosceva ciò che si diceva di quel posto: se la avesse sentita chi
stava all’interno probabilmente la avrebbe infilzata con una scure senza
tanti complimenti. Rabbrividì, mentre le sue mani stringevano forte l’arco
che teneva in mano. Pensò che se fosse riuscita ad arrampicarsi sulla rocca
raggiungendone la sommità e a scoccare la sua freccia nessuno avrebbe più
dubitato delle sue capacità. Guardò le mura, imponenti e silenziose: in
fondo la costruzione non era così alta. Il suo respiro si fece nebbia, mentre
osservava il punto in cui alcuni mattoni erano franati a terra, offrendole
una piccola rampa per salire sulle mura e da lì iniziare a scalare la severa
facciata. Sospirò e mise l’arco a tracolla, maledicendo l’assenza di
vegetazione. Alla fine la nebbia era sua alleata, forse. Ma come avrebbe
potuto prendere la mira verso il camminamento in quelle condizioni?
Sperò che la luce della torcia non fosse sulla traiettoria, altrimenti avrebbe
dovuto aspettare che facesse definitivamente giorno, ed il rischio di brutti
incontri sarebbe cresciuto notevolmente. Prese un lungo respiro e corse
rapida e leggera fino al muro. Silenzio ed il cupo canto di un upupa tra gli
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alberi. Dicevano portasse male. Dicevano che oltre alla lunga fila
d’alberi, dove le mura iniziavano a curvare ci fosse il cimitero delle
vittime del Boia, le cui anime vagavano inquiete nei giorni di nebbia.
Nessuno di loro si era mai avventurato laggiù, dove nessuna torcia ardeva
e nessun sentiero di sassi era tracciato. Volse lo sguardo all’edificio
vicino: ad occhio poco più di dieci metri di altezza. Era abbastanza brava
con le distanze, l’occhio era allenato dai lunghi pomeriggi a tirare sui
lontani covoni, i movimenti divenuti rapidi dopo le innumerevoli corse a
recuperare le sue poche frecce senza farsi prendere, senza farsi vedere. Il
chiarore della torcia situata sulla facciata che guardava i campi fuori dalla
città faceva risaltare le file di mattoni, mostrandole le sporgenze utili.
Doveva salire in cima all’edificio formato da due parti, sulla torretta, con
la sua zona di avvistamento. Da lì avrebbe potuto agevolmente mirare al
camminamento ed infilare la freccia sul legno della palizzata che reggeva
l’esile ponte che sembrava sospeso su un mare di nebbia. Sistemò le
protezioni dei polsi, si assicurò che l’arco fosse posizionato bene e strinse
la cintura, cui erano legate le frecce. Si alzò in piedi e iniziò ad
arrampicarsi piano, facendo molta attenzione agli appoggi. I mattoni
facevano odore di muffa e terra e l’umidità rendeva tutto più scivoloso.
Le strette finestrelle vicino a lei erano buie e sperò che non fossero quelle
della camera da letto. Le superò con cautela e vide che gli ultimi mattoni
erano dannatamente lisci. Si sposò sullo spigolo della costruzione, troppo
vicino alla luce della torcia, troppo a rischio di proiettare la sua ombra
nei dintorni. Trovò un paio di appoggi e si issò velocemente verso l’alto,
raggiungendo la zona di avvistamento e saltando all’interno. Il mondo
fuori dalla città era un grigio muoversi di nebbia bassa ed erba che
frusciava al vento. Si immaginò i nemici, che scivolavano piano attorno
alla città e la fila di arcieri appostati sulle mura, pronti ad accoglierli.
Quante battaglie avevano visto quelle mura? Quante frecce erano volate
leggere da lassù configgendosi nel petto di soldati poco accorti? Quanti
cavalieri erano stati bloccati e ricacciati indietro, sconfitti? Alcuni uccelli
partirono in volo dal un grande albero vicino, facendola sobbalzare. Tremò
e sfilò l’arco, poi slegò un paio di frecce: doveva fare in fretta, ma quella
maledetta nebbia non accennava ad alzarsi. Scrutò in basso e vide la
sagoma del ponte di legno, confusa nell’umidità. Doveva lanciare, prima
che qualcuno iniziasse a muoversi nella rocca. Sospirò e alzò l’arco,
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tendendolo piano, testandolo. Prese una freccia e la infilò, poi tese le
braccia. Tremarono per un attimo, poi il suo sguardo frugò nella nebbia,
la sua mente calcolò la distanza, mentre la sua pelle percepiva il vento
lieve e ne valutava la portanza. Il braccio si tese fino in fondo, poi la
freccia partì, fluttuando sicura nell’aria. Si sentì un colpo secco e la sua
bocca si increspò in un lieve sorriso.
“Ottimo tiro”, nel silenzio, una voce cupa risuonò dietro di lei che si
voltò tremando.
Una sagoma enorme si stagliava nella fioca luce. Eccolo, il Boia era
davanti a lei. Infilò l’arco a tracolla e strinse la sua freccia nella mano in
silenzio, spostandosi piano verso il muretto laterale.
“Dove credi di andare, giovanotto?” chiese la voce.
Lei si voltò velocemente ma una grande mano le afferrò la giubba. Sentì
il suo sangue gelarsi e il suo cuore battere all’impazzata.
“Chi ti ha mandato?” chiese la voce profonda, vicinissima a lei.
“Nessuno” rispose lei con filo di voce.
“Non mentire, ragazzo. Nessuno viene mai quaggiù. Voltati e guardami
in faccia”
Lei deglutì e si voltò verso l’uomo. “Per favore non uccidetemi con la
vostra scure. Nessuno mi ha mandato, sono qui per una sfida” rispose
imitando la voce di un ragazzo.
L’uomo rise sonoramente. “Non ho mai ucciso nessuno con una scure,
chi credi che io sia?”
Lei tremò. “Si dice che questa rocca sia abitata dal Boia” sussurrò piano,
come se la parola stessa potesse valere una condanna.
Il volto dell’uomo si trasformò in ghigno. “E dunque tu sfideresti il Boia
in persona?”
“Hanno detto che chi fosse riuscito ad infilare da qui la sua freccia nel
primo legno del ponticello dalla torre avrebbe avuto diritto di entrare alla
scuola del Bardo” disse lei con un filo di voce.
“Tu non entrerai mai in quella scuola” decretò l’uomo lasciando andare
la sua giacca.
“E perché?” lo sfidò lei, nonostante la paura le facesse tremare le gambe.
“Perché sei una ragazza” rispose lui incrociando le braccia.
Lei rimase in silenzio ad osservare l’uomo, alto e muscoloso, con in volto
un sorriso beffardo.
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Dare vita agli anni –2016
“Magari il Bardo non la pensa come voi” gli disse, scossa dalla rabbia.
Il tiro era stato fatto, la sua freccia era infilata nel legno, nonostante la
poca luce, nonostante la nebbia. Il sorriso dell’uomo di allargò e lui
allungò il suo braccio.
“Dammi il tuo arco” le disse.
Lei strinse la mano attorno ad esso. “L’arco non si cede a nessuno. È la
prima regola di un arciere.”
L’uomo la osservò con attenzione e lei vide un lampo nei suoi occhi.
“Se io fossi il Bardo me lo daresti?”
“Se voi foste il Bardo vi darei il mio arco e le mie frecce” rispose lei.
“Allora dammelo ed io ti dimostrerò che quanto ti hanno detto a mio
riguardo è falso e ciò che io affermo è vero.”
Lei esitò. Il Bardo per tutti loro era una vera leggenda, ma lei, che
abitava nelle borgate della città bassa, non lo aveva mai visto da vicino.
Pensò che di certo se lo avesse voluto l’uomo che le stava di fronte
avrebbe potuto staccarle il braccio dal corpo e prendersi l’arco in ogni
momento. Se lo sfilò dalla spalla e lo porse all’uomo, che lo soppesò e
poi tese verso di lei l’altra mano. Lei aprì la sua mano e gli porse la
freccia. Lui la prese e si posizionò vicino al muretto che circondava la
sommità della torretta, tese l’arco un paio di volte, poi infilò la freccia.
Lei lo osservò e vide il suo volto concentrarsi, il suo naso dilatarsi, i
suoi occhi farsi due fessure sottili. La freccia partì, leggera e veloce,
fluttuando nell’aria ed andò a conficcarsi addosso a quella che lei aveva
lanciato. L’uomo rigirò in mano l’arco e la guardò.
“Gran bell’arco, a chi lo hai rubato?” le chiese.
Lei lo osservò: c’era solo un uomo capace di fare quello che lui aveva
appena fatto e quello era il Bardo. L’uomo che per tutti loro era leggenda
era lì davanti a lei e la aveva vista tirare il suo colpo migliore.
“Era di mio padre. Lo ha costruito lui. Mi è spettato di diritto”.
L’uomo le lanciò l’arco e lei lo prese al volo, stringendolo saldamente.
“Non è cosa da donne” le disse. “Tuo padre era un gran artigiano. È un
vero peccato tu non sia nata maschio” affermò voltandosi ed osservando
il ponticello.
“Il Bardo un giorno ha detto che per un arciere la potenza fisica non è
tutto” disse lei con foga.
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L’uomo si voltò verso di lei con il suo sguardo penetrante “Hai coraggio,
ragazza, ed al giorno d’oggi è un pregio raro. I rampolli che vivono nei
palazzotti là avanti non sanno cosa significhi osare”.
Il vento passò attraverso la torretta, muovendo l’aria fredda ed umida
attorno a loro e lei sentì un lungo brivido che la attraversava.
“Va’ a casa, il tuo coraggio oggi ti ha salvato la vita. Ma non dovrai fare
menzione di ciò che hai fatto né di ciò che hai visto” disse l’uomo.
Lei sbarrò gli occhi. “Vorrebbe dire aver rischiato per niente”.
L’uomo si avvicinò di un passo. “Volevi conoscere il Bardo? Lo hai
fatto. Hai scalato la rocca ed hai messo a segno la tua freccia. Ciò che
volevi fare lo hai fatto. Ma nessuno dovrà sapere che hai violato questo
posto e sei tornata a casa viva. Se dirai qualcosa conoscerai la mia ira.
Ora scendi da dove sei venuta e vattene in silenzio”.
Lei tremò, ma non sapeva se fosse più grande la rabbia o la paura. Mise
l’arco a tracolla, si appoggiò sul muretto, sporse i piedi verso il vuoto e
cercò un appoggio, scendendo lentamente lungo la parete, con attenzione.
Quando giunse a terra vide una freccia partire dall’alto e piantarsi su un
albero davanti a lei. La osservò e vide che vi era legato un foglio. Lo
slegò e lo aprì.
“Non potrai mai entrare alla scuola del Bardo. Queste mura saranno il tuo
campo di allenamento. Se ne hai il coraggio ritorna stasera e vedremo di
cosa sei capace”.
Lei sorrise e guardò verso la torre, mentre un’ombra si muoveva leggera
in cima ad essa e spariva nel nulla. Corse veloce lungo lo stradello di
ghiaia, mentre il suo cuore batteva forte dentro la giubba, sotto la tasca
dove aveva riposto il messaggio. Nessuno avrebbe saputo, ma non le
importava: la sfida era stata colta ed ora nessuna ombra la avrebbe più
fermata. Si voltò un’ultima volta e vide la torre che tutti chiamavano la
Casa del Boia delinearsi chiaramente sul percorso delle mura. Nulla era
davvero come le era sembrato, ma per quanto le riguardava la leggenda
avrebbe continuato ad esistere, là dove la città lasciava il posto al
silenzio.
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Dare vita agli anni –2016
III CLASSIFICATO
L’ORA DELLA COSCIENZA ALLA FINE
DEL TEMPO INCOSCIENTE
Gianluca Alberti
Motivazione: Avvertiamo, in questo racconto, tutte le vibrazioni ed emozioni
evocative di un passato non ancora chiuso. Sotto la forma di lettera, l’autore
rivive con palpabile immedesimazione quello che rimarrà, forse, il tempo
migliore della sua vita.
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Dare vita agli anni –2016
L’ORA DELLA COSCIENZA ALLA FINE
DEL TEMPO INCOSCIENTE
Gianluca Alberti
«Quando ci si chiede se si è felici,
in quel momento si smette di esserlo»
(John Stuart Mill)
Cara ... eccomi qui. Ancora qui che scrivo, ancora rivolgendomi a te. Ti
ricordi? Quanto tempo ho passato nel rivolgermi a te? Tempo, questo,
passato invano, forse, ora che è andato. E tu con lui. Anzi, ancor prima
di lui. Ma ti ricordi di quello, invece, speso insieme? Tu spesso mi hai
ripetuto, poi, che fu futile anche quel tempo che ci ha visto solo così
come eravamo, incoscienti, a sprecare il tempo della nostra vita
migliore. Possibile che non abbiamo fatto altro, così come eravamo, alle
prese l’un dell’altro, se non ammazzare il tempo che ci era dato? Era
davvero forse già esso morto, perché privo di un senso? Davvero è così
inutile un tempo dove non si segue nessuna direzione, ma
semplicemente si sta, tanto per stare, come fermi in mezzo ad una
piazza, in un’ora meridiana, ad altre ore meridiane uguale? È stato
davvero un tempo senza consistenza, soltanto perso vanamente, il
nostro? Eppure tu ridevi, eppure ti vedevo ridere, e ridevo. Ricordo la
sensazione del mio cuore che rideva, allegro, delle tue risa allegre, dei
tuoi occhi lucenti d'allegria. Quanto, ah, ho gustato di quel mio gioire
per quella tua ebbra gioia vitale! Allora, non davo un nome
all'ammirazione che provavo per questa nostra vita, sorridente,
felicemente sussurrante di entusiasmo, contentezza, per il nostro volerci
e volerci così, a giocare, rincorrerci, tra sedie in cucina, o dal divano
della sala fino al letto delle nostre più caste passioni. Né mai mi chiesi
quale nome avrei potuto dare a quel tuo ridere effervescente. Ai miei
occhi, noi, così come eravamo, incoscienti, sembravamo felici. Ma ci
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Dare vita agli anni –2016
può essere una felicità senza nome? Davvero si è felici quando non si
ha coscienza di esserlo? Davvero c’è bisogno di capire il tempo che si
vive per una piena felicità? Davvero la consapevolezza è necessaria al
tempo della gioia? Oppure, forse, proprio questo è il segreto di tale
tempo, che non si possa proprio chiedere conto a se stessi di quei
momenti spensierati, vissuti a respirare a pieni polmoni l'aria fresca di
una vita ad alta quota, mentre la si sta vivendo, quella vita là! Forse
proprio per questo, quando ci si rende conto di essere stati felici, ormai
è troppo tardi. Ormai si è fuori da quel tempo che ci ha visto solo così
come eravamo, incoscienti, a sprecare il tempo della nostra vita
migliore, ad essere felici e null'altro. Fu così che tu, un giorno, smettesti
di ridere e iniziasti a chiedermene il conto. Il conto di quel tempo
andato, di quel tempo ormai lontano nel nostro passato. Purtroppo, per
quanto bravi si possa essere nel tirare le somme, i conti non tornano mai
alla fine del calcolo. Si sarebbe potuto dire ... si sarebbe potuto fare ... si
sarebbe potuto cambiare il mondo o anche solo realizzare qualche
sogno, magari di quelli nostri stravaganti, che in quel tempo tanto ci
facevano ridere. Il tempo di sognare, però, è ormai finito, così come
quello, andato, di ridere, senza nome, senza senso alcuno. Tempo ormai
che non c’è più, quello del tuo ridere. Sì, del tuo! Perché io non avrei
smesso, mi bastava quello, mi bastava vederti ridere, per essere felice e
ridere a mia volta, anche senza saperne il perché, anche senza un senso,
un benedetto senso, magari unico, nel quale indirizzare tutto il nostro
vivere! Invece, tu non tollerasti più questo nostro procedere a zonzo, a
vuoto, come iniziasti a dire. Un procedere che basti a sé, che va avanti
lo stesso, seppur lasciando il mondo com'è, lo stesso di prima, di
adesso, di sempre. Sentisti il bisogno di cambiarlo, almeno il tuo di
mondo, e per questo te ne andasti. Un giorno te ne andasti, cambiando il
mio, di mondo. Se ora sono qui che scrivo, è per dare un nome a quel
tempo speso, a ridere senza alcun senso, alcuno senso di marcia. Forse,
ora è il momento per trovarcene uno, o almeno un alcunché che mi
faccia intendere cosa esso abbia significato per me. È giunta l'ora della
coscienza alla fine del tempo incosciente. Perché ormai è tardi, ormai
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Dare vita agli anni –2016
non potrà più tornare un tempo come quel tempo che ci ha visto solo
così come eravamo, incoscienti, a sprecare il tempo della nostra vita
migliore.
Comunque, quello rimarrà sempre il tempo, della mia vita, il migliore.
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Dare vita agli anni –2016
SEGNALATO
I DUE ORFANELLI
Stefania Zaccheroni
Motivazione: Una storia quotidiana è narrata con una profonda e
coinvolgente carica affettiva. La definizione dei personaggi, la forma espressiva
piana e chiara, i particolari eloquenti, la sensibilità della vicenda generano
intense emozioni.
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Dare vita agli anni –2016
I DUE ORFANELLI
Stefania Zaccheroni
Di solito la parola orfano, “orphanós” in greco antico, ci ricorda celebri
orfani della letteratura, come Oliver Twist, David Copperfield, Tom
Sawyer o il più recente Harry Potter, oppure qualche bambino, che ha
perduto uno o entrambi i genitori.
Io, invece, sto parlando di due orfani, rispettivamente di 93 e 87 anni, che
hanno perso il padre e la madre molti anni fa, ma, grazie a me, il loro
stato di “orfanitudine” (spero che l’Accademia della Crusca, dopo
petaloso, accetti anche questo termine) è riaffiorato in tutta la sua
drammaticità.
I miei genitori, infatti, dopo gli ottanta, sono diventati i miei figli.
Io sono quasi sempre presente, ma appena mi concedo una vacanza, una
gita, un viaggio, una permanenza montana o marina, scatta in loro il
senso dell’abbandono.
Lo spazioso appartamento, luminoso, pulito, caldo ed accogliente si
trasforma allora nel più squallido, triste e deprimente orfanotrofio!
Vengo così raggiunta ovunque! A San Pietroburgo, ad esempio, davanti al
famosissimo ed imperdibile Hermitage, ho dovuto fermarmi sulla
trafficatissima strada che corre lungo il fiume Neva e separarmi dal
gruppo per dirimere un loro litigio, perché mio babbo dopo 66 anni di
matrimonio persevera nel non voler assaggiare un risotto e nel
pretendere, invece, ogni giorno, pasta fresca, fatta in casa, condita sempre
con il classico ragù di carne, che spande il suo profumo per tutta la scala
del condominio.
In Scozia, invece, sulle rive del misterioso Lockness, mentre gli altri
turisti si godevano l'atmosfera delle Highlands e il magico e incantato
paesaggio del lago, io dovevo ascoltare le tristi vicende di una loro amica
coetanea, che il giorno prima aveva versato calde lacrime per il mutismo
della nuora, che da anni rifiuta di conversare con lei e si limita ad un
breve saluto di circostanza tutte le volte in cui la incontra. In
quell'occasione confesso di aver sperato che il mostro emergesse dalle
acque e con un repentino colpo di coda si impossessasse del mio
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Dare vita agli anni –2016
cellulare, e quindi una forza maggiore ed imprevedibile ponesse fine alla
telefonata.
Fra l’altro, affinché l’abbandono abbia conseguenze meno funeste,
quando la mia assenza raggiunge i fatidici otto giorni dei viaggi
organizzati, le giornate precedenti sono occupate da frenetici preparativi
che avrebbero fatto desistere anche Marco Polo dall’avventurarsi nel
lontano Oriente e “Il Milione” avrebbe, ora, solo un significato
pecuniario.
A novant’anni ogni cambiamento è fonte di preoccupazione e di disagio,
per cui tutto deve rimanere inalterato, partendo dai cosiddetti beni di
prima necessità, il pane per esempio.
Per mio babbo esiste solo il pane “della Lara”, che non ha niente a che
fare con la seduttiva amante del dottor Zivago, ma è il nome di una
gentile e sorridente fornaia del paese natale e di residenza dei due
orfanelli.
Ebbene, prima della mia partenza, prima del fatale distacco, chili di pane
vengono acquistati, affettati, sistemati poi in vari sacchetti e
rigorosamente congelati, perché proverbialmente “le disgrazie non
vengono mai sole”, per cui l'abbandono potrebbe essere seguito da
catastrofi climatiche e cataclismi naturali che impedirebbero
l'approvvigionamento giornaliero di viveri come latte, carne, vino e
soprattutto pane!
Mentre le preoccupazioni di Omero sono solo mangerecce, quelle di
Augusta riguardano in particolare il campo della medicina.
Si suppone che, nei fatidici sette giorni di assenza, non possano esaurirsi
confezioni da trenta compresse, fra l'altro già stipate e pronte all'uso nel
cassetto del comodino, ma l'ordine da eseguire è perentorio ed è quello di
far prescrivere dal medico di base, di nuovo, tutte le medicine assunte,
“per non rimanere senza, quando non ci sei”, precisa mia mamma con
voce malinconica ed espressione da lutto, che farebbe sentire in colpa
anche il più egoista e ingrato dei figli.
Apriamo ora il capitolo “Finta badante”.
Per essere più tranquilla, in occasione delle mie assenze, ho preso accordi
con Concetta, un’amica d’infanzia che è una delle poche badanti italiane
del paese. È allegra, ciarliera ed efficiente, conosce bene i miei genitori
ed ha capito perfettamente la situazione.
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Dare vita agli anni –2016
Finge di andare semplicemente in visita, controlla la pressione,
l'assunzione dei farmaci e trascorre un po' di tempo con loro, raccontando
qualche vicenda cittadina o, a sua volta, ascoltando racconti nostalgici di
ricordi giovanili, di famiglia o di lavoro.
Al mio ritorno Concetta computa le ore trascorse presso gli orfanelli ed
io, a loro insaputa, saldo il conto.
Tutto questo fino a poco tempo fa, perché ultimamente Concetta rifiuta il
suo onorario. È molto onesta, mi ha affrontato e mi ha descritto
minuziosamente la situazione.
Quando va in “visita”, le sono talmente grati che la attendono con tè,
caffè, biscotti, cioccolatini, zuppa inglese e se è ora di pranzo o cena, le
fanno anche qualche cotoletta o polpette al sugo, un piatto di polenta alla
salsiccia o “due” tagliatelle, da portare a casa, perché “con tutti quei
vecchi che ha da badare non può avere tempo anche di cucinare, quindi
l'aiutiamo noi”.
A tutto questo si aggiunge anche la piena disponibilità a cucirle qualcosa
(erano entrambi sarti!): un orlo ad una gonna o ad un paio di pantaloni,
sostituire una cerniera, una piccola riparazione in una giacca o addirittura
in un cappotto.
Concetta non si sente più badante, ma le sembra di essere in famiglia e un
tale trattamento di spontaneo calore e di sincero affetto, che non ha
prezzo in un mondo egoista ed individualista come quello che purtroppo
ci circonda, la fa sentire debitrice e far loro visita è un modo per ripagare
tanta tenerezza.
I miei amatissimi orfanelli non sono quindi mai lasciati soli e, anche se
qualche volta “la mamma” si allontana, li porta sempre con sé nel proprio
cuore e non potrebbe mai dimenticarli, infatti il cellulare sta già
squillando … sono loro!
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Dare vita agli anni –2016
Commissione giudicatrice:
Sezione “Poesia”
Davide Argnani
Cesarina Lucca
Rosanna Ricci
Viola Talentoni
Graziella Valentini
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Dare vita agli anni –2016
I CLASSIFICATO
COME CAMBIANO I COLORI
Bruno Centomo
Motivazione: Sono versi di grande ricchezza immaginativa, accompagnati da
scorrevolezza nel lessico a testimonianza di un tono sicuro e forte. Sono ricordi
legati a ciò che è stato già vissuto e a ciò che rimane da vivere; il tutto è
analizzato con partecipazione, placando le paure del passato ma senza mai
dimenticarne il respiro.
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Dare vita agli anni –2016
COME CAMBIANO I COLORI
Bruno Centomo
È un refolo di vento che disarma il mio ricordo,
in un’ora della notte, qui sotto finestre fuggiasche
all’agguato del più piccolo pensiero che s’affaccia,
come foglia morta, a coprire un addio, un bacio frettoloso.
Un viaggio d’inverno cominciava, sotto stelle
che si indovinavano uguali dall’altra parte del mondo,
oltre le ragnatele che adesso inghiottono la casa,
nascondono la memoria effimera delle cose.
Com’erano? Il colore, gli odori che trattenevano.
Parevano giorni da percorrere. Oggi si rincorrono
le stesse miserie ritrovate per essere rammendate con cura.
A cosa ripensare? Giochi, rumori, bambini che gridavano,
vecchi che brontolavano, polente che si rovesciavano
sopra lorde tavole gremite di mani, d’occhi, di speranze.
Galline stantie che razzolavano nelle aie polverose,
gatti che si rivoltavano al sole, il cane che abbaiava
a farfalle e alle ombre sopraffanti della cataratta.
Ritornare ha significato ricucire la pazienza,
graffiare via le paure, assolvere questa povertà,
respirando il parabordo impreciso del perdono.
Guarda adesso. Come cambiano i colori,
come passato e presente s’affollino di tenebre
e sedie spagliate e vetri frantumati e muri sgretolati
si nascondano in un macramè di lacrime
che da troppo aspettavano.
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Dare vita agli anni –2016
II CLASSIFICATO
EX AEQUO
ENTUSIASMO DI MADRE
Giuseppe Mandia
Motivazione: La poesia è completamente dedicata all’amore di una madre in
tutte le sue sfaccettature. Attraverso una narrazione lucida, evocativa e pervasa
da una tensione costante, l’anima grida non soltanto il dolore e la solitudine,
ma anche la bellezza dell'amore che sa donare e ricevere.
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Dare vita agli anni –2016
ENTUSIASMO DI MADRE
Giuseppe Mandia
Non hai smarrito la regola del sorriso
né consegnato le tue pupille minime agli anni
mamma che scopri le pagine della vita
con un diaframma ancora appassionato.
Ti ho chiesto dei giorni andati, mi hai detto che è bene
immaginare un quadro immerso nel colore
o stupirsi per le acrobazie di un gabbiano
non raccontare di bombe e strazi e povertà gratuite.
Positivo è il tuo angolo d’osservazione,
luce vivace che mi induce a viaggiare con te
tra le immagini di brevi paesaggi intirizziti,
canzoni lente o piatti di pane e zuppe d’altri tempi.
Aperto è sempre il mattino dei tuoi occhi
che non vogliono smettere d’insegnarmi
l’allegria che meritano il dono di un’alba nuova,
il gioco del salto del sole in un lago al tramonto.
Diorama di sguardi buoni poni
nelle mie mani anche se sai che per
molti e molti giorni saranno approdi lontani.
Gioiosa la speranza colora le tue guance
mentre mi affidi un’altra carezza. Si schiude
una rosa multicolore. Entusiasmo di madre.
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Dare vita agli anni –2016
II CLASSIFICATO
EX AEQUO
ECHI DAL PASSATO
Irene Ricci
Motivazione: L’autrice testimonia, con parole vissute e sofferte, i ricordi e
l’ebbrezza del passato. Il continuo susseguirsi di immagini di straordinaria
densità rende la poesia struggente e luminosa al tempo stesso.
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Dare vita agli anni –2016
ECHI DAL PASSATO
Irene Ricci
Vi è un’aria sacrale al tramonto
Quando suonano le campane,
Disegnando echi nell’aria
Come tonfi di pietra sull’acqua.
Cigolava l’altalena
Nel cortile di S. Lucia,
Tra il vociare dei bambini
E i rintocchi dei biliardi.
Ricordi?
Danzavano le rondini
Intorno al campanile,
Neri voli, ebbri di primavera.
In piedi sull’altalena,
Volavo in alto,
Sempre più in alto,
Rondine anch’io
… Poi, la voce di mia madre
Per la cena.
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Dare vita agli anni –2016
III CLASSIFICATO
LA MIA ETÀ
Manuela Monti
Motivazione: Il tema, profondamente partecipato, è quello dell'età e dello
scorrere della vita. In un serrato confronto tra passato e presente, alla
nostalgia per gli anni della gioventù si contrappone la coscienza di una
raggiunta maturità riflessiva.
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Dare vita agli anni –2016
LA MIA ETÀ
Manuela Monti
Se dovessi descrivere i miei cinquant’anni
direi che sono gli anni delle prime rughe,
gli anni di quei piccoli cedimenti fisici.
Se dovessi descrivere i miei cinquant’anni
direi che sono gli anni della nostalgia,
gli anni dei bilanci e dei cambiamenti.
Se dovessi descrivere i miei cinquant’anni
direi che sono gli anni della malinconia,
gli anni dei ricordi felici di gioventù.
Se dovessi dare valore e vita a questi anni
apprezzerei la vera e grande libertà
dopo anni di vorticosi impegni familiari.
Se dovessi dare valore e vita a questi anni
mi fermerei ad osservare il tramonto,
il volo fantasioso di un bianco gabbiano,
una quercia dai rami protesi verso il cielo.
Se dovessi dare valore e vita a questi anni
riscoprirei le amicizie e gli affetti più veri.
Se dovessi dare valore e vita a questi anni
cercherei di essere di aiuto a chi è vicino,
e ammirerei la bellezza e la fantasia
di questa età della vita.
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SEGNALATO
LE PAROLE CHE NON SO DIRE
(o canto di un ragazzo autistico)
Stefano Baldini
Motivazione: Il testo si compone di intense emozioni che spaziano dalla
nostalgia allo sconforto, dalla speranza alla delusione, dalla paura al coraggio.
Un viaggio quindi faticoso verso la scoperta del proprio io, della propria
diversità, delle proprie emozioni, delle parole non dette e del grande mistero
della vita.
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Dare vita agli anni –2016
LE PAROLE CHE NON SO DIRE
(o canto di un ragazzo autistico)
Stefano Baldini
Ogni notte io sogno di essere un pesce qualunque
per nascondermi nell’immensa profondità del mare
fino a dove si possa imitare il canto delle balene.
Da quando le fate mi hanno generato
un minuto prima della mezzanotte
il mio mondo è rimasto quel fermo immagine di silenzio
che mi fa rimanere sospeso dentro una bolla di sapone
un tempo, un luogo, una pianura sconfinata
che io solo conosco incapace di contenere
tutte quelle parole che non so dire
una stanza deserta dove ogni giorno
mi sorprendo a rimettere in ordine
una sintesi di gesti e ali frantumati
dai miei atti furibondi all’apparenza distanti.
Se il mio sguardo scende altrove
come l’orma eclissata di un abbraccio immaginato
a fissare le cose in fondo all’infinito
è perché io non so tendere la mano ad ascoltare
questo mio silenzio e camminarvi accanto come
una mollica d’aria per mano al vento.
Lo so, per voi non sarò mai completamente adulto
mi considerate un errore di ortografia lunare
fra le righe del cielo, una parola intraducibile
del vostro dizionario
solo perché siete così complicati da non saper distinguere
nell’inerzia delle mie labbra ingenuamente esposte agli altri
la sottile bellezza delle parole senza voce celate
dalla mia diversità quando, senza veli né bugie,
nelle immense profondità oceaniche dell’anima
mi sforzo ogni notte di sognare il canto delle balene.
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Dare vita agli anni –2016
SEGNALATO
INCIAMPO
Daniela Cortesi
Motivazione: Nei versi traspare sempre la luce di un varco e tutto diviene
desiderio e spinta verso la visione positiva della vita, poiché tutto è poesia,
basta saperla riconoscere.
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Dare vita agli anni –2016
INCIAMPO
Daniela Cortesi
La poesia è nei giorni
dove tutto accade per amore
e lo sguardo si perde in controluce,
da zolla a zolla,
sui fili tessuti da ragni sapienti.
L’inciampo delle ore non conta.
Contano le parole sussurrate alla Terra
ancora sofferente di aratura
ma già pronta a perdonare uomini, ragni e poeti.
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Dare vita agli anni –2016
Ringraziamenti
Si ringrazia il Comune di Forlì per il Patrocinio e per la gentile
concessione della Sala Santa Caterina.
Si ringraziano i componenti della Giuria.
Si ringraziano i partecipanti al Concorso.
Si ringraziano Paola Contini e Annamaria Cortini.
Un affettuoso ricordo, infine, all’ideatore del Concorso letterario
“Dare vita agli anni”, Mario Vespignani.
Maggio 2016
La Curatrice del Concorso
Flavia Bugani
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Dare vita agli anni –2016
forlì
XXVI Concorso Letterario
“Dare vita agli anni”
L’Associazione, iscritta al registro regionale del Volontariato, opera
prevalentemente con e per gli anziani – o, meglio – diversamente
giovani.
Promuove, nell’ambito della cultura, l’incontro fra generazioni,
affinché l’anziano possa esprimere nella società le sue conoscenze e
capacità a favore del prossimo.
L’Auser è una “Associazione di Progetto” tesa alla valorizzazione
delle persone e delle loro relazioni ed è ispirata ai principi di equità
sociale e di rispetto delle differenze, di tutela dei diritti, di sviluppo delle
opportunità e dei beni comuni.
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Stampato in proprio
Maggio 2016
c/o Digicopy Forlì