numero 7 anno VII – 18 febbraio 2015

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PIAZZA XXIV MAGGIO. UNA PIAZZA “MILANESE”. PECCATO
Luca Beltrami Gadola
Tra qualche tempo, almeno per
l’apertura di Expo, sia la Darsena
sia Piazza XXIV Maggio dovrebbero
essere sistemate ma anche oggi,
incomplete, meritano alcune considerazioni, soprattutto per quel che
riguarda la piazza. Come molte vicende milanesi anche questa parte
da lontano, da un concorso internazionale bandito dal Comune di Milano nel 2004 che ha visto vincitori un
raggruppamento composto dall’architetto Paolo Rizzato, l’architetto
Sandro Rossi, la società Bodin et
Associés, la società d’Appolonia
S.p.A. e la società Manens Intertecnica S.r.l, al quale è stato dato
l’incarico per la redazione dei progetti preliminare, definitivo ed esecutivo.
Ci sono voluti otto anni per arrivare
all’approvazione del progetto esecutivo e solo nell’agosto 2013 i lavori
sono cominciati e il progetto è stato
preso in carico da Società Expo
2015. Perché questo lunga premessa? Perché nove anni sono molti
nella realtà di oggi e molte cose sono cambiate nella società milanese
e soprattutto nella sua percezione
della vita cittadina, nei suoi aspetti
di uso degli spazi aperti e dei rapporti tra pedoni, mezzi privati e
mezzi pubblici.
La giuria era senz’altro competente
e non voglio qui esprimere giudizi
sul progetto vincitore che non finisce però di piacermi, soprattutto per
la parte che riguarda il mercato coperto; così come non capisco perché si sia mantenuto e addirittura
ampliato il chiosco della pescheria,
esterno rispetto al mercato comunale: un mero ossequio a diritti acquisiti, la palla al piede del nostro Paese.
Ma di tutto l’insieme la parte meno
convincente è proprio la sistemazione della Piazza XXIV Maggio nella parte verso Corso San Gottardo.
Il bando stesso del concorso e di
conseguenza tutti i partecipanti
hanno guardato verso la Darsena e
i caselli daziari e la Conca del Naviglio con un atteggiamento tipicamente duomocentrico, senza prestare grande attenzione a quella
parte di piazza che volge le spalle
alla Darsena e guarda verso la periferia. Basta osservare i rendering
del concorso pubblicati dall’Ordine
degli Architetti o quelli di Società
Expo SPA o del Comune per rendersene conto. Il nodo da sciogliere
era, ed è, tipicamente milanese. Noi
chiamiamo “piazze” nella maggior
parte dei casi spazi destinati a essere solo svincoli di traffico: il problema di oggi è proprio farne invece
delle piazze.
La soluzione proposta per Piazza
XXIV Maggio è stata invece di accentuarne questo carattere di svincolo: corsie per il traffico su gomma
e corsie per i mezzi dell’Atm limitati
da alti cordoli e passaggi pedonali,
aiuole dalle forme stravaganti e funzionali più al traffico che al paesaggio verde.
Mancano dunque tutte le caratteristiche della piazza: la complanarità
della superficie, la mancanza di ostacoli per una libera circolazione
pedonale, l’omogeneità della pavimentazione, un arredo urbano (pali,
segnaletica, inserti vari) disegnato
anche nel dettaglio e non casuale,
un verde pensato in quanto tale e
l’attenzione alle attività commerciali
che si affacciano sotto i portici.
Anticipo, perché le immagino e le
conosco, le obiezioni: Piazza XXIV
Maggio ha comunque un problema
di transito di flussi veicolari che va
regolato. Si tratta invece di scegliere
una gerarchia tra veicoli e pedoni e
qualità della vita di questi ultimi.
Non siamo la sola città al mondo
che si è trovata ad affrontare questo
problema e di solito altrove si è privilegiato il pedone e lo si poteva fare anche qui, cominciando a istituire
una “Zona 30” (meglio una “Zona
20”) e dando la precedenza ai pedoni in questa parte della piazza,
delimitando le corsie solo con dei
segni superficiali sulla pavimentazione come le righe gialle e le righe
blu. Si poteva fare e non si è fatto,
ormai è tardi e non mi si dica che
sarebbe stato un sogno non vedere
le auto parcheggiate ovunque:
l’arroganza e la disubbidienza degli
automobilisti va vinta, la vita va migliorata.
Siamo la città europea leader per
diffusione di interdittori del parcheggio selvaggio, catenelle, archetti e
panettoncini. (Perché nessuno parcheggia sul sagrato del Duomo che
pure è accessibilissimo?). Quel che
si può ancora fare è risistemare
l’arredo urbano come scelte, come
posizione, come finiture, come progetto. Oggi, per quel che si vede,
Piazza XXIV Maggio è all’insegna
del mal fatto, della folle sovrapposizione di competenze, dello spreco
d’inutili cordoli monumentali, di selva di pali, alcuni verde ramarro altri
grigi, collocati a caso e con una varietà di pavimentazioni che ricordano la giubba di Arlecchino. Si è persa una bella occasione: dopo otto
anni di dibattiti e scontri culturali e
politici si arriva a una realtà che nega qualsiasi tentativo di cambio di
passo nell’arredo urbano.
CONTA DAVVERO IL NOME DEL NUOVO SINDACO DI MILANO?
Emanuele Telesca
La scadenza elettorale della primavera 2016 già sta fomentando una
ridda di voci e commenti. La questione più dibattuta è la necessità o
meno di una ricandidatura del sindaco Pisapia, dando per scontata
una vittoria della compagine di centrosinistra che ha amministrato Milano dal 2011. Una premessa
nient’affatto ovvia considerando che
in un anno, in politica, può accadere
di tutto e il contrario di tutto.
Ciò detto, non ritengo che il fulcro
del discorso stia nel nome di chi
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guiderà la coalizione di centrosinistra. La vittoria di Giuliano Pisapia
alle primarie del 2010 fu una vera
sorpresa politica, che scosse il PD e
la sinistra meneghina e lombarda.
Una vittoria figlia del desiderio di
ribaltare completamente la prospettiva morattiana, di portare la città a
sinistra dopo anni di destre, di mettere al centro temi quale la partecipazione, l’ecologismo, la sostenibilità. Il tutto inserito in un contesto nazionale di svolta “arancione”, di berlusconismo già in fase discendente,
di crisi economica che avrebbe portato a fine 2011 al governo tecnico
di Monti.
Oggi il panorama è stravolto. La città di Milano nel 2016 dovrà fare i
conti con le vestigia di Expo, con
una prospettiva di crescita ancora
figlia del PGT della giunta Moratti,
con la spinta di entrare con la testa
nel XXI secolo. A Roma il PD di
Renzi porta avanti le sue riforme,
con riflessi imprevedibili sui candidati locali. La spinta antiberlusconiana si è esaurita, sostituita dalla
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spinta antirenziana delle opposizioni.
Ecco che saranno i contenuti a far
la differenza, non il leader che ne
impersonerà slogan e utopie. La
carne al fuoco certo non manca. Innanzitutto come si intende gestire il
dopo Expo: problema che non riguarda esclusivamente gli spazi della fiera, ma che si riferisce a tutti i
cantieri che occuperanno Milano nei
prossimi anni a partire dalla M4.
L’esposizione universale avrà un
peso specifico notevole nella battaglia elettorale. Ereditata da Pisapia,
è stata governata e portata avanti
tra avvisi di garanzia, proteste di
una parte della cittadinanza ed investimenti altalenanti. Se Expo non
dovesse rivelarsi un successo sarebbe un boomerang difficile da
schivare per il candidato di centrosinistra.
La necessità, poi, di un nuovo PGT
per Milano. Quello varato dal centrodestra nel 2010 aveva una impostazione vecchia, incardinato sullo
sviluppo e la crescita immobiliare,
credendo che la crisi già accesasi
negli USA non sbarcasse mai sulle
coste nazionali. Oggi la filosofia deve essere stravolta: efficienza ambientale, recupero e ristrutturazione
dei vecchi edifici, estensione delle
aree verdi, prolungamento e raccordo delle piste ciclabili, ampliamento
dell’Area C. La coalizione di centrosinistra, già oggi, ha il dovere di
proporre il proprio progetto di città
del futuro sul quale giocare la propria partita nelle elezioni amministrative del prossimo anno.
Infine l’impegno costante per un capoluogo accogliente, multietnico,
multicentrico, in cui la cultura sia un
bene diffuso. In tal senso bisognerà
tenere duro nel progetto di asse-
gnazione di diverse aree per la realizzazione di luoghi di culto: sarà,
questo, una clava che la coalizione
di centrodestra menerà per aria,
giocando sulle paure e sull’ignoranza. Una tattica che nel 2011 fallì
miseramente, ma che difficilmente
verrà abbandonata.
Davvero, quindi, la questione chiave
è Pisapia o non Pisapia? Ridiamo
centralità al progetto politico, alla
visione della metropoli, al coraggio
di scelte chiare che guardino al
prossimo quinquennio. Una costruzione così solida e strutturata da far
passare come secondario il nome
del candidato sindaco. Se poi l’attuale sindaco di Milano decidesse di
ricandidarsi sarebbe un ulteriore valore aggiunto: l’esperienza del primo
mandato potrebbe evitare di cascare in qualche trappola e in grossolani errori.
PISAPIA, I COMITATI E IL PERCORSO INIZIATO: I DILEMMI DI CHI ATTENDE
Eleonora Poli
Sentirsi a metà strada. Tra chi “si è
fatto tutto il possibile, meglio di così
non si poteva” e chi “la Giunta arancione non è stata all’altezza, tutto
da buttare”. In bilico tra due estremi,
l’ottimismo cieco, quasi arrogante,
di alcuni e la polemica sterile e rabbiosa di altri. Ma una certezza fa
propendere più da una parte: per il
dopo-Pisapia è troppo presto, a Milano. Il cambiamento è appena cominciato, per quanto lento, non privo di errori e non suffragato da quella condivisione in cui si era sperato
quattro anni fa.
Settimane intense, in città, attesa e
preparazione: ma preparazione a
che cosa ancora non è dato sapere,
ed è questo che spiazza; il problema, il dubbio sulle possibili scelte,
personali e collettive, si radica nel
limbo dell’attesa. Ricandidatura o
ricerca di un nuovo candidato? Intanto si prendono le misure, innanzitutto di se stessi come cittadini: c’è
tempo, anche troppo, per domandarsi se l’impegno di un passato
che sembra lontano avesse come
obiettivo una persona o un progetto.
Insomma, se la persona non ci fosse più, il percorso iniziato esisterebbe ancora? La risposta è tutt’altro
che scontata e univoca.
In questi giorni i ComitatixMilano
tornano a riunirsi e a discutere, a
ricordare di essere stata la forza
che più di ogni altra ha contribuito,
nel 2011, all’elezione di Pisapia. Si
incontrano per contarsi, rifare il punto: non del tutto spontaneamente,
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pressati come tutti dall’impellenza
del momento, dal nuovo compito
che (forse) li attende. Eppure
quest’operazione di sintesi - ed eventuale riposizionamento - sarebbe
stata comunque necessaria, prima o
poi. Non si può trascurare che, come in ogni storia, il tempo ha scavato dei solchi e fingere di tornare
semplicemente indietro non sarebbe
d’aiuto, neppure nel caso di un analogo obiettivo da perseguire.
In quattro anni sono successe molte
cose. Le strade dei Comitati si sono
diramate sul territorio, perché in
questo era stata individuata la loro
missione, e in molti casi con ottimi
risultati. Non pochi sostengono che
senza lo stile, il metodo dei ComitatixMilano tante esperienze locali positive non avrebbero mai visto la luce, mai trovato l’energia e le condizioni per fare incontrare le persone
e convincerle a lavorare insieme su
iniziative concreti: da quelle del
gruppo che si occupa dei magazzini
raccordati di via Ferrante Aporti a
tante altre contro il gioco d’azzardo
e le ludopatie, solo per fare due esempi.
Tuttavia se i Comitati sul territorio
proseguono con successo un cammino, anche integrati con altre realtà, non sono mai diventati una forza
“politica” in grado di incidere sulla
città nel suo complesso. Scelta deliberata o doppio errore di valutazione, dei Comitati stessi e dell’amministrazione, magari persino del Sindaco? Ora non ha più importanza
appurarlo. Fatto sta che la forza che
avevano i Comitati nel 2011 si è in
larga parte dispersa. Quasi con la
paura di poter diventare, o almeno
essere scambiati per, “il partito del
Sindaco” e di godere di eventuali
privilegi nel rapporto con la Giunta, i
Comitati si sono lasciati invece trascinare nella deriva opposta che li
ha portati a restringere il loro campo
d’azione. Ci si aspettava forse, un
po’ ingenuamente, che l’associazionismo, i movimenti e i comitati stessero per diventare il vero ago della
bilancia della politica milanese, il
maggior polo aggregante; si è dovuto ammettere (più o meno apertamente) che sono ancora i partiti, diciamo il PD, a fare l’andatura.
Non si tratta adesso di contare gli
attivisti e i simpatizzanti dei ComitatixMilano, zona per zona, non è così
rilevante censire quanto siano ancora numerosi; meglio chiedersi a
quante persone, cittadini “esterni”,
riuscirebbero a parlare da oggi in
poi, quando il nodo della ricandidatura sarà sciolto. L’impresa è ardua.
Perché in una città piena di problemi, alla vigilia di un Expo controverso e con tante incertezze nel futuro,
niente viene più facile che seguire
l’onda del “tutto va male”, più difficile è contrastarla. In ogni situazione
il negativo ha visibilità maggiore e
l’istinto autodistruttivo sta in agguato, senza concedere il minimo riconoscimento ai passi avanti compiuti.
D’altra parte anche l’eccessiva ostentazione dei risultati raggiunti -
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come se non ci fosse niente da migliorare perché è tutto perfetto - e la
totale impermeabilità alle critiche,
neppure questo aiuta, rischia addirittura di innescare una reazione
contraria.
Da dove ripartire allora? Non ci sarà
mai più la piazza del 2011, non è
detto però che non potrà essercene
un’altra, di diversa bellezza: i cittadini crescono, anche i Sindaci crescono, e i progetti subiscono modifiche nel confronto con la realtà, ridimensionati o ampliati. Non è detto
che il percorso sia rettilineo. Si possono anche ammettere limiti in passato ignorati: limiti della stessa ideaguida di partecipazione e della sua
attuabilità, per esempio; in considerazione del fatto che è stata largamente travisata e strumentalizzata a
uso e consumo degli uni o degli altri, e si è toccata con mano la difficoltà di trarne benefici per il bene
comune. Non è detto che una nuova
esperienza non si possa impostare
su altri presupposti.
A questo punto però i Comitati una
cosa dovrebbero proprio pretenderla: di non essere uno strumento, un
totem per chiunque, politico di turno,
abbia bisogno di rimarcare quanto
sia stato e sarà importante il contributo della società civile; dovrebbero
pretendere di essere un soggetto
attivo che decide e valuta le modalità di un proprio possibile ma non
scontato contributo. Siamo quasi in
campagna elettorale, è vero, ma
andiamoci piano!
Una città non si cambia in uno o pochi anni, se non altro perché la
mentalità della gente non cambia
così in fretta. Estendere a molti
un’idea che è ancora di pochi: molti
cittadini sono disposti a riprovarci, in
vista del 2016, certo con una consapevolezza diversa. Non siamo più
i “volantinatori” e sbandieratori folli
sguinzagliati nei quartieri della città,
il quotidiano ha preso il posto
dell’ebbrezza, le aspettative sono
mutate, c’è chi ha avuto piccole e
grandi delusioni, subìto tradimenti,
affrontato brutte sorprese. Siamo
cambiati, tutti, non ci attendiamo più
miracoli.
Personalmente sono convinta che
anche Giuliano Pisapia - dal suo
punto di vista - potrebbe forse pro-
vare, o aver provato, qualcosa di
simile. Che come noi possa essere
veramente indeciso, se valga o non
valga la pena sottoporsi di nuovo
ogni giorno al rischio di una sconfitta anche dopo avere vinto, alla solitudine di sbagliare in ogni caso,
qualunque decisione si prenda, nella troppa visibilità mediatica o nel
silenzio, nel mostrarsi strasicuro
come nell’apparire incerto. Non deve essere facile accettare il rischio
di perdere consensi per strada, di
non essere mai davvero libero e di
trovarsi spesso a fare scelte non del
tutto volute.
Una cosa è certa, una persona senza idea e senza progetto è vuota,
ma ancora di più un progetto o programma senza una persona in cui
credere è del tutto inutile. Ripartiamo dai nostri successi e anche dai
nostri errori, senza sottovalutarli.
Ecco, io semplicemente chiederei a
Giuliano Pisapia di riprovarci, con
noi, e gli direi che ne vale la pena.
LA CONSULTA SUI 5 REFERENDUM: SUL VERDE UN GIUDIZIO SUPERFICIALE
Elena Grandi
Qualche giorno fa è stata resa pubblica la relazione della Consulta per
l’Attuazione dei 5 Referendum Ambientali. La Consulta, nominata dal
Sindaco di Milano, ha il compito di
monitorare lo stato di attuazione di
quelle richieste che i Milanesi hanno
approvato con entusiasmo e con
voto unanime e di sollecitare
l’Amministrazione a intraprendere
azioni che le possano portare a
compimento.
Personalmente, a sostegno del comitato dei referendum, ho speso
molte energie per promuoverli e in
tutta la faticosa fase di raccolta delle
firme necessarie per poterli indire; e
tuttora credo fermamente che in
quei 5 quesiti siano raccolti temi e
idee fondamentali, in grado di rendere la nostra città davvero sostenibile, accogliente, bella e vivibile.
La relazione della Consulta, molto
circostanziata (nella sua quasi totalità) e giustamente incalzante nei
confronti dell’Amministrazione cittadina, pone l’accento con riferimenti
puntuali e oggettivi su quanto è stato fatto (troppo poco) e quanto resta
da fare (molto) per l’attuazione dei
quesiti referendari: si tratta perciò di
uno strumento utile ed efficace che
andrà preso in seria considerazione
e di cui fare tesoro.
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Molte sono le questioni sollevate e
per ogni quesito sarebbe interessante (e opportuno) un confronto
aperto e costruttivo; ma oggi mi vorrei soffermare sul giudizio espresso
in merito all’attuazione del secondo
quesito referendario, quello che
chiede di raddoppiare gli alberi e il
verde pubblico e di ridurre il consumo di suolo.
Qui il giudizio della commissione è
molto negativo e, spiace dirlo, senza giustificazione: poiché non è sostenuto da dati oggettivi, presenti
invece negli altri capitoli della relazione (dati che sono, disponibili a
chiunque si prenda la briga di andare a consultare il sito del Comune e
che potevano sempre essere integrati con le informazioni provenienti
dai Settori competenti). Un giudizio,
perciò, superficiale, frettoloso e, in
sostanza, errato.
Il 14 gennaio 2015 ho scritto su
queste pagine un articolo dedicato
alla positiva metamorfosi del nostro
verde urbano. Lì parlavo di come in
questi ultimi tre anni sia cambiata
non solo la visione del verde urbano, ma anche la sua gestione; e di
come si stia incrementando e valorizzando il verde pubblico, promuovendo azioni che vanno nella direzione della tutela del verde e della
biodiversità. Con tali affermazioni
non si voleva intendere che non vi
siano tuttora gravi problemi, la cui
soluzione appare ancora lontana;
ma si prendeva atto di uno sforzo di
miglioramento che non è fatto solo
di parole vane.
Ora, se si legge quell’articolo e, subito dopo, la relazione della Consulta, non par vero che si stia parlando
della stessa città e della stessa
Amministrazione. Da una parte si
sente dire della volontà dell’Amministrazione di sviluppare, incrementare, salvaguardare il patrimonio del
verde urbano e di restituire alla città
aree e spazi oggi sottoutilizzati;
dall’altra della totale mancanza di
interventi e di progettualità in questo
campo. L’afferma-zione degli estensori della relazione, che dicono di
non avere avuto dati utili dal Comune, appare francamente poco credibile (perché mai solo in questa occasione, e proprio da parte del Comune che ha istituito questa commissione?).
Peraltro, il confronto tra l’elenco dei
temi su cui non è stato possibile avere indicazioni (aumento delle aree
verdi e delle alberature, riduzione
del consumo di suolo, preservazione delle aree verdi esistenti, interconnessione fra le aree verdi, disponibilità per abitanti di giardini
pubblici e aree attrezzate per i
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bambini ) e quello dei maggiori rischi (alberature, reimpianti, rischi di
urbanizzazione di grandi aree) è la
prova di un’analisi piuttosto superficiale, o almeno frettolosa.
Ecco comunque di seguito alcuni
numeri, che chiunque può trovare
sul sito del Comune con un po’ di
pazienza: dal 2011 al 2014 sono
stati creati 3 milioni di mq di verde
pubblico realizzato su aree sia di
proprietà comunale che privata; 7
nuovi parchi di oltre 10.000 mq di
superficie; 20.000 di mq in più dedicati agli orti urbani; 10 nuovi giardini
condivisi (alcuni dei quali di ragguardevoli dimensioni) e altri in fase
di convenzionamento; 50.000 alberi
sono stati messi a dimora (non tutti
e non sempre in sostituzione di
quelli abbattuti); in 32.000 mq di
aiuole i fiori e le piante stagionali
sono state sostituite da piante perenni (più in linea con il concetto di
biodiversità, oltre che meno costose).
Ma non si tratta solo di numeri.
L’Assessorato al Verde ha inoltrato
(due settimane fa) ai Consigli di Zona per il necessario parere, il testo
del nuovo Regolamento del Verde,
che si chiamerà Regolamento d’Uso
e di Tutela del Verde Pubblico e
Privato (e già nel titolo sono contenute le profonde novità del documento rispetto al passato), uno
strumento molto importante che trasformerà completamente l’approccio
dell’Amministrazione rispetto al patrimonio del verde cittadino: non so-
lo per i fruitori ma anche, e soprattutto, per chi (funzionari, appaltatori,
…) il verde lo deve mantenere e curare; e non solo con riferimento al
verde pubblico ma anche a quello
privato. I futuri capitolati d’appalto
per la manutenzione del verde dovranno d’ora in poi tenere conto di
queste regole, per quanto sia possibile precise e inderogabili. E non è
poca cosa.
La convenzione tipo per i giardini
condivisi e quella per gli orti comunitari danno la possibilità ai cittadini di
vivere, condividere, lavorare, incontrarsi, in spazi che vengono così recuperati al degrado e ridati alla città.
Sono moltissimi i progetti portati avanti dal Comune con Enti e Associazioni: da Italia Nostra al WWF, da
Legambiente all’Università, tutti tesi
alla costruttiva collaborazione tra
cittadinanza attiva e Amministrazione. Per fare un esempio, è allo studio un grande progetto di connessione tra le aree verdi urbane e periurbane attraverso il sistema dei
binari ferroviari (Rotaie Verdi). Si è
appena chiuso un bando pubblico
(che ha visto la partecipazione di
diversi concorrenti) per l’assegnazione di un grande spazio all’interno
del Parco Sempione, che diventerà
a breve una sorta di enclave del
verde
cittadino.
L’Assessorato
all’Urbanistica sta lavorando su diversi piani per recuperare aree sia
pubbliche che private e trasformarle
in aree a verde (in alcuni casi anche
trasferendone l’edificabilità altrove).
Alcune diventeranno entro la primavera nuovi giardini condivisi.
Certo, molto c’è ancora da fare ed è
evidente che il cammino intrapreso
è solo all’inizio e che ancora sussistono forti criticità che dovranno essere risolte (il tema degli abbattimenti degli alberi è certamente uno
tra questi: e, difatti, nel nuovo regolamento del verde molti capitoli sono dedicati alla tutela degli alberi
esistenti e alla loro cura e salvaguardia; a questo si aggiunga il problema degli utilizzi non opportuni di
alcuni parchi, ad esempio per giostre o concerti, e quello delle aree
sottoutilizzate, o da bonificare o a
rischio di urbanizzazione): per questo chiunque abbia a cuore i temi
dell’ambiente non dovrà abbassare
la soglia di attenzione. Ma bisogna
riconoscere che, a oggi, gli interventi dell’Amministrazione nell’ambito
del verde sono stati, e saranno, tanto incisivi da avere, ne sono certa,
ripercussioni positive sia a breve
che a lungo termine.
In sostanza, credo si possa affermare, che il secondo quesito referendario sia forse, tra tutti quelli approvati, il più prossimo alla sua attuazione: perciò dispiace che, proprio
su questo, un organo consultivo della nostra Amministrazione abbia dato un giudizio che appare ingiustificatamente drastico e, soprattutto,
espresso senza cognizione di causa.
LA MOBILITÀ NELLA CITTÀ METROPOLITANA: NEBBIA IN VAL PADANA
Giorgio Goggi
La prima giornata della Mobility
Conference di Assolombarda 2015
è stata dedicata al “Governo delle
città metropolitane”. In realtà, benché lo statuto della città metropolitana milanese sia già stato approvato, del governo e delle sue modalità non parla nessuno. Si parla, invece, molto dei problemi di mobilità
di area vasta e sul tema emerge,
nel non detto, la contraddizione tra
la vera dimensione dell’area urbana
e del bacino di mobilità milaneselombardo e i confini istituzionali della Città metropolitana costituita. È
un fatto che l’area urbana milaneselombarda abbia ormai dimensioni
dell’urbanizzato e, soprattutto, del
bacino di mobilità ben superiori
all’ambito dell’ex-provincia e che
questo riproponga non semplici
problemi di governo del sistema.
Tuttavia tutti si dichiarano contenti
della città metropolitana conside-
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randola, a quanto pare, una necessaria semplificazione istituzionale.
Questa contraddizione sfugge al
Sindaco Pisapia, che vanta i risultati conseguiti da Milano con l’Area C
nella riduzione della congestione
(dimenticando il contributo della crisi che ha fatto crollare i consumi di
carburante in tutta la regione e non
solo a Milano) e che annuncia
l’istituzione del bike-sharing a pedalata assistita e del moto-sharing
come strumento della mobilità della
città metropolitana. Per fortuna dice
che occorre guardare al di là della
cerchia dei Navigli! Nell’ascoltatore
malizioso viene evocata l’immagine
di sciami di pendolari in bicicletta,
che, grazie alla pedalata assistita,
si precipitano verso Milano fin dai
confini dell’ex-provincia, come in
una rediviva Pechino dei tempi di
Mao. In fondo, è un’ammirevole coerenza per un Sindaco che ha espunto dal PGT, anche dalle ipotesi
a più lungo termine, la previsione
del secondo passante ferroviario.
Segue un concreto intervento di
Carlo Sangalli , presidente della
Camera di Commercio di Milano,
che, a conferma della immanente
contraddizione di cui prima si è detto, si riferisce a una città di otto milioni di abitanti, qual è l’intera area
urbana milanese lombarda, ma non
la ben più angusta città metropolitana. Il Presidente di Assolombarda, Gianfelice Rocca, vola più alto.
Anche lui esordisce, con corretta
visione urbanistica, parlando di un
raggio di 60 chilometri intorno a Milano “che comprende anche Novara” (e che per questo ascoltatore,
implicitamente relega la città metropolitana tra i meri strumenti amministrativi). Ma alla città metropolitana, che tuttavia definisce “una
occasione storica”, chiede un Piano
Strategico con obiettivi definiti e
comuni con la Regione Lombardia
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e in quest’ultima richiesta c’è l’unico
-e pertinente- accenno di tutta la
giornata ai problemi di governo.
Sul sistema aeroportuale il discorso
diviene più esplicito, Rocca chiede
che non si voglia più costringere gli
aeroporti in ruoli “contro il mercato”,
avverte che avere un sistema con
aeroporti in concorrenza tra loro è
un vantaggio per tutti i cittadini e
per l’economia. A quindici anni
dall’apertura di Malpensa 2000 è
notevole che qualcuno abbia finalmente avuto questo coraggio.
Chiede anche che la SEA sia privatizzata, unica notizia su cui il giorno
dopo si è concentrata la stampa,
ma che in fondo non è la più importante.
Non arriva a proporre che ci siano
due SEA in concorrenza, una per
Malpensa e una per Linate, come
sarebbe piaciuto a questo ascoltatore, ma chiede che Linate non sia
più limitato (“basta con l’illusione
che limitare Linate serva a reggere
meglio Malpensa”). La concezione
di un sistema aeroportuale in concorrenza e rispondente alla domanda di mercato è già un grande passo avanti.
Rileva inoltre il processo, già in atto
da tempo, di progressiva diminuzione dei pendolari su Milano, a
conferma dell’allargamento del bacino di mobilità urbana, e la necessità che i collegamenti non siano
più solo radiali.
Segue un interessante intervento
del professor Senn che fa il bilancio
delle risorse disponibili per la città
metropolitana, ma anche nelle immagini da lui proiettate, che mostrano l’addensamento del costruito
in Lombardia tra Ticino e Adda, si
fa fatica a scorgere i confini della
città metropolitana.
Il rappresentante del Sindaco di
Londra parla diffusamente di biciclette e di mobilità dolce, in ossequio allo spirito del tempo, ma lascia anche cadere quasi con noncuranza che a Londra si sta costruendo il Crossrail, ossia il pas-
sante ferroviario Est-Ovest: 42 chilometri di ferrovia sotterranea sotto
tutta Londra (il più grande progetto
in costruzione di tutta l’Europa, circa 20 miliardi di euro) che integrerà
il già potente sistema ferroviario.
Altro che pedalata assistita.
Deludono, invece, le Ferrovie dello
Stato, che esibiscono una presentazione standard, verosimilmente
predisposta per tutta Italia, in cui si
afferma che “gli investimenti nei
nodi urbani ad alta concentrazione
abitativa sono prioritari”, cosa che si
sapeva molto bene e si diceva già
quindici anni fa, mentre loro pensavano solo all’Alta Velocità. Si parla
di bassi coefficienti di riempimento
dei posti offerti sui treni FS, cosa
che non riguarda certo l’area milanese, per finire poi nella proposta di
un generico sistema di mobilità
“hub and spokes” imperniato sulle
stazioni, che evidentemente richiederebbe un incremento delle frequenze e della capacità, ma senza
dire con quali treni, quanti, e pagati
da chi.
Il Sindaco di Torino e Presidente
dell’ANCI, Piero Fassino, illustra la
situazione dell’area torinese, opposta a quella milanese: 40 comuni
circa nell’area urbana torinese e
oltre 300 comuni nella città metropolitana.
Si conferma quindi l’impressione
che il grande tema, non trattato esplicitamente da nessuno, ma emergente in tutti gli interventi, sia
l’antinomia fra città metropolitana e
vera dimensione funzionale dell’area urbana e del suo bacino di mobilità, e che i connessi problemi di
governo non siano ancora stati affrontati.
Il pomeriggio è dedicato alle “connessioni aeree e sviluppo aeroportuale” e si segnala per un intervento
introduttivo di Stefano Paleari, rettore dell’Università di Bergamo, che
rileva come i bacini dei tre aeroporti
lombardi si sovrappongano in buona parte e come diminuisca la vocazione dei singoli aeroporti, confi-
gurando di fatto un livello di possibile concorrenza secondo solo al sistema aeroportuale londinese. Avverte che non bisogna aver paura
della concorrenza tra aeroporti.
Ma il resto del dibattito non sembra
aderire a questo concetto di sistema aperto e concorrenziale; covano
ancora molte speranze dirigistiche,
si parla ancora di “razionalizzare gli
scali”, si sogna di ricostituire l’hub di
Malpensa in qualche oscuro modo.
Sembra si continui a dimenticare
che non esistono aeroporti hub, ma
solo compagnie che fanno operazioni hub in un dato aeroporto (concentrandovi tutti i voli d’apporto, ovvero gli spokes) e che senza una
compagnia che abbia questa forza
(che Alitalia non ha mai davvero
avuto) l’hub non può esistere. Solo
con la crescita del traffico e dei collegamenti (anche se partono dallo
scalo che qualcuno giudica “sbagliato”) una siffatta compagnia può
essere attratta. Si dimentica anche
che questa possibilità si era già
concretamente manifestata, ma fu
fatta miseramente fallire quando a
Lufthansa furono rifiutati alcuni slot
su Linate.
L’Assessore regionale alle infrastrutture, Alessandro Sorte, ha parlato di un tavolo ministeriale con lo
scopo di incrementare i collegamenti su Malpensa. A questo però
non partecipano le compagnie, che
i collegamenti dovrebbero operare
e che hanno gli aerei.
In compenso, silenzio totale sulla
liberalizzazione degli accordi bilaterali, che sono il vero nodo della
questione, unico modo per incrementare i voli intercontinentali a
Malpensa (tanto invisi a Alitalia e
quindi, seppur ingiustamente, anche al Governo). Solo Gianfelice
Rocca, in apertura, li ha opportunamente citati. In conclusione, ci
sono squarci di sole, ma ancora un
bel po’ di nebbia, in Val Padana.
PREZZI DELLE CASE E CONSUMO DI SUOLO
Marco Ponti
Martin Wolf ha scritto sul Financial
Times un articolo molto reazionario,
sul fatto che nell’area londinese i
prezzi dei terreni edificabili sono
dell’ordine di 100 volte quelli dei terreni vincolati all’agricoltura, con effetti catastrofici sui prezzi delle case
entro la “green belt”, cioè nella Londra “storica”, che è diventato un posto per soli ricchi, costringendo un
sacco di lavoratori a estenuanti mo-
n. 7 VII - 18 febbraio 2015
vimenti pendolari. Lo sciagurato
propone di allentare i vincoli edificatori sui suoli agricoli, facendo pagare ai costruttori i costi di urbanizzazione, e liberalizzando il mercato,
impoverendo di colpo i poveri londinesi del centro, che tanto ne soffrirebbero!
In Lombardia probabilmente le differenze di prezzo non sono così abissali, ma comunque c’è da credere
che siano rilevantissime. Questo
spiega la pressione quasi irresistibile dei proprietari per trovare il modo
di modificare comunque la destinazione d’uso dei suoli agricoli, con
mezzi legali o corruttele di ogni tipo,
al fine di costruire capannoni o case, anche se rimangono vuote, con
gran consumo di suolo. Di tutto e di
più, piuttosto che lasciare la destinazione agricola.
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Questo poi dà luogo a prezzi
d’attesa che stentano a scendere,
perché quelli che riescono a costruire si trovano comunque in una posizione di monopolio relativo rispetto
a tutti gli altri proprietari di suoli agricoli: gli conviene aspettare la
“preda”, costretta dal bisogno.
Da qui la posizione catastrofica che
ha l’Italia rispetto all’indice di socialità delle abitazioni, che valuta a tre
annualità di stipendio come una
buona soglia per l’acquisto di una
casa. Difficile fare calcoli comparativi, ma credo che non siamo troppo
lontani dal vero se stimiamo in
Lombardia di essere intorno a valori
intorno a dieci annualità: dato un
reddito monetario annuo di 20.000€
(da non confondere con il costo del
lavoro, che è circa doppio), occorrono 10 anni per acquistare una casa da 200.000€, diciamo di 65 metri
quadrati a 3.000€ il metro quadro.
Da qui l’acutissimo problema sociale per le classi a reddito più basso,
che, per sfuggire alla rendita urbana, contribuiscono alla dispersione
insediativa, generando così una al-
leanza di fatto con gli infami speculatori che tendono a costruire ovunque.
Che fare per far crollare davvero i
prezzi delle case per le categorie
meno abbienti, visto che le soluzioni
tipo ALER non sembrano né percorribili, né foriere di benessere sociale, dato il dominio di meccanismi
clientelari, o peggio delinquenziali?
Non è che la casa sia come la droga, per la quale i maggiori nemici
della liberalizzazione sono proprio le
bande criminali che si arricchiscono
grazie ai suoi alti prezzi, creati dalla
“scarsità artificiale” creata dai vincoli
normativi? Lo speculatore, per le
ragioni già viste, ha nella liberalizzazione dell’uso del suolo il suo
peggior nemico. Si augura vincoli
“selettivi” in suo favore, e generalmente riesce benissimo a ottenerli.
Allora forse conviene davvero distruggere i prezzi d’attesa, annunciando una programmazione molto
generosa e liberale delle possibilità
di costruire (in modo ordinato e pagandone i costi), in modo che case
e capannoni vuoti diventino un vero
rischio sia per i costruttori sia per gli
interessi sia vi ruotano attorno. E
smettiamo una volta per tutte con
questa fola, di ventennale memoria,
della produzione agricola compromessa, fola propagandata ossessivamente in nome di un’agricoltura
super-inquinante, che vive di sussidi
pubblici (senza che ciò si possa dire
impunemente, pena i furori di Confagricoltura e dei suoi alleati di cuore tanto verdolino), affama i paesi
poveri, e richiede continui interventi
normativi per limitare la produzione,
che altrimenti sarebbe eccessiva (si
vedano le quote latte).
Tutto per non far scendere ulteriormente i prezzi dei beni alimentari,
prezzi il cui abbassamento, sembra
di capire, interesserebbe più le
classi a basso reddito che i ricchi.
Esattamente come li farebbe scendere la riduzione dei vincoli alla
grande distribuzione, la liberalizzazione dei taxi e dei trasporti pubblici
ecc. Ma il paese erede della cultura
corporativa fascista difende da
sempre l’offerta. La domanda si arrangerà.
M4: I CANTIERI DILAGANO, IL COMUNE È ASSENTE (A FUTURA MEMORIA)
Caterina Gfeller
“Mettiamo la quarta” recitano i manifesti che il Comune ha affisso in tutta la città per pubblicizzare l'avvio
dei lavori della metropolitana M4
utilizzando, ci si chiede perché, una
poco brillante metafora automobilistica. In realtà i cantieri sono aperti
da tempo, come sanno bene i residenti della zona est Milano, tra via
Pannonia e via Mezzofanti. Qui la
M4 ha già occupato il “pratone”, una
delle aree verdi più frequentate del
quartiere e, lungo la vicina via Cavriana, è stato realizzato il campo
base del cantiere sottraendo preziose superfici coltivate al Parco Agricolo Sud e al progetto del Grande
Forlanini.
Da questa settimana però lo scenario si fa ancora più preoccupante.
Estese recinzioni hanno reso inaccessibile quasi tutta la parte centrale di viale Argonne, il grande viale
alberato novecentesco che disegna
il confine tra le zone 3 e 4 della città
ed è risorsa di spazio essenziale
per la vita di questi quartieri: una
sequenza di prati, campi da gioco,
aree per bambini e perfino una piccola bocciofila diventati off limits. Il
cartello informativo parla di “lavori
propedeutici agli scavi della M4”
precisando che si tratta di “spostare
alcuni sottoservizi (acqua, fognatura, ecc...)”. La recinzione è definita“provvisoria”, ammonendo però
n. 7 VII - 18 febbraio 2015
che “nella successiva fase di cantiere sarà sostituita da una definitiva”.
Di provvisorio quindi c'è poco, perché si parla di ben 78 mesi, vale a
dire quasi 7 anni!
Lo stesso cartello afferma che si sta
lavorando “per ridurre al minimo i
disagi”, ma di fronte a una simile
occupazione di spazio pubblico sorgono spontanei alcuni dubbi. È questo l'unico modo di allestire un cantiere? Davvero operai e macchine
saranno contemporaneamente al
lavoro su tutta la superficie del viale
per tutto il tempo? Non si poteva
immaginare un cantiere strutturato
su lotti “modulari”, mantenendo la
fondamentale percorribilità pedonale e ciclabile (appena 2,5 m per lato
su una larghezza di 50), e lasciando
il più possibile libere le aree verdi e i
campi gioco?
I sottoservizi da rimuovere appartengono a sistemi a rete, di cui sicuramente il Comune e le Società di
servizi dispongono di una dettagliata mappatura. È credibile che per
spostare qualche tubo dell'acqua, i
canali di raccolta delle acque piovane, i cavi dell'illuminazione si debbano recintare oltre 3 ettari? Evidentemente è la cosa più semplice
e banale. Non c'è alcuno sforzo
progettuale per fare in modo che
questo grande spazio pubblico rimanga, almeno in parte, ai cittadini
della zona per i prossimi 7 anni. E
non sembrano nemmeno essere
state predisposte delle “compensazioni”, neppure un percorso ciclopedonale alternativo. I molti ciclisti che
percorrono quotidianamente il viale
sono ora costretti a pedalare pericolosamente in mezzo al traffico a due
corsie, mentre i pedoni sono obbligati a camminare lungo i marciapiedi esterni, senza poter più beneficiare dell'area verde.
Si sta ripetendo a una scala molto
più ampia quello che avviene da
quasi un anno e mezzo lungo lo
stesso asse urbanistico, in corso
Plebisciti, dove è stato aperto un
altro cantiere “propedeutico” agli
scavi della M4, che ha comportato
la chiusura della pista ciclabile.
Un'area recintata e poi per lungo
tempo abbandonata, con lavori saltuari (pochi giorni su 15 mesi), ripresi a rilento nelle ultime settimane. Anche qui nessuna forma di
compensazione per i ciclisti, nessun
percorso sui marciapiedi vicini.
Dal Comune e M4 arriva un’unica
rassicurazione ai cittadini: “non vi
saranno sostanziali modifiche alla
viabilità del quartiere”. Ma si sta parlando solo di auto, come se pedoni
e ciclisti fossero cittadini di serie B,
proprio nel momento in cui si fa retorica sulla città smart e sullo svi-
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luppo di modalità di trasporto alternative e sostenibili.
Nelle grandi città europee i cantieri
sono spesso “aperti” e “trasparenti”,
con sistemazioni paesaggistiche
provvisorie ma di qualità, mappe e
cartelli informativi che spiegano in
dettaglio cosa verrà realizzato, punti
in cui è possibile osservare le macchine e gli operai al lavoro. A Berlino, Londra, Parigi, ma anche in alcune città italiane, i cantieri diventa-
no parte dello spazio pubblico, non
la loro negazione.
La M4 riguarda tutta la città, da est
a ovest. È quindi fondamentale che
il cantiere non sia solo una sequenza di aree recintate, ma sia in grado
di dialogare con il paesaggio urbano
e lo spazio pubblico, salvaguardando la continuità dei percorsi, l'uso
delle aree verdi, informando i cittadini, affinché i disagi possano essere accettati e acquistare senso, an-
ziché trasformarsi in rabbia impotente e sfiducia nelle istituzioni.
Nulla di tutto questo si riscontra in
queste prime settimane. Ci si chiede
dove sia il committente del progetto,
il Comune di Milano. Possibile che
dopo mesi di polemiche, di discussioni sui costi e sull'utilità dell'opera
- di cui ArcipelagoMilano ha parlato
diffusamente - i cantieri siano realizzati in questo modo? È accettabile che per 7 anni la città resti chiusa
per lavori?
RICOSTRUIRE IL BURRI: UNA DECISIONE ERRATA NEL MERITO E NEL METODO
Walter Monici*
Il proposito della Giunta Comunale
di ricostruire una copia del teatro
Burri al centro del parco Sempione ,
una iniziativa importante ed estremamente delicata considerato il
luogo e l'interesse del progetto, non
ha minimamente considerato l’opportunità, se non il dovere, di creare
una occasione per ascoltare la voce
della città. La delibera di accettazione venne assunta il 31 luglio nell'ultima seduta prima delle vacanze e
una conferenza stampa di presentazione venne fatta il 2 ottobre.
Ciò che ha caratterizzato questa
presentazione é stata la assoluta
mancanza di dubbi sulla opportunità
di tale scelta, come se fosse un fatto dovuto la costruzione di una copia di quello realizzato nel 1973. Se
agli amministratori appariva ovvia e
scontata la decisione di ricostruire il
teatro, a noi, cittadini milanesi, frequentatori del parco appariva ovvia
e scontata, neppure ipotizzabile,
qualunque ipotesi di una sua ricostruzione.
Il teatro Burri era un oggetto nella
memoria, collocato in una sua epoca e in uno spazio, il parco, che è
oggi diverso da allora, il prato è più
stretto e il teatro ne occuperebbe
quasi per intero l'ampiezza, diverso
è il contesto storico, sociale e politico in cui allora si era collocato, diverso è il senso di questa operazione che mentre allora era inserita in
un progetto artistico sperimentale
complessivo, oggi risulta avulsa dal
contesto e andrebbe a confliggere
col vincolo monumentale posto nel
1986 dall'allora sovrintendente Lionello Costanza Fattori che definitivamente poneva il Parco sotto la
tutela della Legge 1089 che esplicitamente considera “i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico
o storico.”, e prescrive che “Le cose
medesime non possono essere adibite ad usi … tali da recare pregiudizio alla loro conservazione ed integrità.”
n. 7 VII - 18 febbraio 2015
Evidentemente si sono dimenticate
le polemiche e le critiche seguite
alla realizzazione del teatro nel
1973 che era stata concessa in via
temporanea, la impossibilità di una
corretta gestione, il degrado provocato al verde del parco e il senso di
sollievo che era seguito alla sua
demolizione. Come la scoperta di
un affresco antico sotto un intonaco,
così la riscoperta della veduta che
unisce l'Arco della Pace al Castello,
libera da ingombri e fratture, fece
comprendere il senso di armonia,
coerenza e magnificenza monumentale che era stato immaginato
da Emilio Alemagna alla fine '800.
Fu questo uno dei tasselli per la rinascita definitiva del Parco Sempione, che da spazio degradato qual'era è diventalo il luogo che oggi conosciamo, rappresentato in tutto il
mondo proprio con quella veduta
prospettica che ampia e libera si
vorrebbe di nuovo sacrificare agli
interessi di un soggetto privato che
da quella collocazione trarrebbe enormi vantaggi di visibilità, prestigio
e valorizzazione economica.
Ma certamente anche i sostenitori
della ricostruzione hanno argomenti
da portare a sostegno della propria
proposta, ma non vi è stato il modo,
il tempo, l'occasione di confrontare
le reciproche posizioni in modo esauriente. A tutte le nostre critiche e
obiezioni si è sempre risposto invocando la figura dell'artista demiurgo
cui tutto è permesso, richiamandosi
alla memoria nostalgica della propria fanciullezza, come se questa
fosse una giustificazione, o negando l'evidenza dei fatti come nel giudizio della Sovrintendenza del 7
gennaio 2015 che tautologicamente
afferma che il teatro è “una valorizzazione del luogo e non certo in intervento invasivo ed incongruo”, ma
senza spiegare in nessun modo
perché non sarebbe invasiva una
struttura che occupa il centro di “una composizione prospettica di no-
tevole importanza urbanistico - monumentale”, e perché non sia incongrua una struttura di cemento
armato e acciaio dipinto di bianco e
di nero al centro di una veduta romantica ottocentesca.
Soprattutto nelle sue risposte l'assessore Del Corno si è richiamato il
diritto della Giunta di amministrare e
di “compiere scelte e atti conseguenti”. Ma compito dell'amministratore dovrebbe essere di assumere
decisioni rapide ed efficaci in tutto
ciò che riguarda la manutenzione ,
la conservazione, l'organizzazione
della città, non di compiere autocraticamente e senza confronto coi cittadini, i comitati e le associazioni,
modificazioni che andranno a incidere fortemente e in perpetuo, come più volte ribadito sulla delibera,
sull'ambiente e la percezione dei
luoghi.
In questi casi l'amministratore dovrebbe comportarsi da arbitro neutro e favorire il raggiungimento di
una soluzione condivisa. E in ogni
caso bene sarebbe per l’Amministrazione attenersi a principi di precauzione, di rispetto della legalità e
di salvaguardia dei beni più prestigiosi che appartengono alla collettività intera.
Forse siamo ancora in tempo, il nostro comitato, cui fanno capo diversi
comitati e associazioni cittadine, ha
proposto soluzioni alternative alla
collocazione del teatro perché i 40
anni passati sono una intera era
geologica, ciò che allora aveva senso oggi è totalmente fuori contesto,
superato, e quella che è presentata
come una operazione moderna e
dinamica è al contrario un inutile
sussulto nostalgico.
*Comitato Parco Sempione col contributo di:
Edoardo Croci, Franco Puglia, Ivan Salvagno, Luigi Santambrogio.
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POLITICA MONDIALE: LO SGUARDO DELLE ASSICURAZIONI
Massimo Cingolani
Se vuoi sapere le abitudini di guida
di un paese è sufficiente chiedere a
un assicuratore come elabora la tariffa RC Auto, ma forse ci si può rivolgere a loro anche per sapere
quali rischi sta correndo in questo
momento il nostro pianeta. Infatti
nell’ultimo rapporto annuale, Allianz
Risk Barometer 2015 si afferma che
le aziende si trovano di fronte a
nuove sfide provenienti da scenari
imprevedibili e da un ambiente
sempre più interconnesso, l'interruzione delle attività e della filiera produttiva corrono nuovi tipo di rischio.
In molti paesi, inclusa l’Italia, i rischi
informatici e quelli geo-politici registrano i maggiori tassi di crescita.
“La crescente interdipendenza di
molti settori e processi implica che
oggi le imprese siano esposte a un
numero crescente di situazioni di
crisi. Gli effetti negativi possono
moltiplicarsi rapidamente, e un rischio può provocarne a catena molti
altri. Le calamità naturali o gli attacchi informatici possono causare interruzioni delle attività non solo per
un'azienda, ma per intere aree di
infrastrutture", sottolinea lo studio di
Allianz. Il cyber-risk è cresciuto molto e quest’anno, per la prima volta,
è entrato nella “Top” dei peggiori
per le aziende nella graduatoria
globale. In Germania, Regno Unito
e Stati Uniti, i rischi informatici si
collocano addirittura nelle prime posizioni in classifica, anche se la
consapevolezza sta aumentando, si
ritiene che molte aziende ne sottovalutino i diversi impatti. "Il numero
crescente e sempre più sofisticato
di minacce informatiche fa sì che sia
impossibile, per qualsiasi organizzazione, garantire una protezione
completa dal cyber-risk".
Nel mondo aumentano i rischi geopolitici, sempre secondo il rapporto,
le situazioni di crisi politiche e sociali sono un problema sempre più importante per le imprese. Il rischio
geo-politico appare tra i principali
nella regione EMEA (Europa, Medio
Oriente e Africa), in Brasile, è considerato uno dei peggiori in Russia
e in Ucraina. È la seconda causa
principale di interruzione della filiera
produttiva dopo le calamità naturali.
Un'altra fonte di tensione politica nel
2015 potrebbe derivare dal basso
costo del petrolio, che potrebbe destabilizzare quei Paesi che dipendono molto dai profitti basati sul
greggio.
La lotta contro il terrorismo e i rischi
geo-politici sono identificati tra gli
interventi più importanti. Ad esempio gli assicuratori francesi dopo i gli
assalti a Charlie Hebdo suggeriscono di implementare "Vigipirate" un
protocollo di sicurezza che rafforza
la protezione a un numero di siti
chiave: organizzazioni di media,
grandi negozi e aree commerciali,
trasporto, siti religiosi,scuole, edifici
governativi ufficiali.
Mentre è impossibile prevedere gli
attacchi, tendenze recenti suggeriscono un movimento verso 'tactical
low-tech' anche se ancora sono
possibili gli assalti spettacolari di
alto impatto con armi automatiche e
veicoli. I livelli di minaccia nel Regno Unito, nel resto d’Europa e negli Stati Uniti sono elevati da qualche tempo e così rimangono. Tuttavia, altri settori, come Nord Africa, il
Medio Oriente, il Sud e il Sudestasiatico (tra cui l'Australasia) così
come parti della Cina occidentale,
sono sempre più esposti al terrorismo ”jihadista".
I tre rischi principali per le imprese
evidenziati nello studio - interruzione dell’attività e della filiera produttiva, calamità naturali e incendi/esplosioni - sono gli stessi
nell’area Europa, Medio Oriente e
Africa (EMEA), nel continente americano e nella regione Asia Pacifico.
Vi sono comunque alcune differenze tra le aree geografiche. In Italia, il
principale rischio è quello causato
dalle catastrofi naturali e, in discesa
rispetto al 2014, la mancata crescita
economica. Inoltre la combinazione
tra mancanza di talenti e una forza
lavoro non più giovane è causa di
un aumento di preoccupazione e
rientra tra i 10 rischi maggiori.
Le aziende poi sono preoccupate
dall’ambiente commerciale e il timore di una stagnazione e di un declino dei mercati entra nella classifica.
Il cambiamento climatico insieme
alle innovazioni tecnologiche come
la stampa in3D e le nanotecnologie
dominano ”l’agenda rischi“ sul lungo
periodo.
Se questa non è un’agenda anche
per la politica … .
LUIGI BERLINGUER A MILANO. LA SCUOLA DEVE CRESCERE, ANCHE CON LA MUSICA
Rita Bramante
L’uomo a cui Romano Prodi e Massimo D’Alema affidarono il Ministero
della
Pubblica
Istruzione
e
dell’Università dal 1996 al 2002 era
allora un entusiasta della Scuola e
oggi il suo entusiasmo e il suo vigore sono immutati. L’animo e il piglio
sono quelli di un guerriero del bene
che vuole vincere la sua battaglia
per la scuola pubblica italiana e le
sue parole incarnano il messaggio
che è stato di don Milani, scolpito
per sempre nel vangelo laico della
Lettera a una professoressa (1967):
una scuola senza burocrazia, orientata al riscatto da ogni discriminazione sociale e emarginazione culturale, alla presa di coscienza e
n. 7 VII - 18 febbraio 2015
all’apprendimento per una cittadinanza attiva e consapevole nella
società.
La funzione del buon educatore, per
don Milani come per Luigi Berlinguer, è quella di trasmettere la gioia
di vivere, di combattere e di conoscere; il maestro deve essere per
quanto può profeta,scrutare i “segni
dei tempi”, indovinare negli occhi
dei ragazzi le cose belle che essi
vedranno chiare domani e che noi
vediamo solo in modo confuso (…)
e inculcare il piacere di sapere per
non essere subalterni.
Ospite a Milano della tredicesima
Giornata Europea dei Genitori della
Scuola, Luigi Berlinguer è intervenu-
to sul tema Una scuola di qualità
per tutti e per ciascuno, ponendo
come assunto principale la necessità di cambiamento: bisogna cambiare la scuola, perché l’impianto vecchio continua a resistere e fa perdere gran parte dell’energia! E fa questo appello al cambiamento, al superamento
dell’ipercognitivismo,
parlando da storico del diritto italiano e rivendicando il principio che la
scuola di massa deve essere destinata a tutti e deve saper tutelare per
tutti il bisogno interiore di crescere.
Rivendica a gran voce il diritto di
tutti a imparare non solo a sapere,
ma a capire, a scegliere, a diventare
cittadine e cittadini e a vivere da
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protagonisti la propria esistenza. La
scuola trascina avanti se stessa,
con un apparato invecchiato in cui
solo alcuni studenti eccellono, alcuni che sarebbero eccellenti comunque, anche in un’isola deserta! E
intanto l’Italia sta perdendo opportunità di crescita culturale collettiva
e terreno nella ricerca scientifica.
Non si può tardare oltre a spingere
avanti il protagonismo discente, facendone la bandiera dell’autonomia
scolastica che deve ancora svilupparsi compiutamente. Bisogna insegnare per problemi e non per epistemi, non fermarsi alla vernice delle nozioni e all’ipercognitivismo, che
è soltanto conoscenza attraverso la
trasmissione. Basta con una scuola
iperlogocentrica, dove si educa la
ragione, perché l’uomo e la donna
hanno anche una parte destra del
cervello: l’elemento primo del pensiero critico è l’immaginazione, la
fantasia, la creatività. Molti ragazzi
non sono portati per essere filosofi,
ma hanno una prorompente creatività: per questo bisogna dare piena
dignità all’arte a scuola. È paradossale che in Italia, la culla dell’arte,
l’arte possa non essere considerata
cultura.
Se entra la musica nella scuola, tutta la scuola è destinata a beneficiare di un radicale cambiamento.
L’apertura all’arte porta con sé
l’effetto Mozart: recenti esperimenti
sulle viti di Montalcino, patria del
famoso Brunello, attestano che persino l'uva arriva a maturazione prima e migliora la protezione da insetti patogeni, quando è coltivata al
suono della musica di Mozart (1).
E in una scuola a indirizzo musicale
(2) si conclude la giornata milanese
dell’onorevole Berlinguer, che presenzia soddisfatto all’inaugurazione
della prima aula bonificata acusticamente. C’è da sperare che questa
iniziativa pionieristica possa far
germogliare innovazioni nel campo
ancora inesplorato del benessere
acustico a scuola e che presto si
rivelino i grandi effetti di cambiamenti finora inattuati, ma possibili
(3).
(1) S. MANCUSO - A. VIOLA, Verde brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Giunti, 2013
(2) IC Cavalieri scuola primaria e secondaria a indirizzo musicale
(3) M. GLADWELL, Il punto critico. I
grandi effetti dei piccoli cambiamenti,
Rizzoli, 2000.
Scrive Mario Marin a proposito della futura campagna elettorale
Vi inoltro un mio post (*) scritto su
Facebook. Mi pare che il vostro sito
sia più adatto nell'impostazione intelligente della futura campagna elettorale. Coordinate voi gli interventi di apprezzamento dei cittadini per
l'operato della Giunta; questo è il
feed-back valido, quello degli Assessori è di parte come pure quello
della opposizione. Sotto ho dato
degli esempi positivi, come pure il
miglioramento di Ponte Lambro.
Cose evidenti, senza se e senza
ma. Ma tante cose, come rendere la
città più amica dei bimbi ad es. non
si vedono ancora. Va fatta una analisi laica della situazione, con una
ammissione sincera delle difficoltà
incontrate dagli amministratori.
(*) "Paolo Limonta e tutti, per me
varrebbe la pena di fare, magari su
un apposito sito, il consuntivo di ciò
che è stato realizzato da Pisapia dal
2011. Limonta sa meglio di me che i
vari Assessori ora sono impegnati al
100% su Expo che inizierà in maggio; dunque non hanno né testa né
tempo per pensare alla prossima
campagna elettorale del Comune di
Milano. Il consuntivo va fatto zona
per zona e devono essere i cittadini
a stilarlo. Perché il vantaggio di chi
ha governato è di poter fare vedere
cosa ha realizzato, a differenza del
competitore che si deve limitare solo a delle promesse. Io per la Zona
4 posso dire che la signora Castellano ha bloccato il progetto dei box
sotterranei in Piazzale Libia, senza
che il Comune dovesse sborsare un
solo euro di penali. Per questa estate la piscina Caimi verrà recuperata
all'uso pubblico grazie alla sua ristrutturazione, poi stanno realizzando l'isola ambientale a Porta Romana, che limiterà la velocità delle auto
ma non solo. Ho detto 3 cose e forse ne sono state fatte altre. Ripeto,
l'importante è che siano i cittadini a
raccontare, non l'Amministrazione.
Direi che sarebbe una buona base
di partenza! Limonta rimboccati le
maniche, ma niente propaganda,
che ci son tanti dubbiosi."
Scrive Adriana Grippiolo a Giuseppe Longhi a proposito delle aree Expo
Sono una vecchia milanese (di padre e nonno, poi si va ad Alessandria), oggi davvero spiacente di non
conoscerla. Potrei infatti - sapendo
che cosa fa nella vita oltre a scrive-
re splendidamente - essere più puntuale nel ringraziarla. Testo chiaro,
ironia ancora più chiara, quadro di
ipotesi esplicito. Mi dica però: lei,
personalmente, ha messo la ciliegi-
na alla fine della torta, è la soluzione che preferisce? Io farei un bel
mix di 3 e di 4.
MUSICA
questa rubrica è a cura di Paolo Viola
[email protected]
Lo slancio romantico
n. 7 VII - 18 febbraio 2015
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Milano Classica – l’istituzione promossa e diretta da Marica Morosini
che organizza la bella stagione di
concerti domenicali nella Palazzina
Liberty di Largo Marinai d’Italia – ha
proposto con l’accattivante titolo “Lo
slancio romantico” un colto confronto fra due opere particolari del panorama della musica da camera
dell’ottocento: i due Quintetti per
archi e pianoforte di Schumann
(1864) e di Dvořák (1887). Benché
lo stesso genere, nella seconda metà dell’ottocento, sia stato frequentato anche da Saint-Saëns, Frank e
Fauré, possiamo dire che ai due
mancava solo quello di Brahms
(1884) per completare il quadro poiché il clima musicale “asburgico” o
“mitteleuropeo” che li caratterizza
ha ben poco a che fare con quello
francese. Sono tre compositori le
cui vite hanno ruotato in gran parte
intorno ai Carpazi (Lipsia, Vienna,
Praga) e si sono molto incrociate fra
di loro (i rapporti fra Schumann e
Brahms sono arcinoti, quelli fra
Brahms e Dvořák quasi altrettanto);
si sentivano orfani di Beethoven e di
Schubert, e questa loro comune discendenza, a dispetto delle diverse
ispirazioni tematiche e dei trent’anni
di differenza fra le loro età, è assai
facile da percepire.
Diciamo subito che il confronto propostoci dall’ottimo Quartetto
Stradivari con l’aggiunta della brava
Francesca Rivabene al pianoforte viene vinto alla grande da Dvořák
che con il Quintetto in la maggiore ci
offre una delle sue creature migliori:
due “allegro” - primo e quarto tempo
- costruiti su un unico tema intriso i
nostalgia e di calore slavi, che incastonano i due tempi centrali fra loro
diametralmente opposti. Il secondo
tempo è una “dumka” (canto popolare lento di origine ucraina con un
carattere normalmente narrativo ed
elegiaco che in questo caso diventa
languido e struggente) e il terzo è
un “furiant” (valzer di tradizione popolare boema, vivacissimo e con
frequenti mutamenti di battuta);
Dvořák con un colpo di genio non
solo li accosta ma avvolge l’intero
Quintetto in una sorta di vaga reminescenza schubertiana e lo conclude con una magnifica fuga. Un vero,
grande capolavoro.
Non altrettanto si può dire del Quintetto in mi bemolle maggiore di
Schumann, di derivazione più beethoveniana che schubertiana, che
ha il merito di inaugurare il particolare organico costituito dal pianoforte
con i quattro archi classici (due violini, viola e violoncello); Beethoven
non ci si era cimentato mentre
Schubert - nel Quintetto detto “della
trota” - aveva usato il contrabbasso
senza raddoppiare il violino. Una
innovazione importante, che porterà
molto lontano, ma questo primo esempio è purtroppo debole; nonostante alcuni momenti sublimi, di
grande lirismo e dolcezza (come la
marcia funebre del secondo tempo)
o di travolgente eccitazione (come
lo scherzo del terzo tempo), il Quintetto schumanniano rimane slegato
e fondamentalmente poco ispirato.
Siamo abituati a portare in palma di
mano Robert Schumann, attratti non
solo dalla grande eleganza della
sua scrittura ma anche dal fascinoso romanzo della sua vita, e a considerare Antonìn Dvořák un musicista di rango minore. Credo che
questo giudizio sul compositore boemo vada radicalmente rivisto: le
sue nove sinfonie, i concerti per violino, per violoncello e per pianoforte
e orchestra, la sua musica da camera (trii, quartetti, quintetti) per non
dire della sua musica sacra (Stabat
Mater, Messa in re, Requiem), sono
altrettanti capolavori che appartengono a pieno diritto alla grande storia della musica della seconda metà
dell’ottocento. Aver messo vis-à-vis
i due Quintetti ha ben illuminato
quella differenza fra cultura sassone
e cultura boema che colpisce enormemente chi percorre l’itinerario
che da Praga porta a Dresda scendendo dapprima lungo la Moldava e
poi lungo l’Elba; il mondo cambia
profondamente nel parco nazionale
della cosiddetta “Svizzera Sassone”
quando alla “Gola del lupo” si attraversano i Carpazi nel mitico luogo in
cui Carl Maria von Weber ha ambientato “Il franco cacciatore”. Finisce il mondo slavo, inizia quello
germanico.
Di altissima qualità l’esecuzione dei
due Quintetti affidati a una compagine che ha una bella e curiosa storia alle spalle, la storia di due famosi
musicisti rumeni - il marito è un violoncellista, la moglie una violinista che da anni vivono in Italia su un
piccolo lago a metà strada fra il lago
Maggiore e il lago di Varese, e che
si sono guadagnati una solidissima
fama internazionale sia come interpreti che come insegnanti; lei è Mariana Sirbu, lui Mihai Dancila, fondatori nel 1968 del Quartetto Academia, e nel 1994 del Quartetto Stradivari di cui fanno tutt’ora parte. Mariana Sirbu, il primo violino che va
avanti e indietro da Lipsia dove insegna il suo strumento, ha fatto parte con Bruno Canino e Rocco Filippini del “Trio di Milano”, e con Salvatore Accardo della famosa orchestra da camera “I Musici”; Mariana e
Mihai, insieme, hanno avuto da
sempre come compagno di strada il
bravissimo violista, compositore e
direttore d’orchestra Massimo Paris
e da qualche anno, nel ruolo di secondo violino, la loro figlia Cristina
Dancila. Infine in questa occasione
sono stati ottimamente accompagnati da una pianista nota per molte
egregie cose ma soprattutto per aver indagato, studiato e raccontato
delle “donne musiciste“ nella Milano
del primo ottocento! Una storia, appunto, bella e curiosa.
ARTE
questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi
[email protected]
Google entra nei musei: Art Project
La grande sfida dei musei oggi è
quella di stare al passo con
l’avanzare incessante delle tecnologie, mantenendo al contempo il ruolo di conservatore della tradizione e
del patrimonio che la società gli
chiede. Google ha preso coscienza
di questa necessità dei musei e ha
dato vita al Google Art Project: un
accordo con più di 600 istituti cultu-
n. 7 VII - 18 febbraio 2015
rali in tutto il mondo che ha consentito, attraverso due fasi, la digitalizzazione delle collezioni prima e del
percorso museale poi.
Unico nel suo genere, Art Project è
prova dell’impegno di Google nella
diffusione e promozione della cultura online a un pubblico il più ampio
possibile. Sotto l’egida del Google
Cultural Institute e nel segno di
questo ambizioso obiettivo, Google
ha già realizzato moltissimi progetti,
tra cui la digitalizzazione degli archivi di Nelson Mandela, dei manoscritti del Mar Morto e la messa online di archivi storici di grande valore, come quelli dell’Istituto Luce Cinecittà relativi alla Dolce Vita italiana degli anni ‘50-’60.
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Nella città di Milano tre sono stati i
musei coinvolti: il Museo Bagatti
Valsecchi, il Museo Diocesano e il
Museo Poldi Pezzoli che tra il 2012
e il 2013 hanno messo online immagini ad altissima risoluzione delle
proprie collezioni sulla piattaforma
dell’Art Project. La grandezza del
progetto però non sta nella digitalizzazione delle collezioni, quanto nel
sistema d’archiviazione che consente di ricercare l’opera per nome
dell'artista, titolo, tipo di arte, museo, Paese, città e collezione. Una
volta selezionata un'opera d'arte tra
le 60.000 disponibili, assieme al dettaglio che si preferisce, si può creare la propria galleria personale. E
ancora, è possibile aggiungere
commenti a ogni dipinto e l'intera
collezione può essere condivisa sui
social network.
La seconda fase, appena conclusasi per i musei milanesi, ha consentito la realizzazione di un tour virtuale
per ciascuna istituzione. È stata
coinvolta una particolare telecamera
di Street View che ha scattato immagini a 360° degli interni, unite poi
con l’obiettivo di consentire un'esplorazione continuativa all'interno
delle stanze.
Dal 10 febbraio il visitatore virtuale
può esplorare le 18 sale del Museo
Bagatti Valsecchi simulando una
vera e propria passeggiata nella dimora dei due fratelli Fausto e Giuseppe, ammirandone i soffitti, i preziosi oggetti raccolti dai baroni sul
finire dell’Ottocento e vivendone,
anche se virtualmente, la magia.
Grazie al Museum View anche nel
caso del Museo Diocesano è possibile visitare integralmente i tre livelli,
le opere e il chiostro direttamente
da casa propria: dalle sale dedicate
a Sant’Ambrogio, alla Sala Fontana,
alla collezione Sozzani coi suoi 106
disegni e ricche cornici.
Il Museo Poldi Pezzoli, il primo milanese che aderì al Google Art Project nell’ottobre del 2012, con 185
immagini di altissima qualità. Tra le
opere visibili sulla collezione digitale
dedicata al Museo di via Manzoni, in
particolare l’Artemisia del Maestro di
Griselda, dipinto tardo quattrocentesco raffigurante un’eroina dell’antichità anch’essa fotografata a una
risoluzione di circa 7 miliardi di
pixel.
Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi
Quella al Palazzo della Ragione non
è solo una mostra di fotografia sui
grandi spazi, come riporta il titolo, è
un’ode alle avventure e alle montagne di Walter Bonatti. 97 gli scatti
presentati in quella che si sta imponendo sempre di più come una sede espositiva di valore della città di
Milano.
Ma alle grandi fotografie del mondo,
alle riproduzioni audio e video si affiancano alcuni degli oggetti che
hanno da sempre accompagnato
Bonatti: gli scarponi di cuoio oramai
consunti, la Ferrania Condoretta,
una piccola macchina fotografica
che usò sul Petit Dru, e la macchina
per scrivere: una Serio, modello Everest-K2, che gli venne regalata
dalla stessa azienda produttrice
perché raccontasse la vera storia di
ciò che successe sul K2 nel 1954.
È forse grazie a quel dono che Bonatti prese ad affiancare all’alpi-
nismo e all’esplorazione delle vette
anche la narrazione. Acuto e attento
osservatore del mondo, Bonatti attraverso i suoi reportage darà voce
a realtà lontane appassionando i
lettori delle più grandi riviste italiane,
prima tra tutte Epoca.
Un uomo decisamente in controtendenza rispetto al contesto nel quale
viveva: nell’Italia post-bellica del
boom economico Bonatti sceglie
l’allontanamento dalla realtà per andare a scoprire mondi nuovi e inesplorati. Mai lo sfiora il pensiero di
rimanere, anzi torna sempre a casa
per raccontare il suo vissuto: da
ciascun viaggio porta con sé racconti, riflessioni e tante, tantissime
immagini per far sognare chi non
riesce a partire con lui.
Le immagini in mostra raccontano
dei grandi viaggi, della sua capacità
di errare solo e della sua grande
ammirazione per la potenza della
natura. Emerge anche una certa
consapevolezza di sé: durante i suoi
viaggi Bonatti escogita una serie di
tecniche con fili e radiocomandi che
gli consentono di essere non solo
parte delle proprie fotografie, ma
romantico protagonista, quasi ultimo
e affascinante esploratore del mondo.Una mostra che coinvolge il visitatore mescolando avventura, fotografia e giornalismo, giungendo a
delineare il profilo di un grande uomo che ha contribuito a fare la storia del Novecento.
Walter Bonatti. Fotografie dai
grandi spazi Palazzo della Ragione
Milano fino all'8 marzo 2015 - Orari
Tutti i giorni: 9.30 - 20.30 // Giovedì
e sabato: 9.30 - 22.30 La biglietteria
chiude un’ora prima dell’orario di
chiusura Lunedì chiuso Ingresso 10
euro
A pranzo con il soldato: Razione K alla Triennale di Milano
La razione K (ingl. K-Ration) è una
razione da combattimento individuale giornaliera introdotta negli Stati
Uniti d'America nel 1942 nel corso
della seconda guerra mondiale. Era
inizialmente intesa come razione da
utilizzarsi per brevi periodi da parte
di unità mobili (truppe aviotrasportate, corpi motorizzati) ed era suddivisa in tre moduli separati per colazione, pranzo e cena. RAZIONE K è
anche il titolo della mostra a cura di
Giulio Iacchetti allestita negli spazi
della Triennale di Milano fino al 22
febbraio dove sono messi a confronto 20 kit alimentari per i militari
provenienti da altrettanti paesi diversi. L’allestimento nell’ingresso
n. 7 VII - 18 febbraio 2015
del Palazzo consta di 10 grandi tavoli sui quali sono disposti con simmetrie ed equilibri i contenuti delle
razioni, suddivisi per nazionalità e
corredati da un pannello che ne enuclea il contenuto nel dettaglio e
l’apporto calorico.
Per chi non si sia mai posto il problema dell’alimentazione del soldato
in azione, come recita il sottotitolo
della mostra, l’esposizione apre gli
occhi su un mondo dove cucina,
design ed ergonomia si fondono:
piccole scatole, sacchetti e sacchettini contengono quello che ciascun
paese ritiene essenziale per il proprio soldato (chi per un solo pasto,
chi per le intere 24 ore). Non solo
alimenti, c’è chi fornisce anche posate, fiammiferi, fazzoletti, gomme
da masticare o spazzolini da denti
(per ricordare che l’igiene dentale è
importante) o chi il kit lo prepara a
prova di forza di gravità. Chi come
la Nuova Zelanda si distingue per
l’omogeneità del packaging (tutto è
color sabbia), gli italiani per
l’inserimento di caffè, ravioli al ragù
e caramelle, chi invece per l’esiguità
del quantitativo di cibo (Thailandia).
Indipendentemente
dall’interesse
personale per le questioni militari e
tutto ciò che concerne si tratta di
una mostra curiosa e interessante,
oltretutto gratuita, e utile per cominciare ad allenare lo sguardo sulle
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mille declinazioni sul tema alimentazioni che nel 2015 in occasione di
Expo ci sommergeranno.
Razione K - Triennale di Milano,
viale Alemagna 10 Orari Martedi -
Domenica 10.30 - 20.30 Giovedi
10.30 - 23.00 Ingresso Libero
Quando il cibo si fa mostra
Food | La scienza dai semi al piatto,
non è solo una mostra dedicata
all’alimentazione: è un percorso di
avvicinamento e scoperta del processo di produzione di ciò che
mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni accompagnano il visitatore dalla scoperta dei cibo, dall’origine quando è
seme fino alle reazioni chimiche che
sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su
provenienza
storico-geografica,
suggerimenti sulle modalità di conservazione o exhibit interattivi.
La mostra, in corso fino al 28 giugno
2015 e allestita nelle sale del Museo
di Storia Naturale Milano, rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica promosso dal
Comune di Milano sul tema di Expo
2015. “Nutrire il Pianeta, Energia
per la Vita” e costituisce una delle
più importanti iniziative del programma di “Expo in Città”.
Tutto nasce dai semi è il titolo della
prima sala, nella quale vengono
raccontate le diverse classi e fami-
glie con caratteristiche, provenienza
e utilizzo. Decine e decine di barattoli mostrano, portando, in alcuni
casi per la prima volta, esemplari
che appartengono alle più importanti banche dei semi italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e
l’evoluzione degli alimenti dove mele, agrumi, riso, caffè e cacao non
avranno più segreti: tra giochi interattivi e alberi genealogici, tutto è
facilmente accessibile e non superficiale. Grande elemento positivo
della mostra è infatti la capacità di
rendere fruibili le nozioni più scientifiche a un pubblico differenziato,
senza per questo incorrere nel rischio di semplicismo.
Che la cucina sia un’arte è risaputo
da tempo, ma che alla base di tante
ricette vi siano principi di chimica e
fisica passa spesso inosservato: la
terza sezione della mostra illustra
come funzionano alcuni degli elettrodomestici più comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate che i broccoli hanno un
metabolismo più veloce delle cipolle
e che per meglio conservarli andrebbero avvolti in una pellicola di
plastica?!)
e
soluzioni
fisicochimiche ai problemi di chi cucina
(cosa fare se la maionese impazzisce?).
Quando poi sembra che niente in
materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala I sensi. Non solo gusto ovvero niente è
come sembra: vista, olfatto e tatto
anche nel mangiare giocano un ruolo determinante, al punto talvolta di
allontanare il gusto dalla reale percezione.
Il costo del biglietto è medio alto
(12/10 euro), ma la visita merita
davvero il prezzo d’ingresso se non
altro per cominciare ad affacciarsi
nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il 2015.
Food. La scienza dai semi al piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì
09.30 – 13.30 / Martedì, Mercoledì,
Venerdì, Sabato e Domenica 9.30 –
19.30 / Giovedì 9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro
L’arte di costruire relazioni: Céline Condorelli all’Hangar Bicocca
Se un pomeriggio d’inverno un
viaggiatore avesse voglia di scoprire
Milano attraverso uno dei luoghi
simbolo della storia industriale e artistica della città, potrebbe recarsi
all’Hangar Bicocca. Una delle mostre recentemente inaugurate nello
spazio è la personale di Céline
Condorelli, un’artista che vive e lavora fra Londra e Milano.
L’esposizione ha un titolo che non
passa inosservato:
bau bau.
L’espressione, che ludicamente richiama al verso di un cane, è anche
un omaggio al significato della parola in lingua tedesca, costruzione, e
all’esperienza della scuola del Bauhaus.
Effettivamente, superate le difficoltà
iniziali di approccio all’apparente
incomunicabilità dell’arte contemporanea, il percorso espositivo si rivela
ricco di spunti sul tema della costruzione e dell’amicizia, sviluppati attraverso sculture, installazioni, video
e scritti.
L’artista ha una formazione relativa
all’architettura e alla cultura visuale,
e ha riflettuto a lungo sulle “strutture
di sostegno”, ovvero su ciò che
supporta, sostiene, appoggia e corregge, sia in senso strutturale che
relazionale.
L’amicizia diventa per l’artista una
dimensione di lavoro e una forma
d’azione. I suoi pensieri sull’amicizia
sono condensati nel libro The
company she keeps, offerto ai visitatori su una scrivania: chiunque
può accomodarsi e leggerlo, e chi
vuole può anche salire sul tavolo
per osservare dall’alto la visuale
all’esterno, attraverso l’unica finestra dell’ambiente espositivo, aperta
appositamente dalla Condorelli in
occasione della mostra.
Un altro tema forte è infatti il dialogo
con gli spazi dell’Hangar. La mostra
è stata pensata in relazione alle
precedenti esposizioni (il pannello di
legno all’ingresso è lo stesso della
mostra precedente di Gusmão e
Paiva, e Céline vi ha posto una ven-
tola che produce un vento che sospinge lo spettatore attraverso la
scoperta delle opere; i video in onda
su una piramide di televisori ricordano la babelica torre di Cildo Meireles) così come l’installazione Nerofumo è stata appositamente prodotta attraverso la collaborazione
con lo stabilimento Pirelli di Settimo
Torinese.
Musica che fa da sottofondo nell’ingresso e nei bagni, installazioni che
diventano sedute su cui i visitatori
possono accomodarsi e colloquiare,
tende dorate mosse dal vento: bau
bau è una mostra irripetibile in qualsiasi altro luogo, in grado di seminare silenziosi spunti di riflessione negli interessati, curiosità negli scettici,
stupore negli appassionati. Giulia
Grassini
Céline Condorelli, bau bau Hangar Bicocca via Chiese 2, Milano
fino al 10 maggio 2015 – da giovedì
a domenica 11:00 – 23:00 Ingresso
gratuito
Nel Blu di Klein e Fontana al Museo del Novecento
Uno straordinario racconto di un
dopoguerra animato da artisti, colle-
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zionisti, intellettuali e mercanti è lo
scenario che si immagina faccia da
sfondo alla relazione di amicizia tra
Yves Klein e Lucio Fontana raccon-
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tata nella mostra in corso al Museo
del Novecento e che immergono chi
vi è coinvolto con stimoli visivi e
suggestioni intellettuali.
Due città, Milano e Parigi, e due artisti, distanti per età anagrafica, provenienza, formazione e stile ma con
in comune la ricerca artistica che si
articola verso nuove dimensioni
spaziali e concettuali. Ripercorrendo
il tradizionale allestimento cronologico del Museo ci si accosta progressivamente al rapporto tra i due:
più questo si fa intenso e più aumenta la densità di opere che si incontrano dei due artisti. L’apice del
sodalizio si raggiunge quando si
spalanca la vetrata sopra piazza del
Duomo con la Struttura al neon di
Lucio Fontana sul soffitto e la distesa blu di Pigment Pur di Klein. Un
dialogo straordinario all’interno del
quale il visitatore non può che sen-
tirsi coinvolto ed estasiato ammiratore.
Cinque sono gli anni cui la mostra è
dedicata: dal 1957, anno in cui Yves
Klein espone per la prima volta a
Milano alla Galleria Apollinaire una
serie di monocromi blu, al 1962, anno della morte dello stesso Klein.
L’inaugurazione della mostra in Brera è l’occasione in cui i due artisti si
incontrano per la prima volta e Fontana è tra i primi acquirenti di un
monocromo dell’artista francese,
diventando poi uno dei suoi più importanti collezionisti in Italia.
Nell’esposizione sono documentati
cinque anni di lettere, incontri, viaggi e condivisione di due artisti che
hanno segnato profondamente, ognuno a modo proprio, la storia
dell’arte novecentesca. L’affinità intellettuale e artistica emerge laddove le aperture spaziali di Fontana
(fisiche e concettuali) trovano corrispondenza nel procedere di Klein
dal monocromo al vuoto. Entrambi
perseguono uno spazio immateriale,
cosmico o spirituale, che forse appartiene a un’altra realtà.
Una mostra da non perdere “Yves
Klein Lucio Fontana, Milano Parigi
1957-1962”, che per la ricerca storico-artistica e le scelte curatoriali
non appaga solo la fame conoscitiva del visitatore, ma soprattutto fa sì
che venga immerso in un mondo blu
splendente che offre un profondo
godimento emozionale.
Klein Fontana. Milano Parigi
1957-1962 Museo del Novecento
piazza Duomo fino al 15 marzo
2015 lunedì 14.30 – 19.30 martedì,
mercoledì, venerdì e domenica 9.30
– 19.30 giovedì e sabato 9.30 –
22.30 Biglietti :10/8/5 euro
Tra Leonardo e Milano prosegue felicemente il sodalizio
Se in una pigra domenica sera emerge nel milanese un’incontenibile
voglia di visitare una mostra, quali
sono le proposte della città? Intorno
alle 19.30 non molte in realtà: Palazzo Reale così come i grandi musei del centro sono già in procinto di
chiudere. Una però attira l’attenzione, sarà per la posizione così
centrale o forse proprio per il fatto
che è ancora aperta.
Quella dedicata al genio di Leonardo Da Vinci, affacciata sulla Galleria
Vittorio Emanuele, è una mostra in
continua espansione che periodicamente si arricchisce di nuovi elementi frutto delle ricerche dal Centro
Studi Leonardo3, ideatore e organizzatore della mostra nonché
gruppo attento di studiosi. Se Leonardo produsse durante la sua vita
un’infinità di disegni e schizzi, L3 si
pone come obiettivo quello di studiare a fondo la produzione del genio tostano e renderla fruibile a tutte
le tipologie di pubblico con linguaggi
comprensibile e divulgativi offrendo
un momento ludico di intrattenimento educativo, adatto sia per bambini
che per adulti.
Quasi 500 mq ricchi di modelli tridimensionali e pannelli multimediali
che permettono realmente di scoprire le molteplici sfaccettature del
pensiero e dell’operato leonardesco:
macchine volanti o articolati strumenti musicali possono essere
smontate e rimontate; riproduzioni
del Codice Atlantico e di altri manoscritti sono tutte da sfogliare, ingrandire e leggere; ci sono giochi di
ruolo a schermo nei quali i visitatori
vestono i panni dello stesso Da Vinci. La produzione artistica non è dimenticata, anzi: un’intera sala è dedicata ai più famosi capolavori
dell’artista con un grande pannello e
due touchscreen dedicati al restauro
digitale dell’Ultima cena, alla Gioconda e a due autoritratti dell’autore.
Inaugurata nel marzo 2013, prorogata prima fino a febbraio 2014 e
ancora fino al 31 ottobre 2015, la
mostra ha superato le 250 mila visite imponendosi come centro attrattivo per turisti e cittadini. Un buon risultato, ma forse basso considerando l’alta qualità della mostra e la
posizione decisamente strategica. Il
successo di pubblico sarebbe stato
migliore (forse) con un maggiore
rilievo dato dalla stampa e dei social
network, e da un costo del biglietto
più calmierato. Ma c’è ancora tempo, e l’occasione giusta è alle porte:
non perdiamola e anzi, dimostriamo
che anche a Milano ci sono centri di
ricerca capaci di produrre mostre
interessanti senza necessariamente
creare allestimenti costosi ed esporre opere o modelli originali.
Leonardo3 - Il Mondo di Leonardo
1 marzo 2013 - 31 ottobre 2015
Piazza della Scala, Ingresso Galleria Vittorio Emanuele II Aperta tutti i
giorni, dalle 10:00 alle 23:00 compresi festivi Biglietti: 12/10/9 euro
LIBRI
questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero
[email protected]
Carlo Rovelli
Sette brevi lezioni di fisica
Piccola Biblioteca Adelphi
Milano 2014 pp.88, euro 10
Le sette lezioni riprendono, ampliandoli, una serie di articoli pubblicati da Rovelli sul Supplemento
domenicale del "Sole 24 Ore", cura-
n. 7 VII - 18 febbraio 2015
to da Armando Massarenti. L'autore,
noto fisico teorico e brillante divulgatore di temi scientifici, è, tra l'altro,
responsabile dell'Equipe de gravitè
quantique del Centre de phisique
thèorique dell'Università di AixMarseille. Nei primi sei capitoli il lettore viene condotto quasi per mano,
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con un linguaggio ammirevolmente
limpido, attraverso alcune tappe "inevitabili" della rivoluzione che ha
scosso la fisica dalle sue fondamenta nel corso del secolo XX.
La prima lezione è dedicata alla teoria della relatività generale, di Albert
Einstein, la "più bella delle teorie".
La seconda, alla meccanica quantistica, là dove si annidano gli aspetti
più sconcertante della fisica moderna. La terza lezione è dedicata al
cosmo: l'architettura dell'unìverso
che abitiamo o che crediamo di abitare. La quarta alle particelle elementari, che il fisico americano Murray Gell - Mann ha battezzato
"quarks" ispirandosi a una parola
senza senso in una frase senza
senso:"Three quarks for Muster
Mark!" che appare nel Finnegams
Wake di Joyce.
La quinta lezione è legata alla gravità quantistica, cioè al tentativo degli
scienziati, attualmente in corso, di
costruire una sintesi unitaria delle
grandi scoperte del secolo scorso.
La sesta alla probabilità, al tempo e
al calore dei buchi neri. Le poco più
di 80 pagine si chiudono con la settima lezione dove ci si domanda
come sia possibile all'uomo riuscire
a pensarsi nello strano mondo della
fisica moderna.
La densità delle pagine di Rovelli
renderebbe piuttosto difficile e poco
fedele ogni tentativo di riassunto o
di schematizzazione. Ci limiteremo,
perciò, a riprodurre la prima inebriante pagina della lezione dedicata
alla relatività generale: "Da ragazzo,
Albert Einstein ha trascorso un anno
a bighellonare oziosamente. Se non
si perde tempo non si arriva da nessuna parte, cosa che i genitori degli
adolescenti purtroppo dimenticano
presto. Era a Pavia. Aveva raggiunto la famiglia dopo avere abbandonato gli studi in Germania, dove non
sopportava i rigori del liceo. Era l'inizio del secolo e in Italia l'inizio della rivoluzione industriale. Il padre,
ingegnere, installava le prime centrali elettriche nella pianura padana.
Albert leggeva Kant e seguiva a
tempo perso lezioni all'Università di
Pavia: per divertimento, senza essere iscritto né fare esami. È così
che si diventa scienziati sul serio".
Buona lettura.
Paolo Bonaccorsi
SIPARIO
questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi
[email protected]
Shĕn Wĕi a Milano: l’intersezione tra oriente e occidente
I prossimi 20 e 21 febbraio a Milano
la compagnia di danza Shĕn Wĕi
Dance Arts porterà in scena due
coreografie del coreografo (e artista
completo) sinoamericano Shĕn Wĕi:
Folding (2000), capolavoro acclamato in tutto il mondo, e Collective
Measures (2013), prima europea
qui a Milano.
Shĕn Wĕi proviene da una famiglia
di artisti: il padre calligrafo e regista,
la madre produttrice teatrale, i fratelli pittori. Anche se ha scelto come
sua arte la danza, Shĕn Wĕi non
dimentica la tradizione artistica della
famiglia e nelle sue creazioni cura
personalmente le scenografie, sceglie le musiche, disegna i costumi.
La sua formazione coreutica presenta da un lato la tradizione tecnica e mimica della danza classica
cinese e del balletto occidentale,
dall’altro la specializzazione newyorkese della modern dance e della
danza contemporanea, caratterizzata dalla particolare attenzione
all’interiorità e la ‘frattura’ delle linee
pure per nuove linee spezzate.
Un’arte globale in senso sia qualitativo sia geografico: dalla Cina attraverso gli Stati Uniti fino a Milano,
dove l’arte di Shĕn Wĕi trova il punto di intersezione.
La coreografia Folding (pieghevole,
flessibile) del 2000 è stata presentata per la prima volta all’Opera di
Guangdong e ha riscosso immediato successo. Nella durata di 35 minuti, sulle note di Last Sleep of the
Virgin for Bells and String Quartet
(La dormitio della Vergine per campane e quartetto d’archi) di John
Tavener e di alcuni canti e mantra
dei monaci buddhisti tibetani si fondono due preghiere, due mondi in
una spersonalizzazione voluta dal
coreografo-regista.
I danzatori indossano solo ampie
vesti nere e rosse che coprono solo
la metà bassa del corpo e presentano crani lisci dolicocefali, che ricordano gli alieni di molti film. La
flessuosità e flessibilità del titolo si
nota nei movimenti contratti e continui, che danno anche un senso di
morbidezza. Il senso del metafisico
è dato anche dalla spersonalizzazione del luogo, una neutra scenografia minimalista che lascia spazio
allo spettatore di essere disegnata.
Collective Measures (Misure d’insieme) del 2013, per la prima volta
in Europa, presenta le relazioni di
oggi e le misure che ognuno prende
nelle relazioni con gli altri. Nei 35
minuti si susseguono alcuni brani di
alcuni compositori contemporanei
americani, Daniel Burke (che ha anche la direzione generale della musica) e Jerry Feller.
Alla danza si mescolano le tecnologie della videoproiezione, che dà
agli spettatori anche la visuale dal
focus opposto. La maturità del coreografo-regista si denota da questa
volontà di sperimentare la fusione
della danza contemporanea e della
tecnologia. Il risultato che lo spettatore vede si configura come un disegno bidimensionale, come se il
palco non avesse profondità, ma
fosse una tela cinematografica, su
cui i corpi dei danzatori (vestiti di
color pelle) creano linee in uni disegno continuo con varietà cromatica
dettata dal gioco di luci e videoproiezione.
Domenico G. Muscianisi
In scena il 20 e 21 febbraio 2015
al Teatro degli Arcimboldi di Milano.
CINEMA
questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi
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BIRDMAN o L’Imprevedibile Virtù dell’ignoranza
di Alejandro Inarritu [USA, 2014, 120']
con Michael Keaton, Edward Norton, Emma Stone, Naomi Watts, Lindsay Duncan
n. 7 VII - 18 febbraio 2015
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Per il bisogno profondo di sentirsi
apprezzato, rivalutato e amato, Riggan Thompson, stanco di essere
solo identificato come il popolare
interprete di un supereroe cinematografico con le sembianze di uccello, sceglie di darsi una seconda, e
forse ultima, occasione a teatro.
Caparbiamente rischia tanto, tutta la
sua fama e anche il ridicolo, portando in scena da autore e protagonista, l’adattamento di un testo difficile
e colto di Carver: “Di cosa parliamo
quando parliamo d’amore”.
Conduce la sua personalissima impresa ‘a perdere’ per rifarsi la pelle
e la reputazione, circondato da un
clan di caratteri: l’ex moglie ancora
affezionata, la figlia ex tossica,
l’attore talentuoso e insopportabile
(Edward Norton molto sopra le righe), il socio d’impresa che si carica
addosso tutte le grane, la critica teatrale snob e spietata.
La macchina da presa tallona senza
sosta il protagonista, un Michael
Keaton generoso che regala spes-
sore e fragilità allo stralunato personaggio, sottolineandone le azioni
ossessive, accompagnata da una
colonna sonora di percussioni molto
presente.
Per l’ultimo film di Alejandro Gonzalez Inarritu, che mescola riflessioni
sul mestiere dell’attore e sul mondo
dello Starsystem, sono stati fatti parecchi riferimenti alti richiamando
autori cinematografici scomparsi e
rimpianti. Si è parlato di Hitchcock,
ripensando al virtuosistico linguaggio senza stacchi della macchina da
presa di “The Rope" (Nodo alla gola), ma siamo lontani dai tributi al
maestro del brivido portati sullo
schermo da De Palma.
Si è citato Robert Altman, quello di
“Short Cuts" (America Oggi), film
lungo di grandezza infinita nel suo
meraviglioso e naturale alternarsi di
storie ispirate ai racconti di Raymond Carver, autore portato in
scena anche in Birdman, e l’Altman
del racconto corale di pezzi di Starsystem come “Nashville”.
Ma i film dei grandi citati erano film
risolti e dalla naturale scorrevolezza, mentre Birdman è una corsa affannosa verso una meta, che poi
non si chiude una volta per tutte ma
arranca in un doppio finale confuso
e che indebolisce il film. Qualcosa
manca, o forse qualcosa è di troppo, come gli insistiti riferimenti al
mondo dei social e l’abbondanza di
qualità soprannaturali del protagonista. Ed è un peccato perché il cast è
straordinario, con interpretazioni notevoli che portano dentro anche riferimenti autobiografici (Keaton è stato Batman) e la fotografia di Emanuel Lubezki incalzante di grande
livello tecnico anche nei movimenti
di macchina.
Presentato a Venezia, è in corsa
per nove Oscar: film, regia, sceneggiatura, attore protagonista e attori
non protagonisti, fotografia, sonoro.
E potrebbe portare a casa un bel
bottino tra premi tecnici e di recitazione. Marnie
IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE
PIAZZA XXIV MAGGIO: UNA NON PIAZZA
http://blog.urbanfile.org/2015/02/10/zona-ticinese-i-lavori-in-piazza-xxiv-maggio-2/
MILANO ZONA 2 secondo [ Mario ]
Mario Villa LA ZONA 2, UNA DELLE PIU DIFFICILI DI MILANO
http://youtu.be/AJv8GqsjWa0
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