ADOLFO FERRATA
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ADOLFO FERRATA
In clinica Ferrata ha il tratto e il portamento del padrone di casa; è sempre disponibile ad accogliere tutti con grande affabilità e benevolenza, ma dietro a questa immagine si nasconde il temperamento energico del “giocatore” di classe. Carnoso, elegante, misurato, Ferrata ha occhi candidi, ma riflessi scientifici “felini”. Impossibile coglierlo in fallo. Ferrata è un vincitore nato e offre all’interlocutore e a chi lo ascolti, l’impressione di saperne sempre di più. Non lo fa in maniera arrogante, ma pacata, con una dialettica fluida, efficace, penetrante; al bisogno, maneggia le lingue senza ostentazione e talvolta si lascia andare a qualche battuta del colorito regno borbonico, a ricordo dei suoi soggiorni napoletano e siciliano. Un pallino di Ferrata è la caccia; si infiamma a parlar di doppiette e sovrapposti, di roccoli e capanni, di tordi e beccaccini, di lepri e fagiani, di cani da battuta e da riporto. Il campo di battaglia è Montisola. Monte Isola o Isola di Siviano è la più estesa e la più elevata isola lacustre d’Europa; si trova sul lago d’Iseo o lago Sebino, fra le province di Bergamo e di Brescia. Occupata da un notevole rilievo montuoso, Montisola è zona di passaggio obbligato per gli stormi. Ferrata conosce e applica un impianto particolare di rete da caccia, detta bresciana, come la sua terra; nelle battute segue un preciso cerimoniale, che ubbidisce a norme antiche e semplici come il mondo. Una debolezza ce l’ha Ferrata, ed è particolare. Se il suo cane accoglie male qualcuno, anche lui diviene un poco diffidente; crede, di certo, che l’istinto e l’olfatto animale non sbaglino nel selezionare le persone ostili. “Socievole, bonario, allegro”, Ferrata a volte è “finanche bontempone”; si compiace di andare a teatro o al cinema o di trovarsi con gli amici o “con qualche bella signora”. La realtà degli ultimi anni è un poco diversa, perché Ferrata diviene un intellettuale velato da quel fondo di tristezza che adombra spesso gli uomini di successo; “mestizia, rimpianto nostalgico del passato e preoccupazione per l’avvenire”, si confondono con la strisciante amarezza della vita che sfugge. Ferrata non è solo, tutt’altro, ma si sente solo come i pessimisti che amano percorrere, con il pensiero, le strade del bene e del male assoluto. Nel febbraio del 1946, qualche tempo prima della sua scomparsa, Ferrata commemora il suo grande amico Mario Donati, clinico chirurgo di Milano, morto improvvisamente, di crepacuore. Donati è una delle vittime delle leggi razziali, ed è stato rimosso dalla cattedra con il decreto 5 settembre n° 1390, perché ebreo. Il pensiero chirurgico di Ferrata è affine a quello di Donati: “in chirurgia non solo distruggere, ma ricostruire e sostituire”, “ in chirurgia la tecnica deve essere subalterna alla clinica”, “la chirurgia non può essere delegata o ridotta alla pratica minuta”. Ferrata, verso la fine della conferenza, chiede espressamente che “anche con lui la morte sia così benigna da rapirlo alla vita terrena evitandogli la tristezza della decadenza fisica e spirituale, oltre che le sofferenze di una lunga malattia”. Certamente Ferrata “divinando, presentiva la morte”, perché aveva appena disposto che le sue spoglie riposassero a Montisola, terra prediletta dal grande maestro, terra “quieta e solenne”, come la sua personalità. Il cielo lo accontenta: “il cigno” muore in bellezza. La vicenda umana del più originale e geniale interprete dell’ematologia, si chiude all’improvviso, senza dolore e senza sofferenza. Ferrata, padre putativo dell’emoistioblasto, “schiatta” sul campo, di primo mattino, il 9 marzo 1946. Muore in gloria, al S. Matteo, in Clinica Medica, sul letto a sofà del “suo” studio; una morte dolce, amorosa, sensuale, raffinata, mielata. nosce al punto che viene chiamato a tenere conferenze e dibattiti su Dante, Manzoni, Foscolo, Fogazzaro. Quando si immerge nella letteratura, nessuno si accorge che Ferrata è un medico e viene giudicato un colto e pacato insegnante di lettere. Il suo poeta prediletto è Giacomo Leopardi, del quale Ferrata condivide la velata malinconia. All’apparenza Ferrata è pieno di gioia di vivere, eppure, per gli intrecci misteriosi della psiche, egli trova intime affinità con il grande poeta di Recanati. Nel corso di una conferenza, Ferrata, con il suo viso pacioso, ricorda la tristezza e la sofferenza di Leopardi; si commuove delle sue stesse parole e il suo lucido pensiero di scienziato finisce per confondersi con lo struggente pessimismo del poeta. Forse, Ferrata, nello spirito, è un poeta della medicina. Di Leopardi, Ferrata ama soprattutto lo Zibaldone di Pensieri, Le Operette Morali, la Ginestra, il Cielo di Aspasia. Chissà cosa unisce questi due grandi personaggi: il pessimismo storico, l’infelicità cosmica, il disprezzo dei vili, il travaglio delle idee? Li unisce, credo, lo stile poetico e filosofico del pensiero, l’approccio intellettuale ai problemi, la vivida capacità immaginativa e la convinzione che l’infelicità abbia radici insuperabili. Ferrata “si concede non poche escursioni in campo femminile”; compensa generosamente le donne, con cinquanta lire disposte in posizione strategica. Si vocifera maliziosamente e con una certa invidia, che anche in campo erotico Ferrata fosse un fuoriclasse. Ad un amico, che osa chiederglielo espressamente, Ferrata risponde: ”Vedi, le femmine mi adorano perché sono un buon anatomico, ma, soprattutto, sono un buon fisiologo”. I consulti di Ferrata sono molti e costano molto, moltissimo, cinquanta lire; in casi particolari, possono anche non costare nulla. Ferrata viene chiamato a consulto in tutta Italia, in Francia, in Svizzera, a Bucarest per la regina madre; viene chiamato a consulto anche da Mussolini per un suo nipote affetto da leucemia. Nel pagamento Ferrata applica un personale principio di giustizia: chi ha molto paghi molto, chi ha poco paghi poco. E’ una specie di Robin Hood della medicina: togliere qualcosa ai più abbienti a favore dei meno fortunati. Si racconta che, di ritorno da un consulto, gli sia stato presentato “un caso pietoso”, quello del grande matematico Berzolari; Ferrata, senza dire una parola, affonda la mano nella tasca del doppiopetto e consegna, tale e quale, la busta con l’intero compenso del consulto. Ferrata ha il gusto del bello, ama l’antiquariato e gli piace vivere fra una mobilia raffinata; ristruttura ed arricchisce anche lo studio in ospedale e lo fa a sue spese, esempio unico in una struttura pubblica. Ferrata è il primo direttore ad acquistare una bella automobile; la sua è l’unica macchina parcheggiata fuori dall’istituto. A chi gli domandi che tipo e che modello di automobile sia, Ferrata si adombra, finge di non saperlo e così risponde: “Bisogna chiederlo al Ceco, il mio chauffeur”. La spiegazione è semplice: guidare l’auto, per un professore universitario, è poco dignitoso, per non dire sconveniente, perché quello dell’autista è giudicato un mestiere di basso lignaggio. Qualche collega di Ferrata, invidioso, lo imita, ma poi, per gli eccessivi costi, rinuncia all’auto e ritorna alla carrozza o al tram. Ferrata è una personalità umanissima e generosissima; ai congressi, quando incontri qualcuno dell’Università di Pavia, vuole che diventino suoi ospiti; al tempo stesso ha trasporti di affetto verso i collaboratori ed è quasi naturale che uno dei suoi allievi, Giovanni Di Guglielmo, definisca il suo maestro come “un grande ingegno scaldato da un grande cuore”. IV Appunti di Storia della Medicina Pavese: ADOLFO FERRATA di Luigi Bonandrini Adolfo Ferrata nasce a Brescia il 25 aprile 1880. Compiuti gli studi classici, si iscrive alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Parma, dove si svolge una larga parte della sua formazione medica. Ferrata è uno studente brillante e collabora alla stesura del Trattato di Anatomia Umana di Tenchini. Due acuti e geniali maestri incidono profondamente sul processo di maturazione di Ferrata, modellandone pensiero e metodo: Alberto Riva e Luigi Zoia. Riva, direttore della Clinica Medica di Parma, è promotore dell’impostazione bio-patologica della clinica; Zoia, responsabile del laboratorio di Clinica e Microscopia, è promotore dell’impostazione biochimica della clinica. E’ quasi naturale, per Ferrata, diventare un micropatologo e plasmare il modello che “il clinico è clinico nell’insegnamento, ma è soprattutto patologo e biologo nello studio del malato”. Riva e Zoia sono legati alla Scuola medica pavese. Riva, di scuola bolognese, è stato professore straordinario di Patologia Medica a Pavia; Zoia, di scuola pavese, diverrà Clinico Medico prima a Pavia e poi a Milano. Tra l’altro Zoia appartiene ad una dinastia di cattedratici pavesi, in quanto nipote per parte di madre dell’anatomico Bartolomeo Panizza e figlio dell’anatomico Giovanni, successore di Panizza. Ferrata si laurea con lode all’Università di Parma nel luglio del 1904, dimostrando di aver veramente affinato lo “spirito” dell’osservazione microscopica. La vita scientifica e la carriera di Ferrata sono esemplari e fanno riferimento a tre periodi corrispondenti a successive e coordinate fasi evolutive della sua personalità di studioso e di maestro. Il primo periodo va dal 1902 al 1912 e comprende una intensa preparazione nel campo della ricerca e della didattica al letto del malato. Il secondo periodo va dal 1912 al 1924 e coincide con una poderosa e geniale attività sulle emopatie, ad impronta fortemente personale. Il terzo periodo va dal 1924 al 1946 e corrisponde al tentativo di risolvere molti dei più importanti e dibattuti problemi della medicina; è in questo periodo che Ferrata si afferma come autentico fuoriclasse della medicina mondiale. E’ curioso che Ferrata non abbia avuto nessun maestro ad indirizzarlo allo studio delle cellule del sangue; a spingerlo verso l’ematologia sono la sua divorante curiosità, la passione tormentata per la fine istologia e l’attrazione quasi maniacale per le alterazioni morfologiche. Le tappe della carriera di Ferrata cadenzano in modo puntuale. Assistente universitario nella Clinica Medica di Parma diretta da Alberto Riva, Ferrata nel 1907 si reca a Berlino da Morgenroth, immunologo della Scuola di Paul Ehrlich come vincitore di borsa di perfezionamento all’estero. Ritorna a Parma come Aiuto della Clinica Medica, ma, nel 1909, riparte con una nuova borsa di studio e si reca a Berlino, questa volta da Arthur Pappenheim. Nel 1912 viene trasferito a Napoli in Patologia Medica diretta da Pietro Castellino, dove conosce Giovanni Di Guglielmo. Nel Adolfo Ferrata 1920 Ferrata fonda con Moreschi la rivista Haematologia. Nel 1921 Ferrata è incaricato di Patologia Medica a Messina e poi vince il concorso a cattedra a Parma, concorso che però viene annullato. Dal 1922 al 1924 Ferrata è incaricato di Patologia Medica a Siena, dove vince la cattedra, ma vi rinuncia, perché, nel 1924 viene chiamato alla Clinica Medica dell’Università di Pavia, al momento del trasferimento di Zoia a Milano. A Pavia, nel 1925, Ferrata diviene professore ordinario in base all’art. 17, cioè per meriti eccezionali. Non si contano onorificenze, premi, inviti, titoli, gradi e riconoscimenti attribuiti a Ferrata, ammirato come un divo; lui, giustamente, se ne compiace, senza mai cambiare quel suo garbato cliché, con l’immancabile cravattino a farfalla, fatto da sé, quasi sempre piccolo e poco vistoso. La cellula diviene, da subito, “la febbre e il tormento” di Ferrata; lo studio del nucleo della cellula nervosa, il significato delle granulazioni del protoplasma, le ricerche sul villo intestinale, esprimono una straordinaria capacità di cogliere anche il più fine dettaglio citologico, sempre accompagnato da una perfetta documentazione iconografica. Ferrata si rivela, giovanissimo, quello che è, non propriamente un istologo, ma un raffinato citologo. Il passaggio al sangue è quasi naturale e lo studio del problema della genesi endoteliale dei globuli bianchi mononucleati conduce Ferrata alla questione di fondo: l’origine e l’evoluzione delle cellule del sangue, sulle orme di un altro fuoriclasse di scuola pavese, Giulio Bizzozzero. I si contano, ma esse contribuiscono a diffondere nel mondo il nome, il concetto ed il significato della cellula di Ferrata o Ferratazellen. Ferrata si diverte a “pungere” la scienza. Nel 1920, con una brevissima nota, analizza “La patogenesi e l’essenza delle anemie a tipo pernicioso” delle quali propone poi “una terapia epatica”. Ferrata è il vero scopritore di questa terapia, attribuita, sette anni dopo, agli americani Ulinot e Murphy; Ferrata, come succede spesso ai grandi ricercatori, non sempre è interessato “alle realizzazioni pratiche”. Nel 1924 termina il secondo periodo della vita scientifica di Ferrata e con esso “cessano le pubblicazioni sul dettaglio morfologico, ad eccezione di qualche nota polemica”. Dal 1924, anno della chiamata alla cattedra di Clinica Medica a Pavia, l’opera di Ferrata è “così varia e polimorfa” che diviene problematico il farne un’analisi critica; lezioni, conferenze, relazioni, comunicazioni, pubblicazioni, libri, trattati, si accompagnano ad una frenetica attività di assistenza, visite e consulti. Ferrata sviluppa “una coscienza interventistica” e sprona i suoi collaboratori ad una visione chirurgica di alcune malattie di tipo medico; “È mia convinzione, dice Ferrata, che in generale si intervenga troppo poco chirurgicamente in medicina interna”. Su questa base Ferrata pone per primo le indicazioni alla splenectomia: porpora, anemia emolitica, splenopatie congestizie e tromboflebiti spleniche, sono da trattare chirurgicamente. Nel 1942, al Congresso della Società Italiana di Medicina Interna, Ferrata lancia l’ennesima sfida: la splenectomia nelle leucemie croniche. “Prevedo, dice Ferrata, tutte le obiezioni che mi potranno fare”. La giustificazione di Ferrata è disarmante: “E’ mia opinione che in questi casi la milza sia di per se stessa malata, qualunque ne sia la causa”. Sono autentici “pilastri” del terzo periodo le opere sulle leucemie, sul morbo di Basedow, sulle coliti, sulle aortiti ignorate, sul mieloma multiplo, sulle splenomegalie, sulle ipostenie costituzionali, sulla tubercolosi miliare, sulle ghiandole endocrine, sulle nefropatie, sulle cardiopatie, sulle malattie digestive. L’iconografia di queste opere dimostra anche una vena ed un talento artistico di eccezionale levatura; Ferrata, “con un lungo, tenace e pazientissimo lavoro”, riesce a trasformare fredde riproduzioni in immagini vive e raffinate. Il 23 giugno 1935, Ferrata presiede, a Pavia, la prima riunione della Società Italiana di Ematologia, altro tassello della sua luminosa carriera. La storia della medicina è la storia dei medici, ma è soprattutto la storia delle idee; è una storia fredda sui libri, ma molto partecipata in campo applicativo. Ci sono medici che appartengono ad un’epoca, ma che sembrano sfidare il tempo e che sono sempre di attualità. Ferrata è uno di questi. Ironico, allegro e spiritoso, Ferrata è un medico della sua epoca, capace però di riflettere sul passato, di analizzare il presente e soprattutto di pensare al futuro. Ferrata diviene una specie di leggenda, di vangelo. “Ecco Ferrata”, viene sussurrato con grande ammirazione e rispetto nei consessi nazionali ed internazionali. “Lo ha detto Ferrata”, non è un’espressione poetica, ma diviene un’autentica professione di fede. Carlo Mauri, suo allievo, scrive che Ferrata “si astenne sempre dall’ipse dixit”. E’ vero e falso insieme. Formalmente è vero, perché Ferrata favorisce “la libera ed originale maturazione scientifica degli allievi, senza che ne fossero succubi”; praticamente è falso, perché Ferrata in campo ematologico acquisisce un’autorità tale che, al cenno del L’ematologia nasce davvero con Ferrata, esattamente un secolo fa, quando un “ragazzo” con geniale intuizione e spregiudicata sensibilità, coglie l’anima più intima e profonda di un grande problema scientifico. Ha ben ragione Paolo Introzzi, quando scrive che “Adolfo Ferrata non è morto e non può morire”, perché sin da giovane quest’uomo indica a tutti lo spirito e il soffio vitale della ricerca. Ferrata impara subito a sostenere le polemiche ed anche le controversie più vivaci non lo spaventano. Persona certo austera, ma al tempo stesso molto buona, Ferrata non serba e non serberà rancore per nessuno; è il vero segreto di un’indole improntata “ad un’ingenua comunanza di fede e di lavoro”. Nell’anno 1907, durante il soggiorno a Berlino, Ferrata pubblica sulla Berliner Klinische Wochenschrift, un brevissimo articolo dal titolo complicato: “Die Unwirksamkeit der complexen Hämolisin in salzfreien Lösungenund inre ursache”. E’ un capolavoro. Ferrata, lasciando per un momento il suo indirizzo citologico, dimostra la divisibilità del complemento emolitico; le due porzioni, separate, sono inattive, ma riunite, riacquistano la loro attività. E’ l’argomento della sua libera docenza, ma è soprattutto uno spunto di ricerca del quale molti altri si attribuiranno il merito. Per Ferrata è semplicemente un intermezzo della sua passione morfocitologica. Ferrata ritorna subito ai primi amori e, con una piccola nota dal titolo “Einige nene Feststellungen über die Vorstufen der Granulazyten”, dimostra che la cellula staminale “non contiene nessuna granulazione azzurrofila”; le granulazioni compaiono solo quando la cellula evolva in senso mielocitario. E’ una grande vittoria per Ferrata; la Stammzell, o cellula staminale,verrà indicata col nome di cellula di Ferrata. Nasce da queste ricerche un altro capolavoro scientifico; Pappenheim e Ferrata, nel 1911, pubblicano una monografia dal titolo “Sulle diverse forme cellulari linfoidi del sangue normale e patologico”. Il grande maestro e il giovane allievo, in una splendida simbiosi culturale, indicano al mondo scientifico le basi fondamentali dell’ematologia. Il “sogno” di Ferrata si realizza nell’anno successivo, quando pubblica il suo primo trattato, “La morfologia del sangue normale e patologico”. Il successo è enorme; il libro rende “popolare” l’ematologia in Italia e pone Ferrata in primo piano fra i ricercatori italiani. Finisce così in gloria il primo periodo dell’opera di Ferrata. Ferrata ritorna in Italia e affronta il problema “tanto complesso ed oscuro” delle malattie del sangue; L’opera della maturità ematologica è il trattato “Le emopatie”, di cui il primo volume è pubblicato nel 1918 e il secondo nel 1921. Ferrata è “sedotto” dalla morfologia delle cellule leucemiche e solo l’ostinata osservazione conduce ad un’altra straordinaria scoperta; il suo compagno d’avventura questa volta è il colonnello medico E. Franco dell’Ospedale Militare di Brescia. Nel sangue circolante di una leucemia mieloide, Ferrata vede la cellula istioide e i suoi derivati granulocitici; nasce da questa osservazione il concetto dell’origine istioide dell’emopoiesi. Si tratta di una cellula con nucleo a spugna, protoplasma polimorfo e lamellare, scarsamente basofilo, a duplice evolutività in senso emoblastico e in senso istioblastico: è l’emoistioblasto di Ferrata. Il paradosso di Ferrata è un preciso fenomeno scientifico dell’emoistioblasto e consiste in una spiccata basofilia del citoplasma, prima di iniziare la sua differenziazione per divenire cellula acidofila; il fenomeno non solo è reale, ma è paradosso solo in apparenza ed è “il corrispondente morfologico dell’intensa sintesi di RNA endocitoplasmatico”. Critiche, polemiche e discussioni non II Fieschi a Genova, Paolo Larizza a Perugia, Angelo Baserga a Ferrara; sono allievi e diretti continuatori della sua scuola medica pavese, Paolo Introzzi, Giuseppe Pellegrini, Edoardo Storti, Carlo Mauri e Vittorio Malamani. La famiglia ospedaliera di Ferrata è altrettanto poderosa e va ad occupare importanti primariati lombardi: Beltrametti a Brescia, Balduini a Cremona, Ravetta a Como, e tanti altri. Ferrata lascia una profonda traccia di continuità fino ai nostri giorni; ancor oggi chi ha avuto la fortuna di conoscerlo o di sentirne parlare dai suoi discepoli, coglie il ricordo emozionante di un talento unico e carismatico. Un allievo di Ferrata, sospeso fra università ed ospedale, è Giovanni Astaldi. Astaldi è uno dei capitani del gruppo ospedaliero di Ferrata, ma le sue aspirazioni sono sempre state di tipo universitario. Medico colto, grande professionista, lavoratore instancabile, studioso ed ematologo di fama, Astaldi incappa in due “trappole” che gli precludono definitivamente l’accesso accademico. Astaldi, nel periodo di ferragosto, visita un pagante, un ricco imprenditore brianzolo, il quale lo scambia, anche per una vaga somiglianza fisica, con il direttore Paolo “dunque” Introzzi. Apriti cielo; al ritorno di Introzzi si scatena il finimondo. Il peccato di Astaldi è di aver lasciato intendere che lui fosse il direttore e di non aver chiarito subito la questione. Certo il peccato è grave, ma la penitenza è ancor più grave: l’ostracismo universitario. La seconda trappola è più complessa ed è correlata alla morte di Fausto Coppi. Astaldi rilascia un'intervista televisiva, al tempo del tutto eccezionale, nella quale dichiara che, al momento del ricovero, Coppi è affetto da una pleuropolmonite presumibilmente di natura virale; la terapia è cortisonica ed antibiotica. Il peccato è di aver sottovalutato nell’anamnesi il soggiorno africano di Coppi. Ci si mette anche Geminiani, compagno e amico di Coppi, il quale, dalla Francia, dichiara ai giornali di aver telefonato ai medici curanti di Coppi, di averli informati che lui stesso ha preso la malaria e di averne ricevuto una risposta sprezzante. E’ vero che la telefonata è giunta a casa Coppi, ma è anche vero che viene presa dal medico di famiglia, il quale la riferisce ad Astaldi quando “l’airone” è ormai in stato comatoso. Il “peccato” è grave, ma la penitenza è un sillogismo ancor più grave: il “Campionissimo” è stato “accoppato” da Astaldi e un paio di compresse di chinino lo avrebbero salvato. In realtà Coppi viene ricoverato all’Ospedale di Tortona con le stigmate avanzate della “malaria nera”, causa ancora oggi di molti decessi “tropicali”; soltanto una diagnosi immediata e non sempre facile di malaria, una somministrazione precoce e massiva di chinino in vena, una terapia intensiva e rianimatoria avanzata, al tempo neppure ipotizzabile, avrebbero, forse, strappato Coppi al suo tragico destino. Ferrata è l’uomo più versatile della moderna storia medica pavese. Ha conoscenze profonde di astronomia, di musica, di pittura, di storia, di letteratura; incredibile la sua capacità di correlare la medicina e la scienza medica con “i più diversi campi delle espressioni del pensiero e dell’arte”. Ferrata è anche un cultore della semiotica del linguaggio. Nel corso di una conferenza tenuta a braccio, Ferrata ricorda le analogie fra le parole ebraiche adam e adom, per sottolineare la sua interpretazione biblica del sangue come fonte della vita; adam è il nome del primo uomo e adom significa appunto rosso sangue. Ferrata è un intellettuale del pensiero medico e non perde occasione per richiamare i medici ad una visione culturale, umanistica ed antropologica della medicina. Conosce a menadito la Divina Commedia, i Promessi Sposi, i Sepolcri, Piccolo mondo antico; li co- suo nome, nessuno discute o contraddice le sue posizioni”. Un problema accademico certamente “spinoso” e sempre fonte di un “vespaio” di discussioni, è quello relativo alle chiamate da una università ad un'altra. Ferrata viene chiamato dall'Università di Siena; si tratta cioè di un inserimento esterno. Al riguardo le correnti di pensiero sono due. La prima sottolinea gli aspetti positivi di questi spostamenti, perché vengono acquisite nuove personalità, idee innovative e linfa culturale vitale; la seconda ne sottolinea gli aspetti negativi e pone in luce che la scuola ricevente non ha capacità di esprimere e rinnovare persone e metodi di lavoro. Ferrata viene a Pavia e, da subito, diviene parte integrante della scuola pavese, ne sposa il senso di appartenenza, esprime l’orgoglio di farne parte, usa riguardi verso persone, pensieri e metodi della scuola di approdo. “Ferrata da Pavia” diviene così un linguaggio comune, a dimostrazione della sua perfetta integrazione; Ferrata riesce cioè nell’impresa di far dimenticare che non è di origine pavese e che non è né di scuola né di formazione pavese. Coerente con le sue nuove radici, Ferrata rifiuta più volte il trasferimento in sedi accademiche più importanti, più prestigiose ed anche più remunerative. Ferrata dimostra grande classe ed altrettanta umiltà, quando, nel 1942, alla Società Italiana di Medicina Interna, si confronta pubblicamente con le conclusioni, diametralmente opposte, formulate da un giovane allievo, a proposito delle leucemie animali trasmissibili. Da un lato Ferrata, convinto della natura iperplastica delle leucemie umane; dall’altra vi è il suo discepolo Edoardo Storti, convinto della natura neoplastica delle leucemie umane. E’ una lezione di etica, di stile, di libertà di ricerca, di maturazione intellettuale, un moderno confronto “all’americana”, vecchio di oltre mezzo secolo. Ferrata possiede una “cultura umanistica ed un gusto artistico” tale da poter scrivere e parlare tranquillamente di storia, di letteratura e di pittura, con la stessa profondità e con la stessa competenza con cui parla dell’emostioblasto; un ematologo tedesco che lo incontra a Pavia scrive nel suo diario di aver conosciuto “uno storico ancor più che un ematologo”. Antonio Pensa, collega universitario ma soprattutto amico fraterno, ricorda che “la bontà di Ferrata era nota a tutti e qualcuno anche ne approfittava”. Questo aspetto della complessa personalità di Ferrata, crea a volte “situazioni imbarazzanti”, nelle quali “indulgenza e generosità” finiscono per scavalcare il principio della correttezza e della giustizia; accade soprattutto agli esami, quando Ferrata, dopo aver constatato l’impreparazione di uno studente, alla fine ricerca una qualche buona ragione per “volerne fare il salvataggio” Le lezioni di Ferrata sono magistrali. Sempre puntuale, Ferrata arriva alle 11,15 e termina alle 13,00. Non vola una mosca; aiuto, assistenti, studenti e medici esterni ascoltano, incantati, le parole del maestro. “Alto, eretto, impeccabile”, Ferrata pone a lezione una serie di quesiti e risponde a ciascuno di essi con lucida precisione. Pone anche i problemi delle questioni irrisolte e dopo una discussione serrata, termina in maniera lapidaria: “La leucemia è quella che è”. I principi didattici di Ferrata sono semplici: “Chiedersi il perché delle cose”, “observatio e ratio”, “logica del pensiero”, “rigore scientifico”; scrive Vittorio Malamani che davvero Ferrata “sapeva leggere il difficile libro dell’uomo malato”. Sono allievi di Ferrata, divenuti a loro volta capiscuola, Giovanni Di Guglielmo a Roma, Luigi Villa a Milano, Aminta III