T 8 La morte di pietra nel discorso mitico

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T 8 La morte di pietra nel discorso mitico
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La morte di pietra nel discorso mitico
1) La pietrificazione di Atlante. Ovidio, Metamorfosi, IV, 621-662
Inde per inmensum ventis discordibus actus
nunc huc, nunc illuc exemplo nubis aquosae
fertur et ex alto seductas aethere longe
despectat terras totumque supervolat orbem.
ter gelidas Arctos, ter Cancri bracchia vidit,
saepe sub occasus, saepe est ablatus in ortus.
Iamque cadente die, veritus se credere nocti,
constitit Hesperio, regnis Atlantis, in orbe
exiguamque petit requiem, dum Lucifer ignes
evocet Aurorae, currus Aurora diurnos.
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Hic hominum cunctos ingenti corpore praestans
Iapetionides Atlas fuit: ultima tellus
rege sub hoc et pontus erat, qui Solis anhelis
aequora subdit equis et fessos excipit axes.
Mille greges illi totidemque armenta per herbas
errabant, et humum vicinia nulla premebat.
Arboreae frondes auro radiante nitentes
ex auro ramos, ex auro poma tegebant.
'hospes' ait Perseus illi, 'seu gloria tangit
te generis magni, generis mihi Iuppiter auctor;
sive es mirator rerum, mirabere nostras.
Hospitium requiemque peto.' Memor ille vetustae
sortis erat; Themis hanc dederat Parnasia sortem:
'Tempus, Atlas, veniet, tua quo spoliabitur auro
arbor, et hunc praedae titulum Iove natus habebit.'
Id metuens solidis pomaria clauserat Atlas
moenibus et vasto dederat servanda draconi
arcebatque suis externos finibus omnes.
Huic quoque 'vade procul, ne longe gloria rerum,
quam mentiris' ait, 'longe tibi Iuppiter absit!'
Vimque minis addit manibusque expellere temptat
cunctantem et placidis miscentem fortia dictis.
Viribus inferior (quis enim par esset Atlantis
viribus?) 'at, quoniam parvi tibi gratia nostra est,
accipe munus!' ait laevaque a parte Medusae
ipse retro versus squalentia protulit ora.
Quantus erat, mons factus Atlas: nam barba comaeque
in silvas abeunt, iuga sunt umerique manusque,
quod caput ante fuit, summo est in monte cacumen,
ossa lapis fiunt; tum partes auctus in omnes
crevit in inmensum (sic, di, statuistis) et omne
cum tot sideribus caelum requievit in illo.
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“Da lì, spinto dal variare dei venti per l’immensità del cielo,
come una nube gonfia di pioggia, Perseo vagò ora qua,
ora là, osservando dall’alto dello spazio giù
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in lontananza la terra nel suo volo sull’universo intero.
Tre volte vide le Orse gelide, tra volte le chele del Cancro,
trascinato un tempo a ponente, l’altro dove sorge il solo.
E già tramontava il giorno: temendo d’abbandonarsi alla notte,
si fermò nel territorio di Esperia, nel regno di Atlante,
per concedersi un po’ di riposo finché Lucifero
non svegliasse i bagliori di Aurora e Aurora il carro del giorno.
Questo Atlante, figlio di Giàpeto, era di statura enorme,
più di qualsiasi uomo: regnava sul lembo estremo
della terra e del mare, dove le onde accolgono
i cavalli ansanti e il cocchio affaticato del Sole.
Migliaia di greggi aveva e altrettanti armenti che vagavano
Nei prati, e nessun vicino premeva ai suoi confini.
Sugli alberi fronde smaglianti per lo sfavillio
Dell’oro coprivano rami d’oro, frutti d’oro.
“Straniero,” gli disse Perseo, “se hai in lode la gloria
di una grande stirpe, io sono della stirpe di Giove;
se ammiri le grandi gesta, le mie ammirerai.
chiedo ospitalità per riposarmi.” Ma presente aveva Atlante
la profezia che sul Parnaso gli aveva un giorno predetto Temi:
“Tempo, Atlante, verrà, che i tuoi alberi saranno spogliati
dell’oro, e sarà un figlio di Giove a gloriarsi della preda”.
Per timore di ciò aveva cintato i suoi frutteti di barriere
massicce, ne aveva affidato la custodia a un drago enorme
e vietava a qualsiasi forestiero di entrare nei suoi confini.
Anche a lui disse: “Vattene via, prima che svaniscano nel nulla
le gesta che vai millantando e nel nulla il tuo Giove!”.
E aggiunse violenza alle minacce, cercando a forza di scacciarlo,
mentre resisteva alternando parole energiche alle pacate.
Il più debole (e chi mai potrebbe competere in fatto di forza
con Atlante?) gli rispose: “Visto che non conto nulla per te,
prenditi questo regalo!”, e girandosi dalla parte contraria,
con la sinistra protese l’orrido volto di Medusa.
Grande quant’era, Atlante divenne un monte: barba e capelli
si mutarono in selve, spalle emani in gioghi,
quello che un tempo era il capo nel vertice della montagna,
e le ossa in roccia. Poi, ingigantendo in ogni dove,
crebbe a dismisura (questo il volere degli dei) e tutto il cielo
con le sue innumerevoli stelle poggiò su di lui”.
(Testo e traduzione da Ovidio, Metamorfosi, a cura di Mario Ramous, Garzanti, Milano 1995).
2) La trasformazione dei ramoscelli in coralli. Ovidio, Metamorfosi, IV, 740-752.
Ipse manus hausta victrices abluit unda,
anguiferumque caput dura ne laedat harena,
mollit humum foliis natasque sub aequore virgas
sternit et inponit Phorcynidos ora Medusae.
Virga recens bibulaque etiamnum viva medulla
vim rapuit monstri tactuque induruit huius
percepitque novum ramis et fronde rigorem.
At pelagi nymphae factum mirabile temptant
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pluribus in virgis et idem contingere gaudent,
seminaque ex illis iterant iactata per undas:
Nunc quoque curaliis eadem natura remansit,
duritiam tacto capiant ut ab aere quodque
vimen in aequore erat, fiat super aequora saxum.
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“L’eroe intanto attinge acqua e si lava le mani vittoriose;
poi, perché le rena ruvida non danneggi il capo irto di serpi
della figlia di Forco, l’ammorbidisce con le foglie, la copre
di ramoscelli acquatici e vi depone la faccia di Medusa.
I ramoscelli freschi e ancora vivi ne assorbono nel midollo
la forza e a contatto col mostro s’induriscono,
assumendo nei bracci e nelle foglie una rigidità mai vista.
Le ninfe del mare riprovano con molti altri ramoscelli
e si divertono a vedere che il prodigio si ripete;
così li fanno moltiplicare gettandone i semi nel mare.
Ancor oggi i coralli conservano immutata la proprietà
d’indurirsi a contatto dell’aria, per cui ciò che nell’acqua
era vimine, spuntandone fuori si pietrifica”.
(Testo e traduzione da Ovidio, Metamorfosi, a cura di Mario Ramous, Garzanti, Milano 1995).
3) Il furore portatore di morte di Ettore. Omero, Iliade VIII, 335-349
a)\y d' au)=tij Trw/essin )Olu/mpioj e)n me/noj w)=rsen:
oi(\ d' i)qu\j ta/froio baqei/hj w)=san )Axaiou/j:
(/Ektwr d' e)n prw/toisi ki/e sqe/nei+blemeai/nwn.
w(j d' o(/te ti/j te ku/wn suo\j a)gri/ou h)e\ le/ontoj
a(/pthtai kato/pisqe posi\n taxe/essi diw/kwn
i)sxi/a te gloutou/j te, e(lisso/meno/n te dokeu/ei,
w(\j (/Ektwr w)/paze ka/rh komo/wntaj )Axaiou/j,
ai)e\n a)poktei/nwn to\n o)pi/staton: oi(\ de\ fe/bonto.
au)ta\r e)pei\ dia/ te sko/lopaj kai\ ta/fron e)/bhsan
feu/gontej, polloi\ de\ da/men Trw/wn u(po\ xersi/n,
oi(\ me\n dh\ para\ nhusi\n e)rhtu/onto me/nontej,
a)llh/loisi/ te keklo/menoi kai\ pa=si qeoi=si
xei=raj a)ni/sxontej mega/l' eu)xeto/wnto e(/kastoj:
(/Ektwr d' a)mfiperistrw/fa kalli/trixaj i(/ppouj
Gorgou=j o)/mmat' e)/xwn h)de\ brotoloigou= )/Arhoj.
“Ma l’Olimpio di nuovo ispirò ardore ai Teucri,
che spinsero gli Achei verso il fossato profondo:
Ettore andava fra i primi, fiero della sua forza.
Come un cane talvolta selvaggio cinghiale o leone
attacca da dietro - con rapidi piedi seguendolo ai fianchi o alle cosce, ma il voltarsi ne spia;
così inseguiva Ettore gli Achei lunghi capelli,
sempre uccidendo l’ultimo; e quelli fuggivano.
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Ma quando passarono i pali e il fossato
fuggendo - e molti sotto le mani dei Teucri eran morti si fermarono essi, s’arrestarono presso le navi,
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gli uni chiamando gil altri; e a tutti gli dèi
innalzando le mani, molto pregava ciascuno.
Avanti, indietro, i cavalli belle criniere girava Ettore intanto,
con lo sguardo della Gorgone, d’Ares flagello degli uomini”
(Testo e traduzione da Omero, Iliade, a cura di Rosa Calzecchi Onesti, Torino 19849).
4) La Gorgone sullo scudo di Agamennone. Omero, Iliade XI, 29-42.
a)mfi\ d' a)/r' w)/moisin ba/leto ci/foj: e)n de/ oi( h(=loi
xru/seioi pa/mfainon, a)ta\r peri\ kouleo\n h)=en
a)rgu/reon xruse/oisin a)orth/ressin a)rhro/j.
a)\n d' e(/let' a)mfibro/thn poludai/dalon a)spi/da qou=rin
kalh/n, h(\n pe/ri me\n ku/kloi de/ka xa/lkeoi h)=san,
e)n de/ oi( o)mfaloi\ h)=san e)ei/kosi kassite/roio
leukoi/, e)n de\ me/soisin e)/hn me/lanoj kua/noio.
th=? d' e)pi\ me\n Gorgw\ blosurw=pij e)stefa/nwto
deino\n derkome/nh, peri\ de\ Dei=mo/j te Fo/boj te.
th=j d' e)c a)rgu/reoj telamw\n h)=n: au)ta\r e)p' au)tou=
kua/neoj e)le/likto dra/kwn, kefalai\ de/ oi( h)=san
trei=j a)mfistrefe/ej e(no\j au)xe/noj e)kpefuui=ai.
krati\ d' e)p' a)mfi/falon kune/hn qe/to tetrafa/lhron
i(/ppourin: deino\n de\ lo/foj kaqu/perqen e)/neuen.
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“Gettò poi la spada intorno alle spalle: borchie
d’oro vi lucevano, e il fodero intorno
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era d’argento, sospeso a ganci d’oro;
e sollevò lo scudo grande, adorno, robusto,
bellissimo; correvano in giro dieci cerchi di bronzo
e in mezzo v’erano venti borchie di stagno,
bianche, nel centro una di smalto nerastro;
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faceva corona allo scudo la Gorgone, tremenda visione,
che torvo guarda; intorno a lei errore e Disfatta.
Il balteo era d’argento e sopra di esso
strisciava un serpente di smalto e aveva tre teste
tutte intrecciate, uscenti da un collo solo.
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In testa l’elmo si pose a due cimieri, e quattro ali
e coda equina; terribilmente sopra ondeggiava il pennacchio”
(Testo e traduzione da Omero, Iliade, a cura di Rosa Calzecchi Onesti, Torino 19849).
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5) La Gorgone nell’Ade. Omero, Odissea, XI, 627-640.
“w(\j ei)pw\n o( me\n au)=tij e)/bh do/mon )/Ai+doj ei)/sw,
au)ta\r e)gw\n au)tou= me/non e)/mpedon, ei)/ tij e)/t' e)/lqoi
a)ndrw=n h(rw/wn, oi(\ dh\ to\ pro/sqen o)/lonto.
kai/ nu/ k' e)/ti prote/rouj i)/don a)ne/raj, ou(\j e)/qelo/n per,
Qhse/a Peiri/qoo/n te, qew=n e)rikude/a te/kna:
a)lla\ pri\n e)pi\ e)/qne' a)gei/reto muri/a nekrw=n
h)xh=? qespesi/h?: e)me\ de\ xlwro\n de/oj h(/?rei,
mh/ moi Gorgei/hn kefalh\n deinoi=o pelw/rou
e)c )Ai/doj pe/myeien a)gauh\ Persefo/neia.
“au)ti/k' e)/peit' e)pi\ nh=a kiw\n e)ke/leuon e(tai/rouj
au)tou/j t' a)mbai/nein a)na/ te prumnh/sia lu=sai.
oi( d' ai)=y' ei)/sbainon kai\ e)pi\ klhi=si kaqi=zon.
th\n de\ kat' )Wkeano\n potamo\n fe/re ku=ma r(o/oio,
prw=ta me\n ei)resi/h?, mete/peita de\ ka/llimoj ou)=roj.
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“Così detto rientrò nella casa dell’Ade.
Ma io restavo là ancora, se venisse qualcuno
degli eroi, che in passato morirono.
E li avrei visti gli uomini antichi, come volevo,
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Teseo e Piritòo, figli gloriosi di dèi.
Ma prima una schiera infinita si raccolse di morti,
con grida raccapriccianti: e verde orrore mi prese
che il capo della Gorgona, il mostro tremendo,
dall’Ade mandasse la lucente Persefone.
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E presto alla nave fuggendo, ordinavo ai compagni
di salire anche loro e sciogliere le gòmene:
subito quelli salivano e sui banchi sedevano.
La nave pel fiume Oceano portava sul flutto scorrente
la forza dei remi, prima, e poi un bellissimo vento”. 640
(Testo e traduzione da Omero, Odissea, a cura di Rosa Calzecchi Onesti, Torino 1989).
6) Odisseo abbevera col sangue le anime dei morti. Omero, Odissea, XI, 23-50.
“e)/nq' i(erh/ia me\n Perimh/dhj Eu)ru/loxo/j te
e)/sxon: e)gw\ d' a)/or o)cu\ e)russa/menoj para\ mhrou=
bo/qron o)/ruc' o(/sson te pugou/sion e)/nqa kai\ e)/nqa,
a)mf' au)tw=? de\ xoh\n xeo/mhn pa=sin neku/essi,
prw=ta melikrh/tw?, mete/peita de\ h(de/i oi)/nw?,
to\ tri/ton au)=q' u(/dati: e)pi\ d' a)/lfita leuka\ pa/lunon.
polla\ de\ gounou/mhn neku/wn a)menhna\ ka/rhna,
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e)lqw\n ei)j )Iqa/khn stei=ran bou=n, h(/ tij a)ri/sth,
r(e/cein e)n mega/roisi purh/n t' e)mplhse/men e)sqlw=n,
Teiresi/h? d' a)pa/neuqen o)/in i(ereuse/men oi)/w?
pamme/lan', o(\j mh/loisi metapre/pei h(mete/roisi.
tou\j d' e)pei\ eu)xwlh=?si lith=?si/ te, e)/qnea nekrw=n,
e)llisa/mhn, ta\ de\ mh=la labw\n a)pedeiroto/mhsa
e)j bo/qron, r(e/e d' ai(=ma kelainefe/j: ai( d' a)ge/ronto
yuxai\ u(pe\c )Ere/beuj neku/wn katateqnhw/twn.
nu/mfai t' h)i/qeoi/ te polu/tlhtoi/ te ge/rontej
parqenikai/ t' a)talai\ neopenqe/a qumo\n e)/xousai,
polloi\ d' ou)ta/menoi xalkh/resin e)gxei/h?sin,
a)/ndrej a)rhi/fatoi bebrotwme/na teu/xe' e)/xontej:
oi(\ polloi\ peri\ bo/qron e)foi/twn a)/lloqen a)/lloj
qespesi/h? i)axh=?: e)me\ de\ xlwro\n de/oj h(/?rei.
dh\ to/t' e)/peiq' e(ta/roisin e)potru/naj e)ke/leusa
mh=la, ta\ dh\ kate/keit' e)sfagme/na nhle/i xalkw=?,
dei/rantaj katakh=ai, e)peu/casqai de\ qeoi=sin,
i)fqi/mw? t' )Ai/+dh? kai\ e)painh=? Persefonei/h?:
au)to\j de\ ci/foj o)cu\ e)russa/menoj para\ mhrou=
h(/mhn, ou)d' ei)/wn neku/wn a)menhna\ ka/rhna
ai(/matoj a)=sson i)/men, pri\n Teiresi/ao puqe/sqai.
“Qui le vittime Perimède ed Euríloco
tennero: e io la spada acuta dalla coscia sguainando
scavai una fossa d’un cubito, per lungo e per largo,
e intorno ad essa libai la libagione dei morti,
prima di miele e latte, poi di vino soave,
la terza d’acqua: e spargevo bianca farina,
e supplicavo molto le teste esangui dei morti,
promettendo che, in Itaca, sterile vacca bellissima,
avrei sgozzato nella mia casa e riempito il rogo di doni;
e per Tiresia a parte avrei offerto un montone
tutto nero, quello che tra le nostre greggi eccelleva.
E quando con voti e con suppliche le stirpi dei morti
ebbi invocato, prendendo le bestie tagliai loro la gola
sopra la fossa: scorreva sangue nero fumante. S’affollarono
fuori dall’Erebo l’anime dei travolti da morte,
giovani donne e ragazzi e vecchi che molto soffrirono,
fanciulle tenere, dal cuore nuovo al dolore;
e molti, squarciati dall’aste punta di bronzo,
guerrieri uccisi in battaglia, con l’armi sporche di sangue.
Essi in folla intorno alla fossa, di qua, di là, si pigiavano
con grida raccapriccianti: verde orrore mi prese.
Presto, i compagni incitando, ordinai
che le bestie giacenti, scannate dal bronzo crudele,
scuoiassero e ardessero e supplicassero i numi,
l’Ade invincibile e la tremenda Persefone:
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ma io, la spada affilata dalla coscia sguainando,
sedevo e non lasciavo le teste esangui dei morti
avvicinarsi al sangue, prima che interrogassi Tiresia”.
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(Testo e traduzione da Omero, Odissea, a cura di Rosa Calzecchi Onesti, Torino 1989).
7) La pietra che segna la dimora di Ade. Omero, Odissea, X, 508-515.
a)ll' o(po/t' a)\n dh\ nhi\ di' )Wkeanoi=o perh/sh?j,
e)/nq' a)kth/ te la/xeia kai\ a)/lsea Persefonei/hj,
makrai/ t' ai)/geiroi kai\ i)te/ai w)lesi/karpoi,
nh=a me\n au)tou= ke/lsai e)p' )Wkeanw=? baqudi/nh?,
au)to\j d' ei)j )Ai/dew i)e/nai do/mon eu)rw/enta.
e)/nqa me\n ei)j )Axe/ronta Puriflege/qwn te r(e/ousin
Kw/kuto/j q', o(\j dh\ Stugo\j u(/dato/j e)stin a)porrw/c,
pe/trh te cu/nesi/j te du/w potamw=n e)ridou/pwn:
“E quando con la nave l’Oceano avrai traversato,
dov’è una bassa spiaggia e boschi sacri a Persefone,
alti pioppi e salici dai frutti che non maturano,
tira in secco la nave in riva all’Oceano gorghi profondi,
e scendi nelle case putrescenti dell’Ade.
Qui in Acheronte il Piriflegetonte si getta
e il Cocito, ch’è un braccio dell’acqua di Stige,
e c’è una roccia, all’unione dei due fiumi sonanti”.
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(Testo e traduzione da Omero, Odissea, a cura di Rosa Calzecchi Onesti, Torino 1989).
8) La morte di pietra. Pindaro, X, 43-50
qrasei/a? de\ pne/wn kardi/a?
[70] mo/len Dana/aj pote\ pai=j, a(gei=to d' )Aqa/na,
e)j a)ndrw=n maka/rwn o(/milon: e)/pefne/n te Gorgo/na, kai\ poiki/lon ka/ra
drako/ntwn fo/baisin h)/luqe nasiw/taij
li/qinon qa/naton fe/rwn. e)moi\ de\ qauma/sai
qew=n telesa/ntwn ou)de/n pote fai/netai
e)/mmen a)/piston.
“Un giorno, respirando una nobile audacia, il figlio di Danae, lo conduceva Atena, giunse
all’assemblea di quel popolo beato (gli Iperborei); aveva ucciso la Gorgone, e tenendo in mano la
sua testa screziata della chioma di serpenti, venne a portare agli abitanti dell’isola (Serifo) la morte
di pietra. Per me, quando gli dei lo compiono, niente sembra incredibile”
(Testo da Pindare, Pytiques, texte établi et traduit par Aimé Puech, Paris 1961. Traduzione P. Zampini).
9) “Morto come una pietra muta”. Teognide 567-570.
h(/bhi terpo/menoj pai/zw: dhro\n ga\r e)/nerqen
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gh=j o)le/saj yuxh\n kei/somai w(/ste li/qoj
a)/fqoggoj, lei/yw d’ e)rato\n fa/oj h)eli/oio,
e)/mphj d’ e)sqlo\j e)w\n o)/yomai ou)de\n e)/ti.
“Godo la giovinezza e scherzo. A lungo nella terra
giacerò senza vita, come una pietra muta,
e lascerò l’amato splendore del sole. Io ero
davvero un buono, e non vedrò più nulla”.
(Testo e traduzione da “Lirici greci dell’età arcaica”, a cura di Enzo Mandruzzato, Milano 1994).
10) Le ossa della Grande Madre. Ovidio, Metamorfosi, I, 381-433.
Mota dea est sortemque dedit: 'discedite templo
et velate caput cinctasque resolvite vestes
ossaque post tergum magnae iactate parentis!'
obstupuere diu: rumpitque silentia voce
Pyrrha prior iussisque deae parere recusat,
detque sibi veniam pavido rogat ore pavetque
laedere iactatis maternas ossibus umbras.
interea repetunt caecis obscura latebris
verba datae sortis secum inter seque volutant.
inde Promethides placidis Epimethida dictis
mulcet et 'aut fallax' ait 'est sollertia nobis,
aut (pia sunt nullumque nefas oracula suadent!)
magna parens terra est: lapides in corpore terrae
ossa reor dici; iacere hos post terga iubemur.'
Coniugis augurio quamquam Titania mota est,
spes tamen in dubio est: adeo caelestibus ambo
diffidunt monitis; sed quid temptare nocebit?
descendunt: velantque caput tunicasque recingunt
et iussos lapides sua post vestigia mittunt.
saxa (quis hoc credat, nisi sit pro teste vetustas?)
ponere duritiem coepere suumque rigorem
mollirique mora mollitaque ducere formam.
mox ubi creverunt naturaque mitior illis
contigit, ut quaedam, sic non manifesta videri
forma potest hominis, sed uti de marmore coepta
non exacta satis rudibusque simillima signis,
quae tamen ex illis aliquo pars umida suco
et terrena fuit, versa est in corporis usum;
quod solidum est flectique nequit, mutatur in ossa,
quae modo vena fuit, sub eodem nomine mansit,
inque brevi spatio superorum numine saxa
missa viri manibus faciem traxere virorum
et de femineo reparata est femina iactu.
inde genus durum sumus experiensque laborum
et documenta damus qua simus origine nati.
Cetera diversis tellus animalia formis
sponte sua peperit, postquam vetus umor ab igne
percaluit solis, caenumque udaeque paludes
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intumuere aestu, fecundaque semina rerum
vivaci nutrita solo ceu matris in alvo
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creverunt faciemque aliquam cepere morando.
sic ubi deseruit madidos septemfluus agros
Nilus et antiquo sua flumina reddidit alveo
aetherioque recens exarsit sidere limus,
plurima cultores versis animalia glaebis
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inveniunt et in his quaedam modo coepta per ipsum
nascendi spatium, quaedam inperfecta suisque
trunca vident numeris, et eodem in corpore saepe
altera pars vivit, rudis est pars altera tellus.
quippe ubi temperiem sumpsere umorque calorque,
concipiunt, et ab his oriuntur cuncta duobus,
cumque sit ignis aquae pugnax, vapor umidus omnes
res creat, et discors concordia fetibus apta est.
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“Commossa la dea sentenziò: “Andando via dal tempio
velatevi il capo, slacciatevi le vesti
e alle spalle gettate le ossa della grande madre”.
Lungo fu il loro smarrimento, poi Pirra ruppe il silenzio
per prima, rifiutandosi di obbedire a quegli ordini e per sé
invocava, con voce tremante, il perdono divino al timore
di offendere l’ombra di sua madre, disperdendone le ossa.
E continuano a ripetersi dentro le parole oscure,
impenetrabili del responso e a girarvi intorno.
Ma a un tratto il figlio di Promèteo rasserena la sua sposa
con queste parole pacate: “O io m’inganno o giusto
è l’oracolo e non c’induce in sacrilegio.
La grande madre è la terra; per ossa credo intenda
le pietre del suo corpo: queste dobbiamo noi gettarci alle spalle”.
La figlia del Titano è scossa dall’intuito del marito,
anche se dubbia è la speranza, tanto incredibile sembra a loro
il consiglio divino. Ma che male s’aveva a tentare?
S’incamminano, velandosi il capo, sciogliendo le vesti,
e ubbidendo, lanciano pietre alle spalle sui loro passi.
E i sassi (chi lo crederebbe se non l’attestasse il tempo antico?)
cominciarono a perdere la loro rigida durezza,
ad ammorbidirsi a poco a poco e, ammorbiditi, a prendere forma.
Poi, quando crebbero e più duttile si fece la natura loro,
fu possibile in questi intravedere forme umane,
ancora imprecise, come se fossero abbozzate
nel marmo, in tutto simili a statue appena iniziate.
E se in loro v’era una parte umida di qualche umore
o di terriccio, fu usata a formare il corpo;
ciò che era solido e rigido fu mutato in ossa;
quelle che erano vene, rimasero con lo stesso nome.
E in breve tempo, per volere degli dei, i sassi
scagliati dalla mano dell’uomo assunsero l’aspetto di uomini,
mentre dai lanci della donna la donna rinacque.
Per questo siamo una razza dura, allenata alle fatiche,
e diamo testimonianza di che origine siamo.
Gli altri animali li generò spontaneamente la terra
106
nelle forme più varie, quando la vampa del sole prosciugò
gli umori residui. Alla calura si gonfiarono il fango
e la melma dei pantani; crebbero, nutriti dall’energia
del suolo come nel grembo di una madre, i germi fecondi
delle cose e col tempo assunsero l’aspetto loro.
Così quando il Nilo nelle sue sette foci si ritira
dai campi allagati e riporta le correnti nel letto d’origine,
e quando il limo ancora fresco si secca ai raggi del sole,
i contadini rivoltando le zolle trovano gli animali
più diversi e fra questi ne sorprendono alcuni proprio sul nascere
appena abbozzati, e altri imperfetti o privi
di proporzioni, e a volte in uno stesso corpo
una parte che vive, mentre un’altra è terra grezza.
Questo perché l’umidità e il calore, se fra loro si combinano,
destano vita e dalla loro unione nascono tutte le cose.
E se l’acqua e il fuoco stanno agli antipodi, il vapore umido
crea tutto: l’armonia dei contrasti è impulso a generare”.
(Testo e traduzione da Ovidio, Metamorfosi, a cura di Mario Ramous, Garzanti, Milano 1995).
11) Pandora. Esiodo, Opere, 53-82.
to\n de\ xolwsa/menoj prose/fh nefelhgere/ta Zeuj:
)Iapetioni/dh, pa/ntwn pe/ri mh/dea ei)dw/j,
xai/reij pu=r kle/yaj kai\ e)ma\j fre/naj h)peropeu/saj, 55
soi/ t' au)tw=? me/ga ph=ma kai\ a)ndra/sin e)ssome/noisin.
toi=j d' e)gw\ a)nti\ puro\j dw/sw kako/n, w(=? ken a(/pantej
te/rpwntai kata\ qumo\n e(o\n kako\n a)mfagapw=ntej.
w(\j e)/fat': e)k d' e)ge/lasse path\r a)ndrw=n te qew=n te.
(/Hfaiston d' e)ke/leuse perikluto\n o(/tti ta/xista
60
gai=an u(/dei fu/rein, e)n d' a)nqrw/pou qe/men au)dh\n
kai\ sqe/noj, a)qana/th?j de\ qeh=?j ei)j w)=pa e)i/skein
parqenikh=j kalo\n ei)=doj e)ph/raton: au)ta\r )Aqh/nhn
e)/rga didaskh=sai, poludai/dalon i(sto\n u(fai/nein:
kai\ xa/rin a)mfixe/ai kefalh=? xruse/hn )Afrodi/thn
65
kai\ po/qon a)rgale/on kai\ guiobo/rouj meledw/naj:
e)n de\ qe/men ku/neo/n te no/on kai\ e)pi/klopon h)=qoj
(Ermei/hn h)/nwge, dia/ktoron )Argei+fo/nthn.
w(\j e)/faq': oi(\ d' e)pi/qonto Dii\ Kroniwni a)/nakti.
au)ti/ka d' e)k gai/hj pla/ssen kluto\j )Amfiguh/eij
70
parqe/nw? ai)doi/h? i)/kelon Kroni/dew dia\ boula/j:
zw=se de\ kai\ ko/smhse qea\ glaukw=pij )Aqh/nh:
a)mfi\ de/ oi( Xa/rite/j te qeai\ kai\ po/tnia Peiqw\
o(/rmouj xrusei/ouj e)/qesan xroi/+:a)mfi\ de\ th/n ge
(=Wrai kalli/komoi ste/fon a)/nqesin ei)arinoi=sin:
75
[pa/nta de/ oi( xroi\+ ko/smon e)fh/rmose Palla\j )Aqh/nh.]
107
e)n d' a)/ra oi( sth/qessi dia/ktoroj )Argei+fo/nthj
yeu/dea/ q' ai(muli/ouj te lo/gouj kai\ e)pi/klopon h)=qoj
[teu=ce Dio\j boulh=?si baruktu/pou: e)n d' a)/ra fwnh\n]
qh=ke qew=n kh=ruc, o)no/mhne de\ th/nde gunai=ka
Pandw/rhn, o(/ti pa/ntej )Olu/mpia dw/mat' e)/xontej
dw=ron e)dw/rhsan, ph=m' a)ndra/sin a)lfhsth=?sin.
80
“A lui Zeus che aduna le nuvole disse adirato:
“O figlio di Iapeto, tu che fra tutti nutri i pensieri più accorti,
tu godi del fuoco rubato e di avermi ingannato,
55
ma a te un gran male verrà, e anche agli uomini futuri:
io a loro, in cambio del fuoco, darò un male, e di quello tutti
si compiaceranno nel cuore, il loro male circondando d’amore”.
Così disse, e rise il padre di uomini e dèi:
a Efesto illustre ordinò che, veloce,
60
intridesse terra con acqua, vi ponesse dentro voce umana
e vigore e, somigliante alle dee immortali nell’aspetto, formasse
bella e amabile figura di vergine; poi ad Atena
che le insegnasse i lavori: a tesser la tela dai molti ornamenti;
e che grazia intorno alla testa le effondesse l’aurea Afrodite
65
e desiderio tremendo e le cure che rompon le membra;
che in lei ponesse un sentire impudente e un’indole scaltra
ordinò ad Ermes, il messaggero Argifonte.
Così disse, e quelli obbedirono a Zeus Cronide signore.
Allora di terra formò l’illustre Anfigiee
70
un’immagine simile a vergine casta, secondo la volontà del Cronide;
la cinse e l’adornò la dea glaucopide Atena;
attorno alla persona le dee Chariti e Peithó signora
posero auree collane, attorno
le Horai dalle belle chiome la incoronavano di fiori di primavera;
75
ed ogni ornamento al suo corpo adattò Pallade Atena.
Dentro al suo petto infine il messaggero Argifonte
menzogne e discorsi ingannevoli e indole scaltra
pose, come voleva Zeus che tuona profondo, e dentro la voce
le pose l’araldo di dèi e chiamò questa donna
80
Pandora, perché tutti gli abitatori delle case d’Olimpo
la diedero come dono, pena per gli uomini che mangiano pane”
(Traduzione di Graziano Arrighetti, in Esiodo, Opere, Torino 1998).
12) Pigmalione. Ovidio, Metamorfosi, X, 243-297.
'Quas quia Pygmalion aevum per crimen agentis
viderat, offensus vitiis, quae plurima menti
femineae natura dedit, sine coniuge caelebs
vivebat thalamique diu consorte carebat.
interea niveum mira feliciter arte
sculpsit ebur formamque dedit, qua femina nasci
nulla potest, operisque sui concepit amorem.
virginis est verae facies, quam vivere credas,
108
245
250
et, si non obstet reverentia, velle moveri:
ars adeo latet arte sua. miratur et haurit
pectore Pygmalion simulati corporis ignes.
saepe manus operi temptantes admovet, an sit
corpus an illud ebur, nec adhuc ebur esse fatetur.
255
oscula dat reddique putat loquiturque tenetque
et credit tactis digitos insidere membris
et metuit, pressos veniat ne livor in artus,
et modo blanditias adhibet, modo grata puellis
munera fert illi conchas teretesque lapillos
260
et parvas volucres et flores mille colorum
liliaque pictasque pilas et ab arbore lapsas
Heliadum lacrimas; ornat quoque vestibus artus,
dat digitis gemmas, dat longa monilia collo,
aure leves bacae, redimicula pectore pendent:
265
cuncta decent; nec nuda minus formosa videtur.
conlocat hanc stratis concha Sidonide tinctis
adpellatque tori sociam adclinataque colla
mollibus in plumis, tamquam sensura, reponit.
'Festa dies Veneris tota celeberrima Cypro
270
venerat, et pandis inductae cornibus aurum
conciderant ictae nivea cervice iuvencae,
turaque fumabant, cum munere functus ad aras
constitit et timide "si, di, dare cuncta potestis,
sit coniunx, opto," non ausus "eburnea virgo"
275
dicere, Pygmalion "similis mea" dixit "eburnae."
sensit, ut ipsa suis aderat Venus aurea festis,
vota quid illa velint et, amici numinis omen,
flamma ter accensa est apicemque per aera duxit.
ut rediit, simulacra suae petit ille puellae
280
incumbensque toro dedit oscula: visa tepere est;
admovet os iterum, manibus quoque pectora temptat:
temptatum mollescit ebur positoque rigore
subsidit digitis ceditque, ut Hymettia sole
285
cera remollescit tractataque pollice multas
flectitur in facies ipsoque fit utilis usu.
dum stupet et dubie gaudet fallique veretur,
rursus amans rursusque manu sua vota retractat.
corpus erat! saliunt temptatae pollice venae.
tum vero Paphius plenissima concipit heros
290
verba, quibus Veneri grates agat, oraque tandem
ore suo non falsa premit, dataque oscula virgo
sensit et erubuit timidumque ad lumina lumen
attollens pariter cum caelo vidit amantem.
295
coniugio, quod fecit, adest dea, iamque coactis
cornibus in plenum noviens lunaribus orbem
illa Paphon genuit, de qua tenet insula nomen.
“Avendole viste condurre vita dissoluta, Pigmalione,
disgustato dei vizi illimitati che natura
ha dato alla donna, viveva celibe, senza sposarsi, e
senza una compagna che dividesse il suo letto a lungo rimase.
109
Ma un giorno, con arte invidiabile scolpì nel bianco avorio
una statua, infondendole tale bellezza, che nessuna donna
vivente è in grado di vantare; e s’innamorò dell’opera sua.
L’aspetto è quello di fanciulla vera, e diresti che è viva,
che potrebbe muoversi, se non la frenasse ritrosia:
tanta è l’arte che nell’arte si cela. Pigmalione ne è incantato
e in cuore brucia di passione per quel corpo simulato.
Spesso passa la mano sulla statua per sentire
se è carne o avorio, e non vuole ammettere che sia solo avorio.
La bacia e immagina che lei lo baci, le parla, l’abbraccia,
ha l’impressione che le dita affondino nelle membra che tocca
e teme che la pressione lasci lividi sulla carne.
Ora la vezzeggia, ora le porge doni graditi,
alle fanciulle: conchiglie, pietruzze levigate,
piccoli uccelli, fiori di mille colori,
gigli, biglie dipinte e lacrime d’ambra stillate
dall’albero delle Eliadi. Le addobba poi il corpo di vesti,
le infila brillanti alle dita e al collo monili preziosi;
piccole perle le pendono dalle orecchie e nastrini sul petto.
Tutto le sta bene, ma nuda non appare meno bella.
L’adagia su tappeti tinti con porpora di Sidone,
la chiama sua compagna e delicatamente,
quasi sentisse, le fa posare il capo su morbidi cuscini.
E venne il giorno della festa di Venere, festa in tutta Cipro
grandissima: già giovenche con le curve corna fasciate d’oro
erano cadute, trafitte sul candido collo,
e fumava l’incenso, quando Pigmalione, deposte le offerte
accanto all’altare, timidamente disse: “O dei, se è vero
che tutto potete concedere, vorrei in moglie” (non osò
dire: la fanciulla d’avorio) “una donna uguale alla mia d’avorio”.
L’aurea Venere, presente alla propria festa, coglie il senso
di quella preghiera e, come segno del suo favore, per tre volte
fa palpitare una fiamma, che con la sua punta guizza nell’aria.
Tornato a casa, corre a cercare la statua della sua fanciulla
e chinandosi sul letto la bacia: sembra che emani tepore.
Accosta di nuovo la bocca e con le mani le accarezza il seno:
sotto le dita l’avorio s’ammorbidisce e, perduto il suo gelo,
cede duttile alla pressione, come al sole torna morbida
la cera dell’Imetto e, plasmata dal pollice, si piega
ad assumere varie forma, adattandosi a questo impiego.
Stupito, felice, ma incerto e timoroso d’ingannarsi,
più e più volte l’innamorato tocca con la mano il suo sogno:
è un corpo vero! Sotto il pollice pulsano le sue vene.
Allora il giovane di Pafo a Venere rivolge
parole traboccanti di gioia per ringraziarla, e con le labbra
preme labbra che più non sono finte. Sente la fanciulla
quei baci, arrossisce e, levando intimidita gli occhi
alla luce, insieme al cielo vede colui che l’ama.
La dea assiste alle nozze che ha reso possibili. E quando
per nove volte la falce della luna si è chiusa in disco pieno,
la sposa genera Pafo, del quale l’isola conserva il nome”.
110
(Testo e traduzione da Ovidio, Metamorfosi, a cura di Mario Ramous, Garzanti, Milano 1995).
13) Il giuramento sulla pietra degli arconti. Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, VII, 1 e LV, 5.
VII. politei/an de\ kate/sthse kai\ no/mouj e)/qhken a)/llouj, toi=j de\ Dra/kontoj
qesmoi=j e)pau/santo xrw/menoi plh\n tw=n fonikw=n. a)nagra/yantej de\ tou\j no/mouj ei)
j tou\j ku/rbeij e)/sthsan e)n th=? stoa=? th=? basilei/w? kai\ w)/mosan xrh/sesqai pa/ntej.
oi( d' e)nne/a a)/rxontej o)mnu/ntej pro\j tw=? li/qw? katefa/tizon a)naqh/sein a)ndria/nta
xrusou=n, e)a/n tina parabw=si tw=n no/mwn: o(/qen e)/ti kai\ nu=n ou(/twj o)mnu/ousi.
“Solone organizzò una costituzione e stabilì altre leggi, e gli Ateniesi non si servirono più di quelle
di Draconte tranne che per i delitti di sangue. Scrissero le leggi su rulli che posero nel portico del re,
e tutti giurarono di servirsene. I nove arconti, giurando presso la pietra, promettevano di dedicare
una statua d’oro in caso di trasgressione: ecco perché tuttora fanno questo giuramento”.
LV. au(=tai me\n ou)=n ai( a)rxai\ klhrwtai/ te kai\ ku/riai tw=n ei)rhme/nwn pra/cewn ei)
si/n. oi( de\ kalou/menoi e)nne/a a)/rxontej to\ me\n e)c a)rxh=j o(\n tro/pon kaqi/stanto, ei)/
rhtai: nu=n de\ klhrou=sin qesmoqe/taj me\n e(\c kai\ grammate/a tou/toij, e)/ti d' a)/
rxonta kai\ basile/a kai\ pole/marxon, kata\ me/roj e)c e(ka/sthj fulh=j.
[2] dokima/zontai d' ou(=toi prw=ton me\n e)n th=? boulh=? toi=j f#, plh\n tou= grammate/wj,
ou(=toj d' e)n dikasthri/w? mo/non w(/sper oi( a)/lloi a)/rxontej (pa/ntej ga\r kai\ oi
( klhrwtoi\ kai\ oi( xeirotonhtoi\ dokimasqe/ntej a)/rxousin), oi( d' e)nne/a a)/rxontej e)/n te
th=? boulh=? kai\ pa/lin e)n dikasthri/w?. kai\ pro/teron me\n ou)k h)=rxen o(/ntin' a)
podokima/seien h( boulh/, nu=n d' e)/fesi/j e)stin ei)j to\ dikasth/rion, kai\ tou=to ku/rio/n e)
sti th=j dokimasi/aj. [3] e)perwtw=sin d', o(/tan dokima/zwsin, prw=ton me\n "3ti/j ? soi
path\r kai\ po/qen tw=n dh/mwn, kai\ ti/j patro\j path/r, kai\ ti/j mh/thr, kai\ ti/j mhtro\j
path\r kai\ po/qen tw=n dh/mwn"3; meta\ de\ tau=ta ei) e)/stin au)tw=? )Apo/llwn Patrw=?oj
kai\ Zeu\j (Erkei=oj, kai\ pou= tau=ta ta\ i(era/ e)stin, ei)=ta h)ri/a ei) e)/stin kai\ pou= tau=ta,
e)/peita gone/aj ei) eu)= poiei=, kai\ ta\ te/lh telei=, kai\ ta\j stratei/aj ei) e)stra/teutai.
tau=ta d' a)nerwth/saj, "3ka/lei" 3 fhsi\n "3tou/twn tou\j ma/rturaj" 3. [4] e)peida\n de\
para/sxhtai tou\j ma/rturaj, e)perwta=? "3tou/tou bou/letai/ tij kathgorei=n"3; ka)\n me\n
h)=? tij kath/goroj, dou\j kathgori/an kai\ a)pologi/an, ou(/tw di/dwsin e)n me\n th=? boulh=?
th\n e)pixeirotoni/an, e)n de\ tw=? dikasthri/w? th\n yh=fon: e)a\n de\ mhdei\j bou/lhtai
kathgorei=n, eu)qu\j di/dwsi th\n yh=fon: kai\ pro/teron me\n ei(=j e)ne/balle th\n yh=fon,
nu=n d' a)na/gkh pa/ntaj e)sti\ diayhfi/zesqai peri\ au)tw=n, i(/na a)/n tij ponhro\j w)\n a)
palla/ch? tou\j kathgo/rouj, e)pi\ toi=j dikastai=j ge/nhtai tou=ton a)podokima/sai.
[5] dokimasqe/n de\ tou=ton to\n tro/pon, badi/zousi pro\j to\n li/qon e)f' ou(= ta\ to/mi' e)
sti/n, e)f' ou(= kai\ oi( diaithtai\ o)mo/santej a)pofai/nontai ta\j diai/taj, kai\ oi
( ma/rturej e)co/mnuntai ta\j marturi/aj: a)naba/ntej d' e)pi\ tou=ton o)mnu/ousin dikai/wj
a)/rcein kai\ kata\ tou\j no/mouj, kai\ dw=ra mh\ lh/yesqai th=j a)rxh=j e(/neka, ka)/n ti
la/bwsi a)ndria/nta a)naqh/sein xrusou=n. e)nteu=qen d' o)mo/santej ei)j a)kro/polin
badi/zousin kai\ pa/lin e)kei= tau)ta\ o)mnu/ousi, kai\ meta\ tau=t' ei)j th\n a)rxh\n ei)
se/rxontai.
111
LV. “Questi dunque sono i magistrati eletti per sorteggio, e queste le loro attribuzioni. I cosiddetti
nove arconti venivano eletti in principio nella maniera che si è già detto. Ora eleggono a sorte i sei
tesmoteti e il loro segretario, oltre all’arconte, al re e al polemarco a turno in ciascuna tribù. 2.
Questi vengono dapprima esaminati nel Consiglio dei Cinquecento, tranne il segretario, che viene
esaminato soltanto in tribunale come gli altri arconti (tutti i magistrati infatti, sia quelli eletti a sorte
sia quelli eletti per alzata di mano, esercitano la loro funzione dopo un esame), invece i nove arconti
vengono esaminati nel Consiglio e poi di nuovo davanti al tribunale. Un tempo chi fosse stato
respinto dal Consiglio non poteva esercitare la sua carica, ma ora è possibile l’appello al tribunale, e
questo è arbitro di decidere l’esame. 3. Quando li esaminano, chiedono loro innanzi tutto: “Chi è tuo
padre? Di quale demo? E il padre di tuo padre? E tua madre? E il padre di tua madre cho è, e di
quale demo?”, Poi chiedono al candidato se appartiene al culto di Apollo Patrio e di Zeus Ercheio, e
dove sono questi templi; poi se possiede tombe di famiglia e dove, poi se tratta bene i genitori e se
paga le tasse, e i servizi militari da lui compiuti. Dopo tali domande, l’esaminatore esclama:
“Produci i testimoni a tuo favore!”. 4. Una volta prodotti costoro, chiede: “Qualcuno vuole
accusarlo?”; e, se c’è un accusatore, dà la parola all’accusa e alla difesa e fa votare il Consiglio per
alzata di mano e il tribunale per scrutinio. Se invece non c’è nessun accusatore, fa subito lo
scrutinio. Un tempo un solo giudice votava, ma ora debbono pronunciarsi sui candidati col voto tutti
i giudici, affinché, se un candidato disonesto si sia liberato degli accusatori, i giudici abbiano la
facoltà di scartarlo. 5. Dopo essere stati esaminati in questo modo, si avviano alla pietra su cui ci
sono le parti delle vittime, e su cui anche i dieteti giurano prima di emettere le loro decisioni e i
testimoni prima di rendere le loro testimonianze. Gli arconti vi salgono sopra e giurano di esercitare
la loro carica in modo giusto e legale, di non accettare doni per le loro funzioni, oppure, se ne
riceveranno, di dedicare una statua d’oro. Di lì, dopo il giuramento, vanno all’acropoli, dove lo
ripetono identico, e poi entrano in carica”.
(Traduzione da Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, a cura di Giuseppe Lozza, Milano 1991).
14) Il giuramento sulla pietra dei Feneati. Pausania, Periegesi della Grecia, VIII, 15, 1-2.
XV. Fenea/taij de\ kai\ Dh/mhtro/j e)stin i(ero\n e)pi/klhsin )Eleusini/aj, kai\ a)/gousi th=?
qew=? teleth/n, ta\ )Eleusi=ni drw/mena kai\ para\ sfi/si ta\ au)ta\ fa/skontej
kaqesthke/nai: a)fike/sqai ga\r au)toi=j Nao\n kata\ ma/nteuma e)k Delfw=n, tri/ton de\
a)po/gonon Eu)mo/lpou tou=ton ei)=nai to\n Nao/n. para\ de\ th=j )Eleusini/aj to\ i(ero\n
pepoi/htai Pe/trwma kalou/menon, li/qoi du/o h(rmosme/noi pro\j a)llh/louj mega/loi.
[2] a)/gontej de\ para\ e)/toj h(/ntina teleth\n mei/zona o)noma/zousi, tou\j li/qouj tou/touj
thnikau=ta a)noi/gousi: labo/ntej gra/mmata e)c au)tw=n e)/xonta e)j th\n teleth\n kai\ a)
nagno/ntej e)ph/koon tw=n mustw=n, kate/qento e)n nukti\ au)=qij th=? au)th=?. Feneatw=n de\
oi)=da tou\j pollou\j kai\ o)mnu/ntaj u(pe\r megi/stwn tw=? Petrw/mati.
“I Feneati hanno anche un santuario di Demetra dall’appellativo di Eleusinia e per la dea celebrano
un rito misterico. Le cerimonie di Eleusi e quelle che sono istituite presso di loro, essi dicono, sono
le stesse. Da loro, infatti, sarebbe giunto Nao, ubbidendo a un oracolo di Delfi, e questo Nao
sarebbe nipote di Eumolpo. Presso il santuario dell’Eleusinia è costruito il cosiddetto Petroma,
consistente in due pietre che combaciano fra di loro. 2. Quando, ogni due anni, celebrano quei
misteri che chiamano “maggiori”, in quell’occasione aprono scostandole queste due pietre e, toltine
degli scritti che si riferiscono al rituale dei misteri, li leggono alla presenza degli iniziati e quindi, in
quella stessa notte, di nuovo ve li ripongono. E so anche che quasi tutti i Feneati pronunciano in
nome del Petroma i più importanti giuramenti”.
112
(Testo e traduzione da Pausania, Viaggio in Grecia, a cura di Salvatore Rizzo. Libro VIII, Arcadia, Milano
2004).
15) Il kolossós di Alcesti. Euripide, Alcesti,vv. 336-354.
oi)/sw de\ pe/nqoj ou)k e)th/sion to\ so\n
a)ll' e)/st' a)\n ai)w\n ou(mo\j a)nte/xh?, gu/nai,
stugw=n me\n h(/ m' e)/tikten, e)xqai/rwn d' e)mo\n
pate/ra: lo/gw? ga\r h)=san ou)k e)/rgw? fi/loi.
su\ d' a)ntidou=sa th=j e)mh=j ta\ fi/ltata
yuxh=j e)/swsaj. a)=ra/ moi ste/nein pa/ra
toia=sd' a(marta/nonti suzu/gou se/qen;
pau/sw de\ kw/mouj sumpotw=n q' o(mili/aj
stefa/nouj te mou=sa/n q' h(\ katei=x' e)mou\j do/mouj.
ou) ga/r pot' ou)/t' a)\n barbi/tou qi/goim' e)/ti
ou)/t' a)\n fre/n' e)ca/raimi pro\j Li/bun lakei=n
au)lo/n: su\ ga/r mou te/ryin e)cei/lou bi/ou.
sofh=? de\ xeiri\ tekto/nwn de/maj to\ so\n
ei)kasqe\n e)n le/ktroisin e)ktaqh/setai,
w(=? prospesou=mai kai\ periptu/sswn xe/raj
o)/noma kalw=n so\n th\n fi/lhn e)n a)gka/laij
do/cw gunai=ka kai/per ou)k e)/xwn e)/xein:
yuxra\n me/n, oi)=mai, te/ryin, a)ll' o(/mwj ba/roj
yuxh=j a)pantloi/hn a)/n. e)n d' o)nei/rasin
foitw=sa/ m' eu)frai/noij a)/n: h(du\ ga\r fi/louj
ka)n nukti\ leu/ssein, o(/ntin' a)\n parh=? xro/non.
340
345
350
355
“Porterò il tuo lutto non per un anno, ma finché durerà la mia vita, odiando mia madre e detestando
mio padre, che mi volevano bene a parole, non a fatti. Tu per la mia vita hai dato quello che avevi di
più caro, e mi hai salvato. Come posso non piangere, perdendo una tale sposa? Farò cessare i
banchetti e le brigate dei bevitori, le corone di fiori, i canti che riempivano la mia casa. Non sarei
più capace di toccare la cetra, né di sollevare il mio animo al suono del flauto. Andandotene, hai
tolto alla mia vita ogni gioia. Effigiato da una mano sapiente d’artista, il simulacro del tuo corpo
verrà collocato sul letto, e gettandomici sopra, e abbracciandolo e invocando il tuo nome, mi parrà
di avere tra le braccia la mia donna, senza averla: fredda gioia, lo so, ma pure capace di alleviare il
peso dell’anima. E tu verrai nei miei sogni a consolarmi. È dolce vedere anche in sogno i nostri cari,
per il tempo che di può”.
(Traduzione di Guido Paduano, da Euripide, Alcesti, Milano 1996).
16) La metamorfosi di Eco. Ovidio, Metamorfosi, III, 390-401.
ille fugit fugiensque 'manus conplexibus aufer!
ante' ait 'emoriar, quam sit tibi copia nostri';
rettulit illa nihil nisi 'sit tibi copia nostri!'
390
113
spreta latet silvis pudibundaque frondibus ora
protegit et solis ex illo vivit in antris;
sed tamen haeret amor crescitque dolore repulsae;
extenuant vigiles corpus miserabile curae
adducitque cutem macies et in aera sucus
corporis omnis abit; vox tantum atque ossa supersunt:
vox manet, ossa ferunt lapidis traxisse figuram.
inde latet silvis nulloque in monte videtur,
400
omnibus auditur: sonus est, qui vivit in illa.
395
“Lui fugge e fuggendo: “Togli queste mani, non abbracciarmi!”
grida. “Possa piuttosto morire che darmi a te!”.
Respinta, si nasconde Eco nei boschi, coprendosi di foglie
per la vergogna il volto, e da allora vive in antri sperduti.
Ma l’amore è confitto in lei e cresce col dolore del rifiuto:
un tormento incessante le estenua fino alla pietà il corpo,
la magrezza le raggrinza la pelle e tutti gli umori del corpo
si dissolvono nell’aria. Non restano che voce e ossa:
la voce esiste ancora; le ossa, dicono, si mutarono in pietre.
E da allora sta celata nei boschi, mai più è apparsa sui monti;
ma dovunque puoi sentirla: è il suono, che vive in lei”.
(Testo e traduzione da Ovidio, Metamorfosi, a cura di Mario Ramous, Garzanti, Milano 1995).
17) La metamorfosi di Lica. Ovidio, Metamorfosi, IX, 211-229.
Ecce Lichan trepidum latitantem rupe cavata
aspicit, utque dolor rabiem conlegerat omnem,
'tune, Licha,' dixit 'feralia dona dedisti?
tune meae necis auctor eris?' tremit ille, pavetque
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pallidus, et timide verba excusantia dicit.
dicentem genibusque manus adhibere parantem
corripit Alcides, et terque quaterque rotatum
mittit in Euboicas tormento fortius undas.
ille per aerias pendens induruit auras:
utque ferunt imbres gelidis concrescere ventis,
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inde nives fieri, nivibus quoque molle rotatis
astringi et spissa glomerari grandine corpus,
sic illum validis iactum per inane lacertis
exsanguemque metu nec quicquam umoris habentem
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in rigidos versum silices prior edidit aetas.
nunc quoque in Euboico scopulus brevis eminet alto
gurgite et humanae servat vestigia formae,
quem, quasi sensurum, nautae calcare verentur,
appellantque Lichan.
“Ed ecco che scorge Lica nascondersi sconvolto nell’anfratto
d’una rupe; con tutta la collera accumulata dal dolore:
“Lica”, gli grida, “a te dunque devo questo dono mortale?
A te dovrò imputare la mia morte?”. Quello, pallido, attterrito,
trema, balbettando attenuanti in sua difesa.
Mentre balbetta e cerca di abbracciargli le ginocchia,
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Ercole l’afferra, lo fa roteare tre, quattro volte
e, con più violenza di una fionda, lo scaglia nel mare d’Eubea.
Sospeso nello spazio Lica si congela: come ai venti gelidi
vedi rapprendersi la pioggia, trasformarsi in neve,
e poi in un turbinio condensare i suoi morbidi fiocchi,
che ispessendosi si addensano in grandine, così,
scagliato nel vuoto dalle braccia possenti di Ercole,
esangue per il terrore, senza più una goccia di umore,
Lica, come racconta la leggenda, si trasforma in dura roccia.
Ancor oggi sorpa i gorghi profondi del mare d’Eubea affiora
un piccolo scoglio che serba il profilo di forma umana:
i marinai, quasi fosse sensibile, esitano a porvi piede
e lo chiamano Lica”.
(Testo e traduzione da Ovidio, Metamorfosi, a cura di Mario Ramous, Garzanti, Milano 1995).
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