dettore_modulo 1_parte 1Introduzione teorica

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PRESUPPOSTI TEORICI DI BASE
DELLA
TERAPIA
COGNITIVOCOMPORTAMENTALE
Davide Dèttore
Università degli Studi di Firenze
Istituto Miller, Genova
• Behaviour Modification e Terapia del comportamento
• La prima si rifà al modello ABC (antecedenti, behaviour, conseguenti) di Skinner e
si basa sui principi dell’apprendimento operante, sulla manipolazione cioè delle
contingenze ambientali. Ambito preferenziale di bambini, soggetti handicappati,
psicotici gravi istituzionalizzati: problemi scolastici, parent training, enuresi,
encopresi, fobie scolastiche, riabilitazione handicappati e nelle istituzioni.
• La terapia del comportamento (Wolpe, Eysenck e Rachman) si rivolge soprattutto ai
disturbi nevrotici e si basa soprattutto sui principi del condizionamento classico e del
controcondizionamento;
centra
l’attenzione
sui
disturbi
emozionali,
comportamentali e neurovegetativi connessi con l’ansia e prende in considerazione
processi di mediazione immaginativa e verbale, definiti in termini di S e R): S overt,
R covert, S covert, R overt. Prende inoltre il considerazione il “modello psicologico”
del disturbo in contrapposizione a quello “medico”.
• Terapie cognitivo-comportamentali
• Si rifà soprattutto alle concezioni di Bandura che, partendo dall’apprendimento per
imitazione sociale (modellamento), giunse a definire il concetto di apprendimento
non più soltanto in termini di comportamenti emessi (performances), quanto in
quelli dell’acquisizione stabile di rappresentazioni mentali che possono essere o
meno tradotte in comportamenti, a seconda della situazione motivazionale interna e
delle condizioni ambientali presenti.
PRESUPPOSTI META-TEORICI DELLA BEHAVIOUR
MODIFICATION
• Determinismo: è il convincimento secondo cui ogni fenomeno, indipendentemente
dalle sue caratteristiche, è collocato all’interno di una rete di rapporti di causa-effetto.
• Ambientalismo: in opposizione all’innatismo, è l’ambiente che viene ritenuto il
principale determinante del comportamento.
• Principio dialettico: particolarmente enfatizzato da Skinner, esso sostiene che tra
uomo e ambiente esiste una reciprocità di interazione, grazie alla quale l’uomo modifica
l’ambiente ed è a sua volta da questo modificato.
• Principio sistemico: esso afferma che ogni comportamento del singolo o del gruppo è
inserito all’interno di una rete di reciproci influenzamenti, per cui la modificazione
apportata a uno degli elementi che compongono il sistema si ripercuote su tutti gli altri.
• Evoluzionismo: comprende il principio della continuità interspecie, che consente di
generalizzare a specie superiori dati desunti da specie inferiori.
• Riduzionismo: possibilità di tradurre concetti e leggi di una disciplina scientifica in
termini, concetti e leggi di un’altra disciplina scientifica situata a un livello inferiore,
più fondamentale, della gerarchia delle scienze (neopositivismo logico).
• Praticalismo: stretta connessione tra elaborazione teorica, indagine sperimentale e
prassi applicativa.
• Modello psicologico del disturbo: si contrappone al modello medico, di cui evita la
frequente tautologia, individuando le cause dei disturbi nell’ambiente piuttosto che
all’interno dell’apparato psichico.
Modello Medico
Modello psicologico
Causa endogena
Processo di
apprendimento
Osservazione
Osservazione
Sintomi
Questo può essere valido in campo
medico, ma in campo psicologico
porta a una tautologia, un aspetto
diviene
prova
dell’altro,
data
l’impossibilità di osservare la causa
endogena indipendentemente dal
sintomo.
Sintomo
comportamentale
Causa endogena
Comportamento
Mary Cover Jones (1924) e il piccolo
Peter (2 anni e 10 mesi), in cui per la
prima volta viene trattata una fobia
per i conigli bianchi con prima
tecniche di modellamento e poi di
controcondizionamento,
partendo
dall’ipotesi che la fobia sia acquisita
per processi di apprendimento
(condizionamento classico)
Modello Medico
Modello psicologico
Piccolo Hans (Freud, 1909)
Piccolo Albert (Watson e Reynert, 1920)
5 anni circa. Inizio fobia: aver visto un 11 mesi. Prima induzione di una fobia
cavallo attaccato a un carro cadere, mentre sperimentale.
era fuori casa.
Sintomi
Fobia per i cavalli.
Interesse per il “pipino”.
Comportamento
Fobia per i conigli bianchi e per oggetti chiari e
lanuginosi.
Cause endogene ipotizzate
Complesso di Edipo (conflitto fra pulsioni
dell’Io [amore per il padre] e pulsioni libidiche
[amore per la madre]). Paura di castrazione e
gelosia per la sorellina.
Processi di condizionamento
Condizionamento classico (rumore forte,
reazione di paura, stimolo coniglio bianco).
Condizionamento operante: la risposta di
evitamento viene rinforzata dalla riduzione
dell’ansia.
Osservazione
Questi concetti sono desunti dai sintomi,
interpretati in base alle teorie preesistenti, ma
nel contempo servono a spiegarli. Non sono
confermati da prove esterne indipendenti.
Osservazione
Questi
processi
sono
dimostrati
indipendentemente e in modo sperimentale,
mutando le variabili indipendenti e osservando
i cambiamento della variabile dipendente.
Profilo storico della TCC
(in ordine di comparsa)
• Terapia del Comportamento (Anni 50)
Desensibilizzazione sistematica ed esposizione (Wolpe e Eysenck)
Modificazione comportamentale (Skinner)
Attivazione comportamentale
• Terapia cognitiva (Anni 60)
Terapia razional-emotiva di Ellis
Terapia cognitiva di Beck (razionalista)
• Approcci più recenti (Anni 90)
Terapia cognitiva costruttivista (Chiari, Mancini, Semerari)
Terapia cognitiva strutturalista (Guidano)
Terapia cognitivo-evolutiva (Liotti)
Terapia dialettico-comportamentale (Linehan)
Schema Therapy (Young)
Tecniche di Mindfulness (Kabat-Zinn; Teasdale)
Acceptance and Commitment Therapy (Hayes)
Compassion Focused Therapy (Gilbert)
Diagnosi classica
• Diagnosi tradizionale (medica):
Assegnare una persona o un problema a una o più
ampie categorie basate su “sintomi” o altri aspetti
disfunzionali
• Assessment cognitivo-comportamentale
Identificare esattamente quali eventi, pensieri,
emozioni, stati d’umore e azioni stanno producendo
disagio
Individuare in quali circostanze specifiche essi si
verificano e quali e quali ne siano le conseguenze (sia
immediate sia ritardate)
PARAMETRI, MODELLI E LEGGI
DELL’APPRENDIMENTO
Davide Dèttore
Università degli Studi di Firenze
Istituto Miller, Genova
Definizione di condizionamento classico o
pavloviano
• Si può definire come il processo
mediante il quale uno stimolo
originariamente neutro, cioè non in
grado di indurre una risposta, se
ripetutamente associato a uno stimolo
di per sé in grado di indurre tale
risposta, acquisisce anch'
esso la
capacità d'
innescarla.
Schema del condizionamento classico
SN
SN
Suono
SC
>
Suono
RC
SI
Soffio
RI
Ammicca=
mento
SI
Soffio
RI
Ammicca=
mento
SI
Soffio
RI
Ammicca=
mento
Le classi del condizionamento classico (I)
•
Condizionamento simultaneo
– Secondo lo schema di Pavlov, lo SC inizia da una frazione di secondo a 5 secondi
prima dello SI e continua fino al verificarsi di quest’ultimo. La RC tende a seguire
l’inizio dello SC pressoché immediatamente. Negli studi americani invece si
considera “C. simultaneo” in genere quello con intervalli SC-SI di 0-0,5 secondi,
mentre sono stati condotti studi di “C. anterogrado e retrogrado” con intervalli di 24 secondi, che per Pavlov sarebbero stati di “C. simultaneo”.
SC
SI
Le classi del condizionamento classico (II)
•
Condizionamento anterogrado
– Condizionamento ritardato o differito: lo SC inizia da 5 secondi a parecchi minuti
prima dello SI e continua finché quest’ultimo non si verifica. Benché la RC inizi
prima dello SI, essa segue l’inizio dello SC con un ritardo proporzionato alla
lunghezza dell’intervallo fra i due stimoli. Le RC differite sono difficili da formare
a meno che non sia stata già stabilita una RC simultanea.
SC
SI
– Condizionamento a traccia breve: lo SC viene tolto pochi secondi prima che inizi lo
SI.
SC
SI
– Condizionamento a traccia lunga: l’intervallo tra la cessazione dello SC e l’inizio
dello SI è di un minuto e più. La RC non comincia all’inizio dello SC, né alla sua
cessazione, ma dopo un intervallo proporzionale al tempo intercorrente prima della
presentazione dello SI. Le RC a traccia lunga si formano con maggiore difficoltà
delle RC differite.
SC
SI
Le classi del condizionamento classico (III)
•
Condizionamento retrogrado
– Lo SC non comincia a essere presentato finché non è cessato lo SI. Si tratta di un
processo di condizionamento classico particolarmente difficile e lo sarà tanto più
quanto maggiore sarà l’intervallo tra i due stimoli. I due stimoli possono essere
contigui (Fig. in alto), oppure separati da un brevissimo intervallo di tempo (Fig.
più in basso). Secondo Holmes e Davis (1979) il C. retrogrado può instaurarsi
perché in taluni casi può trasformarsi in un C. anterogrado.
SC
SI
SC
SI
•
Condizionamento temporale o al tempo
– Uno SI è presentato a intervalli regolari di tempo. Se poi viene omesso, si
verificherà una risposta condizionata all’incirca agli stessi intervalli. Sono stati
usati con successo con cani intervalli della lunghezza di 30 minuti.
SC
SI
Parametri del CC
•
•
•
Soglia degli stimoli: può essere assoluta o relativa/differenziale).
Tempo di latenza: varia di caso in caso.
Forza della risposta: è generalmente funzione dell’intensità dello stimolo. A parità di
stimolazione, però, la reazione può variare in base a fattori come lo stato di privazione
dell’organismo. In certi casi una stimolazione troppo forte può provocare inibizione con
indebolimento della R. Vi sono infatti tre deroghe alla legge che unisce intensità di S
con quella di R:
– Legge della sommazione temporale: se stimoli deboli vengono presentati congiuntamente, il
loro effetto si somma e crea una R maggiore.
– Facilitazione: se in concomitanza con lo S elicitante, viene presentato un altro S, non
direttamente elicitante quel particolare riflesso, viene prodotto un aumento della forza della
risposta.
– Inibizione esterna: decremento temporaneo di una RC dovuta a uno stimolo estraneo. Ne
costituiscono un esempio l’overshadowing (la presenza di uno stimolo intenso può ridurre
l’efficacia di un altro SC) e il blocking o blocco (la capacità di elicitare una R di una
componente di uno S composito può essere ridotta se i Ss hanno ricevuto un precedente
addestramento con un’altra componente da sola che era stata rinforzata).
•
•
Fase refrattaria: immediatamente dopo essere stato elicitato, per un certo tempo non è
più possibile innescare un riflesso.
Affaticamento del riflesso: attenuazione o scomparsa del riflesso dovuta a una serie di
eccitazioni dello stesso tipo che si succedono nel tempo.
Estinzione del CC
• Quando non si associa più lo SI (nel nostro esempio, il
morso) allo SC (il cane), e invece si presenta solamente
quest'
ultimo, inizia il processo di "estinzione" del CC. Tale
processo costituisce sia un momento di prova della presenza
del condizionamento (solo così infatti si può appurare se lo
SC ha acquisito la capacità di innescare la RC), sia l'
inizio,
nel caso di avvenuto condizionamento, dell'
indebolirsi dello
stesso. Infatti, durante l'
estinzione la RC viene emessa alla
sola presentazione dello SC, ma nel contempo la sua forza
cala con la ripetizione dello SC, fino addirittura a
scomparire.
Il recupero spontaneo del CC
• Se, dopo avere estinto il CC senza poi
presentare per un certo tempo lo SC,
quest'
ultimo viene reintrodotto, la RC
ricompare, seppure con una forza minore di
quella originaria. Tale effetto viene detto
"recupero spontaneo" e può ripetersi per
diverse volte, in seguito a vari intervalli di
non presentazione dello SC dopo
un'
estinzione.
Estinzione e recupero spontaneo del CC
Rinforzo
• Pavlov identifica il rinforzo con il verificarsi dello
SI e di conseguenza con l’elicitazione della RI. La
contiguità tra lo SC e la RI determinano
l’associazione fra i due. Il rinforzo altro non è se
non un mezzo per elicitare la risposta che deve
essere appresa. Per cui SI è un rinforzo primario,
SC è un rinforzo secondario o acquisito, la cui
efficacia dipenderà da quando e quante volte è
stato abbinato allo SI, dalla specie e dal soggetto in
esame, dalla situazione in cui viene presentato,
dalla presenza o meno di processi di inibizione,
eccetera.
• Pre-esposizione: la presentazione ripetuta dello SI
prima della normale procedura di condizionamento
rende più difficoltosa la formazione della RC.
Generalizzazione del CC
• In questo caso si parla di generalizzazione.
Si tratta del processo per cui stimoli
analoghi a quello usato originariamente
come SC acquisiscono anch'
essi la capacità
di indurre la RC. La forza di quest'
ultima di
solito diminuisce via via che si riduce la
somiglianza dello stimolo generalizzato con
l'
originario SC.
Forza della RC
La generalizzazione del CC
40
35
30
25
20
15
10
5
0
3
6
9
12
15
18
21
24
27
Intensità dello stimolo
SC
Discriminazione o differenziazione
• Tale processo non si sviluppa automaticamente
come la generalizzazione. Se si vuole fare
apprendere una discriminazione fra SC1 e SC2,
basta operare un rinforzamento differenziale,
presentando più volte l’abbinamento SC1-SI
inframezzato da SC2 da solo.
Il condizionamento di ordine superiore
• Come ha illustrato lo stesso Pavlov, una volta instaurato un normale
condizionamento per cui uno SC è divenuto in grado di indurre una RC
(il solito condizionamento che abbiamo sopra esposto viene detto di
"primo ordine"), è possibile usare tale SC come SI per una successiva
procedura di condizionamento, che allora diviene di "secondo ordine"
appunto. Fu Frolov a occuparsene.
• Instaurare condizionamenti di ordine superiore al primo non è facile e,
in ogni caso, non si riesce ad andare oltre al terzo ordine, come fece
Pavlov (1927) usando come SI originario una scossa elettrica molto
forte.
• Il linguaggio (il secondo sistema di segnalazione) si basa proprio sul
condizionamento di ordine superiore. Razran (1939) ha scoperto che è
possibile condizionare a delle parole risposte di salivazione. Tale
risposta andava soggetta a generalizzazione in base a somiglianza
semantica non fonetica. Risulta anche possibile (Staats, 1968) cambiare
il significato emotivo di una parola neutra come l’inglese large
(misurato tramite il differenziale semantico) facendola accompagnare da
SI aversivi.
Il condizionamento di ordine superiore
Preparedness (I)
• Esistono varie classi di stimoli e di comportamenti che hanno dei
valori o significati biologici più o meno rilevanti per il soggetto:
in base alla selezione naturale e all’evoluzione delle specie un
organismo può essere più o meno predisposto, o preparato, ad
apprendere certi abbinamenti SC-SIC o R-SR (Seligman, 1970).
• Per esempio, i ratti in situazioni di pericolo (rinforzi negativi)
sono preparati ad apprendere risposte di immobilità, mentre sono
contro-preparati ad apprenderle con rinforzi positivi. Così sono
preparati ad associare un certo odore o gusto del cibo con un
successivo senso di malessere, in quanto ciò è evolutivamente
utile per evitare cibi velenosi, mentre sono non preparati a
premere una leva per ottenere del cibo, in quanto ciò non si è mai
verificato in natura (Garcia et al., 1972).
Preparedness (II)
• Un esempio clinicamente rilevante è costituito dalle cosiddette
“paure preparate” (Mineka et al., 1984; Mineka e Ohman, 2002),
in cui lo stimolo fobico non è innato ma è presente una
predisposizione rispetto a determinati stimoli ad elevato valore
evolutivo per cui è possibile condizionare una fobia per
apprendimento osservativo anche con una sola esposizione a un
modello che dinanzi a tali stimoli mostra una evidente reazione di
paura.
• Per esempio uno scimmiotto apprende ad avere paura dei serpenti
dopo avere visto una sola volta un adulto mostrare timore di
fronte al rettile, ma ciò non accade nel caso di un fiore.
Condizionamento operante
• Il condizionamento operante o strumentale è quel
processo di apprendimento nel quale la probabilità
futura di emissione di una risposta viene influenzata
dalle conseguenze immediate della risposta stessa.
• Come affermò Thorndike (1911), il primo studioso
di questo paradigma di apprendimento, se l'
emissione
del comportamento è seguita da "soddisfazione" per
il soggetto (premio o rinforzo), tale comportamento
diventerà più probabile; se al contrario esso produce
"insoddisfazione" (punizione), la sua probabilità di
emissione diminuirà (si tratta della cosiddetta "legge
dell'
effetto").
Schema illustrativo della procedura di condizionamento operante.
Legenda: S1 = Stimolo Discriminante. S2 = Rinforzo. R1 = Risposta
Comportamentale. R2 = Risposta Consumatoria. S2 e R2 insieme
costituiscono il processo di rinforzamento.
S1
Compito
R1
Esecuzione del
compito
S2
Dolce
R2
Consumo
e degu=
stazione
del dolce
La teoria bifattoriale (I)
• Secondo la classica "teoria bifattoriale" sostenuta da Miller e
Konorski (1928) e da Mowrer (1948), si ritiene che il
comportamento volontario, cioè composto dalle risposte del
sistema cerebro-spinale, venga regolato solo tramite il
condizionamento strumentale, al contrario delle risposte
involontarie, viscerali e ghiandolari, mediate dal sistema
nervoso autonomo, che sarebbero invece, come già rilevato,
controllate tramite condizionamento classico.
• Tale dicotomia è attualmente piuttosto in discussione (per una
trattazione cfr. Chiari, 1982); viene soprattutto contraddetta la
convinzione che il condizionamento operante operi solo
tramite apprendimento volontario e cosciente di risposte
altrettanto volontarie e coscienti. Il condizionamento operante
può agire, invece, al pari di quello classico o pavloviano,
anche al di fuori della consapevolezza e mediante risposte
involontarie.
La teoria bifattoriale (II)
• In forma più completa, essa sostiene che tramite
condizionamento classico stimoli ambientali prima neutri
acquisiscono la capacità di innescare risposte viscerali di
attivazione, che, se raggiungono un determinato livello,
vengono vissute come ansia. Per alleviare l'
ansia, che ha le
caratteristiche di un rinforzatore negativo (è spiacevole per il
soggetto e quindi la sua riduzione è rinforzante), vengono
tentati vari comportamenti motori e scheletrici, che, se riescono
a eliminarla o ad abbassarla, sono appresi per condizionamento
operante. In base a tale punto di vista, il nostro comportamento
in generale, tutti i nostri tentativi di soluzione di problemi,
sarebbero indotti dalla motivazione ad abbassare i livelli di
attivazione fino a valori accettabili e adattivi; in breve, tutti i
nostri sforzi sarebbero mirati a evitare l'
ansia.
Rinforzi e punizioni secondo Skinner (1953)
• Rinforzo positivo: qualsiasi evento che, se fatto
seguire a un comportamento, ne aumenta la
probabilità di emissione.
• Rinforzo negativo: qualsiasi evento che, se eliminato
dopo un comportamento, ne aumenta la probabilità di
emissione.
• Punizione di I tipo: qualsiasi evento che, se fatto
seguire a un comportamento, ne diminuisce la
probabilità di emissione.
• Punizione di II tipo: qualsiasi evento che se eliminato
dopo un comportamento, ne diminuisce la probabilità
di emissione.
Un po’ di terminologia
• Rinforzatore o agente rinforzante (reinforcer o
reinforcing agent): classe di eventi, sostanze o altro
che può essere usata per rinforzare un dato
comportamento (a es. il cibo).
• Rinforzo (reinforce): la particolare qualità e quantità
di rinforzatore che viene usata (a es. una pallina di
carne).
• Rinforzamento (reinforcement): sia il procedimento
sia gli effetti della presentazione del rinforzo.
• Contingenze di rinforzamento (contingencies of
reinforcement): le modalità di presentazione dei
rinforzi, cioè il programma di rinforzamento
utilizzato.
Perché il rinforzo rinforza?
• Hull (1943) ha sostenuto che il rinforzo è costituito dalla riduzione della pulsione
attivata da un bisogno fisiologico (fame, sete, ecc.) insoddisfatto; qualunque
comportamento che soddisfa il bisogno, riduce la pulsione e quindi è associato allo
stimolo iniziale cui è seguito il comportamento.
• Tolman (1932; 1951) ha fondato la sua spiegazione sulle aspettative, ipotizzando la
presenza nei soggetti di una rappresentazione interna della meta e quindi dei
possibili esiti di vari comportamenti già sperimentati in rapporto alla meta stessa.
• Altri ritengono che il rinforzo e la punizione abbiano i loro effetti in quanto
forniscono delle informazioni in grado di guidare il comportamento (cfr. a es.
Buchwald, 1967; Estes, 1969).
• Molto coerente e onesta è infine la posizione di Skinner (1953), il quale non osa
offrire una spiegazione degli effetti del rinforzo e della punizione, ma si limita a
darne una definizione operazionale. Un rinforzo è tutto ciò che se fatto seguire
(rinforzo positivo; a es. un dolce) o se tolto (rinforzo negativo; a es. una scossa
elettrica) immediatamente dopo una risposta, ne aumenta la probabilità di emissione.
La punizione è invece tutto ciò che, se fatto seguire (presentazione di un rinforzatore
negativo; a es. la somministrazione di uno shock elettrico) o tolto (sottrazione di un
rinforzatore positivo; a es. privare un bimbo di un giocattolo) immediatamente dopo
una risposta, ne diminuisce la probabilità di emissione.
Tipi di rinforzo (I)
• I rinforzi possono essere:
• primari o naturali (sono tali per loro caratteristiche
intrinseche, legate alle peculiarità di una
particolare specie biologica; a es. l'
acqua per un
assetato);
• secondari o arbitrari (sono divenuti tali per un
processo di condizionamento classico, essendo
stati associati più volte a un rinforzo primario; a es.
il denaro, che ci permette di acquistare rinforzi
primari come il cibo).
Tipi di rinforzo (II)
• I rinforzi sono stati suddivisi in altre cinque categorie:
– 1) Materiali o tangibili: si tratta di sostanze od oggetti, commestibili o
meno (a es. una caramella, un giocattolo, ecc.).
– 2) Sociali: lodi, apprezzamenti, riconoscimenti, decorazioni, elevazioni di
status, ecc.
– 3) Dinamici: consistono nel permettere al soggetto di eseguire una
determinata attività. Essi possono venire concessi in base al noto principio
di Premack (1959): "E'possibile aumentare la frequenza di emissione di
un comportamento poco probabile facendolo seguire da un
comportamento più probabile del primo". Per esempio, si può indurre un
bambino a impegnarsi di più a fare i compiti (comportamento poco
probabile) permettendogli dopo di essi di andare a giocare al pallone
(comportamento più probabile). Si può notare che il principio di Premack
costituisce un'
altra definizione operazionale di rinforzo.
– 4) Simbolici: si tratta di rinforzi arbitrari, come il denaro.
– 5) Informazionali: tutto ciò che dà un feed-back, cioè delle informazioni
sulle conseguenze del proprio comportamento, in grado di ridurre
l'
incertezza del soggetto.
Estinzione del condizionamento operante
• L'
estinzione avviene quando a una data risposta non viene
fatto più seguire il rinforzo; l'
emissione della risposta cala di
frequenza e ciò avverrà tanto più lentamente quanto più
numerose sono state le precedenti associazioni fra essa e il
rinforzo e quanto più adeguato è stato il programma di
rinforzamento usato (vedi oltre).
• Come per il condizionamento pavloviano, il processo di
estinzione viene a costituire la prova dell'
avvenuto
apprendimento; inoltre, è presente il recupero spontaneo: se,
dopo avere estinta una risposta strumentale e avere lasciato
passare un certo lasso di tempo, si ripresenta la situazione
stimolante originaria, la risposta strumentale ricompare e
tanto maggiore sarà la sua frequenza di emissione quanto
più lungo è stato l'
intervallo di tempo (Ellison, 1938).
La generalizzazione operante
• La generalizzazione operante è il processo mediante cui
soggetti che hanno appreso una risposta strumentale dinanzi
a un certo stimolo, possono emetterla anche in presenza di
stimoli più o meno simili al primo: se un bambino ha
appreso una determinata abilità, come mangiare con le
posate, all'
asilo, può generalizzarla anche altrove, per
esempio a casa.
La discriminazione operante
• La discriminazione operante consiste nel rinforzare in modo
differenziale una risposta se emessa in associazione a un
determinato stimolo (Sd+, stimolo discriminante positivo o
anche Sd), mentre la stessa non viene rinforzata se associata
a uno stimolo differente (Sd-, stimolo discriminante
negativo o anche S∆).
• Per esempio, in base alle conseguenze di nostre precedenti
esperienze, sappiamo che con determinate persone, aventi
un dato status sociale o particolari caratteristiche
personologiche, abbiamo appreso che possiamo emettere
talune risposte che non sono possibili con altre, dotate di
caratteristiche diverse.
Discriminazione simultanea
• Lo Sd+ e lo Sd- vengono presentati
contemporaneamente al soggetto, il quale deve
decidere quale dei due è lo Sd+.
• Per esempio, il piccione deve discriminare che se
becca un bottone verde ottiene cibo e non se
becca quello rosso.
• Un altro esempio è il cosiddetto matching-tosample, cioè la “discriminazione di confronto con
il campione”: al soggetto viene presentato uno
stimolo che funge da campione e due o più altri
stimoli, tra i quali deve scegliere quello simile al
campione.
Discriminazione successiva
• Viene presentato prima uno stimolo e il soggetto
risponderà a meno a seconda che si tratti di Sd+ o
Sd-; quindi viene presentato l’altro stimolo e il
soggetto dovrà nuovamente rispondere o meno a
seconda che si tratti di Sd+ o Sd-; la presentazione di
Sd+ e Sd- è ovviamente randomizzata nelle varie
prove.
• Esempio: un bambino può imparare a comportarsi
bene in presenza della madre (Sd+) e non dinanzi
alla nonna (Sd-).
• Esempio: go:no-go (vai/non vai), in cui lo Sd+ indica
l’opportunità di emettere un comportamento e lo Sdquella di non emetterlo.
Discriminazione senza errori
discrimination, Terrace, 1963)
(errorless
• Inizialmente è presente il solo SD+, in presenza
del quale il soggetto apprende a rispondere. In
modo molto graduale viene introdotto poi lo Sd-,
inizialmente per periodi così brevi (o in modo
poco saliente). La durata o la salienza dello Sdviene poi gradatamente aumentata, fino a
raggiungere il livello prestabilito.
• Si osserva in genere con questa procedura che il
soggetto continua a rispondere a Sd+ e non a Sd-,
cioè apprende la discriminazione senza compiere
mai o quasi errori.
I programmi di rinforzamento
• Come abbiamo detto, la velocità dell'
estinzione di un
condizionamento operante dipende anche dalle
contingenze di rinforzamento, cioè dal modo con cui
il rinforzo è stato fatto seguire alla risposta. Ferster e
Skinner (1957) hanno analizzato i vari tipi di
programmi di rinforzamento, di cui esporremo i
principali.
Rinforzamento continuo
• Tutte le volte che viene emessa una data risposta in presenza di un dato stimolo,
viene fatto seguire il rinforzo. Tale programma viene utilizzato nelle prime fasi di
apprendimento e viene seguito poi da programmi più complessi. Permette di
ottenere in breve tempo un'
elevata frequenza di risposte, ma ha lo svantaggio di
produrre in fretta "saturazione", cioè il rinforzatore (specie se primario) cessa di
avere valore rinforzante; inoltre il suo tempo di estinzione è molto breve. Più
vantaggiosi sono i programmi a rinforzamento intermittente, come i seguenti.
Rapporto fisso
• La risposta viene fatta seguire da rinforzo dopo che è stata emessa un numero di
volte stabilito in precedenza, per esempio un rinforzo ogni cinque risposte emesse.
Tale programma permette di ottenere un numero di risposte più elevato e di
ritardare nel tempo la sazietà.
Rapporto variabile
• Il numero di risposte non rinforzate seguenti a quella rinforzata varia
continuamente nel tempo, e solo in media si può affermare, a esempio, che è stato
dato un rinforzo ogni cinque risposte. Anche in questo caso il ritmo di frequenza di
risposta è assai elevato e l'
intervallo fra una risposta e l'
altro è molto ridotto;
inoltre non vi sono quelle scariche di risposte seguite da intervallo tipiche del
programma a rapporto fisso. La durata dell'
estinzione è prolungata.
Intervallo fisso
• Viene stabilito un tempo (per esempio 5 minuti) durante il quale non viene dato
alcun rinforzo, indipendentemente dal comportamento del soggetto; una volta
trascorso questo intervallo la prima emissione della risposta viene fatta seguire
immediatamente dal rinforzo e quindi si ricominciano a calcolare i successivi
cinque minuti d'
intervallo. Tale procedura permette di ritardare di molto la sazietà
ma non produce alte frequenze di risposte, in quanto il soggetto impara il ritmo e
ne emette una solo quando è passato all'
incirca il tempo d'
intervallo stabilito dal
programma.
Intervallo variabile
• Come per il rapporto variabile, anche in questo caso solo in media l'
intervallo fra un
rinforzo e l'
altro è, a esempio, di cinque minuti; in realtà esso varia in modo
imprevedibile. Si ottengono frequenze di risposte piuttosto elevate, secondo
modalità abbastanza sovrapponibili a quelle tipiche di un programma a rapporto
variabile.
Overshadowing
• È il fenomeno per cui la presenza di uno stimolo
più saliente “mette in ombra” la presenza di uno
stimolo meno saliente.
• Esempio: un soggetto sembra avere appreso a
discriminare un triangolo da un quadrato, ma in
realtà ha appreso a discriminare il triangolo dal
quadrato perché il primo è rosso, mentre l’altro è
bianco e quindi il rosso è più saliente del bianco.
Se entrambi i poligono sono bianchi non sa più
discriminare.
Blocking
• Si tratta del fenomeno per cui uno stimolo che era
in grado di produrre una risposta se presentato da
solo, perde tale capacità di indurla se viene
accoppiato a un altro stimolo, che appunto
“blocca” tale apprendimento.
• Ad esempio, se si accoppia a una luce, capace di
indurre una risposta, un rumore, la risposta non
viene più evocata, in quanto il rumore “blocca”
l’attenzione agli altri stimoli.
Comportamento superstizioso (superstitious
behaviour, Skinner, 1948)
• In una Skinner box vi sono dei piccioni privati di cibo e
ogni 15 sec. Viene presentato loro un rinforzo costituito
da cibo. Il rinforzo viene dato in base a un programma
prefissato e non dipende dall’emissione di una certa
risposta da parte del soggetto. Eppure s’instaurano ben
presto stereotipie consistenti, per esempio girare in tondo,
allungare il collo, ecc.
• Il soggetto, per forza di cose, quando compare SR+ starà
facendo qualcosa, cioè emettendo un comportamento R1.
L’emissione di R1 è perciò seguita dall’immediata
comparsa del rinforzo e questo fa sì che la probabilità di
emissione di R1 aumenti, per cui diventa più probabile
che alla successiva presentazione di SR+ il soggetto stia
di nuovo emettendo R1 che, nuovamente rinforzata,
diventa ancora più frequente.
L’automodellaggio (autoshaping, Brown e
Jenkins, 1968)
• Si tratta di un fenomeno per cui i soggetti sembrano, appunto,
“autocondizionarsi” ad emettere del risposte che non sono
affatto richieste per ottenere il rinforzo. Dei piccioni privati di
cibo sono in una Skinner box e a intervalli di tempo
prestabiliti una key viene illuminata e al termine di ciò viene
dato il rinforzo. Sebbene questo sia indipendente dal
comportamento dei piccioni, essi ben presto beccano la key,
appena questa si illumina (come se questa fosse uno Sd).
• Si tratta di un processo sia pavloviano sia operante: i piccioni
presentano la RIC di beccata di fronte allo SIC cibo e poiché
quest’ultimo è sempre preceduto dall’accensione della key, lo
stimolo “key illuminata” finisce con diventare uno SC che
elicita anch’esso una risposta di beccata. Una volta verificata
questa R, essa è seguita dal cibo (SR+), per cui viene
rinforzata positivamente e quindi si presenterà sempre più
spesso.
Concatenamento (chaining)
• È il procedimento per cui è possibile “incatenare” l’una
all’altra una serie di risposte e condizionare il soggetto a
emettere la catena di operanti seguendo un certo ordine di
emissione.
• Supponiamo di volere ottenere che un ratto passi sotto un arco
metallico (R1), abbassi un anello appeso al soffitto della gabbia
(R2) e poi prema una leva (R3). Si inizia con l’apprendimento
di R3 con il cibo come rinforzo. Poi si insegnerà tramite
apprendimento per discriminazione a premere la leva solo
dinanzi a una luce (Sd3). Quindi facciamo apprendere R2, che
sarà sempre seguito da Sd3, R3 e SR+. Poi introduciamo prima
di R2 un suono (Sd2) per cui la sequenza sarà Sd2, R2, Sd3, R3
e SR+. Quindi si fa apprendere R1 facendola seguire da tutto il
resto della sequenza.
• Si noti la doppia funzione di Sd2 e Sd3: sono Sd per l’operante
che li segue, ma sono SR+ per quello che li precede.
Il modellamento
• Un bimbo di due anni osserva la mamma che usa
l'
aspirapolvere e subito ripete i suoi movimenti, facendo
finta di usare un immaginario apparecchio; il maestro di
tennis mostra al suo allievo come impostare un rovescio e
ne esegue uno come esempio, invitandolo a ripetere lo
stesso gesto; un regista assume temporaneamente la parte
del protagonista del film per illustrare all'
attore come
interpretare quel ruolo.
• Questi sono tutti esempi di una particolare forma di
apprendimento che, con termine comune, viene detto
"imitazione" e, nel linguaggio tecnico, è chiamato
"modellamento": la riproduzione del comportamento di
un altro individuo preso come modello.
Il modellamento
Sd
Comportamento
del modello
R
Comportamento
di imitazione
Sd+
Rinforzo
Teorie sul modellamento (I)
• La più classica interpretazione del fenomeno del modellamento è
certamente quella di Miller e Dollard (1941), che si fonda sul concetto di
condizionamento operante. Tale teoria si adatta particolarmente bene alla
situazione di apprendimento detta di "confronto dipendente", nella quale
l'
imitatore riproduce per caso il comportamento del modello e viene per
questo premiato.
• In tale situazione il modello ha risposto a un indizio percettivo (o stimolo)
col comportamento adeguato ed è quindi stato ricompensato, ma anche
l'
imitatore, che non ha colto l'
indizio percettivo valido, viene premiato
perché per caso ha emesso il comportamento giusto, quello stesso cioè del
modello. .
• Tale interpretazione teorica, però, non si presta a spiegare altri tipi di
comportamento modellato, come l'
apprendimento imitativo "senza
esercizio" (in cui l'
imitatore non ha occasione subito di emettere la risposta
e quindi di essere ricompensato) oppure "senza rinforzo" (in cui né il
modello né l'
imitatore vengono premiati), o, infine, con "rinforzo
vicariante" (in cui viene ricompensato solo il modello).
Teorie sul modellamento (II)
• Bandura (1969; 1971) ha proposto un importante tentativo di
interpretazione teorica in chiave cognitiva. In primo luogo necessario che
l'
imitatore presti attenzione al modello, quindi i dati derivanti
dall'
osservazione di esso vengono memorizzati secondo un duplice
processo di codificazione, tramite immagini e parole, permettendo il loro
consolidamento senza che il soggetto debba eseguire subito o ripetere più
volte il comportamento imitato.
• Tali rappresentazioni permettono il comportamento imitativo senza
esercizio, purché naturalmente le risposte motorie memorizzate siano già
presenti nel repertorio del soggetto, anche se collegate ad altri stimoli.
• Infine, il soggetto deve essere motivato a emettere il comportamento
imitato, per cui talvolta questo verrà innescato non contemporaneamente
al modello, ma in altre occasioni, quando per esempio vengono meno, allo
scopo di risolvere un problema, le strategie già note al soggetto e quindi
questo ne tenterà alcune che ha visto emettere da altri. Questa ipotesi,
dunque, è in grado di spiegare diversi casi di apprendimento imitativo
senza rinfozo o con rinforzo vicariante.
L’imitazione generalizzata
• Secondo tale punto di vista (Gewirtz e Stingle, 1968.), ogni volta che una
risposta imitativa di qualunque genere viene rinforzata (e ciò accade
molto spesso, in particolare nei bambini), è premiata anche una categoria
più generale di risposte, cioè il comportamento imitativo in se stesso, la
tendenza a ripetere risposte osservate in un modello. Tale classe di
risposte, per così dire "sovra-ordinata", si mantiene perché viene
rinforzata ogni volta che lo è una risposta "sotto-ordinata", cioè ogni
specifica risposta imitativa. Quando un bambino imita la madre che usa
l'
aspirapolvere e viene da essa lodato, viene rinforzata non solo la risposta
specifica sotto-ordinata, cioè "imitare la mamma che usa l'
aspirapolvere",
ma anche quella più generale e sovra-ordinata, cioè "imitare ciò che fa la
mamma"; così a poco a poco il piccolo imparerà a imitare tutto ciò che fa
la mamma e, in seguito a superapprendimento, non sarà più necessario
che ogni singola risposta imitativa venga rinforzata, ma basterà un
rinforzo intermittente. In tal modo possono essere spiegati gli
apprendimenti imitativi senza rinforzo, senza esercizio o con rinforzo
vicariante.
Fattori che potenziano l’acquisizione (apprendimento e
ritenzione)
• A. Caratteristiche del modello:
–
–
–
–
–
1. Somiglianza di razza, età, sesso, atteggiamenti.
2. Prestigio.
3. Competenza.
4. Calore e attenzione; capacità di empatia.
5. Valore della gratificazione.
–
–
–
–
–
1. Capacità di elaborare e di ritenere l’informazione.
2. Incertezza (fattore motivante la ricerca di una soluzione).
3. Livello d’ansia (fattore motivante la ricerca di una soluzione).
4. Grado di dipendenza dell’osservatore dal modello.
5. Altre dimensioni di personalità.
–
–
–
–
–
–
–
–
–
1. Modello presente: o “in vivo” o simbolico.
2. Modello “covert”.
3. Modelli multipli.
4. Modello di mastery vs. modello di coping.
5. Procedure graduali di modellamento.
6. Istruzioni.
7. Precisazione delle regole.
8. Ripetizione.
9. Attenuazione degli stimoli distraenti.
• B. Caratteristiche dell’osservatore.
• C. Caratteristiche della modalità mediante cui viene effettuato il modellamento:
Fattori
che
potenziano
la
prestazione
• A. Fattori che incentivano la prestazione
–
–
–
–
–
1. Rinforzo vicariante.
2. Auto-rinforzo.
3. Estinzione vicariante della paura di fornire la risposta.
4. Rinforzo diretto dell’osservatore.
5. Imitazione dei bambini.
• B. Fattori che influenzano la qualità della prestazione
– 1. Ripetizione e feed-back.
– 2. Modellamento partecipante (interazione diretta fra modello e osservatore).
• C. Fattori che favoriscono la generalizzazione
–
–
–
–
–
1. Somiglianza della situazione di training a quelle reali.
2. Esercizi ripetuti che influenzano la gerarchia delle prestazioni.
3. Incentivi forniti per garantire che la prestazione avvenga nei setting.
4. Principi d’apprendimento che governano una determinata classe di comportamenti.
5. Variabilità nelle situazioni di training.
LA RELAZIONE TERAPEUTICA IN
UNA PROSPETTIVA COGNITIVOCOMPORTAMENTALE
Davide Dèttore
Università degli Studi di Firenze
Istituto Miller, Genova
I modelli del terapeuta efficace (I)
• Una prima concettualizzazione della relazione terapeutica prende in
considerazione il concetto di “empiricismo collaborativo” descritto
originariamente da Beck (1976), che sostiene che terapeuta e paziente
sogliano a due ricercatori che tendono alla soluzione di un problema:
si formulano degli assunti sulle problematiche del paziente e se ne
verificano insieme l’attendibilità prima di accettarli o respingerli.
• L’altro concetto è quello di “base sicura” formulato da Bowlby
(1988). Egli ha sottolineato che il ruolo di un terapeuta che aderisca
ai concetti basali della teoria dell’attaccamento deve consistere nel
saper creare una condizione di sicurezza per il paziente, affinché
questo sia in grado di esplorare quali sono i “modelli operativi” che
ha in effetti costruito nelle proprie relazioni con l’ambiente. Offrire
una base sicura significa permettere al paziente di esplorare gli aspetti
più problematici della propria vita sapendo che alle spalle c’è sempre
qualcuno di cui egli si può fidare e su cui può ripiegare per ottenere
sostegno, incoraggiamento e, se necessario, una guida.
• Come si può fare per fornire una base sicura?
I modelli del terapeuta efficace (II)
• In primo luogo è opportuno sottolineare la necessità di considerare il
paziente come un “unico”, accettare genuinamente il paziente così
com’è (accettazione incondizionata).
• Occorre
stimolare
all’esplorazione
e
quindi
facilitare
l’apprendimento, per portare a un più elevato grado di autonomia.
• L’esplorazione è spesso tutt’altro che facile e per controbilanciare
tale effetto negativo il terapeuta deve essere preparato a essere
continuamente empatico nella sua accessibilità e flessibile nel suo
atteggiamento. In tale contesto il “saper fare da specchio”
(mirroring), inizialmente descritto da Kohut (1971), è di particolare
importanza per aiutare il paziente a sviluppare un senso positivo di sé.
• Da ultimo il terapeuta deve essere in grado di porre dei limiti ben
precisi, soprattutto con i pazienti borderline, è importante imporre
una struttura ben solida e limiti esplicitamente definiti (Aronson,
1989).
I modelli del terapeuta efficace (III)
• Il terapeuta come supervisore di ricerca: tipico di Kelly. Come
suggerisce la metafora non si tratta di un esperto che si occupa di uno
sfortunato ignorante, ma di due esperti con una diversa distribuzione
delle competenze. Lo studente ricercatore in ogni ricerca scientifica è
chiaramente l’esperto nel campo immediato. È lui a essere aggiornato
sulla letteratura e a essere pienamente coinvolto nel progetto di
ricerca, esattamente come il paziente in terapia è l’unico realmente
informato su se stesso. D’altra parte le competenze del supervisore
hanno a che fare con la familiarità con i criteri per controllare le
teorie, valutare le prove e pianificare strategie di ricerca. È in questo
modo che il terapeuta può contribuire alla ricerca del paziente.
• Guidano (1988) critica tale impostazione, in quanto presenta un
terapeuta portatore di una “razionalità” esterna, già precostituita, da
introdurre in qualche modo nella mente del paziente.
• La metafora, però, è utile per due aspetti: sottolinea l’autorevolezza
del terapeuta e il ruolo attivo del paziente.
I modelli del terapeuta efficace (IV)
• Il terapeuta come perturbatore strategicamente orientato: secondo
Guidano (1988) vi è identità tra il modo con cui un organismo vivente
mantiene la propria organizzazione attraverso i processi di
produzione dei propri componenti e il modo con cui un sistema
cognitivo complesso mantiene la propria identità trasformando le
perturbazioni provenienti dall’esterno. Da tale concezione deriva
l’importante conseguenza per la psicoterapia secondo cui il terapeuta,
anche volendo, non può introdurre nel paziente alcuna informazione
pura, ma qualunque informazione deve passare per i “processi
generativi di rinnovamento” del paziente stesso. Ecco dunque che
emerge l’immagine del terapeuta come perturbatore strategicamente
orientato: egli, mentre è “tecnicamente” proteso a modificare i
modelli della consapevolezza del paziente, è estremamente attento a
utilizzare le oscillazioni emotive che osserva nel paziente per
facilitare la comprensione di quanto va man mano costruendo.
I modelli del terapeuta efficace (V)
• Altri punti importanti:
– La comunicazione deve essere diretta e inequivocabile, in quanto i
pazienti tollerano poco l’ambiguità. Deve instaurarsi una situazione di
mutuo rispetto.
– Tenere sempre in considerazione anche gli aspetti metaverbali, oltre a
quelli verbali. Il paziente non deve rivivere anche in terapia quelle
situazioni di doppio legame che spesso ha incontrato nella sua esistenza.
– Occorre essere costanti nei propri atteggiamenti nei confronti del
paziente; questo può essere molto difficile, per esempio, con i borderline
che spesso oscillano continuamente nel loro attaccarsi. Se il terapeuta si
trova in un periodo di bassi, può tranquillamente parlarne al paziente per
rendergli chiaro che ciò non ha nulla a che fare con la relazione che si è
instaurata fra loro (spesso questi pazienti dimostrano una eccezionale
capacità di “comprendere”).
– Tenere presente il proprio ruolo di modelli: si è umani e ci si può
arrabbiare ma occorre sapersi contenere, mostrando così che si può
provare rabbia senza conseguenze disastrose.
Il terapeuta come validatore autorevole (I)
• Il paziente mette in gioco nell’interazione terapeutica la propria
costruzione di sé nel mondo, gli schemi di base con cui costruisce la
visione di sé e delle proprie relazioni. Se egli ritiene attendibile
l’informazione su di sé proveniente dal terapeuta, ciò significa che
quest’informazione acquista la possibilità di modificare tali schemi. In
altre parole il paziente riconosce al terapeuta l’autorevolezza
necessaria per cui l’informazione che questi gli trasmette può
modificare la propria immagine di sé. Tale processo di chiama la
“costruzione di un validatore autorevole” (meglio di un validatoreinvalidatore, in quanto può sia invalidare sia validare le sue
costruzioni). In questo processo, il paziente è l’agente attivo; egli testa
e ritesta il terapeuta, non solo nei suoi interventi espliciti, ma anche in
quelli non verbali. Tale ruolo è sempre sotto giudizio, non viene
acquisito una volta per sempre e può andare perduto.
• La relazione terapeutica è una relazione emozionale altrettanto quanto
è una relazione informativa.
Il terapeuta come validatore autorevole (II)
• Vi sono due modalità di relazione emozionale con terapeuta:
• Modalità a): se le emozioni corrispondono a processi di transizione
nel sistema, questo è proprio ciò che fa un validatore autorevole. In
altre parole, il modo con cui il paziente capisce che il terapeuta lo
vede, è fonte di emozioni, perché può modificare il modo con cui il
paziente vede se stesso.
• Modalità b): è costituita dalla classica nozione di transfert. Il paziente
applica al terapeuta i propri schemi abituali di relazione interpersonale
e il modo con cui interpreta la condotta del terapeuta genera processi
di transizione a seconda che validi o invalidi le aspettative generate
dagli schemi.
• Si sostiene che i processi in senso b) sono funzionalmente necessari
all’instaurarsi dei processi in senso a): l’applicazione sul terapista
degli schemi abituali del paziente rappresenta dei test necessari per la
costruzione del terapeuta come validatore autorevole.
Il terapeuta come validatore autorevole (III)
• Il test di condizioni di sicurezza
• Weiss, Sampson e i loro collaboratori del Mount Zion Hospital di San
Francisco hanno elaborato una revisione della teoria psicoanalitica,
proponendo l’“ipotesi del controllo”. Secondo quest’ipotesi, gli esseri
umani tengono rimossi gli impulsi e gli altri contenuti mentali non già
perché le forze della rimozione siano superiori a quelle degli impulsi
inconsci, ma piuttosto perché gli individui possono inconsciamente
decidere (in base alle loro vicende passate e valutando la realtà
attuale), che “fare esperienza” e, ancor più, esprimere apertamente
alcuni desideri e contenuti rimossi potrebbe essere molto pericoloso.
• Per esempio, i pazienti possono avere deciso che esprimere il loro
amore per un’altra persona può portarli a essere rifiutati e umiliati.
Essi pertanto desiderano inconsciamente (oltre che a livello conscio)
di fare emergere i contenuti mentali rimossi ed esplorarne il
significato; possono quindi inconsciamente decidere di abbattere le
barriere della rimozione e di permettere al materiale rimosso di
emergere, non appena si rendono conto che esso non è più pericoloso.
Il terapeuta come validatore autorevole (IV)
• La relazione terapeutica diviene così comprensibile come “test di
condizioni di sicurezza”, il cui superamento comporta una
diminuzione dell’angoscia e un’accresciuta probabilità che emergano i
contenuti inconsci. Invece, un insuccesso nel superamento di un test
comporta un incremento dell’angoscia e delle difese.
• Esempi: il paziente con fantasie e paure omosessuali represse offre un
dono al terapeuta maschio che questo rifiuta; rassicurato dal fatto di
non potere sedurre il terapeuta, parla delle sue fantasie e paure
omosessuali; il paziente sempre competitivo col padre e timoroso di
averlo ferito per questo, compete col terapeuta, non per ferirlo, ma per
essere rassicurato di poter competere con lui senza ferirlo.
• Semerari (1991) interpreta più cognitivamente queste idee e sostiene
che non si tratterebbe di una ricerca intenzionale del paziente di un
test di sicurezza, ma tale test sarebbe un risultato funzionale delle
condizioni stesse della terapia. Il test di condizioni di sicurezza è una
valutazione della propria sicurezza, il test di validatore autorevole
invece riguarda l’affidabilità del terapeuta, ma le due cose sono
strettamente connesse.
Il terapeuta come validatore autorevole (V)
• Gli indici clinici del fatto che sia in atto un test di validatore
autorevole
• 1) Il paziente può rivelarci apertamente un timore, una perplessità o
un dubbio riferito alla persona del terapeuta; ma ciò è abbastanza raro.
• 2) Weiss e collaboratori sostengono che, se il test di sicurezza viene
superato, il paziente offre nuovo materiale informativo su di sé.
Quindi, un blocco, un impaccio insolito nel flusso delle informazioni
indica un test non superato.
• 3) La presenza di ansia, timore manifesti.
• 4) Un confronto effettuato dal paziente fra le caratteristiche del
terapeuta e quelle di altre persone della sua vita. Tale confronto può
essere esplicito, innescato spesso da eventi reali durante la terapia
(anche aspetti secondari del setting terapeutico), altre volte può essere
costituito da allusioni ad altre situazioni relazionali in cui si sono
verificati eventi assimilabili a quelli avvenuti in terapia.
Il terapeuta come validatore autorevole (VI)
• Gli indici personali del terapeuta circa il fatto che sia in atto un
test di validatore autorevole
• Semerari (1991) ricorda che le impressioni emozionali di base sono
innate ed è innata la nostra capacità di riconoscerle. Sarebbe quindi
del tutto plausibile che il terapeuta possa percepire a livello
subliminare variazioni nell’atteggiamento emotivo del paziente, le
elabori inconsciamente e reagisca in modo conseguente.
• Quando è presente uno di questi indici (clinici o personali) il terapeuta
deve formulare l’interpretazione del test a partire da quello che è lo
schema presumibilmente attivato, inferito sulla base di ciò di cui si sta
parlando in quel momento in terapia. Le interpretazioni del test hanno
dunque, in prima istanza, il carattere del qui e ora, si riferiscono alle
convinzioni generate dallo schema attivo in quel momento così come
si può dedurlo dall’argomento di cui si sta parlando. È opportuno,
quando l’occasione lo permette, fare seguire all’interpretazione sul qui
e ora un breve commento con qualche esempio che dimostri il
carattere abituale dello schema implicato.
All’interno dell’ottica cognitiva-comportamentale possiamo sintetizzare
come nell’ambito di qualsiasi relazione terapeutica operino i seguenti
elementi fondamentali, qui analizzati dal punto di vista del “paziente”:
• Interpretazione cognitiva da parte del soggetto circa la
normalità/patologia della condizione che lo caratterizza.
• Applicazione di un modello preferenziale e culturale di malattia che,
conseguentemente, indirizza il soggetto già in partenza verso
determinate classi generali di interventi terapeutici.
• Attivazione delle aspettative di auto-efficacia, al fine di valutare la
propria capacità di far fronte da solo alla situazione.
• Attivazione delle convinzioni personali (in senso di preferenza e di
fede) rispetto a determinate più specifiche procedure terapeutiche
(culturalmente approvate o meno).
• Attivazione delle convinzioni personali (in senso di preferenza e di
fede) rispetto a date persone con ruolo di terapeuta (ufficiale o meno).
• Modificazioni comportamentali, cognitive ed emozionali conseguenti
ai fattori sopra elencati, in senso di maggiore o minore disponibilità a
rivolgersi verso figure contraddistinte da un ruolo “terapeutico”.
• Modificazioni comportamentali, cognitive ed emozionali conseguenti
all’accettazione o meno del ruolo di “paziente”, con le regole e le
aspettative a esso legate.
• Modificazioni cognitive, anch’esse conseguenti ai fattori sopra
elencati, relative a rafforzamenti o eventuali modificazioni delle
proprie teorie circa il mondo, le malattie, la normalità/anormalità,
conseguenti al contatto con le figure contraddistinte da un ruolo
“terapeutico”.
• Modificazione della focalizzazione attentiva selettiva rispetto a
determinati mutamenti sintomatologici e a talune specifiche aree di
rilevanza personale (tale focalizzazione può rivolgersi ad aspetti
positivi o negativi, a seconda dell’operare dei fattori precedenti).
• Interpretazione cognitiva relativa agli aspetti evidenziati da tale
focalizzazione attentiva.
• Conseguenti risposte emozionali, positive o negative, in accordo a tale
interpretazione.
• Produzione di un “circolo virtuoso” autosostentante in caso di
interpretazione cognitiva favorevole alla fede nella terapia e nel
terapeuta, a una conseguente crescita del proprio senso di autoefficacia, a una visione del mondo meno drammatizzante e più
differenziata, e alla produzione di affetti positivi e di una diminuzione
dell’ansia. Instaurarsi di un “circolo vizioso” altrettanto
autosostentante nel caso di interpretazione in senso opposto.
• Mutamenti biologici e sintomatologici congruenti con gli andamenti
sopra evidenziati come conseguenza di:
– Mantenimento di un circolo “virtuoso” o “vizioso” come sopra
descritto.
– Migliore/peggiore
compliance
alle terapie
“specifiche”
(farmacologiche e/o psicoterapeutiche, sia della medicina
scientifica occidentale sia di quella tradizionale).
– Cambiamenti nello stato emozionale (soprattutto in direzione di un
aumento/diminuzione di affetti depressivi e dell’ansia) in grado di
indurre correlati mutamenti sulle risposte immunitarie, sull’asse
limbico-ipotalamo-ipofisi-surrenali dello stress e sul sistema
oppiatergico, oltre che su altri meccanismi ancora non noti.
– Possibili effetti di condizionamenti pavloviani fra stimoli
condizionati e risposte incondizionate originariamente indotte da
stimoli incondizionati con effetti terapeutici o antiterapeutici
specifici.
– Mutamenti di conoscenze e di convinzioni sufficienti ad attivare
modificazioni comportamentali capaci di produrre cambiamenti
indiretti a livello biologico (per es. una nuova dieta, nuove
abitudini di vita, ecc.).
Conclusioni
• Sulla base di questo modello viene a perdere d’importanza la
distinzione fra fattori terapeutici “specifici” o “aspecifici” (placebo),
dato che in quest’ottica ogni fattore terapeutico è specifico rispetto a
un elemento rilevante in una visione sistemica della persona, in
quanto contribuisce causalmente all’origine e/o al mantenimento
della condizione. Se infatti seguiamo un modello etiopatogenetico
del tipo “vulnerabilità-stress”, viene meno in questo caso una
concezione della causalità di tipo lineare e sequenziale, che viene
sostituita da una causalità molteplice e per serie parallele, in cui è
impossibile individuare un’unica “causa specifica”, ma dove vari
fattori di diversa natura hanno concorso a produrre la condizione
attuale.
• Dunque le varie componenti di un intervento terapeutico sono tutte
“specifiche” rispetto ad alcuni aspetti che intervengono nella
produzione e nel mantenimento del disturbo e non ha senso ritenere
che alcune di esse siano “non specifiche”, in quanto in genere non è
possibile individuare un’unica causa eziologica sufficiente, il cui
trattamento costituirebbe l’unico tipo di intervento degno della
definizione di “terapia specifica”.
• Così il farmaco è “specifico” per indurre una determinata
modificazione biologica che può essere favorevole a un esito
terapeutico, come nel caso dell’effetto panicolitico di un inibitore
della ricaptazione della serotonina, somministrato in un disturbo di
panico, che in una prima fase del trattamento può avere una funzione
di riduzione dell’ansia da parte del paziente, utile per l’effettuazione
di tutte le altre componenti terapeutiche. Ma ciò, in genere, non è
sufficiente da solo.
• Occorrono, infatti, solitamente anche interventi classici di terapia
cognitivo-comportamentale, come le tecniche di esposizione, la
prova comportamentale e la ristrutturazione cognitiva, che sono
“specifici” perché mirati a produrre cambiamenti comportamentali
che spezzano catene di condotte disadattive, rimettono in moto
sequenze comportamentali cadute in disuso, estinguono l’ansia e
rifocalizzano l’attenzione su aspetti adattivi e favorevoli a un ritorno
a moduli più funzionali di esistenza, meno evitanti.
• Ancora “specifico” e altrettanto fondamentale quali gli interventi
precedenti è un processo pedagogico ed educativo, teso a modificare
e/o arricchire e rendere più diversificati ed elastici i contenuti
cognitivi relativi ai concetti di normalità/anormalità, malattia/salute,
le teorie naives del funzionamento mentale (aspetti metacognitivi),
eccetera,
• Tutto questo al fine per esempio di correggere talune convinzioni
errate/disfunzionali e di ampliare e arricchire le modalità interpretative
delle situazioni problematiche, con conseguente rifocalizzazione
dell’attenzione su altri aspetti.
• E infine egualmente “specifico” ed essenziale è ogni intervento mirato
a migliorare il rapporto paziente-terapeuta sia nel senso di
incrementare la positività della loro relazione interpersonale (dal
punto di vista emotivo e comportamentale), sia in quello di
consolidare l’autorevolezza e l’affidabilità scientifica e personale del
terapeuta, sia nell’aumentare la disponibilità del soggetto a fidarsi di
qualcuno, in quanto ciò è fondamentale, come abbiamo visto, per
ottenere una valida compliance terapeutica, ma costituisce anche nel
contempo un aumento delle capacità del paziente.
• Tutti questi elementi devono essere compresenti e hanno la stessa
importanza e vanno presi in considerazione in ogni intervento
terapeutico, senza che nessuno sia più “specifico” di un altro.
• Infatti, hanno ognuno lo stesso fine terapeutico: accrescere il controllo
dell’individuo su se stesso e sul proprio ambiente, offrendogli
occasioni di apprendere nuovi e più validi modi di considerare il
mondo, se stesso e gli altri e di rapportarsi con essi.
RESISTENZA E ADERENZA
TERAPEUTICA
Davide Dèttore
Università degli Studi di Firenze
Definizione (I)
• Il termine resistenza fu originariamente introdotto da Freud assai
presto, nel 1895, negli Studi sull’isteria, riferendosi a tutto ciò che il
paziente analizzato può dire o fare per opporsi al lavoro terapeutico
mirato a porre in luce i propri desideri inconsci, rallentando così o
addirittura bloccando il processo di cura. Freud successivamente, nel
1926 con Inibizione, sintomo e angoscia, distinse cinque forme di
resistenza: tre attribuite all’Io (la rimozione, la resistenza di
traslazione e il vantaggio secondario), una all’inconscio o all’Es
(fondata sulla coazione a ripetere) e infine una al Super-io (derivata
dal senso di colpa inconscio e dal bisogno di punizione).
• Secondo quest’ottica, ripresa ampiamente in seguito in ambito
psicodinamico e psicoterapeutico generale, l’origine di tutto ciò che
può contrastare il processo terapeutico viene situata entro il soggetto,
con un processo di attribuzione che ne imputa la causa a processi
interni, globali e stabili nella persona stessa.
Definizione (II)
• Tale concettualizzazione, come risulta molto chiaramente dalle ben
note teorie dell’attribuzione da Heider in poi, facilita anche nel
terapeuta stesso la visione del paziente come appunto “resistente”,
“poco motivato”, “pigro”, “frustrante”, “manipolativo” o “bloccato”,
tutti termini che implicano una sottostante, e più o meno consapevole,
colpevolizzazione, che certamente non facilita il rapporto terapeutico.
• In tempi più recenti, soprattutto con l’avvento della psicoterapia a
orientamento cognitivo-comportamentale, in genere si preferisce
sostituire il concetto di resistenza con quello di “mancata compliance
o aderenza alla terapia”, che viene definito come il sorgere di una
discrepanza fra le istruzioni del terapeuta e il comportamento del
paziente, che genera il mancato sviluppo del piano di trattamento. In
questo caso si parte dunque dalla convinzione che qualsiasi paziente
sia in grado di raggiungere un certo grado di aderenza al trattamento;
possono però sorgere degli ostacoli in grado di interferire anche col
migliore progetto terapeutico. Quando questi si manifestano in
opposizione al buon decorso della terapia, significa che l'
ansia del
paziente non è diminuita, malgrado gli interventi in corso.
Classificazione (I)
• Tali comportamenti non favorevoli al trattamento possono assumere
forme diverse. Al di fuori della seduta, il paziente può non seguire le
prescrizioni farmacologiche o psicoterapeutiche (o anche può farlo
male, eccedendo o fermandosi a metà); oppure il paziente può saltare
una o più sedute con scuse abbastanza vaghe o comunque non
sufficientemente valide; o abusa di sostanze o alcol, o chiama
ripetutamente il terapeuta quando è in crisi; o ancora, pur avendo
eseguito con un certo successo le prescrizioni, vanifica il tutto
svalutando i risultati, sviluppando nuovi sintomi, eccetera.
• Ma i comportamenti problematici sono presenti anche nel corso della
seduta stessa. In tal caso il paziente evita argomenti importanti,
insiste sul fatto che gli sarà impossibile cambiare, attribuisce
costantemente agli altri la colpa delle sue difficoltà, presenta troppi
problemi o salta da una crisi all’altra, compie digressioni, non dà
informazioni, si perde in litigi col partner, oppure assume un
atteggiamento aggressivo o, al contrario, seduttivo, nei confronti del
terapeuta.
Classificazione (II)
• In tutti questi casi, è particolarmente produttivo specificare i
comportamenti che interferiscono col progresso terapeutico e adottare
un atteggiamento mirato al problem-solving, mirato al fare e non
colpevolizzante. Lo si attua analizzando quelle che possono essere le
principali possibilità di ostacolo al processo terapeutico: la patologia
del paziente, i fattori esterni al trattamento, fattori inerenti al
trattamento compresi gli errori del terapeuta, le convinzioni
disfunzionali del paziente
• La patologia del paziente
• Il quadro problematico del paziente è legato strettamente anche
all’inquadramento diagnostico. Talune difficoltà di compliance sono
intimamente legate alla sfera biologica, come nel caso delle
oscillazioni d’umore in un disturbo bipolare o in una depressione
maggiore, o all’insieme delle convinzioni disfunzionali tipicamente
legate al disturbo, come nel caso di un disturbo erettile di origine
psicogena, o al carattere strettamente egosintonico di alcune di esse,
come nel caso dell’anoressia o del disturbo di dismorfismo corporeo.
In questi casi occorre fare riferimento a protocolli terapeutici ben
precisi e specializzati.
Classificazione (III)
• I fattori esterni al trattamento
• Possono essere presenti dei problemi organici non riconosciuti (per
esempio un ipotiroidismo che può mimare una depressione), oppure la
terapia farmacologica produce degli effetti collaterali inaccettabili per
il paziente o deve essere ulteriormente calibrata, o il paziente vive in
un ambiente che non lo sostiene adeguatamente o addirittura è
pesantemente controproducente, come nel caso di familiari ad alta
Emotività Espressa. Anche in questo caso occorre elaborare un
problem-solving mirato e specifico.
• I fattori collegati al trattamento e gli errori del terapeuta
• È possibile che il “formato” della psicoterapia non sia quello più
idoneo: sedute più frequenti o meno, ospedalizzazione piuttosto che
sedute ambulatoriali, una terapia di gruppo invece che individuale, o
viceversa, oppure un diverso orientamento psicoterapeutico (per es.
passare da una terapia psicodinamica a quella cognitivocomportamentale nel caso di un disturbo ossessivo-compulsivo).
Infine può essere utile prendere in considerazione trattamenti
aggiuntivi, come la farmacoterapia oppure gruppi di mutuo sostegno.
Classificazione (IV)
• Non vanno dimenticati gli errori del terapeuta: una diagnosi non
corretta, una mancata o insufficiente concettualizzazione del caso che
rende oscuro al paziente il piano di trattamento, l’uso di tecniche
terapeutiche non adeguate al disturbo oppure implementate in modo
troppo pesante e accelerato, un mancato accordo col paziente circa la
mete terapeutiche, disattenzione da parte del terapeuta nella gestione
dell’alleanza terapeutica, l’assegnare compiti a casa troppo difficili (o
in taluni casi troppo facili), non ricordare punti importanti della
terapia e/o mancare alle sedute, eccetera.
• Per evidenziare questi aspetti, oltre al tenersi sempre aggiornati, è
senza dubbio utile rivedere la videoregistrazione delle proprie sedute o
andare talora in supervisione da un collega esperto.
• Le convinzioni disfunzionali del paziente
• Talune credenze fortemente consolidate nel paziente possono
interferire con la terapia. Per esempio, se un paziente ritiene che per
essere una persona valida deve ottenere la costante approvazione di
tutte le persone per lui importanti, può mancare di riferire al terapeuta
alcuni aspetti meno positivi di sé, per timore di perderne la stima.
Classificazione (V)
• In terapia sessuale, un uomo che ha una concetto stereotipato e rigido
del proprio ruolo maschile può entrare in competizione col terapeuta
del suo stesso sesso, oppure sentirsi criticamente giudicato da questo,
e quindi diventare aggressivo oppure, al contrario, ritirarsi in un
mutismo difensivo.
• Mettere alla prova tutte queste convinzioni e modificarle è spesso
necessario perché il paziente divenga più disposto a cambiare e quindi
ad aderire alle prescrizioni terapeutiche. Talora è sufficiente trasferire
alcune conoscenze, che mancano al paziente, per ottenere una
maggiore motivazione alla terapia; per esempio, comunicare a un
uomo potentemente omofobico che gli esseri umani hanno una certa
predisposizione alla bisessualità (per cui questo spiega occasionali
spunti omosessuali che sono presenti in ogni persona) può contribuire
a normalizzare taluni contenuti mentali che lo preoccupavano e a
renderlo meno ansioso circa la propria sessualità.
TRANSFERT E
CONTROTRANSFERT IN SENSO
COGNITIVO
Davide Dèttore
Università degli Studi di Firenze
Definizioni (I)
• “Ogni volta che sottoponiamo a trattamento psicoanalitico un soggetto nervoso,
compare in lui il sorprendente fenomeno della traslazione (transfert), vale a dire che
egli rivolge verso il medico una certa quantità di moti di tenerezza, abbastanza
spesso frammisti a ostilità, che non sono fondati su alcun rapporto reale e che non
possono che derivare dagli antichi desideri fantastici della persona divenuti
inconsci”.
• Negli Studi sull’isteria (1885) Freud introduce il concetto di transfert, che si basa
sulla nozione di “falso nesso”: un certo affetto di cui il soggetto ignora le reali
circostanze causali viene associato casualmente a un oggetto presente nell’ambiente
circostante (si tratta di una specie di condizionamento).
• Più tardi (1912) Freud introduce il concetto di “cliché”, che è molto simile allo
“schema” dei cognitivisti. Il cliché è una struttura che dà forma psichica alla
pulsione; esso è costituito da una pulsione aspecifica e dallo schema dei suoi oggetti
e delle sue condizioni di soddisfacimento, esso costituisce un ponte fra presente e
passato e viene ripetutamente attivato in circostanze diverse canalizzando
l’esperienza del soggetto. Infine, come uno schema, il cliché deve confrontarsi con
la realtà e può divenire relativamente modificato dai risultati del confronto.
• Quando il medico verrà inserito in un cliché la parte conscia e matura darà luogo ai
fenomeni del transfert “positivo e irreprensibile”, mentre l’altra darà luogo a
condotte inadeguate alla situazione reale della cura e in particolare al transfert
negativo e al transfert erotico non sublimato. Questi aspetti sono di tipo cognitivo,
ma per spiegare la cura Freud ricorre a modelli inaccettabili di tipo idraulico.
Definizioni (II)
• All’inizio del trattamento il nevrotico è incapace di godere e di agire perché tutta la
sua energia è legata ai sintomi: l’Io è debole perché deprivato della libido. Il malato
guarirebbe se l’Io potesse disporre nuovamente dell’energia legata. Per sciogliere i
sintomi è necessario rimuovere i conflitti dai quali erano scaturiti e indirizzarli verso
uno sbocco diverso. Così una volta che la libido è ritirata dai sintomi e spostata sul
terapeuta, la traslazione diventa il vero campo di battaglia contro le due forze che
concorrono alla nevrosi: la tendenza dell’Io alla rimozione e la tendenza della libido
a restare attaccata ai suoi oggetti. Se la lotta ha successo la “libido torna a staccarsi
dal suo oggetto temporaneo ossia la persona del medico, non può ritornare ai suoi
oggetti precedenti, ma rimane a disposizione dell’Io”.
• L’intero processo terapeutico può venire quindi descritto come un doppio
spostamento della libido, dai sintomi all’analista e da questi, attraverso il lavoro
dell’interpretazione, all’Io.
• L’analisi, secondo Freud, non crea il transfert ma si limita a evidenziarlo e
interpretarlo, esso è un fenomeno universale presente nelle relazioni umane e non
una caratteristica del setting analitico.
• Il transfert, così, prende il posto del ricordo: il paziente non ricorda gli elementi
rimossi, ma li ripete inconsapevolmente, li mette in atto (acting out). A esempio,
invece di ricordare il proprio atteggiamento diffidente e testardo verso i genitori, il
paziente assume gli stessi atteggiamenti verso l’analista.
Definizioni (III)
• A questo punto si pone il problema del rapporto di questa “coazione a ripetere” con
la traslazione e con la resistenza. Ma qui sorge un grosso problema: perché l’Io che
ha rimosso un certo impulso in nome del principio della realtà dovrebbe a questo
punto preferire riviverlo piuttosto che ricordarlo?
• Il problema viene risolto da Freud in Al di là del principio del piacere (1920)
introducendo la pulsione di morte. Così la ripetizione non è più espressione della
stessa forza o della stessa istanza che ha operato la rimozione, cioè l’Io nel
linguaggio strutturale, ma è l’espressione diretta di un altro principio regolativo della
condotta, la pulsione di morte appunto, che si esprime nella coazione a ripetere. Ma
se non si accetta la pulsione di morte (come fanno oggi sempre più psicoanalisti),
questa spiegazione cade e il problema del rapporto fra transfert, resistenza, ricordo e
ripetizione rimane. Lageche nel 1951 tentò di spiegarlo ricorrendo all’effetto
Zeigarnik.
• Semerari (1991) tenta di proporre una spiegazione affermando che sia il ricordo sia
la ripetizione sono teoricamente espressioni fenomeniche diverse di uno stesso
schema di base, di uno stesso cliché. Per cui uno schema può essere utilizzato sia per
la rievocazione del ricordo, sia per l’interpretazione della realtà presente, sia per la
regolazione dell’azione, sia per tutte le attività insieme.
• Allora è ragionevole presumere che un certo schema attivo nella ricostruzione dei
ricordi sia lo stesso schema attivo nell’interpretare la realtà attuale, ed è questo
schema che viene testato sulla persona del terapista ed eventualmente viene
utilizzato per regolare il comportamento conseguente ai risultati del test.
Definizioni (IV)
• Ciò porta a due considerazioni. Primo, la tendenza alla ripetizione non è altro che
l’espressione del fatto che ciascuno non può che usare gli schemi che ha. La seconda
è che in questo tipo di transfert non vi è alcun tipo di resistenza. Se infatti
intendiamo per resistenza l’intenzionalità inconscia di frapporre ostacolo alla cura,
qui non vi è nulla del genere; la diffidenza e i sentimenti negativi verso l’analista
non sarebbero altro che la semplice e diretta espressione di quegli schemi del
paziente che hanno attinenza con i problemi per cui è stato chiesto il trattamento. Se
poi per resistenza intendiamo il fatto che gli schemi del paziente sono di tale natura
e organizzazione da frapporre un ostacolo alla risoluzione della sofferenza, allora la
definizione di resistenza coincide in pratica con quella di nevrosi e in questo caso il
concetto di resistenza diventa del tutto superfluo.
• Posto che una funzione fondamentale degli schemi è quella di orientarci
nell’ambiente, dobbiamo in linea di principio postulare che sempre se vi è
l’attivazione di uno schema vi è anche un tentativo di applicarlo alla realtà.
• Questo tentativo tuttavia può avere a un estremo la forma di un vero e proprio test,
cioè di un interrogativo, di un esperimento ( allora abbiamo in terapia il ricordo e
l’elaborazione), dall’altro quello di una applicazione dogmatica pura e semplice
dello schema alla realtà (acting out del transfert). Il fattore determinante in questo
caso è la complessità cognitiva del paziente, sia nel senso dell’integrazione, sia nel
senso della differenziazione.
Definizioni (V)
• Applicando la teoria dell’attaccamento di Bowlby, Liotti (1988) propone un un
semplice sillogismo: i modelli di attaccamento si attivano in situazioni in cui si
avverte un bisogno d’aiuto, la richiesta di una psicoterapia è una richiesta d’aiuto;
per cui se un paziente si reca in terapia i suoi schemi d’attaccamento saranno attivati
e applicati in primo luogo alla persona a cui chiede aiuto: lo psicoterapeuta.
• Un corollario fondamentale di queste affermazioni è che per lo psicoterapeuta farsi
un’idea sul tipo di modello d’attaccamento di un determinato paziente significa
disporre di uno strumento concettuale per potere prevedere e interpretare il tipo di
relazione che il paziente tende a instaurare con lui.
• Meno chiare risultano le conseguenze della teoria dell’attaccamento rispetto alla
teoria della cura. Da un lato vi sono autori che sembrano ritenere che il riprodursi
nei confronti del terapeuta degli abituali schemi d’attaccamento rappresenti
un’occasione d’indagine della storia emotiva del paziente con cui quest’ultimo può
raggiungere la consapevolezza e la critica dei propri schemi interpersonali.
• A questa teoria detta “della coscienza critica”, si aggiunge quella della “base sicura”,
secondo cui il terapeuta, permettendo direttamente al paziente l’esperienza di una
relazione stabile e rassicurante, offre una sorta di riparazione delle carenze di
sviluppo. A questa si accosta una terza teoria, di Semerari, che consiste nel ritenere
l’applicazione sul terapeuta degli schemi di attaccamento, così come l’applicazione
di ogni tipo di schema interpersonale, come dei test funzionalmente necessari al
paziente per la valutazione della propria sicurezza e dell’affidabilità del terapeuta.