dettore_modulo 1_parte 1Introduzione teorica
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PRESUPPOSTI TEORICI DI BASE DELLA TERAPIA COGNITIVOCOMPORTAMENTALE Davide Dèttore Università degli Studi di Firenze Istituto Miller, Genova • Behaviour Modification e Terapia del comportamento • La prima si rifà al modello ABC (antecedenti, behaviour, conseguenti) di Skinner e si basa sui principi dell’apprendimento operante, sulla manipolazione cioè delle contingenze ambientali. Ambito preferenziale di bambini, soggetti handicappati, psicotici gravi istituzionalizzati: problemi scolastici, parent training, enuresi, encopresi, fobie scolastiche, riabilitazione handicappati e nelle istituzioni. • La terapia del comportamento (Wolpe, Eysenck e Rachman) si rivolge soprattutto ai disturbi nevrotici e si basa soprattutto sui principi del condizionamento classico e del controcondizionamento; centra l’attenzione sui disturbi emozionali, comportamentali e neurovegetativi connessi con l’ansia e prende in considerazione processi di mediazione immaginativa e verbale, definiti in termini di S e R): S overt, R covert, S covert, R overt. Prende inoltre il considerazione il “modello psicologico” del disturbo in contrapposizione a quello “medico”. • Terapie cognitivo-comportamentali • Si rifà soprattutto alle concezioni di Bandura che, partendo dall’apprendimento per imitazione sociale (modellamento), giunse a definire il concetto di apprendimento non più soltanto in termini di comportamenti emessi (performances), quanto in quelli dell’acquisizione stabile di rappresentazioni mentali che possono essere o meno tradotte in comportamenti, a seconda della situazione motivazionale interna e delle condizioni ambientali presenti. PRESUPPOSTI META-TEORICI DELLA BEHAVIOUR MODIFICATION • Determinismo: è il convincimento secondo cui ogni fenomeno, indipendentemente dalle sue caratteristiche, è collocato all’interno di una rete di rapporti di causa-effetto. • Ambientalismo: in opposizione all’innatismo, è l’ambiente che viene ritenuto il principale determinante del comportamento. • Principio dialettico: particolarmente enfatizzato da Skinner, esso sostiene che tra uomo e ambiente esiste una reciprocità di interazione, grazie alla quale l’uomo modifica l’ambiente ed è a sua volta da questo modificato. • Principio sistemico: esso afferma che ogni comportamento del singolo o del gruppo è inserito all’interno di una rete di reciproci influenzamenti, per cui la modificazione apportata a uno degli elementi che compongono il sistema si ripercuote su tutti gli altri. • Evoluzionismo: comprende il principio della continuità interspecie, che consente di generalizzare a specie superiori dati desunti da specie inferiori. • Riduzionismo: possibilità di tradurre concetti e leggi di una disciplina scientifica in termini, concetti e leggi di un’altra disciplina scientifica situata a un livello inferiore, più fondamentale, della gerarchia delle scienze (neopositivismo logico). • Praticalismo: stretta connessione tra elaborazione teorica, indagine sperimentale e prassi applicativa. • Modello psicologico del disturbo: si contrappone al modello medico, di cui evita la frequente tautologia, individuando le cause dei disturbi nell’ambiente piuttosto che all’interno dell’apparato psichico. Modello Medico Modello psicologico Causa endogena Processo di apprendimento Osservazione Osservazione Sintomi Questo può essere valido in campo medico, ma in campo psicologico porta a una tautologia, un aspetto diviene prova dell’altro, data l’impossibilità di osservare la causa endogena indipendentemente dal sintomo. Sintomo comportamentale Causa endogena Comportamento Mary Cover Jones (1924) e il piccolo Peter (2 anni e 10 mesi), in cui per la prima volta viene trattata una fobia per i conigli bianchi con prima tecniche di modellamento e poi di controcondizionamento, partendo dall’ipotesi che la fobia sia acquisita per processi di apprendimento (condizionamento classico) Modello Medico Modello psicologico Piccolo Hans (Freud, 1909) Piccolo Albert (Watson e Reynert, 1920) 5 anni circa. Inizio fobia: aver visto un 11 mesi. Prima induzione di una fobia cavallo attaccato a un carro cadere, mentre sperimentale. era fuori casa. Sintomi Fobia per i cavalli. Interesse per il “pipino”. Comportamento Fobia per i conigli bianchi e per oggetti chiari e lanuginosi. Cause endogene ipotizzate Complesso di Edipo (conflitto fra pulsioni dell’Io [amore per il padre] e pulsioni libidiche [amore per la madre]). Paura di castrazione e gelosia per la sorellina. Processi di condizionamento Condizionamento classico (rumore forte, reazione di paura, stimolo coniglio bianco). Condizionamento operante: la risposta di evitamento viene rinforzata dalla riduzione dell’ansia. Osservazione Questi concetti sono desunti dai sintomi, interpretati in base alle teorie preesistenti, ma nel contempo servono a spiegarli. Non sono confermati da prove esterne indipendenti. Osservazione Questi processi sono dimostrati indipendentemente e in modo sperimentale, mutando le variabili indipendenti e osservando i cambiamento della variabile dipendente. Profilo storico della TCC (in ordine di comparsa) • Terapia del Comportamento (Anni 50) Desensibilizzazione sistematica ed esposizione (Wolpe e Eysenck) Modificazione comportamentale (Skinner) Attivazione comportamentale • Terapia cognitiva (Anni 60) Terapia razional-emotiva di Ellis Terapia cognitiva di Beck (razionalista) • Approcci più recenti (Anni 90) Terapia cognitiva costruttivista (Chiari, Mancini, Semerari) Terapia cognitiva strutturalista (Guidano) Terapia cognitivo-evolutiva (Liotti) Terapia dialettico-comportamentale (Linehan) Schema Therapy (Young) Tecniche di Mindfulness (Kabat-Zinn; Teasdale) Acceptance and Commitment Therapy (Hayes) Compassion Focused Therapy (Gilbert) Diagnosi classica • Diagnosi tradizionale (medica): Assegnare una persona o un problema a una o più ampie categorie basate su “sintomi” o altri aspetti disfunzionali • Assessment cognitivo-comportamentale Identificare esattamente quali eventi, pensieri, emozioni, stati d’umore e azioni stanno producendo disagio Individuare in quali circostanze specifiche essi si verificano e quali e quali ne siano le conseguenze (sia immediate sia ritardate) PARAMETRI, MODELLI E LEGGI DELL’APPRENDIMENTO Davide Dèttore Università degli Studi di Firenze Istituto Miller, Genova Definizione di condizionamento classico o pavloviano • Si può definire come il processo mediante il quale uno stimolo originariamente neutro, cioè non in grado di indurre una risposta, se ripetutamente associato a uno stimolo di per sé in grado di indurre tale risposta, acquisisce anch' esso la capacità d' innescarla. Schema del condizionamento classico SN SN Suono SC > Suono RC SI Soffio RI Ammicca= mento SI Soffio RI Ammicca= mento SI Soffio RI Ammicca= mento Le classi del condizionamento classico (I) • Condizionamento simultaneo – Secondo lo schema di Pavlov, lo SC inizia da una frazione di secondo a 5 secondi prima dello SI e continua fino al verificarsi di quest’ultimo. La RC tende a seguire l’inizio dello SC pressoché immediatamente. Negli studi americani invece si considera “C. simultaneo” in genere quello con intervalli SC-SI di 0-0,5 secondi, mentre sono stati condotti studi di “C. anterogrado e retrogrado” con intervalli di 24 secondi, che per Pavlov sarebbero stati di “C. simultaneo”. SC SI Le classi del condizionamento classico (II) • Condizionamento anterogrado – Condizionamento ritardato o differito: lo SC inizia da 5 secondi a parecchi minuti prima dello SI e continua finché quest’ultimo non si verifica. Benché la RC inizi prima dello SI, essa segue l’inizio dello SC con un ritardo proporzionato alla lunghezza dell’intervallo fra i due stimoli. Le RC differite sono difficili da formare a meno che non sia stata già stabilita una RC simultanea. SC SI – Condizionamento a traccia breve: lo SC viene tolto pochi secondi prima che inizi lo SI. SC SI – Condizionamento a traccia lunga: l’intervallo tra la cessazione dello SC e l’inizio dello SI è di un minuto e più. La RC non comincia all’inizio dello SC, né alla sua cessazione, ma dopo un intervallo proporzionale al tempo intercorrente prima della presentazione dello SI. Le RC a traccia lunga si formano con maggiore difficoltà delle RC differite. SC SI Le classi del condizionamento classico (III) • Condizionamento retrogrado – Lo SC non comincia a essere presentato finché non è cessato lo SI. Si tratta di un processo di condizionamento classico particolarmente difficile e lo sarà tanto più quanto maggiore sarà l’intervallo tra i due stimoli. I due stimoli possono essere contigui (Fig. in alto), oppure separati da un brevissimo intervallo di tempo (Fig. più in basso). Secondo Holmes e Davis (1979) il C. retrogrado può instaurarsi perché in taluni casi può trasformarsi in un C. anterogrado. SC SI SC SI • Condizionamento temporale o al tempo – Uno SI è presentato a intervalli regolari di tempo. Se poi viene omesso, si verificherà una risposta condizionata all’incirca agli stessi intervalli. Sono stati usati con successo con cani intervalli della lunghezza di 30 minuti. SC SI Parametri del CC • • • Soglia degli stimoli: può essere assoluta o relativa/differenziale). Tempo di latenza: varia di caso in caso. Forza della risposta: è generalmente funzione dell’intensità dello stimolo. A parità di stimolazione, però, la reazione può variare in base a fattori come lo stato di privazione dell’organismo. In certi casi una stimolazione troppo forte può provocare inibizione con indebolimento della R. Vi sono infatti tre deroghe alla legge che unisce intensità di S con quella di R: – Legge della sommazione temporale: se stimoli deboli vengono presentati congiuntamente, il loro effetto si somma e crea una R maggiore. – Facilitazione: se in concomitanza con lo S elicitante, viene presentato un altro S, non direttamente elicitante quel particolare riflesso, viene prodotto un aumento della forza della risposta. – Inibizione esterna: decremento temporaneo di una RC dovuta a uno stimolo estraneo. Ne costituiscono un esempio l’overshadowing (la presenza di uno stimolo intenso può ridurre l’efficacia di un altro SC) e il blocking o blocco (la capacità di elicitare una R di una componente di uno S composito può essere ridotta se i Ss hanno ricevuto un precedente addestramento con un’altra componente da sola che era stata rinforzata). • • Fase refrattaria: immediatamente dopo essere stato elicitato, per un certo tempo non è più possibile innescare un riflesso. Affaticamento del riflesso: attenuazione o scomparsa del riflesso dovuta a una serie di eccitazioni dello stesso tipo che si succedono nel tempo. Estinzione del CC • Quando non si associa più lo SI (nel nostro esempio, il morso) allo SC (il cane), e invece si presenta solamente quest' ultimo, inizia il processo di "estinzione" del CC. Tale processo costituisce sia un momento di prova della presenza del condizionamento (solo così infatti si può appurare se lo SC ha acquisito la capacità di innescare la RC), sia l' inizio, nel caso di avvenuto condizionamento, dell' indebolirsi dello stesso. Infatti, durante l' estinzione la RC viene emessa alla sola presentazione dello SC, ma nel contempo la sua forza cala con la ripetizione dello SC, fino addirittura a scomparire. Il recupero spontaneo del CC • Se, dopo avere estinto il CC senza poi presentare per un certo tempo lo SC, quest' ultimo viene reintrodotto, la RC ricompare, seppure con una forza minore di quella originaria. Tale effetto viene detto "recupero spontaneo" e può ripetersi per diverse volte, in seguito a vari intervalli di non presentazione dello SC dopo un' estinzione. Estinzione e recupero spontaneo del CC Rinforzo • Pavlov identifica il rinforzo con il verificarsi dello SI e di conseguenza con l’elicitazione della RI. La contiguità tra lo SC e la RI determinano l’associazione fra i due. Il rinforzo altro non è se non un mezzo per elicitare la risposta che deve essere appresa. Per cui SI è un rinforzo primario, SC è un rinforzo secondario o acquisito, la cui efficacia dipenderà da quando e quante volte è stato abbinato allo SI, dalla specie e dal soggetto in esame, dalla situazione in cui viene presentato, dalla presenza o meno di processi di inibizione, eccetera. • Pre-esposizione: la presentazione ripetuta dello SI prima della normale procedura di condizionamento rende più difficoltosa la formazione della RC. Generalizzazione del CC • In questo caso si parla di generalizzazione. Si tratta del processo per cui stimoli analoghi a quello usato originariamente come SC acquisiscono anch' essi la capacità di indurre la RC. La forza di quest' ultima di solito diminuisce via via che si riduce la somiglianza dello stimolo generalizzato con l' originario SC. Forza della RC La generalizzazione del CC 40 35 30 25 20 15 10 5 0 3 6 9 12 15 18 21 24 27 Intensità dello stimolo SC Discriminazione o differenziazione • Tale processo non si sviluppa automaticamente come la generalizzazione. Se si vuole fare apprendere una discriminazione fra SC1 e SC2, basta operare un rinforzamento differenziale, presentando più volte l’abbinamento SC1-SI inframezzato da SC2 da solo. Il condizionamento di ordine superiore • Come ha illustrato lo stesso Pavlov, una volta instaurato un normale condizionamento per cui uno SC è divenuto in grado di indurre una RC (il solito condizionamento che abbiamo sopra esposto viene detto di "primo ordine"), è possibile usare tale SC come SI per una successiva procedura di condizionamento, che allora diviene di "secondo ordine" appunto. Fu Frolov a occuparsene. • Instaurare condizionamenti di ordine superiore al primo non è facile e, in ogni caso, non si riesce ad andare oltre al terzo ordine, come fece Pavlov (1927) usando come SI originario una scossa elettrica molto forte. • Il linguaggio (il secondo sistema di segnalazione) si basa proprio sul condizionamento di ordine superiore. Razran (1939) ha scoperto che è possibile condizionare a delle parole risposte di salivazione. Tale risposta andava soggetta a generalizzazione in base a somiglianza semantica non fonetica. Risulta anche possibile (Staats, 1968) cambiare il significato emotivo di una parola neutra come l’inglese large (misurato tramite il differenziale semantico) facendola accompagnare da SI aversivi. Il condizionamento di ordine superiore Preparedness (I) • Esistono varie classi di stimoli e di comportamenti che hanno dei valori o significati biologici più o meno rilevanti per il soggetto: in base alla selezione naturale e all’evoluzione delle specie un organismo può essere più o meno predisposto, o preparato, ad apprendere certi abbinamenti SC-SIC o R-SR (Seligman, 1970). • Per esempio, i ratti in situazioni di pericolo (rinforzi negativi) sono preparati ad apprendere risposte di immobilità, mentre sono contro-preparati ad apprenderle con rinforzi positivi. Così sono preparati ad associare un certo odore o gusto del cibo con un successivo senso di malessere, in quanto ciò è evolutivamente utile per evitare cibi velenosi, mentre sono non preparati a premere una leva per ottenere del cibo, in quanto ciò non si è mai verificato in natura (Garcia et al., 1972). Preparedness (II) • Un esempio clinicamente rilevante è costituito dalle cosiddette “paure preparate” (Mineka et al., 1984; Mineka e Ohman, 2002), in cui lo stimolo fobico non è innato ma è presente una predisposizione rispetto a determinati stimoli ad elevato valore evolutivo per cui è possibile condizionare una fobia per apprendimento osservativo anche con una sola esposizione a un modello che dinanzi a tali stimoli mostra una evidente reazione di paura. • Per esempio uno scimmiotto apprende ad avere paura dei serpenti dopo avere visto una sola volta un adulto mostrare timore di fronte al rettile, ma ciò non accade nel caso di un fiore. Condizionamento operante • Il condizionamento operante o strumentale è quel processo di apprendimento nel quale la probabilità futura di emissione di una risposta viene influenzata dalle conseguenze immediate della risposta stessa. • Come affermò Thorndike (1911), il primo studioso di questo paradigma di apprendimento, se l' emissione del comportamento è seguita da "soddisfazione" per il soggetto (premio o rinforzo), tale comportamento diventerà più probabile; se al contrario esso produce "insoddisfazione" (punizione), la sua probabilità di emissione diminuirà (si tratta della cosiddetta "legge dell' effetto"). Schema illustrativo della procedura di condizionamento operante. Legenda: S1 = Stimolo Discriminante. S2 = Rinforzo. R1 = Risposta Comportamentale. R2 = Risposta Consumatoria. S2 e R2 insieme costituiscono il processo di rinforzamento. S1 Compito R1 Esecuzione del compito S2 Dolce R2 Consumo e degu= stazione del dolce La teoria bifattoriale (I) • Secondo la classica "teoria bifattoriale" sostenuta da Miller e Konorski (1928) e da Mowrer (1948), si ritiene che il comportamento volontario, cioè composto dalle risposte del sistema cerebro-spinale, venga regolato solo tramite il condizionamento strumentale, al contrario delle risposte involontarie, viscerali e ghiandolari, mediate dal sistema nervoso autonomo, che sarebbero invece, come già rilevato, controllate tramite condizionamento classico. • Tale dicotomia è attualmente piuttosto in discussione (per una trattazione cfr. Chiari, 1982); viene soprattutto contraddetta la convinzione che il condizionamento operante operi solo tramite apprendimento volontario e cosciente di risposte altrettanto volontarie e coscienti. Il condizionamento operante può agire, invece, al pari di quello classico o pavloviano, anche al di fuori della consapevolezza e mediante risposte involontarie. La teoria bifattoriale (II) • In forma più completa, essa sostiene che tramite condizionamento classico stimoli ambientali prima neutri acquisiscono la capacità di innescare risposte viscerali di attivazione, che, se raggiungono un determinato livello, vengono vissute come ansia. Per alleviare l' ansia, che ha le caratteristiche di un rinforzatore negativo (è spiacevole per il soggetto e quindi la sua riduzione è rinforzante), vengono tentati vari comportamenti motori e scheletrici, che, se riescono a eliminarla o ad abbassarla, sono appresi per condizionamento operante. In base a tale punto di vista, il nostro comportamento in generale, tutti i nostri tentativi di soluzione di problemi, sarebbero indotti dalla motivazione ad abbassare i livelli di attivazione fino a valori accettabili e adattivi; in breve, tutti i nostri sforzi sarebbero mirati a evitare l' ansia. Rinforzi e punizioni secondo Skinner (1953) • Rinforzo positivo: qualsiasi evento che, se fatto seguire a un comportamento, ne aumenta la probabilità di emissione. • Rinforzo negativo: qualsiasi evento che, se eliminato dopo un comportamento, ne aumenta la probabilità di emissione. • Punizione di I tipo: qualsiasi evento che, se fatto seguire a un comportamento, ne diminuisce la probabilità di emissione. • Punizione di II tipo: qualsiasi evento che se eliminato dopo un comportamento, ne diminuisce la probabilità di emissione. Un po’ di terminologia • Rinforzatore o agente rinforzante (reinforcer o reinforcing agent): classe di eventi, sostanze o altro che può essere usata per rinforzare un dato comportamento (a es. il cibo). • Rinforzo (reinforce): la particolare qualità e quantità di rinforzatore che viene usata (a es. una pallina di carne). • Rinforzamento (reinforcement): sia il procedimento sia gli effetti della presentazione del rinforzo. • Contingenze di rinforzamento (contingencies of reinforcement): le modalità di presentazione dei rinforzi, cioè il programma di rinforzamento utilizzato. Perché il rinforzo rinforza? • Hull (1943) ha sostenuto che il rinforzo è costituito dalla riduzione della pulsione attivata da un bisogno fisiologico (fame, sete, ecc.) insoddisfatto; qualunque comportamento che soddisfa il bisogno, riduce la pulsione e quindi è associato allo stimolo iniziale cui è seguito il comportamento. • Tolman (1932; 1951) ha fondato la sua spiegazione sulle aspettative, ipotizzando la presenza nei soggetti di una rappresentazione interna della meta e quindi dei possibili esiti di vari comportamenti già sperimentati in rapporto alla meta stessa. • Altri ritengono che il rinforzo e la punizione abbiano i loro effetti in quanto forniscono delle informazioni in grado di guidare il comportamento (cfr. a es. Buchwald, 1967; Estes, 1969). • Molto coerente e onesta è infine la posizione di Skinner (1953), il quale non osa offrire una spiegazione degli effetti del rinforzo e della punizione, ma si limita a darne una definizione operazionale. Un rinforzo è tutto ciò che se fatto seguire (rinforzo positivo; a es. un dolce) o se tolto (rinforzo negativo; a es. una scossa elettrica) immediatamente dopo una risposta, ne aumenta la probabilità di emissione. La punizione è invece tutto ciò che, se fatto seguire (presentazione di un rinforzatore negativo; a es. la somministrazione di uno shock elettrico) o tolto (sottrazione di un rinforzatore positivo; a es. privare un bimbo di un giocattolo) immediatamente dopo una risposta, ne diminuisce la probabilità di emissione. Tipi di rinforzo (I) • I rinforzi possono essere: • primari o naturali (sono tali per loro caratteristiche intrinseche, legate alle peculiarità di una particolare specie biologica; a es. l' acqua per un assetato); • secondari o arbitrari (sono divenuti tali per un processo di condizionamento classico, essendo stati associati più volte a un rinforzo primario; a es. il denaro, che ci permette di acquistare rinforzi primari come il cibo). Tipi di rinforzo (II) • I rinforzi sono stati suddivisi in altre cinque categorie: – 1) Materiali o tangibili: si tratta di sostanze od oggetti, commestibili o meno (a es. una caramella, un giocattolo, ecc.). – 2) Sociali: lodi, apprezzamenti, riconoscimenti, decorazioni, elevazioni di status, ecc. – 3) Dinamici: consistono nel permettere al soggetto di eseguire una determinata attività. Essi possono venire concessi in base al noto principio di Premack (1959): "E'possibile aumentare la frequenza di emissione di un comportamento poco probabile facendolo seguire da un comportamento più probabile del primo". Per esempio, si può indurre un bambino a impegnarsi di più a fare i compiti (comportamento poco probabile) permettendogli dopo di essi di andare a giocare al pallone (comportamento più probabile). Si può notare che il principio di Premack costituisce un' altra definizione operazionale di rinforzo. – 4) Simbolici: si tratta di rinforzi arbitrari, come il denaro. – 5) Informazionali: tutto ciò che dà un feed-back, cioè delle informazioni sulle conseguenze del proprio comportamento, in grado di ridurre l' incertezza del soggetto. Estinzione del condizionamento operante • L' estinzione avviene quando a una data risposta non viene fatto più seguire il rinforzo; l' emissione della risposta cala di frequenza e ciò avverrà tanto più lentamente quanto più numerose sono state le precedenti associazioni fra essa e il rinforzo e quanto più adeguato è stato il programma di rinforzamento usato (vedi oltre). • Come per il condizionamento pavloviano, il processo di estinzione viene a costituire la prova dell' avvenuto apprendimento; inoltre, è presente il recupero spontaneo: se, dopo avere estinta una risposta strumentale e avere lasciato passare un certo lasso di tempo, si ripresenta la situazione stimolante originaria, la risposta strumentale ricompare e tanto maggiore sarà la sua frequenza di emissione quanto più lungo è stato l' intervallo di tempo (Ellison, 1938). La generalizzazione operante • La generalizzazione operante è il processo mediante cui soggetti che hanno appreso una risposta strumentale dinanzi a un certo stimolo, possono emetterla anche in presenza di stimoli più o meno simili al primo: se un bambino ha appreso una determinata abilità, come mangiare con le posate, all' asilo, può generalizzarla anche altrove, per esempio a casa. La discriminazione operante • La discriminazione operante consiste nel rinforzare in modo differenziale una risposta se emessa in associazione a un determinato stimolo (Sd+, stimolo discriminante positivo o anche Sd), mentre la stessa non viene rinforzata se associata a uno stimolo differente (Sd-, stimolo discriminante negativo o anche S∆). • Per esempio, in base alle conseguenze di nostre precedenti esperienze, sappiamo che con determinate persone, aventi un dato status sociale o particolari caratteristiche personologiche, abbiamo appreso che possiamo emettere talune risposte che non sono possibili con altre, dotate di caratteristiche diverse. Discriminazione simultanea • Lo Sd+ e lo Sd- vengono presentati contemporaneamente al soggetto, il quale deve decidere quale dei due è lo Sd+. • Per esempio, il piccione deve discriminare che se becca un bottone verde ottiene cibo e non se becca quello rosso. • Un altro esempio è il cosiddetto matching-tosample, cioè la “discriminazione di confronto con il campione”: al soggetto viene presentato uno stimolo che funge da campione e due o più altri stimoli, tra i quali deve scegliere quello simile al campione. Discriminazione successiva • Viene presentato prima uno stimolo e il soggetto risponderà a meno a seconda che si tratti di Sd+ o Sd-; quindi viene presentato l’altro stimolo e il soggetto dovrà nuovamente rispondere o meno a seconda che si tratti di Sd+ o Sd-; la presentazione di Sd+ e Sd- è ovviamente randomizzata nelle varie prove. • Esempio: un bambino può imparare a comportarsi bene in presenza della madre (Sd+) e non dinanzi alla nonna (Sd-). • Esempio: go:no-go (vai/non vai), in cui lo Sd+ indica l’opportunità di emettere un comportamento e lo Sdquella di non emetterlo. Discriminazione senza errori discrimination, Terrace, 1963) (errorless • Inizialmente è presente il solo SD+, in presenza del quale il soggetto apprende a rispondere. In modo molto graduale viene introdotto poi lo Sd-, inizialmente per periodi così brevi (o in modo poco saliente). La durata o la salienza dello Sdviene poi gradatamente aumentata, fino a raggiungere il livello prestabilito. • Si osserva in genere con questa procedura che il soggetto continua a rispondere a Sd+ e non a Sd-, cioè apprende la discriminazione senza compiere mai o quasi errori. I programmi di rinforzamento • Come abbiamo detto, la velocità dell' estinzione di un condizionamento operante dipende anche dalle contingenze di rinforzamento, cioè dal modo con cui il rinforzo è stato fatto seguire alla risposta. Ferster e Skinner (1957) hanno analizzato i vari tipi di programmi di rinforzamento, di cui esporremo i principali. Rinforzamento continuo • Tutte le volte che viene emessa una data risposta in presenza di un dato stimolo, viene fatto seguire il rinforzo. Tale programma viene utilizzato nelle prime fasi di apprendimento e viene seguito poi da programmi più complessi. Permette di ottenere in breve tempo un' elevata frequenza di risposte, ma ha lo svantaggio di produrre in fretta "saturazione", cioè il rinforzatore (specie se primario) cessa di avere valore rinforzante; inoltre il suo tempo di estinzione è molto breve. Più vantaggiosi sono i programmi a rinforzamento intermittente, come i seguenti. Rapporto fisso • La risposta viene fatta seguire da rinforzo dopo che è stata emessa un numero di volte stabilito in precedenza, per esempio un rinforzo ogni cinque risposte emesse. Tale programma permette di ottenere un numero di risposte più elevato e di ritardare nel tempo la sazietà. Rapporto variabile • Il numero di risposte non rinforzate seguenti a quella rinforzata varia continuamente nel tempo, e solo in media si può affermare, a esempio, che è stato dato un rinforzo ogni cinque risposte. Anche in questo caso il ritmo di frequenza di risposta è assai elevato e l' intervallo fra una risposta e l' altro è molto ridotto; inoltre non vi sono quelle scariche di risposte seguite da intervallo tipiche del programma a rapporto fisso. La durata dell' estinzione è prolungata. Intervallo fisso • Viene stabilito un tempo (per esempio 5 minuti) durante il quale non viene dato alcun rinforzo, indipendentemente dal comportamento del soggetto; una volta trascorso questo intervallo la prima emissione della risposta viene fatta seguire immediatamente dal rinforzo e quindi si ricominciano a calcolare i successivi cinque minuti d' intervallo. Tale procedura permette di ritardare di molto la sazietà ma non produce alte frequenze di risposte, in quanto il soggetto impara il ritmo e ne emette una solo quando è passato all' incirca il tempo d' intervallo stabilito dal programma. Intervallo variabile • Come per il rapporto variabile, anche in questo caso solo in media l' intervallo fra un rinforzo e l' altro è, a esempio, di cinque minuti; in realtà esso varia in modo imprevedibile. Si ottengono frequenze di risposte piuttosto elevate, secondo modalità abbastanza sovrapponibili a quelle tipiche di un programma a rapporto variabile. Overshadowing • È il fenomeno per cui la presenza di uno stimolo più saliente “mette in ombra” la presenza di uno stimolo meno saliente. • Esempio: un soggetto sembra avere appreso a discriminare un triangolo da un quadrato, ma in realtà ha appreso a discriminare il triangolo dal quadrato perché il primo è rosso, mentre l’altro è bianco e quindi il rosso è più saliente del bianco. Se entrambi i poligono sono bianchi non sa più discriminare. Blocking • Si tratta del fenomeno per cui uno stimolo che era in grado di produrre una risposta se presentato da solo, perde tale capacità di indurla se viene accoppiato a un altro stimolo, che appunto “blocca” tale apprendimento. • Ad esempio, se si accoppia a una luce, capace di indurre una risposta, un rumore, la risposta non viene più evocata, in quanto il rumore “blocca” l’attenzione agli altri stimoli. Comportamento superstizioso (superstitious behaviour, Skinner, 1948) • In una Skinner box vi sono dei piccioni privati di cibo e ogni 15 sec. Viene presentato loro un rinforzo costituito da cibo. Il rinforzo viene dato in base a un programma prefissato e non dipende dall’emissione di una certa risposta da parte del soggetto. Eppure s’instaurano ben presto stereotipie consistenti, per esempio girare in tondo, allungare il collo, ecc. • Il soggetto, per forza di cose, quando compare SR+ starà facendo qualcosa, cioè emettendo un comportamento R1. L’emissione di R1 è perciò seguita dall’immediata comparsa del rinforzo e questo fa sì che la probabilità di emissione di R1 aumenti, per cui diventa più probabile che alla successiva presentazione di SR+ il soggetto stia di nuovo emettendo R1 che, nuovamente rinforzata, diventa ancora più frequente. L’automodellaggio (autoshaping, Brown e Jenkins, 1968) • Si tratta di un fenomeno per cui i soggetti sembrano, appunto, “autocondizionarsi” ad emettere del risposte che non sono affatto richieste per ottenere il rinforzo. Dei piccioni privati di cibo sono in una Skinner box e a intervalli di tempo prestabiliti una key viene illuminata e al termine di ciò viene dato il rinforzo. Sebbene questo sia indipendente dal comportamento dei piccioni, essi ben presto beccano la key, appena questa si illumina (come se questa fosse uno Sd). • Si tratta di un processo sia pavloviano sia operante: i piccioni presentano la RIC di beccata di fronte allo SIC cibo e poiché quest’ultimo è sempre preceduto dall’accensione della key, lo stimolo “key illuminata” finisce con diventare uno SC che elicita anch’esso una risposta di beccata. Una volta verificata questa R, essa è seguita dal cibo (SR+), per cui viene rinforzata positivamente e quindi si presenterà sempre più spesso. Concatenamento (chaining) • È il procedimento per cui è possibile “incatenare” l’una all’altra una serie di risposte e condizionare il soggetto a emettere la catena di operanti seguendo un certo ordine di emissione. • Supponiamo di volere ottenere che un ratto passi sotto un arco metallico (R1), abbassi un anello appeso al soffitto della gabbia (R2) e poi prema una leva (R3). Si inizia con l’apprendimento di R3 con il cibo come rinforzo. Poi si insegnerà tramite apprendimento per discriminazione a premere la leva solo dinanzi a una luce (Sd3). Quindi facciamo apprendere R2, che sarà sempre seguito da Sd3, R3 e SR+. Poi introduciamo prima di R2 un suono (Sd2) per cui la sequenza sarà Sd2, R2, Sd3, R3 e SR+. Quindi si fa apprendere R1 facendola seguire da tutto il resto della sequenza. • Si noti la doppia funzione di Sd2 e Sd3: sono Sd per l’operante che li segue, ma sono SR+ per quello che li precede. Il modellamento • Un bimbo di due anni osserva la mamma che usa l' aspirapolvere e subito ripete i suoi movimenti, facendo finta di usare un immaginario apparecchio; il maestro di tennis mostra al suo allievo come impostare un rovescio e ne esegue uno come esempio, invitandolo a ripetere lo stesso gesto; un regista assume temporaneamente la parte del protagonista del film per illustrare all' attore come interpretare quel ruolo. • Questi sono tutti esempi di una particolare forma di apprendimento che, con termine comune, viene detto "imitazione" e, nel linguaggio tecnico, è chiamato "modellamento": la riproduzione del comportamento di un altro individuo preso come modello. Il modellamento Sd Comportamento del modello R Comportamento di imitazione Sd+ Rinforzo Teorie sul modellamento (I) • La più classica interpretazione del fenomeno del modellamento è certamente quella di Miller e Dollard (1941), che si fonda sul concetto di condizionamento operante. Tale teoria si adatta particolarmente bene alla situazione di apprendimento detta di "confronto dipendente", nella quale l' imitatore riproduce per caso il comportamento del modello e viene per questo premiato. • In tale situazione il modello ha risposto a un indizio percettivo (o stimolo) col comportamento adeguato ed è quindi stato ricompensato, ma anche l' imitatore, che non ha colto l' indizio percettivo valido, viene premiato perché per caso ha emesso il comportamento giusto, quello stesso cioè del modello. . • Tale interpretazione teorica, però, non si presta a spiegare altri tipi di comportamento modellato, come l' apprendimento imitativo "senza esercizio" (in cui l' imitatore non ha occasione subito di emettere la risposta e quindi di essere ricompensato) oppure "senza rinforzo" (in cui né il modello né l' imitatore vengono premiati), o, infine, con "rinforzo vicariante" (in cui viene ricompensato solo il modello). Teorie sul modellamento (II) • Bandura (1969; 1971) ha proposto un importante tentativo di interpretazione teorica in chiave cognitiva. In primo luogo necessario che l' imitatore presti attenzione al modello, quindi i dati derivanti dall' osservazione di esso vengono memorizzati secondo un duplice processo di codificazione, tramite immagini e parole, permettendo il loro consolidamento senza che il soggetto debba eseguire subito o ripetere più volte il comportamento imitato. • Tali rappresentazioni permettono il comportamento imitativo senza esercizio, purché naturalmente le risposte motorie memorizzate siano già presenti nel repertorio del soggetto, anche se collegate ad altri stimoli. • Infine, il soggetto deve essere motivato a emettere il comportamento imitato, per cui talvolta questo verrà innescato non contemporaneamente al modello, ma in altre occasioni, quando per esempio vengono meno, allo scopo di risolvere un problema, le strategie già note al soggetto e quindi questo ne tenterà alcune che ha visto emettere da altri. Questa ipotesi, dunque, è in grado di spiegare diversi casi di apprendimento imitativo senza rinfozo o con rinforzo vicariante. L’imitazione generalizzata • Secondo tale punto di vista (Gewirtz e Stingle, 1968.), ogni volta che una risposta imitativa di qualunque genere viene rinforzata (e ciò accade molto spesso, in particolare nei bambini), è premiata anche una categoria più generale di risposte, cioè il comportamento imitativo in se stesso, la tendenza a ripetere risposte osservate in un modello. Tale classe di risposte, per così dire "sovra-ordinata", si mantiene perché viene rinforzata ogni volta che lo è una risposta "sotto-ordinata", cioè ogni specifica risposta imitativa. Quando un bambino imita la madre che usa l' aspirapolvere e viene da essa lodato, viene rinforzata non solo la risposta specifica sotto-ordinata, cioè "imitare la mamma che usa l' aspirapolvere", ma anche quella più generale e sovra-ordinata, cioè "imitare ciò che fa la mamma"; così a poco a poco il piccolo imparerà a imitare tutto ciò che fa la mamma e, in seguito a superapprendimento, non sarà più necessario che ogni singola risposta imitativa venga rinforzata, ma basterà un rinforzo intermittente. In tal modo possono essere spiegati gli apprendimenti imitativi senza rinforzo, senza esercizio o con rinforzo vicariante. Fattori che potenziano l’acquisizione (apprendimento e ritenzione) • A. Caratteristiche del modello: – – – – – 1. Somiglianza di razza, età, sesso, atteggiamenti. 2. Prestigio. 3. Competenza. 4. Calore e attenzione; capacità di empatia. 5. Valore della gratificazione. – – – – – 1. Capacità di elaborare e di ritenere l’informazione. 2. Incertezza (fattore motivante la ricerca di una soluzione). 3. Livello d’ansia (fattore motivante la ricerca di una soluzione). 4. Grado di dipendenza dell’osservatore dal modello. 5. Altre dimensioni di personalità. – – – – – – – – – 1. Modello presente: o “in vivo” o simbolico. 2. Modello “covert”. 3. Modelli multipli. 4. Modello di mastery vs. modello di coping. 5. Procedure graduali di modellamento. 6. Istruzioni. 7. Precisazione delle regole. 8. Ripetizione. 9. Attenuazione degli stimoli distraenti. • B. Caratteristiche dell’osservatore. • C. Caratteristiche della modalità mediante cui viene effettuato il modellamento: Fattori che potenziano la prestazione • A. Fattori che incentivano la prestazione – – – – – 1. Rinforzo vicariante. 2. Auto-rinforzo. 3. Estinzione vicariante della paura di fornire la risposta. 4. Rinforzo diretto dell’osservatore. 5. Imitazione dei bambini. • B. Fattori che influenzano la qualità della prestazione – 1. Ripetizione e feed-back. – 2. Modellamento partecipante (interazione diretta fra modello e osservatore). • C. Fattori che favoriscono la generalizzazione – – – – – 1. Somiglianza della situazione di training a quelle reali. 2. Esercizi ripetuti che influenzano la gerarchia delle prestazioni. 3. Incentivi forniti per garantire che la prestazione avvenga nei setting. 4. Principi d’apprendimento che governano una determinata classe di comportamenti. 5. Variabilità nelle situazioni di training. LA RELAZIONE TERAPEUTICA IN UNA PROSPETTIVA COGNITIVOCOMPORTAMENTALE Davide Dèttore Università degli Studi di Firenze Istituto Miller, Genova I modelli del terapeuta efficace (I) • Una prima concettualizzazione della relazione terapeutica prende in considerazione il concetto di “empiricismo collaborativo” descritto originariamente da Beck (1976), che sostiene che terapeuta e paziente sogliano a due ricercatori che tendono alla soluzione di un problema: si formulano degli assunti sulle problematiche del paziente e se ne verificano insieme l’attendibilità prima di accettarli o respingerli. • L’altro concetto è quello di “base sicura” formulato da Bowlby (1988). Egli ha sottolineato che il ruolo di un terapeuta che aderisca ai concetti basali della teoria dell’attaccamento deve consistere nel saper creare una condizione di sicurezza per il paziente, affinché questo sia in grado di esplorare quali sono i “modelli operativi” che ha in effetti costruito nelle proprie relazioni con l’ambiente. Offrire una base sicura significa permettere al paziente di esplorare gli aspetti più problematici della propria vita sapendo che alle spalle c’è sempre qualcuno di cui egli si può fidare e su cui può ripiegare per ottenere sostegno, incoraggiamento e, se necessario, una guida. • Come si può fare per fornire una base sicura? I modelli del terapeuta efficace (II) • In primo luogo è opportuno sottolineare la necessità di considerare il paziente come un “unico”, accettare genuinamente il paziente così com’è (accettazione incondizionata). • Occorre stimolare all’esplorazione e quindi facilitare l’apprendimento, per portare a un più elevato grado di autonomia. • L’esplorazione è spesso tutt’altro che facile e per controbilanciare tale effetto negativo il terapeuta deve essere preparato a essere continuamente empatico nella sua accessibilità e flessibile nel suo atteggiamento. In tale contesto il “saper fare da specchio” (mirroring), inizialmente descritto da Kohut (1971), è di particolare importanza per aiutare il paziente a sviluppare un senso positivo di sé. • Da ultimo il terapeuta deve essere in grado di porre dei limiti ben precisi, soprattutto con i pazienti borderline, è importante imporre una struttura ben solida e limiti esplicitamente definiti (Aronson, 1989). I modelli del terapeuta efficace (III) • Il terapeuta come supervisore di ricerca: tipico di Kelly. Come suggerisce la metafora non si tratta di un esperto che si occupa di uno sfortunato ignorante, ma di due esperti con una diversa distribuzione delle competenze. Lo studente ricercatore in ogni ricerca scientifica è chiaramente l’esperto nel campo immediato. È lui a essere aggiornato sulla letteratura e a essere pienamente coinvolto nel progetto di ricerca, esattamente come il paziente in terapia è l’unico realmente informato su se stesso. D’altra parte le competenze del supervisore hanno a che fare con la familiarità con i criteri per controllare le teorie, valutare le prove e pianificare strategie di ricerca. È in questo modo che il terapeuta può contribuire alla ricerca del paziente. • Guidano (1988) critica tale impostazione, in quanto presenta un terapeuta portatore di una “razionalità” esterna, già precostituita, da introdurre in qualche modo nella mente del paziente. • La metafora, però, è utile per due aspetti: sottolinea l’autorevolezza del terapeuta e il ruolo attivo del paziente. I modelli del terapeuta efficace (IV) • Il terapeuta come perturbatore strategicamente orientato: secondo Guidano (1988) vi è identità tra il modo con cui un organismo vivente mantiene la propria organizzazione attraverso i processi di produzione dei propri componenti e il modo con cui un sistema cognitivo complesso mantiene la propria identità trasformando le perturbazioni provenienti dall’esterno. Da tale concezione deriva l’importante conseguenza per la psicoterapia secondo cui il terapeuta, anche volendo, non può introdurre nel paziente alcuna informazione pura, ma qualunque informazione deve passare per i “processi generativi di rinnovamento” del paziente stesso. Ecco dunque che emerge l’immagine del terapeuta come perturbatore strategicamente orientato: egli, mentre è “tecnicamente” proteso a modificare i modelli della consapevolezza del paziente, è estremamente attento a utilizzare le oscillazioni emotive che osserva nel paziente per facilitare la comprensione di quanto va man mano costruendo. I modelli del terapeuta efficace (V) • Altri punti importanti: – La comunicazione deve essere diretta e inequivocabile, in quanto i pazienti tollerano poco l’ambiguità. Deve instaurarsi una situazione di mutuo rispetto. – Tenere sempre in considerazione anche gli aspetti metaverbali, oltre a quelli verbali. Il paziente non deve rivivere anche in terapia quelle situazioni di doppio legame che spesso ha incontrato nella sua esistenza. – Occorre essere costanti nei propri atteggiamenti nei confronti del paziente; questo può essere molto difficile, per esempio, con i borderline che spesso oscillano continuamente nel loro attaccarsi. Se il terapeuta si trova in un periodo di bassi, può tranquillamente parlarne al paziente per rendergli chiaro che ciò non ha nulla a che fare con la relazione che si è instaurata fra loro (spesso questi pazienti dimostrano una eccezionale capacità di “comprendere”). – Tenere presente il proprio ruolo di modelli: si è umani e ci si può arrabbiare ma occorre sapersi contenere, mostrando così che si può provare rabbia senza conseguenze disastrose. Il terapeuta come validatore autorevole (I) • Il paziente mette in gioco nell’interazione terapeutica la propria costruzione di sé nel mondo, gli schemi di base con cui costruisce la visione di sé e delle proprie relazioni. Se egli ritiene attendibile l’informazione su di sé proveniente dal terapeuta, ciò significa che quest’informazione acquista la possibilità di modificare tali schemi. In altre parole il paziente riconosce al terapeuta l’autorevolezza necessaria per cui l’informazione che questi gli trasmette può modificare la propria immagine di sé. Tale processo di chiama la “costruzione di un validatore autorevole” (meglio di un validatoreinvalidatore, in quanto può sia invalidare sia validare le sue costruzioni). In questo processo, il paziente è l’agente attivo; egli testa e ritesta il terapeuta, non solo nei suoi interventi espliciti, ma anche in quelli non verbali. Tale ruolo è sempre sotto giudizio, non viene acquisito una volta per sempre e può andare perduto. • La relazione terapeutica è una relazione emozionale altrettanto quanto è una relazione informativa. Il terapeuta come validatore autorevole (II) • Vi sono due modalità di relazione emozionale con terapeuta: • Modalità a): se le emozioni corrispondono a processi di transizione nel sistema, questo è proprio ciò che fa un validatore autorevole. In altre parole, il modo con cui il paziente capisce che il terapeuta lo vede, è fonte di emozioni, perché può modificare il modo con cui il paziente vede se stesso. • Modalità b): è costituita dalla classica nozione di transfert. Il paziente applica al terapeuta i propri schemi abituali di relazione interpersonale e il modo con cui interpreta la condotta del terapeuta genera processi di transizione a seconda che validi o invalidi le aspettative generate dagli schemi. • Si sostiene che i processi in senso b) sono funzionalmente necessari all’instaurarsi dei processi in senso a): l’applicazione sul terapista degli schemi abituali del paziente rappresenta dei test necessari per la costruzione del terapeuta come validatore autorevole. Il terapeuta come validatore autorevole (III) • Il test di condizioni di sicurezza • Weiss, Sampson e i loro collaboratori del Mount Zion Hospital di San Francisco hanno elaborato una revisione della teoria psicoanalitica, proponendo l’“ipotesi del controllo”. Secondo quest’ipotesi, gli esseri umani tengono rimossi gli impulsi e gli altri contenuti mentali non già perché le forze della rimozione siano superiori a quelle degli impulsi inconsci, ma piuttosto perché gli individui possono inconsciamente decidere (in base alle loro vicende passate e valutando la realtà attuale), che “fare esperienza” e, ancor più, esprimere apertamente alcuni desideri e contenuti rimossi potrebbe essere molto pericoloso. • Per esempio, i pazienti possono avere deciso che esprimere il loro amore per un’altra persona può portarli a essere rifiutati e umiliati. Essi pertanto desiderano inconsciamente (oltre che a livello conscio) di fare emergere i contenuti mentali rimossi ed esplorarne il significato; possono quindi inconsciamente decidere di abbattere le barriere della rimozione e di permettere al materiale rimosso di emergere, non appena si rendono conto che esso non è più pericoloso. Il terapeuta come validatore autorevole (IV) • La relazione terapeutica diviene così comprensibile come “test di condizioni di sicurezza”, il cui superamento comporta una diminuzione dell’angoscia e un’accresciuta probabilità che emergano i contenuti inconsci. Invece, un insuccesso nel superamento di un test comporta un incremento dell’angoscia e delle difese. • Esempi: il paziente con fantasie e paure omosessuali represse offre un dono al terapeuta maschio che questo rifiuta; rassicurato dal fatto di non potere sedurre il terapeuta, parla delle sue fantasie e paure omosessuali; il paziente sempre competitivo col padre e timoroso di averlo ferito per questo, compete col terapeuta, non per ferirlo, ma per essere rassicurato di poter competere con lui senza ferirlo. • Semerari (1991) interpreta più cognitivamente queste idee e sostiene che non si tratterebbe di una ricerca intenzionale del paziente di un test di sicurezza, ma tale test sarebbe un risultato funzionale delle condizioni stesse della terapia. Il test di condizioni di sicurezza è una valutazione della propria sicurezza, il test di validatore autorevole invece riguarda l’affidabilità del terapeuta, ma le due cose sono strettamente connesse. Il terapeuta come validatore autorevole (V) • Gli indici clinici del fatto che sia in atto un test di validatore autorevole • 1) Il paziente può rivelarci apertamente un timore, una perplessità o un dubbio riferito alla persona del terapeuta; ma ciò è abbastanza raro. • 2) Weiss e collaboratori sostengono che, se il test di sicurezza viene superato, il paziente offre nuovo materiale informativo su di sé. Quindi, un blocco, un impaccio insolito nel flusso delle informazioni indica un test non superato. • 3) La presenza di ansia, timore manifesti. • 4) Un confronto effettuato dal paziente fra le caratteristiche del terapeuta e quelle di altre persone della sua vita. Tale confronto può essere esplicito, innescato spesso da eventi reali durante la terapia (anche aspetti secondari del setting terapeutico), altre volte può essere costituito da allusioni ad altre situazioni relazionali in cui si sono verificati eventi assimilabili a quelli avvenuti in terapia. Il terapeuta come validatore autorevole (VI) • Gli indici personali del terapeuta circa il fatto che sia in atto un test di validatore autorevole • Semerari (1991) ricorda che le impressioni emozionali di base sono innate ed è innata la nostra capacità di riconoscerle. Sarebbe quindi del tutto plausibile che il terapeuta possa percepire a livello subliminare variazioni nell’atteggiamento emotivo del paziente, le elabori inconsciamente e reagisca in modo conseguente. • Quando è presente uno di questi indici (clinici o personali) il terapeuta deve formulare l’interpretazione del test a partire da quello che è lo schema presumibilmente attivato, inferito sulla base di ciò di cui si sta parlando in quel momento in terapia. Le interpretazioni del test hanno dunque, in prima istanza, il carattere del qui e ora, si riferiscono alle convinzioni generate dallo schema attivo in quel momento così come si può dedurlo dall’argomento di cui si sta parlando. È opportuno, quando l’occasione lo permette, fare seguire all’interpretazione sul qui e ora un breve commento con qualche esempio che dimostri il carattere abituale dello schema implicato. All’interno dell’ottica cognitiva-comportamentale possiamo sintetizzare come nell’ambito di qualsiasi relazione terapeutica operino i seguenti elementi fondamentali, qui analizzati dal punto di vista del “paziente”: • Interpretazione cognitiva da parte del soggetto circa la normalità/patologia della condizione che lo caratterizza. • Applicazione di un modello preferenziale e culturale di malattia che, conseguentemente, indirizza il soggetto già in partenza verso determinate classi generali di interventi terapeutici. • Attivazione delle aspettative di auto-efficacia, al fine di valutare la propria capacità di far fronte da solo alla situazione. • Attivazione delle convinzioni personali (in senso di preferenza e di fede) rispetto a determinate più specifiche procedure terapeutiche (culturalmente approvate o meno). • Attivazione delle convinzioni personali (in senso di preferenza e di fede) rispetto a date persone con ruolo di terapeuta (ufficiale o meno). • Modificazioni comportamentali, cognitive ed emozionali conseguenti ai fattori sopra elencati, in senso di maggiore o minore disponibilità a rivolgersi verso figure contraddistinte da un ruolo “terapeutico”. • Modificazioni comportamentali, cognitive ed emozionali conseguenti all’accettazione o meno del ruolo di “paziente”, con le regole e le aspettative a esso legate. • Modificazioni cognitive, anch’esse conseguenti ai fattori sopra elencati, relative a rafforzamenti o eventuali modificazioni delle proprie teorie circa il mondo, le malattie, la normalità/anormalità, conseguenti al contatto con le figure contraddistinte da un ruolo “terapeutico”. • Modificazione della focalizzazione attentiva selettiva rispetto a determinati mutamenti sintomatologici e a talune specifiche aree di rilevanza personale (tale focalizzazione può rivolgersi ad aspetti positivi o negativi, a seconda dell’operare dei fattori precedenti). • Interpretazione cognitiva relativa agli aspetti evidenziati da tale focalizzazione attentiva. • Conseguenti risposte emozionali, positive o negative, in accordo a tale interpretazione. • Produzione di un “circolo virtuoso” autosostentante in caso di interpretazione cognitiva favorevole alla fede nella terapia e nel terapeuta, a una conseguente crescita del proprio senso di autoefficacia, a una visione del mondo meno drammatizzante e più differenziata, e alla produzione di affetti positivi e di una diminuzione dell’ansia. Instaurarsi di un “circolo vizioso” altrettanto autosostentante nel caso di interpretazione in senso opposto. • Mutamenti biologici e sintomatologici congruenti con gli andamenti sopra evidenziati come conseguenza di: – Mantenimento di un circolo “virtuoso” o “vizioso” come sopra descritto. – Migliore/peggiore compliance alle terapie “specifiche” (farmacologiche e/o psicoterapeutiche, sia della medicina scientifica occidentale sia di quella tradizionale). – Cambiamenti nello stato emozionale (soprattutto in direzione di un aumento/diminuzione di affetti depressivi e dell’ansia) in grado di indurre correlati mutamenti sulle risposte immunitarie, sull’asse limbico-ipotalamo-ipofisi-surrenali dello stress e sul sistema oppiatergico, oltre che su altri meccanismi ancora non noti. – Possibili effetti di condizionamenti pavloviani fra stimoli condizionati e risposte incondizionate originariamente indotte da stimoli incondizionati con effetti terapeutici o antiterapeutici specifici. – Mutamenti di conoscenze e di convinzioni sufficienti ad attivare modificazioni comportamentali capaci di produrre cambiamenti indiretti a livello biologico (per es. una nuova dieta, nuove abitudini di vita, ecc.). Conclusioni • Sulla base di questo modello viene a perdere d’importanza la distinzione fra fattori terapeutici “specifici” o “aspecifici” (placebo), dato che in quest’ottica ogni fattore terapeutico è specifico rispetto a un elemento rilevante in una visione sistemica della persona, in quanto contribuisce causalmente all’origine e/o al mantenimento della condizione. Se infatti seguiamo un modello etiopatogenetico del tipo “vulnerabilità-stress”, viene meno in questo caso una concezione della causalità di tipo lineare e sequenziale, che viene sostituita da una causalità molteplice e per serie parallele, in cui è impossibile individuare un’unica “causa specifica”, ma dove vari fattori di diversa natura hanno concorso a produrre la condizione attuale. • Dunque le varie componenti di un intervento terapeutico sono tutte “specifiche” rispetto ad alcuni aspetti che intervengono nella produzione e nel mantenimento del disturbo e non ha senso ritenere che alcune di esse siano “non specifiche”, in quanto in genere non è possibile individuare un’unica causa eziologica sufficiente, il cui trattamento costituirebbe l’unico tipo di intervento degno della definizione di “terapia specifica”. • Così il farmaco è “specifico” per indurre una determinata modificazione biologica che può essere favorevole a un esito terapeutico, come nel caso dell’effetto panicolitico di un inibitore della ricaptazione della serotonina, somministrato in un disturbo di panico, che in una prima fase del trattamento può avere una funzione di riduzione dell’ansia da parte del paziente, utile per l’effettuazione di tutte le altre componenti terapeutiche. Ma ciò, in genere, non è sufficiente da solo. • Occorrono, infatti, solitamente anche interventi classici di terapia cognitivo-comportamentale, come le tecniche di esposizione, la prova comportamentale e la ristrutturazione cognitiva, che sono “specifici” perché mirati a produrre cambiamenti comportamentali che spezzano catene di condotte disadattive, rimettono in moto sequenze comportamentali cadute in disuso, estinguono l’ansia e rifocalizzano l’attenzione su aspetti adattivi e favorevoli a un ritorno a moduli più funzionali di esistenza, meno evitanti. • Ancora “specifico” e altrettanto fondamentale quali gli interventi precedenti è un processo pedagogico ed educativo, teso a modificare e/o arricchire e rendere più diversificati ed elastici i contenuti cognitivi relativi ai concetti di normalità/anormalità, malattia/salute, le teorie naives del funzionamento mentale (aspetti metacognitivi), eccetera, • Tutto questo al fine per esempio di correggere talune convinzioni errate/disfunzionali e di ampliare e arricchire le modalità interpretative delle situazioni problematiche, con conseguente rifocalizzazione dell’attenzione su altri aspetti. • E infine egualmente “specifico” ed essenziale è ogni intervento mirato a migliorare il rapporto paziente-terapeuta sia nel senso di incrementare la positività della loro relazione interpersonale (dal punto di vista emotivo e comportamentale), sia in quello di consolidare l’autorevolezza e l’affidabilità scientifica e personale del terapeuta, sia nell’aumentare la disponibilità del soggetto a fidarsi di qualcuno, in quanto ciò è fondamentale, come abbiamo visto, per ottenere una valida compliance terapeutica, ma costituisce anche nel contempo un aumento delle capacità del paziente. • Tutti questi elementi devono essere compresenti e hanno la stessa importanza e vanno presi in considerazione in ogni intervento terapeutico, senza che nessuno sia più “specifico” di un altro. • Infatti, hanno ognuno lo stesso fine terapeutico: accrescere il controllo dell’individuo su se stesso e sul proprio ambiente, offrendogli occasioni di apprendere nuovi e più validi modi di considerare il mondo, se stesso e gli altri e di rapportarsi con essi. RESISTENZA E ADERENZA TERAPEUTICA Davide Dèttore Università degli Studi di Firenze Definizione (I) • Il termine resistenza fu originariamente introdotto da Freud assai presto, nel 1895, negli Studi sull’isteria, riferendosi a tutto ciò che il paziente analizzato può dire o fare per opporsi al lavoro terapeutico mirato a porre in luce i propri desideri inconsci, rallentando così o addirittura bloccando il processo di cura. Freud successivamente, nel 1926 con Inibizione, sintomo e angoscia, distinse cinque forme di resistenza: tre attribuite all’Io (la rimozione, la resistenza di traslazione e il vantaggio secondario), una all’inconscio o all’Es (fondata sulla coazione a ripetere) e infine una al Super-io (derivata dal senso di colpa inconscio e dal bisogno di punizione). • Secondo quest’ottica, ripresa ampiamente in seguito in ambito psicodinamico e psicoterapeutico generale, l’origine di tutto ciò che può contrastare il processo terapeutico viene situata entro il soggetto, con un processo di attribuzione che ne imputa la causa a processi interni, globali e stabili nella persona stessa. Definizione (II) • Tale concettualizzazione, come risulta molto chiaramente dalle ben note teorie dell’attribuzione da Heider in poi, facilita anche nel terapeuta stesso la visione del paziente come appunto “resistente”, “poco motivato”, “pigro”, “frustrante”, “manipolativo” o “bloccato”, tutti termini che implicano una sottostante, e più o meno consapevole, colpevolizzazione, che certamente non facilita il rapporto terapeutico. • In tempi più recenti, soprattutto con l’avvento della psicoterapia a orientamento cognitivo-comportamentale, in genere si preferisce sostituire il concetto di resistenza con quello di “mancata compliance o aderenza alla terapia”, che viene definito come il sorgere di una discrepanza fra le istruzioni del terapeuta e il comportamento del paziente, che genera il mancato sviluppo del piano di trattamento. In questo caso si parte dunque dalla convinzione che qualsiasi paziente sia in grado di raggiungere un certo grado di aderenza al trattamento; possono però sorgere degli ostacoli in grado di interferire anche col migliore progetto terapeutico. Quando questi si manifestano in opposizione al buon decorso della terapia, significa che l' ansia del paziente non è diminuita, malgrado gli interventi in corso. Classificazione (I) • Tali comportamenti non favorevoli al trattamento possono assumere forme diverse. Al di fuori della seduta, il paziente può non seguire le prescrizioni farmacologiche o psicoterapeutiche (o anche può farlo male, eccedendo o fermandosi a metà); oppure il paziente può saltare una o più sedute con scuse abbastanza vaghe o comunque non sufficientemente valide; o abusa di sostanze o alcol, o chiama ripetutamente il terapeuta quando è in crisi; o ancora, pur avendo eseguito con un certo successo le prescrizioni, vanifica il tutto svalutando i risultati, sviluppando nuovi sintomi, eccetera. • Ma i comportamenti problematici sono presenti anche nel corso della seduta stessa. In tal caso il paziente evita argomenti importanti, insiste sul fatto che gli sarà impossibile cambiare, attribuisce costantemente agli altri la colpa delle sue difficoltà, presenta troppi problemi o salta da una crisi all’altra, compie digressioni, non dà informazioni, si perde in litigi col partner, oppure assume un atteggiamento aggressivo o, al contrario, seduttivo, nei confronti del terapeuta. Classificazione (II) • In tutti questi casi, è particolarmente produttivo specificare i comportamenti che interferiscono col progresso terapeutico e adottare un atteggiamento mirato al problem-solving, mirato al fare e non colpevolizzante. Lo si attua analizzando quelle che possono essere le principali possibilità di ostacolo al processo terapeutico: la patologia del paziente, i fattori esterni al trattamento, fattori inerenti al trattamento compresi gli errori del terapeuta, le convinzioni disfunzionali del paziente • La patologia del paziente • Il quadro problematico del paziente è legato strettamente anche all’inquadramento diagnostico. Talune difficoltà di compliance sono intimamente legate alla sfera biologica, come nel caso delle oscillazioni d’umore in un disturbo bipolare o in una depressione maggiore, o all’insieme delle convinzioni disfunzionali tipicamente legate al disturbo, come nel caso di un disturbo erettile di origine psicogena, o al carattere strettamente egosintonico di alcune di esse, come nel caso dell’anoressia o del disturbo di dismorfismo corporeo. In questi casi occorre fare riferimento a protocolli terapeutici ben precisi e specializzati. Classificazione (III) • I fattori esterni al trattamento • Possono essere presenti dei problemi organici non riconosciuti (per esempio un ipotiroidismo che può mimare una depressione), oppure la terapia farmacologica produce degli effetti collaterali inaccettabili per il paziente o deve essere ulteriormente calibrata, o il paziente vive in un ambiente che non lo sostiene adeguatamente o addirittura è pesantemente controproducente, come nel caso di familiari ad alta Emotività Espressa. Anche in questo caso occorre elaborare un problem-solving mirato e specifico. • I fattori collegati al trattamento e gli errori del terapeuta • È possibile che il “formato” della psicoterapia non sia quello più idoneo: sedute più frequenti o meno, ospedalizzazione piuttosto che sedute ambulatoriali, una terapia di gruppo invece che individuale, o viceversa, oppure un diverso orientamento psicoterapeutico (per es. passare da una terapia psicodinamica a quella cognitivocomportamentale nel caso di un disturbo ossessivo-compulsivo). Infine può essere utile prendere in considerazione trattamenti aggiuntivi, come la farmacoterapia oppure gruppi di mutuo sostegno. Classificazione (IV) • Non vanno dimenticati gli errori del terapeuta: una diagnosi non corretta, una mancata o insufficiente concettualizzazione del caso che rende oscuro al paziente il piano di trattamento, l’uso di tecniche terapeutiche non adeguate al disturbo oppure implementate in modo troppo pesante e accelerato, un mancato accordo col paziente circa la mete terapeutiche, disattenzione da parte del terapeuta nella gestione dell’alleanza terapeutica, l’assegnare compiti a casa troppo difficili (o in taluni casi troppo facili), non ricordare punti importanti della terapia e/o mancare alle sedute, eccetera. • Per evidenziare questi aspetti, oltre al tenersi sempre aggiornati, è senza dubbio utile rivedere la videoregistrazione delle proprie sedute o andare talora in supervisione da un collega esperto. • Le convinzioni disfunzionali del paziente • Talune credenze fortemente consolidate nel paziente possono interferire con la terapia. Per esempio, se un paziente ritiene che per essere una persona valida deve ottenere la costante approvazione di tutte le persone per lui importanti, può mancare di riferire al terapeuta alcuni aspetti meno positivi di sé, per timore di perderne la stima. Classificazione (V) • In terapia sessuale, un uomo che ha una concetto stereotipato e rigido del proprio ruolo maschile può entrare in competizione col terapeuta del suo stesso sesso, oppure sentirsi criticamente giudicato da questo, e quindi diventare aggressivo oppure, al contrario, ritirarsi in un mutismo difensivo. • Mettere alla prova tutte queste convinzioni e modificarle è spesso necessario perché il paziente divenga più disposto a cambiare e quindi ad aderire alle prescrizioni terapeutiche. Talora è sufficiente trasferire alcune conoscenze, che mancano al paziente, per ottenere una maggiore motivazione alla terapia; per esempio, comunicare a un uomo potentemente omofobico che gli esseri umani hanno una certa predisposizione alla bisessualità (per cui questo spiega occasionali spunti omosessuali che sono presenti in ogni persona) può contribuire a normalizzare taluni contenuti mentali che lo preoccupavano e a renderlo meno ansioso circa la propria sessualità. TRANSFERT E CONTROTRANSFERT IN SENSO COGNITIVO Davide Dèttore Università degli Studi di Firenze Definizioni (I) • “Ogni volta che sottoponiamo a trattamento psicoanalitico un soggetto nervoso, compare in lui il sorprendente fenomeno della traslazione (transfert), vale a dire che egli rivolge verso il medico una certa quantità di moti di tenerezza, abbastanza spesso frammisti a ostilità, che non sono fondati su alcun rapporto reale e che non possono che derivare dagli antichi desideri fantastici della persona divenuti inconsci”. • Negli Studi sull’isteria (1885) Freud introduce il concetto di transfert, che si basa sulla nozione di “falso nesso”: un certo affetto di cui il soggetto ignora le reali circostanze causali viene associato casualmente a un oggetto presente nell’ambiente circostante (si tratta di una specie di condizionamento). • Più tardi (1912) Freud introduce il concetto di “cliché”, che è molto simile allo “schema” dei cognitivisti. Il cliché è una struttura che dà forma psichica alla pulsione; esso è costituito da una pulsione aspecifica e dallo schema dei suoi oggetti e delle sue condizioni di soddisfacimento, esso costituisce un ponte fra presente e passato e viene ripetutamente attivato in circostanze diverse canalizzando l’esperienza del soggetto. Infine, come uno schema, il cliché deve confrontarsi con la realtà e può divenire relativamente modificato dai risultati del confronto. • Quando il medico verrà inserito in un cliché la parte conscia e matura darà luogo ai fenomeni del transfert “positivo e irreprensibile”, mentre l’altra darà luogo a condotte inadeguate alla situazione reale della cura e in particolare al transfert negativo e al transfert erotico non sublimato. Questi aspetti sono di tipo cognitivo, ma per spiegare la cura Freud ricorre a modelli inaccettabili di tipo idraulico. Definizioni (II) • All’inizio del trattamento il nevrotico è incapace di godere e di agire perché tutta la sua energia è legata ai sintomi: l’Io è debole perché deprivato della libido. Il malato guarirebbe se l’Io potesse disporre nuovamente dell’energia legata. Per sciogliere i sintomi è necessario rimuovere i conflitti dai quali erano scaturiti e indirizzarli verso uno sbocco diverso. Così una volta che la libido è ritirata dai sintomi e spostata sul terapeuta, la traslazione diventa il vero campo di battaglia contro le due forze che concorrono alla nevrosi: la tendenza dell’Io alla rimozione e la tendenza della libido a restare attaccata ai suoi oggetti. Se la lotta ha successo la “libido torna a staccarsi dal suo oggetto temporaneo ossia la persona del medico, non può ritornare ai suoi oggetti precedenti, ma rimane a disposizione dell’Io”. • L’intero processo terapeutico può venire quindi descritto come un doppio spostamento della libido, dai sintomi all’analista e da questi, attraverso il lavoro dell’interpretazione, all’Io. • L’analisi, secondo Freud, non crea il transfert ma si limita a evidenziarlo e interpretarlo, esso è un fenomeno universale presente nelle relazioni umane e non una caratteristica del setting analitico. • Il transfert, così, prende il posto del ricordo: il paziente non ricorda gli elementi rimossi, ma li ripete inconsapevolmente, li mette in atto (acting out). A esempio, invece di ricordare il proprio atteggiamento diffidente e testardo verso i genitori, il paziente assume gli stessi atteggiamenti verso l’analista. Definizioni (III) • A questo punto si pone il problema del rapporto di questa “coazione a ripetere” con la traslazione e con la resistenza. Ma qui sorge un grosso problema: perché l’Io che ha rimosso un certo impulso in nome del principio della realtà dovrebbe a questo punto preferire riviverlo piuttosto che ricordarlo? • Il problema viene risolto da Freud in Al di là del principio del piacere (1920) introducendo la pulsione di morte. Così la ripetizione non è più espressione della stessa forza o della stessa istanza che ha operato la rimozione, cioè l’Io nel linguaggio strutturale, ma è l’espressione diretta di un altro principio regolativo della condotta, la pulsione di morte appunto, che si esprime nella coazione a ripetere. Ma se non si accetta la pulsione di morte (come fanno oggi sempre più psicoanalisti), questa spiegazione cade e il problema del rapporto fra transfert, resistenza, ricordo e ripetizione rimane. Lageche nel 1951 tentò di spiegarlo ricorrendo all’effetto Zeigarnik. • Semerari (1991) tenta di proporre una spiegazione affermando che sia il ricordo sia la ripetizione sono teoricamente espressioni fenomeniche diverse di uno stesso schema di base, di uno stesso cliché. Per cui uno schema può essere utilizzato sia per la rievocazione del ricordo, sia per l’interpretazione della realtà presente, sia per la regolazione dell’azione, sia per tutte le attività insieme. • Allora è ragionevole presumere che un certo schema attivo nella ricostruzione dei ricordi sia lo stesso schema attivo nell’interpretare la realtà attuale, ed è questo schema che viene testato sulla persona del terapista ed eventualmente viene utilizzato per regolare il comportamento conseguente ai risultati del test. Definizioni (IV) • Ciò porta a due considerazioni. Primo, la tendenza alla ripetizione non è altro che l’espressione del fatto che ciascuno non può che usare gli schemi che ha. La seconda è che in questo tipo di transfert non vi è alcun tipo di resistenza. Se infatti intendiamo per resistenza l’intenzionalità inconscia di frapporre ostacolo alla cura, qui non vi è nulla del genere; la diffidenza e i sentimenti negativi verso l’analista non sarebbero altro che la semplice e diretta espressione di quegli schemi del paziente che hanno attinenza con i problemi per cui è stato chiesto il trattamento. Se poi per resistenza intendiamo il fatto che gli schemi del paziente sono di tale natura e organizzazione da frapporre un ostacolo alla risoluzione della sofferenza, allora la definizione di resistenza coincide in pratica con quella di nevrosi e in questo caso il concetto di resistenza diventa del tutto superfluo. • Posto che una funzione fondamentale degli schemi è quella di orientarci nell’ambiente, dobbiamo in linea di principio postulare che sempre se vi è l’attivazione di uno schema vi è anche un tentativo di applicarlo alla realtà. • Questo tentativo tuttavia può avere a un estremo la forma di un vero e proprio test, cioè di un interrogativo, di un esperimento ( allora abbiamo in terapia il ricordo e l’elaborazione), dall’altro quello di una applicazione dogmatica pura e semplice dello schema alla realtà (acting out del transfert). Il fattore determinante in questo caso è la complessità cognitiva del paziente, sia nel senso dell’integrazione, sia nel senso della differenziazione. Definizioni (V) • Applicando la teoria dell’attaccamento di Bowlby, Liotti (1988) propone un un semplice sillogismo: i modelli di attaccamento si attivano in situazioni in cui si avverte un bisogno d’aiuto, la richiesta di una psicoterapia è una richiesta d’aiuto; per cui se un paziente si reca in terapia i suoi schemi d’attaccamento saranno attivati e applicati in primo luogo alla persona a cui chiede aiuto: lo psicoterapeuta. • Un corollario fondamentale di queste affermazioni è che per lo psicoterapeuta farsi un’idea sul tipo di modello d’attaccamento di un determinato paziente significa disporre di uno strumento concettuale per potere prevedere e interpretare il tipo di relazione che il paziente tende a instaurare con lui. • Meno chiare risultano le conseguenze della teoria dell’attaccamento rispetto alla teoria della cura. Da un lato vi sono autori che sembrano ritenere che il riprodursi nei confronti del terapeuta degli abituali schemi d’attaccamento rappresenti un’occasione d’indagine della storia emotiva del paziente con cui quest’ultimo può raggiungere la consapevolezza e la critica dei propri schemi interpersonali. • A questa teoria detta “della coscienza critica”, si aggiunge quella della “base sicura”, secondo cui il terapeuta, permettendo direttamente al paziente l’esperienza di una relazione stabile e rassicurante, offre una sorta di riparazione delle carenze di sviluppo. A questa si accosta una terza teoria, di Semerari, che consiste nel ritenere l’applicazione sul terapeuta degli schemi di attaccamento, così come l’applicazione di ogni tipo di schema interpersonale, come dei test funzionalmente necessari al paziente per la valutazione della propria sicurezza e dell’affidabilità del terapeuta.