P A R A G R A F O - Università degli Studi di Bergamo

Transcript

P A R A G R A F O - Università degli Studi di Bergamo
§
PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione semestrale
Redazione
FABIO CLETO, DANIELE GIGLIOLI, MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE,
FRANCESCO LO MONACO, FRANCESCA PASQUALI, VALENTINA PISANTY,
LUCA CARLO ROSSI, STEFANO ROSSO, AMELIA VALTOLINA
Segreteria di Redazione
STEFANIA CONSONNI
Ufficio 211
Università degli Studi di Bergamo
P.za Rosate 2, 24129 Bergamo - tel: +39-035-2052744 / 2052706
email: [email protected] - web: www.unibg.it/paragrafo
webmaster: VICENTE GONZÁLEZ DE SANDE
La veste grafica è a cura della Redazione
La responsabilità di opinioni e giudizi espressi negli articoli
è dei singoli collaboratori e non impegna la Redazione
Questo numero è pubblicato con il contributo del
Dipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità dell’Università di Bergamo
© Università degli Studi di Bergamo
ISBN – 978-88-95184-10-0
Edizioni Sestante / Bergamo University Press
Via dell’Agro 10, 24124 Bergamo
tel. 035-4124204 - fax 035-4124206
email: [email protected] - web: www.sestanteedizioni.it
Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo
Paragrafo
II (2006)
Sommario
QUESTIONI
§1. ANDREA BELLAVITA, L’emersione del Reale. Perché una psicoanalisi
del cinema contemporaneo?
7
§2. ANDREA MICONI, Dal real maravilloso al realismo magico.
Approccio evolutivo alla formazione di un genere
27
FORME
§3. CLAUDIO CATTANEO, Cornici per un assassinio. I confini del testo
in Libra di Don DeLillo
51
§4. MASSIMO VERZELLA, Embers di Christopher Hampton e la traduzione della malinconia
69
§5. ENRICO LODI, La retorica del potere nei discorsi del primo franchismo
83
TEMI
§6. SILVIA ULRICH, Gli eredi di Felix Krull. Dai ‘falsi’ di Wolfgang
Hildesheimer alle imposture del caso Gert Postel
105
§7. FRANCESCA PAGANI, Dal ‘cielo stellato’ di Mallarmé alle ‘bolle
d’inchiostro’ di Reverdy. L’immaginario del libro magico nella
poesia francese della modernità
121
LETTURE
§8. LUCIA QUAQUARELLI, La vittoria di un’onda. Palomar di Italo
Calvino
135
§9. VALENTINA LOCATELLI, Christa Wolf, una moderna Medea in
California
149
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
169
NUMERI ARRETRATI
171
§
PARAGRAFO
II
questioni
§
1
Andrea Bellavita
L’emersione del Reale
Perché una psicoanalisi del cinema contemporaneo?
Un discorso ‘situato’
L’interrogativo che guida questo intervento – in effetti, non soltanto perché una psicoanalisi del cinema contemporaneo?, ma anche perché una psicoanalisi contemporanea del testo? – si fonda sulla necessità di collocare i
due termini dialettici del discorso (l’oggetto di analisi e la psicoanalisi come disciplina interpretativa) all’interno di un frame ben preciso: definito
dal punto di vista artistico, sociale e cronologico. In breve si tratta di pensare l’applicazione, o meglio l’implicazione, della psicoanalisi al testo come un ‘discorso situato’. Laddove il termine ‘situato’ rimanda ad una pratica di costruzione e definizione dell’identità testuale fondata sull’appartenenza ad un particolare sistema socio-culturale: un sistema che pone in
essere il testo, che lo produce e lo condiziona, e che lo recepisce, lo mette
in circolo, lo accetta oppure lo rifiuta.
La prospettiva in esame si distanzia quindi prima di tutto da un modello di relazione tra ermeneutica psicoanalitica e testo artistico di carattere a-storico, in cui sia la natura (trascendente) del dispositivo a descrivere la sua relazione con lo spettatore, o comunque con il Soggetto, e non il
suo sviluppo (immanente).1 Tanto il testo quanto il punto di vista inter1
È, notoriamente, il modello proposto da Jean-Louis Baudry nei suoi scritti: cfr. JeanLouis Baudry, “Le dispositif. Approches métapsychologiques de l’impression de réalité”,
Communications, 23, 1975, pp. 56-72, e Id., “Effet idéologiques produits par l’appareil de
base”, Cinéthique, 7-8, 1970, pp. 1-8 (entrambi i testi sono raccolti in L’effet cinéma, Paris: Albatros, 1978). Qui mi riferisco in particolare alla teoria dell’astoricità dell’appareil e
del dispositif, che ha caratterizzato in modo significativo le successive teorie del dispositivo
e che Baudry esprime bene in “Le dispositif ”: “In termini generali, noi distinguiamo appareil de base, che concerne l’insieme delle apparecchiature e delle operazioni necessarie alPARAGRAFO II (2006), pp. 7-25
8 /
ANDREA BELLAVITA
pretativo non devono, e non possono, invece essere considerati al di fuori
del loro collocamento sociale e intertestuale.2
È naturalmente più semplice ed immediato chiarire che cosa si intenda per un oggetto di analisi ‘situato nella contemporaneità’: è il cinema
contemporaneo. Dove la nozione di contemporaneità non si basa su criteri stilistici o sociologici, ma piuttosto su quelli che vorrei chiamare ‘criteri di prossimità’: è il cinema che vive intorno a noi, che ci scivola attorno, il cinema che si vede nelle sale cinematografiche ma anche nei festival, quello che lo spettatore incontra, consuma, quello con cui deve fare i
conti. E in questa accezione consideriamo anche, ma il più delle volte siamo costretti a dire soprattutto, il cinema che non vive e che non si vede intorno a noi: un cinema de-localizzato, perché troppo lontano nello spazio,
nelle forme del linguaggio, nella distribuzione, nella ricezione.
Ma soprattutto consideriamo ‘non solo il cinema’: è ormai del tutto
impossibile leggere il cinema contemporaneo senza metterlo in relazione
con quella che chiameremmo una produzione di ‘video-arte’ o in generale
di arte contemporanea. Senza nemmeno considerare il lavoro di registi
che hanno esplicitamente assunto l’ibridazione e la coalescenza cinema/arte come cifra creativa e stilistica (il Peter Greenaway di M is for
Man, Music, Mozart, 1991, e di Le valigie di Tulse Luper [The Tulse Luper
Suitcases, 2003-2005], ma anche Jean-Daniel Pollet, con Dieu sait quoi,
1994), si pensi esemplarmente ad un cinema come quello di Apitchapong Weerasethakul o anche, per molti versi, alle produzioni più recenti
di Lars Von Trier (Le cinque variazioni [The Five Obstructions], 2003):
esperienze audiovisive che non possono essere scisse da una modalità di
creazione che chiamiamo video-artistica. Esperienze per le quali è stata
utilizzata, non casualmente, la definizione di cinema performativo.
Sul versante opposto è necessario riflettere sulla frequentazione semla produzione e alla proiezione di un film, da dispositif, che concerne unicamente la proiezione, e all’interno del quale viene incluso il soggetto al quale la proiezione è indirizzata.
Così l’appareil de base implica anche la pellicola, la macchina da presa, lo sviluppo e il
montaggio inteso nei suoi aspetti tecnici, unitamente al dispositivo stesso della proiezione” (pp. 58-59 n. 1).
2
L’importanza di considerare il testo filmico come ‘situato’ all’interno del suo sistema
storico e sociale è uno dei lasciti più preziosi di un libro come Francesco Casetti, L’occhio
del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Milano: Bompiani, 2005. Proprio lungo questo asse è possibile costruire un dialogo privilegiato con altre teorie di analisi del film, e in
primo luogo con quella socio-semiotica, per la quale si veda: Ruggero Eugeni, Film, sapere,
società. Per un’analisi socio-semiotica del testo cinematografico, Milano: Vita&Pensiero, 1999.
L’EMERSIONE DEL REALE
/ 9
pre più stretta che i video-artisti hanno con il mondo e il discorso cinematografico, e uso qui il termine ‘discorso’ in termini strettamente lacaniani. Soltanto per limitarci ai due esempi più eclatanti e vicini a noi, si
consideri la ‘presenza’ di Matthew Barney al Festival di Venezia del 2005
con il suo Drawing Restraint 9, e ancora di più a quella di Douglas Gordon e Philippe Parremo al Festival di Cannes del 2006 con Zidane, un
portrait du XXIe siécle.
È chiaro che questo statuto di ibridazione non è esclusivo del cinema
contemporaneo (e non è questo il luogo per una ricognizione delle reciproche relazioni ed influenze occorse tra cinema ed arte), ma ciò che preme maggiormente è lavorare sul valore ‘situato’ di questo dialogo, cioè sul
valore che la dialettica cinema/arte assume all’interno del sistema sociale
contemporaneo. Sia in termini linguistici (le aree di contaminazione, ma
anche le aree comuni di esercizio trasformativo sul linguaggio), che di referenzialità con il mondo rappresentato. O meglio, perché di questo si
tratta in ultima analisi, di crisi della referenzialità e di crisi della possibilità stessa di agire una relazione tra realtà ed espressione artistica.
Il testo filmico e quello artistico svolgono oggi una straordinaria funzione indiziaria nei confronti di un sistema sociale in evoluzione, che affida proprio a questo genere di testualità labile una serie di tensioni e di
pulsioni sempre più urgenti. Non c’è, ancora, niente di nuovo in questa
relazione, cioè non c’è niente di nuovo nella funzione indiziaria del cinema e dell’arte: quello che pare inusitato, e del tutto incomprensibile, è il
fatto che la teoria del cinema stia correndo il rischio di abdicare al suo
compito di intercettare tale valore indiziario, di partecipare alla comprensione sociale del testo filmico contemporaneo. E abbia quasi completamente lasciato che una serie di altri saperi si interroghino e interpretino il
testo filmico: le scienze sociali, la sociologia, i cultural studies, la filosofia.
Ma anche saperi legati al quadro psichico, che stiamo esercitando proprio
in questo momento: la psicologia cognitiva e comportamentale, la stessa
psicoanalisi. In particolar modo quando queste vengano esercitate in totale indifferenza alla peculiarità dell’oggetto: come se ‘leggere’ psicologicamente un film non fosse differente da leggere una qualsiasi altra forma
di ‘comportamento’, più o meno deviante.
Cos’è una psicoanalisi contemporanea?
Dopo aver definito l’oggetto, risulta più complesso stabilire che cosa si intenda per una ‘psicoanalisi contemporanea’, perché qui naturalmente la lo-
10 /
ANDREA BELLAVITA
calizzazione cronologica, il fatto di essere ‘discorso situato’, presuppone un
certo strappo rispetto a qualche cosa che è accaduto prima. Non si tratta
di cambiare il paradigma interpretativo di base: il riferimento principale
rimane sicuramente la psicoanalisi post-freudiana di Jacques Lacan.
Prima di tutto per la sua ‘origine’ intrinsecamente strutturalista, che
da una parte ha costituito e prodotto un limite (cioè un limite di esaurimento delle sue potenzialità applicative), ma dall’altra ha costituito la base fondativa di un dialogo possibile con altri modelli interpretativi del testo: in primo luogo con la semiotica. Lacan, nell’organizzazione della sua
disciplina, sconta (oltre a quello con l’Hegel filtrato da Kojève) un debito
particolare con Saussure e con la linguistica. Nella centralità che lo psicoanalista attribuisce al linguaggio, la dimensione strutturalista dell’insegnamento trova prima in Lévi-Strauss e successivamente nella linguistica
di Saussure e Jakobson dei punti di appoggio fondamentali.
Cercare di leggere la relazione tra semiotica e psicoanalisi ponendosi
per un attimo ‘dalla parte della psicoanalisi’ può essere di straordinaria
utilità, poiché consente di centrare il nodo fondamentale di questa relazione: l’attenzione, reciproca, per un superamento dell’analisi dell’enunciato in favore di una analisi dell’enunciazione. È questa la prospettiva
immediatamente chiara a Metz e al gruppo di teorici del cinema che nel
1975 partecipa ad una sorta di atto di fondazione del dialogo tra le due
discipline.3 Da subito l’attenzione che la semiotica presta agli strumenti
della psicoanalisi è basata sull’elezione ad oggetto comune del linguaggio
nella sua dimensione di farsi testo (sia esso il testo filmico o quello della
séance, della parola del paziente che si fa racconto). Anche se gli orizzonti
di ricerca specifici si differenziano: dal rapporto tra psicoanalisi e dispositivo cinematografico di Jean-Louis Baudry, al concetto di sutura di Oudart, dall’analisi del film di Bellour al contributo di più ampio respiro
condotto da Metz, e centrato intorno all’applicazione di molti dei concetti più importanti della disciplina lacaniana al cinema (polarità tra il registro immaginario e quello simbolico, fase dello specchio e identificazione,
3
Per ragioni di brevità non è possibile ripercorre qui le linee principali della teoria psicoanalitica del cinema cui si fa riferimento, sviluppatasi particolarmente in Francia a metà
degli anni Settanta, per la quale si rimanda (per i testi più significativi) a AA.VV., Communications. Psychanalyse et cinéma, 23, 1975, e (per una trattazione d’insieme) a Lucilla Albano, Lo schermo dei sogni. Chiavi psicoanalitiche del cinema, Venezia: Marsilio, 2004 e
AA.VV., Esthétique du film, Paris: Nathan, 1986, trad. it. di Dario Buzzolan, Estetica del
film, Torino: Lindau, 1999.
L’EMERSIONE DEL REALE
/ 11
voyeurismo, ecc.), fino alla particolare traduzione che Julia Kristeva opera
del pensiero lacaniano.
Il modello lacaniano risulta dunque essere particolarmente ‘ben frequentato’ da parte di altre discipline che lo hanno interpellato ed hanno
attinto al suo serbatoio (non solo interpretativo, ma anche lessicale, come
sistema generatore di formule, immagini, analogon descrittivi): al versante
più specificamente semiotico si può affiancare quello della feminist film
theory e dei gender studies che spesso si sono riferiti a categorie psicoanalitiche e, in particolar modo, lacaniane.
Oltre al fecondo reticolo di ‘parentele’ che la psicoanalisi lacaniana
stabilisce con la semiotica e la teoria del cinema, è importante ricordare
come essa presupponga una teoria estetica. E utilizzo il termine ‘presupporre’ appositamente, in alternativa ad altri più deterministici, dal momento
che, come afferma Massimo Recalcati, le varie posizioni estetiche presenti
nel pensiero lacaniano: “Non giungono mai a costituire un discorso compiuto sull’arte perché a Lacan non interessa questo esito ma piuttosto interrogare come in un pratica simbolica – com’è quella artistica – si possa
isolare e incontrare la dimensione, irriducibile al simbolico, del reale”.4
La posizione di Jacques Lacan a proposito della funzione dell’arte si
definisce in particolare all’interno di due testi: Seminario VII. L’etica della
psicoanalisi del 1959-60 e Seminario XI. I quattro concetti fondamentali
della psicoanalisi del 1964.5 Durante questo breve periodo di tempo vengono sviluppate due posizione differenti (legate sostanzialmente ad uno
‘scivolamento’ dal concetto di das Ding a quello di oggetto a), che tuttavia
possono essere ricondotte ad un principio comune.
Questo elemento comune è legato ad una forte rivoluzione rispetto alle teorie estetiche precedenti (in particolare a quelle idealistiche), che
consiste nel porre al centro della riflessione non più il rapporto tra l’arte e
4
Massimo Recalcati, “Le tre estetiche di Lacan”, aut aut, 326, 2005, pp. 142-58. Per
un’efficace ricostruzione della teoria lacaniana dell’arte si veda anche Giovanni Bottiroli,
Jacques Lacan. Arte linguaggio desiderio, Bergamo: Sestante, 2002, e Miguel A. Hernandez-Navarro, “L’arte contemporanea nel ‘vomitorium’ dello spettacolo”, aut aut, 319-20,
2004, p. 130.
5
Jacques Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse
(1959-1960), Paris: Seuil, 1986, trad. it. Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, a
cura di Antonio Di Ciaccia, Torino: Einaudi, 1994, e Id., Le séminaire de Jacques Lacan.
Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Paris: Seuil, 1973,
trad. it. Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, a cura di
Antonio Di Ciaccia, Torino: Einaudi, 1979.
12 /
ANDREA BELLAVITA
la realtà (intesa come rappresentazione della realtà), ma tra l’arte e il
Reale: “Certo, le opere d’arte imitano gli oggetti che rappresentano, ma il
loro fine appunto non è di rappresentarli. Nel dare un’imitazione dell’oggetto fanno di quest’oggetto qualcosa d’altro. Non fanno quindi che fingere di imitare. L’oggetto si instaura in un certo rapporto con la Cosa,
fatto al tempo stesso per afferrare, per presentificare e per assentificare”.6
Se in Seminario VII l’arte assurge alla funzione di sublimazione della
Cosa (Das Ding)7 (“ogni arte si caratterizza per una certa modalità di organizzazione attorno a questo vuoto”),8 in Seminario XI la funzione dell’opera (e dell’operazione artistica) si costruirà ancora in dialogo con il Reale,
ma nella forma dello sguardo come oggetto a, come resto reale della significantizzazione: l’arte diventa doma-sguardo (dompte-regard) e trompe l’oeil.9
Lungo il percorso che si dispiega tra i due Seminari, vengono dunque
costruiti i presupposti per un nodo centrale di riflessione teorica del testo:
in che termini la produzione artistica di un testo conduce alla dialettica
tra simbolico e Reale, e quindi a quella che chiameremo un’emersione del
Reale all’interno del simbolico?
Fatti salvi questi punti fermi, gli spostamenti, gli slittamenti in grado
di definire il ruolo di una ‘psicoanalisi situata’, sono di altro tipo. Il primo, assolutamente imprescindibile, è quello di uno spostamento dalla
psicoanalisi del contenuto ad una psicoanalisi del linguaggio.
La ragione è ben espressa (prefigurata, in un certo modo), da Lacan in
Funzione e campo della parola e del linguaggio: “Si voglia agente di guarigione, di formazione o di sondaggio, la psicoanalisi non ha che un medium: la parola del paziente”.10 Parafrasando, potremmo affermare che la
psicoanalisi del cinema, qualunque voglia essere la sua finalità (quand’anche la sua giustificazione), non ha che un medium: la parola del cinema,
vale a dire il linguaggio cinematografico.
6
Jacques Lacan, Seminario VII, cit., p. 180.
“Questa Cosa, tutte le forme della quale, create dall’uomo, sono del registro della sublimazione, sarà sempre rappresentata da un vuoto, per il fatto appunto di non poter essere rappresentata da qualche cosa d’altro – o, più esattamente, di non poter che essere rappresentata da qualcos’altro. Ma in forma di sublimazione, il vuoto sarà determinativo”
(ivi, p. 165).
8
Ibidem.
9
“[N]ella pittura c’è del doma-sguardo, vale a dire che colui che guarda è sempre indotto dalla pittura a deporre lo sguardo” (ivi, p. 108).
10
Jacques Lacan, “Fonction et champ de la parole et du langage en psychanalyse”
(1953), in Id., Écrits, Paris: Seuil, 1955, trad. it. di Giacomo Contri, “Funzione e campo
della parola e del linguaggio”, in Scritti, Torino: Einaudi, 2002, p. 240.
7
L’EMERSIONE DEL REALE
/ 13
In questa prospettiva l’applicazione della disciplina lacaniana al testo
filmico deve analizzare il linguaggio cinematografico e il suo utilizzo, il
processo di enunciazione. Non l’enunciato, non il contenuto o la natura
tematica del rappresentato. E nemmeno soltanto il dispositivo cinematografico o la posizione spettatoriale, se non come ulteriore costruzione e
produzione dell’impiego del linguaggio.
Pensare alla psicoanalisi lacaniana come disciplina ermeneutica significa non cercare più all’interno del dispositivo cinematografico delle occorrenze umane o soggettive, dei Sé formati o in atto di formarsi da sottoporre a una psico-analisi: siano essi lo spettatore, il regista, il personaggio
rappresentato. Non si tratta più di cercare degli uomini per trasformarli in
pazienti e per sottoporli a una séance, ma piuttosto di interrogare direttamente il testo, di utilizzare il testo (se vogliamo) come paziente e di ascoltare la sua parola.
Si rende necessaria a questo punto un’ulteriore precisazione a proposito
di ciò che definiamo qui come ‘ermeneutica’: da una parte ci siamo serviti
con disinvoltura della funzione ‘aggettivale’ del termine, inteso quindi nella sua accezione di ‘disciplina interpretativa’. In termini più precisi ci riferiamo però ad una dimensione che potremmo definire come ‘post-ermeneutica’, dove il termine di superamento descrive il pas au-delà che Heidegger annuncia nel suo Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio.11
Laddove Heidegger introduce il concetto di Die Sage, e insieme lascia
‘bianca’ la pagina dell’ermeneutica, Lacan incomincia il suo percorso di
riflessione sulla modalità del discorso analitico, sulla creazione de lalangue
e,12 soprattutto, sui suoi sviluppi che lo porteranno a riflettere sulla rela11
Martin Heidegger, “Aus einem Gesprach von der Spräche. Zwischen einem Japaner
und eunem Fragenden” (1959), in Id., Unterwegs zur Sprache, Gesamtausgabe, vol. 12,
Frankfurt a.M.: Klostermann, 1985; trad. it. “Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio”, in Id., In cammino verso il linguaggio, Milano: Mursia, 1973, pp. 91, 118.
12
Per una breve illustrazione del concetto lacaniano di lalangue (sul quale l’autore ritorna molte volte nel corso del suo lavoro, in opposizione a langage) ci rifacciamo qui a due
definizione ‘eccellenti’. La prima viene da Jean-Claude Milner: “Lalangue è l’insieme di
tutte le catene possibili che la scienza accetta: etimologia, diversi paradigmi, derivazioni,
trasformazioni, ecc…; ma anche tutte quelle che la scienza ricusa: omofonie, omosemi,
palindromi, anagrammi, tropi e tutte le figure possibili dell’associazione. Lalangue è allora
una selva di alberi lussureggianti, dove il soggetto si impiglia nel suo desiderio, mentre un
qualche nodo, non importa quale, viene scelto per cogliere il segno” (Jean-Claude Milner,
L’amour de la langue, Paris: Seuil, 1978, p. 104). La seconda è di Jacques-Alain Miller:
“Lalingua […] non sembra essere una struttura. Se la struttura è quel che ho definito all’inizio, non giungo a dire che lalingua è una struttura. […] Lalingua non è un oggetto in-
14 /
ANDREA BELLAVITA
zione tra sens e pas du sens. A questa ‘ermeneutica’ dunque, del Die Sage e
de lalangue, facciamo riferimento nella nostra proposta d’interpretazione
del testo filmico.
Anche lo spostamento dall’analisi dell’enunciato a quella dell’enunciazione non è necessariamente nuova o inusitata, ma molto più facilmente
‘dimenticata’. È l’eredità diretta di Lacan rispetto a Freud: lo spostamento
da una teoria psicoanalitica dell’arte che non sia più centrata sulle caratteristiche dell’oggetto rappresentato, ma sulle modalità di rappresentazione.
Dal Freud di Al di là del principio di piacere al Lacan di Seminario XI, la
differenza che si consuma è proprio questa.
Il luogo in cui questo passaggio viene già portato a compimento è, come abbiamo già detto, il modello della teoria francese degli anni Settanta.
Eppure è proprio rispetto a questa posizione che si rende necessario adesso compiere il secondo slittamento, quello più difficile, e definitivo.
Si è detto che una psicoanalisi contemporanea non può essere una psicoanalisi del contenuto, ma del linguaggio. Ora affermiamo con maggiore decisione che deve essere una psicoanalisi delle modalità d’impiego del
linguaggio, ma non una psicoanalisi del dispositivo.
Progressivamente la centralità dello studio del dispositivo ha finito per
subordinare completamente la peculiarità e l’identità del singolo oggetto
filmico: il dispositivo cinematografico ha oscurato il film. Meglio ancora:
la teoria interpretativa ha oscurato il film. Non tanto nella fase di formazione e di formulazione della teoria del dispositivo, ma piuttosto nel mantenimento di questa prospettiva, nella sua ripetizione. L’operazione di superamento non può naturalmente risolversi in una cancellazione semplicistica ed ingenua: in primo luogo non si tratta di ‘ripudiare’ tout court la
teoria del dispositivo,13 ma piuttosto di arginarne la deriva applicativa e ripetitiva. L’idea di base è che la teoria del dispositivo si presenti in ultima
analisi come un modello altrettanto ‘situato’ di quello proposto qui, e che
pertanto subisca l’inevitabile rischio di una cristallizzazione e di una perdita di contatto con la trasformazione del testo filmico. È altrettanto evidenserito in una sincronia. Essa comporta una dimensione irrimediabilmente diacronica, essendo essenzialmente alluvionale. È formata da depositi che si accumulano per i malintesi
e le invenzioni linguistiche di ciascuno”. Jacques-Alain Miller, “Il monologo dell’apparola”, La Psicoanalisi, 20, luglio-dicembre 1996, p. 27.
13
In questo la presente proposta prende con decisione le distanze dal modello anti-dispositivo proposto in David Bordwell e Noel Carroll, Post-Theory: Reconstructing Film
Studies, Madison: University of Wisconsin Press, 1996.
L’EMERSIONE DEL REALE
/ 15
te che non è possibile parlare di un’unica ‘teoria del dispositivo’ (dispositivo storico/storiografico, sociologico, cognitivo) così come è impossibile
analizzare un film prescindendo dal dispositivo che lo ha posto in atto: ci
concentriamo, in particolar modo, sulla teoria psicoanalitica d’interpretazione del dispositivo filmico, e sulle sue successive evoluzioni e filiazioni.
Il superamento della psicoanalisi del dispositivo ha almeno tre ragioni,
tutte collegate. In primo luogo questo modello si costituisce in una fase
particolare del pensiero teorico europeo, in cui è necessario in un certo
senso trovare una “soluzione” allo sviluppo strutturalista (la ‘migrazione’
del punto di vista semiotica di cui si è parlato in precedenza ne è un
esempio): con l’entrata in crisi del modello di analisi strutturalista viene a
cadere anche l’urgenza di una pratica di analisi del testo che subordini
l’oggetto di analisi alla forza del metodo interpretativo.
Il rischio è quello che un oggetto filmico, o artistico, venga ‘validato’
nell’interpretazione per il fatto di possedere alcune caratteristiche che gli
valgono l’appartenenza ad uno dei modelli di dispositivo. Quello che si
cerca al contrario è di mettere al centro l’oggetto e lasciare che sia quello a
porre le domande, a far emergere ed esplodere le questioni, le incongruenze, i problemi.
In secondo luogo poi, non è più possibile parlare di dispositivo cinematografico, cioè non è più possibile parlare di un solo dispositivo: la ricerca
disperata di adattare le teorie del dispositivo all’innovazione tecnologica e
a nuovi statuti di spettatorialità dimostrano semplicemente che la teoria
del dispositivo è superata.
A questo si aggiunga, ed è la terza ragione, che molto del cinema contemporaneo lavora esattamente sulla messa in crisi del dispositivo, sulla
frattura di una serie di norme linguistiche e strutturali tali per cui in
realtà la riflessione sul dispositivo si trasforma necessariamente in uno
studio sulle modalità di disinnesco di quello stesso dispositivo.
Perché una psicoanalisi del cinema contemporaneo?
Se i primi due ‘passaggi’ sono stati chiariti (dal contenuto al linguaggio e
dal dispositivo alle modalità di impiego del linguaggio), riprendiamo la
domanda di partenza: perché una psicoanalisi del cinema contemporaneo?
La risposta che si vuole presentare è molto semplice ma verrà espressa in
una formula un po’ provocatoria: perché sono gli oggetti che lo chiedono.
Cioè perché è possibile lavorare su alcune caratteristiche intrinseche e
diffuse della produzione del cinema contemporaneo, che rendono il para-
16 /
ANDREA BELLAVITA
digma interpretativo della psicoanalisi non come ‘uno dei possibili’ strumenti d’interpretazione, ma come lo strumento d’elezione per indagarne
il valore.
Il modello che si cercherà di seguire può essere articolato in tre momenti. In primo luogo si stabilisce come necessario partire dall’analisi linguistica del film, per ricercare in che modo in esso si costituisce quella
dialettica tra simbolico e Reale che è alla base di una teoria estetica ed artistica lacaniana: questa dialettica, declinata all’interno del linguaggio cinematografico, si traduce come mantenimento/effrazione della norma
linguistica di rappresentazione
In secondo luogo si tratta di vedere se, e in che modo, l’impiego del
linguaggio può essere interpretato per analogia attraverso categorie di tipo
psicoanalitico: è il modello che lo stesso Lacan applica al testo di Joyce.
Infine, ed è il terzo momento della ricerca, in cui si fonda il rilancio
‘sociale’ che ci deriva dall’idea di considerare questa pratica interpretativa
come ‘situata’, è possibile ricercare se, e in che modo, queste dinamiche
linguistiche possono ricoprire un valore indiziario rispetto ad altre macropratiche sociali diffuse, basate però sulla stessa articolazione linguistica.
Cercheremo ora, in chiave esemplificativa, di rendere ragione di alcune grandi aree di lavoro, all’interno delle quali è possibile esercitare l’ipotesi che è stata formalizzata.
Ai confini della rappresentazione
La produzione audiovisiva ed artistica contemporanea lavora in modo
quasi ossessivo sulla messa in crisi della rappresentazione. Lavora cioè sull’identificazione di quali siano i confini, nel senso di limiti, della rappresentazione e su come sia possibile o impossibile superarli, valicarli.
Il cinema che si muove in questo ambito è un cinema che, necessariamente, si spinge al limite delle sue possibilità, e nel far questo, si interroga
sul proprio statuto, ma anche sul proprio ruolo sociale: intorno al limite,
nel territorio di confine, è possibile/concepibile rappresentare la realtà?
È chiaro che questa domanda e questa dialettica conducono a due differenti esiti. Il primo è quello che si caratterizza per la generazione di
un’image honteuse,14 cioè di un’immagine della vergogna, di un’immagine
14
Sottraggo la definizione al tema del convegno Les images honteuses, tenuto a Parigi il
25-26 novembre 2005, organizzato da Murielle Gagnebin, al quale partecipavano, tra gli
altri, Jean Clair, Gérard Wajcman e Paul Ardenne. Rimando, a questo proposito, al mio
“L’image honteuse: la seduzione della vergogna”, Ágalma, 12, settembre 2006, pp. 90-98.
L’EMERSIONE DEL REALE
/ 17
che presuppone una rinuncia all’intimità e, contestualmente, un’esposizione dell’intimità.
In ambito cinematografico possiamo considerare ad esempio il cinema
di Larry Clark (Kids, 1995; Bully, 2001; Ken Park, 2002), di Gregg Araki
(The Doom Generation, 1995; Mysterious Skin, 2004), di Harmony Korine (Gummo, 1997; Julien Donkey-Boy, 1999) e di Todd Solondz (Happiness, 1998; Storytelling, 2001; Palindromes, 2004); nello stesso modo in
ambito artistico possiamo considerare almeno esemplarmente il lavoro di
Ron Mueck, di Tracey Emine, di Wim Delvoy.
È evidente che se la psicoanalisi di Freud è il prodotto di un’epoca basata sulla repressione (l’epoca vittoriana), la psicoanalisi contemporanea
deve fare i conti con un sistema sociale ed un sistema visivo basati sulla
provocazione e sull’esibizione. Il rapporto sessuale quietamente ginecologico con cui si conclude Ken Park, ripreso in quei termini, con quella freddezza, non è in sé né pornografico, né ‘artistico’, ma è funzionale: mostra il
funzionamento del dispositivo della sessualità, in modo non dissimile da
come possiamo vedere nella serie di lavori di Wim Delvoy intitolata Sex
Rays, fatta di radiografie che ‘congelano’ alcuni atti sessuali attraverso un
pratica di iper-visione: i soggetti impegnati nelle fellatio, nelle penetrazioni
e nei cunnilingus non sono riconoscibili, perché di essi si vedono il profilo
scheletrico e non le ‘parti molli’ (secondo la retorica visiva della radiografia), ma le loro azioni sono profanate nello spazio più intimo possibile.
E in questo senso entrambe le produzioni, quella di Larry Clark e
quella di Wim Delvoy, sono perfettamente ‘lacaniane’: in esse non c’è atto sessuale. Al contrario ciò che questo genere di testualità mette in scena
lo possiamo definire come malaise de la jouissance.
L’arte contemporanea e il cinema contemporaneo, almeno per quanto
riguarda gli autori che abbiamo citato (ma potremmo fare molti altri
esempi: dal Lars Von Trier del Dogma e dei suoi discepoli, fino al cinema
coreano di Jang Sun-woo e dei suoi Bad Movie, 1998, e Lies, 1999), pongono in atto ‘il trionfo della psicoanalisi’, vale a dire la necessità di operare una lettura psicoanalitica per arginare la malaise de la jouissance.
In un’ottica clinica l’ermeneutica psicoanalitica avrebbe il compito di
condurre il paziente al riconoscimento del proprio sintomo, mentre in
un’ottica d’implicazione della psicoanalisi al cinema, l’unica pratica che ci
è consentita è quella di ‘leggere’ il sintomo.
L’image honteuse, l’immagine dell’annullamento dell’intimo (che, si
badi bene, è cosa completamente differente dall’immagine pornografica),
18 /
ANDREA BELLAVITA
è una immagine diffusa, è un’immagine situata, ed è un’immagine sulla
quale la psicoanalisi può intervenire in chiave interpretativa, proprio per
rendere ragione della sua diffusione.
Il termine francese di image honteuse (oltre a consentire un’affascinante ambiguità con la natura untuosa di quest’immagine) richiama un campo semantico più ricco della sua traduzione ‘vergogna’: come ‘onta’ può
essere subita e inferta, rimanda al disgusto e al fastidio, ma anche, intrinsecamente, al ‘turbamento’, inteso come compresenza di piacere e dolore.
In ultima analisi si potrebbe pensare che l’image honteuse riconduca alla
jouissance e, insieme, alla riduzione fantasmatica del più di godere attraverso il suo taglio.
Non c’è nulla di nuovo nel registrare la diffusione costante della degradazione del bello come sintomo di un’angoscia di castrazione diffusa, che
caratterizza tutti i sistemi di creazione visiva contemporanea. Si tratta semplicemente di una fascinazione per l’apertura: una messa in scena di tutte le
pratiche che rimandano al taglio della castrazione, in cui è tanto più grande
il guadagno dello spettatore, quanto più è estesa la perdita simbolica che
viene esibita. Come dire: quanto più esteso è l’oggetto piccolo a che viene
visualizzato, il resto che sfugge alla rappresentazione simbolica e linguistica.
Questa immagine, in modo plurimo, descrive un’emersione del Reale,
in quanto indicibile e irrapresentabile, che deve passare necessariamente
attraverso una pratica linguistica. Ricercare l’emersione del Reale significa
ricercare in che modo l’impiego del linguaggio di produzione dell’immagine possa mostrare degli allentamenti, dei varchi, dei luoghi in cui le difese del Simbolico vengono aggirate. Questo è il versante per cui il limite della rappresentazione si descrive come ‘ciò che non può essere rappresentato e visto perché non deve essere visto’.
Il secondo esito di cui parlavamo in precedenza si rivolge invece a ‘ciò
che non può essere rappresentato e visto perché non è possibile’: la dimensione in cui il cinema cerca di dare ragione dell’impossibilità della rappresentazione, cioè della rappresentazione dello scarto rispetto al sistema linguistico.
Come rappresentare ciò che esorbita dalle possibilità del linguaggio? È
il territorio del cinema di David Lynch, che proprio con INLAND EMPIRE
(2006) offre una nuova, inquietante, risposta: costringendo lo spettatore
ad una pratica di presenza e di assorbimento dell’immagine, piuttosto che
ad una pratica di comprensione.
Il regime linguistico dell’immagine di Lynch è quello dell’incomunicabilità istituzionalizzata: rompo il mio legame con lo spettatore, con l’Altro del
L’EMERSIONE DEL REALE
/ 19
desiderio, in questo caso del desiderio scopico, e accetto che da parte sua
non ci sia comprensione. In un certo senso è possibile immaginare una triplice categorizzazione del testo cinematografico, proprio in base alla polarità
desiderio-godimento, a cui qui accenniamo soltanto: esiste un cinema ‘del
desiderio’, che fonda la sua relazione con lo spettatore sul riconoscimento
simbolico dell’Altro (e che consente l’identificazione); un cinema dell’’angoscia del desiderio’, dello sguardo medusizzante e dello ‘sguardo della mantide’, in cui il paradigma dello specchio è sostituito da quello della mantide
religiosa, che uccide nel momento in cui riconosce (ma che rimane un cinema intersoggettivo, di relazione drammatica con l’Altro); e da ultimo un cinema del ‘godimento’, in cui la relazione con l’Altro lascia il posto alla Cosa,
e la comprensione all’assorbimento, in una stasi solipsistica e monadica.
È lo statuto dell’arte contemporanea, in cui la comprensione del testo
è totalmente subordinata ad altre pratiche: la fascinazione, il disgusto, il
turbamento, la vergogna. Per far questo Lynch porta alle estreme conseguenze l’effrazione del linguaggio cinematografico: frantuma i nessi di linearità temporale e di consequenzialità, rompe non solo il sistema di
identificazione personaggio/spettatore, ma addirittura quello personaggio/attore, inibisce addirittura la visione vera e propria, perdendo l’immagine nella deformazione del digitale. Abbraccia cioè, eccentricamente anche rispetto alle opere precedenti, un’estetica del brutto.
Su un versante parallelo ma diametralmente opposto si colloca invece
il lavoro di registi come il tailandese Apichatpong, ma anche dell’ultimo
lavoro di Tsai Ming-liang (Good Bye, Dragon Inn, 2003; I Don’t Want to
Sleep Alone, 2006), in cui ad esempio la frantumazione del livello narrativo si accompagna ad una esaltazione del livello visivo ed estetico.
Mi vorrei soffermare qui in particolar modo sul lavoro del regista tailandese, attualmente uno degli autori più innovatori ed interessanti del
panorama contemporaneo. La struttura dei suoi film è sostanzialmente
sempre la stessa: da Misterious Object at Noon (2000), a Blissfully Yours
(Premio Un certain regard a Cannes nel 2002), da Tropical Malady (Premio della Giuria a Cannes 2004) fino a Syndromes and a Century in concorso a Venezia 2006, ma anche al recentissimo cortometraggio The
Anthem (2006), appena presentato alla Frieze Art Fair di Londra.
Una struttura rigidamente bipartita, in cui le due parti dell’opera-film
sono collegate fra di loro non da una continuità narrativa, ma da una serie di legami trasformativi: i personaggi vengono traslati, evolvono, sono
trasferiti nel tempo o nello spazio. In alcuni casi, come in Tropical Ma-
20 /
ANDREA BELLAVITA
lady, a saldare le due parti del racconto c’è una dissolvenza a nero, in altri,
come ad esempio Blissfully Yours, c’è addirittura la comparsa dei titoli di
testa a metà del film.
Tra i microeventi che accadono nel film di fatto non c’è consequenzialità logica o narrativa, o per lo meno questa viene costantemente messa in
crisi, secondo pratiche di dislocamento o d’iterazione. Ad esempio, in tutti
i film, viene inclusa una scena in cui alcuni personaggi si rivolgono ad un
medico, più o meno incompetente o condiscendente, come se si trattasse
di una cifra semantico-stilistica che potesse funzionare da collante tra i differenti capitoli di un unico macro-film. Eppure viene mantenuta sempre
costante una cura maniacale nella costruzione dell’immagine e del quadro,
come se si dovesse sottoporre lo spettatore ad una specie di ipnosi visiva,
che lo costringe a guardare indipendentemente dalla sua comprensione.
Per compiutezza formale e feroce destrutturazione programmata, Tropical Malady rappresenta un modello esemplare del cinema di Apichatpong. Il film è costruito come un dittico che utilizza la stessa coppia di
attori in due ruoli differenti: Tong e Keng del primo racconto diventano
il Demone e il Soldato. Tra le due parti del film la cesura è netta, ma è
evidente la linea di continuità che le unisce, nella costruzione del film come un caleidoscopio, in cui i personaggi e le ambientazioni cambiano,
ma il tema narrato è sempre lo stesso: un film di variazioni sul tema (è il
ritorno dell’ossessione più recente di Von Trier, ma anche dell’infinita serie generativa del progetto di Greenaway The Tulse Luper Suitcases), in cui
l’intera seconda parte funziona come un’allegoria della prima, in modo
non differente dal racconto interno che la guardiana del tempio fa a proposito dei monaci avidi. Un cinema diviso in due, un cinema del dubbio,
polisemico, un cinema del ‘senso vietato’.
Quello che viene prodotto in questo caso non è un senso da sottoporre
ad una comprensione, ma piuttosto un pas du sens, dove la formula del
pas, di matrice derridiana, rimanda sia alla negazione, sia all’oltrepassamento, al ‘passo al di là’ del senso. Roland Barthes, nel suo L’impero dei
segni, impiega un’espressione bellissima, per descrivere il testo occidentale
in contrapposizione all’haiku giapponese: “l’Occidente inumidisce di senso ogni cosa, alla maniera di una religione autoritaria che imponga il battesimo all’intera popolazione”.15
15
Roland Barthes, L’empire des signes, Ginevra: Skira, 1970, trad. it. di Marco Vallora,
L’impero dei segni, Torino: Einaudi, 1984, p. 81.
L’EMERSIONE DEL REALE
/ 21
Quello che accade a questa testualità contemporanea è, al contrario, un
inaridimento del senso: il film viene asciugato di senso condiviso, e riempito al contrario di pas du sens. Ed è proprio su questo pas du sens che esercita la sua attenzione Jacques Lacan nel Seminario VII, quando affronta la
sua importanza e il suo valore produttivo per la comprensione del Soggetto. Parlando dell’haiku (che del linguaggio giapponese è il cristallo e il residuo della decantazione), afferma che “le vie dell’interpretazione non possono dunque che sciupare lo haiku, perché il lavoro di lettura che vi è connesso è quello di sospendere il linguaggio, non di provocarlo”.16
È evidente l’analogia tra ciò che Barthes dice dell’haiku e la riflessione
di Lacan su Joyce: un linguaggio che non deve essere interpretato (un
sinthomo e non un sintomo), un rispetto per l’uso del linguaggio che qui
deve essere sospeso (e che in Joyce/Lacan deve essere ‘disarticolato’).
La proposta è dunque di interrogare questi testi non piegando altre
discipline che esplorano la produzione o la circolazione del senso, ma affiancandole ad un modello interpretativo, come quello psicoanalitico, che
si esercita appositamente sui modi in cui il linguaggio esorbita la produzione del senso.
Per riconoscere, ed è questo il nostro caso, che un cinema come quello
di Apichatpong, in modo non troppo diverso da molte produzione di arte contemporanea, descrive perfettamente ciò che Lacan definisce lo slittamento dal desiderio al godimento.
Cioè uno spostamento da una dimensione rigidamente duale, composta dal Soggetto e dall’Altro, ad una dimensione monadica, in cui il Soggetto non interpella più l’Altro per lenire la sua mancanza, ma si chiude e
si perde completamente nel godimento.
Il cinema di Apichatpong è un cinema del puro godimento, in cui la
frattura della relazione con lo spettatore impedisce la negoziazione del
senso, e in cui il godimento, la pura jouissance, si esaurisce su altri livelli:
la contemplazione estetica oppure la sostituzione della comprensione con
l’assorbimento.
Questo spostamento dal desiderio al godimento ha per noi due importanti fulcri d’interesse: in primo luogo consente in modo esemplare il
rimando indiziario rispetto al sistema sociale, dal momento che la sostitu16
Ivi, p. 84. Scrive Massimo Recalcati: “È per questa ragione che Miller, seguendo il
Lacan di Lituraterra, evoca la scrittura dell’haiku giapponese come modello puro della riduzione significante; sforzo di poesia che non valorizza tanto il carattere infinito dell’amplificazione quanto quello di una sua contrazione essenziale” (op. cit., p. 140).
22 /
ANDREA BELLAVITA
zione del godimento al desiderio caratterizza la maggior parte di quelli
che sono chiamati i nuovi sintomi, e quindi di quello che possiamo definire, con terminologia freudiana, un nuovo ‘disagio della civiltà’.
E poi perché è evidente che la frattura con l’Altro e il suo decadimento nella funzione di colmare la mancanza del Soggetto, comporta la sostanziale impossibilità di impiegare le categorie di identificazione, che
sono alla base della teoria del dispositivo, secondo quanto anticipavo in
precedenza.
Esplorare le faglie e i punti di crisi del linguaggio significa prima di
tutto agire a partire dalla consapevolezza che l’emersione del Reale non
può essere caratterizzata da un ribaltamento del Simbolico e dalla sua sostituzione con qualcos’altro di estraneo a esso, ma piuttosto come una raffinazione del Simbolico stesso. Una pratica che può essere ricondotta a
ciò che Lacan indica a proposito di Joyce e dell’inglese: “lo scrive con una
raffinatezza tale da arrivare a disarticolare quella lingua”.17
Lalangue descritta da Lacan e quindi ripresa da Milner e Miller, l’équivoquer che lo stesso Lacan riconosce nelle pagine di Joyce, il Die Sage di
Heidegger, rispondono sempre allo stesso principio: una elaborazione interna alla Legge del linguaggio che ne consente un superamento e un al di là.
L’équivoquer, come elemento che caratterizza lalangue, è il potere del
significante di costruire non del senso, ma quello che abbiamo definito
come un vortice di senso. O, meglio ancora, un vuoto di senso. Una frattura del senso, un taglio, un buco.
È il luogo in cui il significante, nella sua natura di Simbolico, non costruisce un senso altro rispetto a quello che la significazione linguistica gli
impone, poiché questo sarebbe il caso della metafora. Nell’équivoquer il
significante rompe il senso, lo rende vuoto, letteralmente lo svuota e, a
partire da una nuova configurazione nella parola, provvede a una nuova
riarticolazione del senso.
Non può rappresentare l’irrappresentabile, ma può alludere a esso. Utilizzando gli stessi strumenti che impiega in ogni forma di rappresentazione. E proprio in questo modo può mostrare la debolezza del Simbolico,
una debolezza che è impossibilità di rappresentare ogni cosa e quindi necessità di lasciare un resto: possiamo definirlo scarto del Simbolico, o oggetto piccolo a, o emersione del Reale. A questo resto, che provoca l’an17
Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre XXIII. Le Sinthome, Paris: Seuil, 2005; trad. it., Il
Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo, 1975-76, a cura di Antonio Di Ciaccia, Roma: Astrolabio, 2006, p. 71.
L’EMERSIONE DEL REALE
/ 23
goscia e il sentimento del perturbante, il Simbolico può alludere, mettendo in scena la sua stessa incapacità di rappresentazione.
Ecco per quale ragione riteniamo che il Reale debba essere ancora cercato all’interno del linguaggio e, in particolare, all’interno dei luoghi in
cui il linguaggio mostra il suo lato oscuro, in cui sembra mettersi in discussione, in cui si raffina. Un’idea di raffinazione che non deve essere intesa come miglioramento del Simbolico, ma come azione processuale che si
opera al suo interno. Rispettando quella natura alluvionale che in modo
così preciso Miller attribuisce a lalangue.
Il concetto di raffinazione consiste esattamente in questo: nella possibilità del Reale di emergere all’interno del Simbolico conquistando spazi
di cui il Simbolico non si è ancora appropriato. Ma in questo modo l’emersione del Reale viene a coincidere con il fatto che il Simbolico concede al Reale di emergere, sottraendo a se stesso quegli stessi spazi, e anzi
elaborando se stesso fino a creare dei nuovi spazi.
Il malato immaginario
Arriviamo allora ad un’ultima riflessione, che in un certo senso rende ancora ragione di un’applicazione ‘necessaria’ della psicoanalisi al testo filmico. L’idea è quella che il testo artistico e quello cinematografico contemporaneo (certo quello filmico in modo differente, ma comunque significativo) lavorino su una costante messa a discorso della malattia e della patologia. Non soltanto di una patologia rappresentata, ma di una patologia propria. Si presentino cioè come intrinsecamente malati, come
soggetti/oggetti patologici. E che impieghino questo statuto di patologia
come una certificazione della propria appartenenza al discorso artistico.
Per ‘essere’, cioè per essere riconosciuti appartenere al mondo dell’arte
contemporanea (in maniera fortissima) ma anche a quello del cinema
contemporaneo (in modo sempre più urgente), chiedono il riconoscimento di un potere, cioè di una forma di isituzionalizzazione, che non è
più quello dell’estetica (che si presenta come un luogo vuoto), ma quello
della medicina, e della cura mentale.
Tutti gli esempi che abbiamo considerato fino a questo punto hanno
come minimo comune denominatore il mostrare i segni di una dimensione patologica: ostentano la loro ‘malattia’, sia nei corpi e nelle azioni mettono in scena, che nel loro corpo proprio, cioè nel loro corpo linguistico.
Questo non significa che il cinema o l’arte contemporanea siano necessariamente ‘malati’, e quindi, semplicisticamente, che debbano essere ‘trat-
24 /
ANDREA BELLAVITA
tati’ con una lettura psicoanalitica, ma piuttosto che usino la patologia
come un regime discorsivo, e che quindi possano dialogare con uno strumento interpretativo che è adatto a interrogare questo genere di discorsi.
A patto, naturalmente, che questa messa in scena della malattia, come
abbiamo visto fin qui, non si limiti esclusivamente all’ostentazione di un
contenuto, ma agisca prima di tutto su un linguaggio, altrimenti il rischio
è quello di ricadere nella nosografia o nella semplificazione: cinema malato
per una società malata. Ed è esemplare in questo senso un film come
Elephant (2003) di Gus Van Sant. La trilogia più recente, composta oltre
che da Elephant da Gerry (2002) e Last Days (2005), mette esplicitamente
in scena il tema della patologia e, in particolare, della patologia mentale: la
schizofrenia in Gerry, la dipendenza in Last Days, la paranoia in Elephant.
C’è un ‘cuore’ in Elephant, un nucleo pulsante, in cui la crisi dei protagonisti si trasferisce alla messa in crisi del linguaggio, ed è precisamente la
serie delle tre scene dell’incontro di alcuni ragazzi del gruppo, John, Elias e
Michelle, nel corridoio della scuola. La soluzione di Van Sant è quella di
mostrare tre volte la stessa scena, in cui accade lo stesso evento: John incontra Elias nel corridoio, si lascia fare una fotografia battendosi la mano
sulla natica, Michelle passa correndo di fianco a loro, per scappare in biblioteca. Le tre scene sono filmate ciascuna secondo il principio della soggettiva imperfetta o del ‘pedinamento della nuca’ che è comune a tutto il
film. Quello che rende queste scene un punto denso di cinema del Reale, è
però il fatto che non siano la stessa scena ripresa da tre punti di vista differenti e poi montata diversamente, ma tre scene ‘diverse’ che Van Sant fa
recitare per tre volte, per simulare l’idea di una contemporaneità.
Il regista gioca sulla profondità di campo, descrivendo uno spazio geometricamente ordinato e ben delimitato (un lungo corridoio dell’edificio
scolastico), di cui percorre la lunghezza e di cui esplora i limiti spingendo
la macchina da presa ‘in profondità’, ben al di là della figura intera dei
personaggi. Nel momento in cui la scena viene ‘ri-raccontata’ dai due
punti di vista speculari del corridoio (i tre ragazzi si ‘incrociano’ e quindi
percorrono nei due sensi lo spazio), è del tutto impossibile che la scena
sia stata girata in contemporanea da ciascuno dei punti di vista, perché,
semplicemente, non sono visibili le apparecchiature di ripresa nel ‘controcampo’. Ciò che Van Sant al contrario ha predisposto sono dimensioni
del racconto ‘parallele’, ma non coincidenti, in cui la realtà è deformata
dal punto di vista (cognitivo ed interpretativo) peculiare di ciascuno dei
tre personaggi.
L’EMERSIONE DEL REALE
/ 25
L’effetto è naturalmente quello che la scena, di fatto, non sia mai avvenuta, cioè sia una scena paradossalmente impossibile, perché la reiterazione
della sua esistenza (le ‘tre scene’ di simulazione della realtà) equivale al suo
annullamento. Una rottura del frame che è rappresentata metaforicamente
ed esemplarmente dal movimento di ‘fuga’ di Michelle, la ragazza timida
ed esclusa dal gruppo sociale, che passando di corsa di fianco a John ed
Elias, si sottrae insieme a due ‘inquadrature’: quella del film (dalla quale
scappa in fuori campo) e quella della fotografia (dispositivo di sanzione e
riconoscimento sociale), che scatta nel momento stesso in cui lei passa/fugge, escludendola dalla possibilità di essere un ‘soggetto interessante’.
La scena impossibile di Elephant è una scena in cui la mostrazione di
un contenuto malato si realizza attraverso una malattia del linguaggio, un
ammalarsi del linguaggio, un progressivo intaccare i limiti della rappresentazione, una distorsione consapevole delle pratiche di messa in scena. I
giovani perduti di Van Sant sono l’esempio migliore per raccontare questo cinema condotto ai confini della rappresentazione, in cui il simbolico
lascia spazio all’emersione del Reale.
Perché i loro corpi vengono letteralmente rapiti all’interno del Reale,
non diversamente da quanto accade ai corpi dei protagonisti di Lynch o
di Apichatpong. L’ipotesi di lavoro e di ricerca proposta qui ha, in ultima
analisi, questo unico obiettivo: ritrovarli.
§
2
Andrea Miconi
Dal real maravilloso al realismo magico
Approccio evolutivo alla formazione di un genere
I. “Dopo il boom latinoamericano”, scrive Homi Bhabha, “il realismo magico diviene il linguaggio letterario del mondo postcoloniale emergente”:1
il reincanto della cultura moderna, come in tanti hanno detto, fermentato
proprio nella semi-periferia del sistema. Perché qui, recita un celebre passaggio di Carpentier, ci si ritrova “a contatto quotidiano con quello che
potremmo chiamare il reale meraviglioso”, “patrimonio dell’America intera, dove non si è ancora finito di fissare […] un inventario di cosmogonie” – il continente, insomma, dei licantropi e della fonte della giovinezza, di avventurieri che cercano la città d’oro, ribelli da leggenda e semidei
che mutano in animali.2
Poi, vuole il caso che real maravilloso venga tradotto con realismo magico (anziché con realtà meravigliosa, che propriamente significa), e l’errore, una volta tanto, ha una sua utilità: perché sottolinea (involontariamente, è chiaro) lo scarto tra le condizioni socioculturali (la realtà) e la
loro traduzione letteraria (il realismo). E allora, qui vale la domanda di
sempre: il realismo magico è davvero una forma inscritta nella storia del
subcontinente? Date determinate condizioni dello spirito, non era possibile immaginare altro, un po’ come si è detto dell’Europa moderna e del
romanzo, o del mondo premoderno e dell’epica? No, non si poteva im1
Homi K. Bhabha, “Introduction” (1994), in Homi K. Bhabha (a cura di), Nation and
Narration, trad. it. a cura di Mariella Pandolci, Narrazione e narrazione, Roma: Meltemi,
1997, p. 41.
2
Alejo Carpentier, El reino de este mundo (1949), trad. it. di Angelo Morino, Il regno di
questo mondo, Torino: Einaudi, 1990, pp. viii-x. Anche se attribuita solitamente a Carpentier, l’espressione fu usata già nel 1925 dal critico d’arte Franz Roh, e ricorre poi in diversi
autori: Rodolfo Usigli, Itinerario del autor dramático, 1940; Alvaro Lins, O romançe brasileiro contemporáneo, 1944; Artuto Uslar Petri, Letras y hombres de Venezuela, 1948.
PARAGRAFO II (2006), pp. 27-48
28 /
ANDREA MICONI
maginare altro, se si crede che una forma appaia quando il corso della
storia ha già tracciato la mappa delle vie percorribili – e spesso lo si crede
ancora, nella storiografia letteraria. Sì, eccome, se si crede ad una storia (e
mica solo letteraria) diversa: ad una storia materialista, se il termine ha
ancora un valore. Perché la qualità letteraria, come scrive Roberto
Schwarz del romanzo brasiliano, dipende sì dalle condizioni storicosociali: ma in modi inattesi, e mai prevedibili.3
Una dialettica tra forma e società, ancora: ma aperta alla varietà delle
soluzioni possibili. Lo scopo di questa analisi, modellata sull’approccio
darwiniano proposto da Franco Moretti,4 è tentare una nuova articolazione del campo letterario, che renda giustizia alle tante strade cercate dal
romanzo latinoamericano del boom, e spieghi, fin dove possibile, perché il
realismo magico emerga come versione dominante.
II. Ad applicare il paradigma evoluzionista alla storia della cultura, scrive
Luigi Luca Cavalli Sforza, il guaio peggiore è che non sappiamo quali
“sono gli equivalenti del gene”; il che ci pone, in sostanza, “allo stesso
punto in cui si trovava la genetica prima di scoprire che il DNA è la struttura fisica responsabile dell’eredità”.5 In altre parole, se il processo di evoluzione per adattamento sembra intuitivamente applicabile alle forme
culturali, resta il grande dilemma di quale sia l’elemento soggetto a mutazione. Al di là del problema generale, su cui naturalmente non ho alcuna
risposta, la premessa è che in questo caso è più semplice individuare l’elemento sensibile – appunto il magico, per come si manifesta, o non si manifesta, nei diversi testi. Ora, nessun dubbio che raramente un unico elemento morfologico ha una centralità nell’equilibrio di un genere letterario, come l’evento razionalmente inspiegabile nel realismo magico (o, per
altri versi, come l’indizio nel crime novel studiato da Moretti); si tratta, al
momento, di un limite di applicazione notevole, su cui cercherò di tornare in conclusione.
La produzione letteraria tende a differenziarsi, in una sorta di lotta per
3
Roberto Schwarz, Misplaced Ideas. Essays on Brazilian Culture, London-New York:
Verso, 1992, p. 84.
4
Franco Moretti, “L’evoluzione letteraria”, Nuova Corrente, 35:102, 1988, pp. 215-38;
Id., “The Slaughterhouse of Literature”, Modern Language Quarterly, 61:1, 2000, pp.
207-27; Id., La letteratura vista da lontano, Torino: Einaudi, 2005.
5
Luigi Luca Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura. Proposte concrete per studi futuri,
Torino: Codice, 2004, pp. 67-68.
DAL REAL MERAVILLOSO AL REALISMO MAGICO
/ 29
la sopravvivenza: l’ambiente – per quanto qui mi interessa, il mercato internazionale del libro – porta alla selezione di una varietà, e alla sua codifica in un genere (qui, il realismo magico). Così facendo, si considera il
campo letterario come un ecosistema: uno “spettro di variazioni”, in cui,
specie “quando un genere è agli inizi, e nessuna convenzione si è ancora
affermata come centrale, lo spazio delle forme è aperto di solito agli esperimenti più diversi”;6 in cui, insomma, ogni autore cerca, più o meno casualmente, la sua strada, finché la forma più adatta si afferma, e sopravvive alle altre. La “canonizzazione del ramo minore” di Šklovskij, con quello che in Šklovskij mancava: il come, e il perché, avvenga la selezione.
E allora: si sceglie un campione di testi (qui, 135 romanzi, tradotti in
Europa nell’arco di circa mezzo secolo), e si costruisce una ‘morfosfera’,7
che misura le variazioni dell’elemento sensibile (qui, l’episodio magico),
come mostra il primo diagramma.
Primo livello: assenza e presenza dell’elemento magico.8 Primo bivio, e
primo dilemma: perché, se in oltre la metà del campione (72 romanzi su
135: e sono tutti testi tradotti in Europa, vale la pena ripeterlo) l’elemento
magico è assente, questo vuol dire che qualcosa non torna, nell’ipotesi di
6
Franco Moretti, La letteratura vista da lontano, cit., p. 96.
“L’universo semiotico”, scrive Jurij Lotman, “può essere considerato un insieme di testi e di linguaggi separati l’uno dall’altro [ma] è più feconda l’impostazione opposta. Tutto
lo spazio semiotico si può considerare infatti come un unico meccanismo […]. Ad avere
un ruolo primario non sarà allora questo o quel mattone, ma il ‘grande sistema’ chiamato
semiosfera”. Jurij M. Lotman, Vnutri mysljascih mirov: celovek-tekst-semiosfera-istorija
(1985), trad. it. a cura di Simonetta Salvestroni, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo
nelle strutture pensanti, Venezia: Marsilio, 1992, p. 58. Ecco, a me interessa esattamente
l’aspetto opposto: il ventaglio delle variazioni, e non la sintesi complessiva delle strutture
di senso. Quanto ai guai procurati dall’uso delle categorie di sintesi, nelle scienze della
cultura, prima o poi bisognerà occuparsene seriamente.
8
E quanto all’origine del diagramma, alla radice dell’albero? Da dove proviene, esattamente, l’elemento magico soggetto a mutazione? Dalla lunga durata della cultura orale?
Dall’impianto del surrealismo? Una risposta precisa, al momento, è difficile darla; me la
caverò dicendo che, da un punto di vista metodologico, quelli su cui ho lavorato sono alberi “senza radice”, che, in quanto tali, “non danno alcuna indicazione riguardo all’origine
– cioè la suddivisione o ramificazione iniziale” (Luigi Luca Cavalli Sforza, Paolo Menozzi
e Alberto Piazza, Storia e geografia dei geni umani, Milano: Adelphi, 1997, p. 59). Dato
che l’elemento magico, di per sé, non è certamente un fattore nuovo, lavorare in termini
evolutivi significa qui isolare un certo periodo storico, e verificare la differenziazione
morfologica, senza affrontare il problema della sua origine. Un albero senza radice, appunto: si parte dal recupero e dalla ri-funzionalizzazione del tema magico, e si arriva alla
codifica del nuovo genere – ma da dove provenga l’elemento sensibile, questo è davvero
difficile stabilirlo.
7
30 /
ANDREA MICONI
Diagramma 1 - Il magico nel romanzo latinoamericano
partenza. Di certo, l’analogia tra realtà meravigliosa e realismo magico subisce qui un duro colpo: a partire da una comune condizione di fondo,
insomma, è evidente come le vie del romanzo siano forse non infinite,
ma certamente plurali – e come, anzi, sia proprio la differenziazione a
spiegare la storia letteraria, ben più dell’omologia. Da una parte il magico:
il bagliore dei Caraibi; i luoghi estremi delle Ande; i cronotopi epici del
deserto e della foresta. Dall’altra la pressione degli stati nazionali; le aperture dialogiche; le forme realiste o sperimentali – che, non a caso, si spazializzano per lo più nelle grandi città. In altre parole, l’albero – che è un
modello di evoluzione temporale – incontra qui un principio di organizzazione spaziale, che lo spacca in due: incontra quella discontinuità geografica che è alla base dell’adattamento, e dell’evoluzione. Nelle grandi città,
il romanzo latinoamericano impara una lingua europea (la struttura del
Bildungsroman; la soluzione di compromesso dell’indiretto libero; il
chiasso della polifonia urbana); ma altrove, nell’ebbrezza delle coste o nel-
DAL REAL MERAVILLOSO AL REALISMO MAGICO
/ 31
l’isolamento dell’entroterra, si appropria di quello che resta del magico, lo
rifunzionalizza, e lo restituisce al mercato letterario.9 “La città la fa finita
con il sertão”, dice il narratore di Guimarães Rosa; azzera il tempo mitico
dei banditi e dei demoni: e se non fossimo così abituati a cercare una sintesi, nella storia della cultura, potremmo vederla così, come un conflitto
tra due spazi letterari, con le proprie forme e la propria implicita volizione di mondo. E che qui la partita finisca diversamente, rispetto alla storia
del grande romanzo europeo – che premia il realismo e poi lo sperimentalismo urbano, mettendo ai margini l’estetica gotica delle frontiere – è
una conferma della varietà delle cose, ma è anche segno che alla letteratura latinoamericana, nell’economia simbolica del mercato mondiale, sarà
affidato un compito molto diverso.10
Secondo bivio: l’elemento magico è presente, ma è soltanto evocato
dal narratore, o da un personaggio. La magia, qui, non fa propriamente
parte della storia: qualcuno ne parla, spunta in un aneddoto, il narratore
la inserisce in un inciso, ma niente più – il magico è nell’aria, ma nessuno
ha ancora capito come trattarlo.
Partiamo dal primo caso: l’evocazione al presente. Le allusioni mitologiche in Arguedas; un breve dialogo su misteriose creature (Juan Carlos
Onetti, La vita breve); un riferimento ai riti di guarigione, che però non
si sa bene se siano davvero efficaci (Jorge Icaza, Huasipungo); un aneddoto
sulle streghe, tanto per riempire una conversazione (José Donoso, L’osceno
uccello della notte): esempi di come la soluzione sia a portata di mano, ma
arrivarci non è poi così semplice (caso estremo, quello dei fatti inspiegabili di Adolfo Bioy Casares: si aspetta per tutto il romanzo una risposta magica, che regolarmente non arriva).
Secondo caso: l’evocazione del magico come forza del passato. Come
nella Ricerca del giardino di Hector Bianciotti, che associa la magia agli
9
“Da qui ha origine il fenomeno che contraddistingue la società e la cultura ispanoamericana fino ai nostri giorni: la netta divisione, cioè, tra il clima sofisticato della città e
l’arretratezza e il conservatorismo culturale delle aree rurali”, che “mantenevano un contatto soltanto saltuario con il mondo al di fuori dell’America. In tali zone sopravvissero
antiche forme letterarie, che avevano le loro radici nell’Europa medievale”. Jean Franco,
An Introduction to Spanish-American literature (1969), trad. it. di Guglielmina Zucchino,
Introduzione alla letteratura ispano-americana, Milano: Mursia, 1972, pp. 13, 17.
10
Naturalmente, una categoria residuale (assenza di elementi magici) che occupi il 50
per cento e più del campione è del tutto inaccettabile: si tratta di una spaccatura più netta
tra due filoni romanzeschi, e ciascuno dei due andrebbe – andrà – studiato per le sue caratterizzazioni in positivo.
32 /
ANDREA MICONI
“echi di un passato ormai impersonale”, incarnandolo nella figura più arcaica, la vecchia nonna del protagonista (nel Cavaliere insonne, Manuel
Scorza darà lo stesso ruolo alla vedova Félix). O, più infelicemente ancora, come nella Misteriosa scomparsa della marchesina di Loria, di José Donoso, dove la protagonista si trasferisce in Europa, e le allusioni al magico
(le “carte del destino delle serve negre”) accompagnano sempre le rievocazioni del passato in Nicaragua – una spaccatura così netta tra i due mondi, e così poco incantata, da stonare decisamente, in clima postcoloniale.
Terzo bivio: il magico è presente nella storia, ma non manifesto. Cosa
che accade appena due volte, peraltro: in Terre del finimondo di Jorge
Amado, dove uno stregone governa gli elementi dal profondo della foresta, e nell’Arpa e l’ombra di Alejo Carpentier, dove il fantasma di Cristoforo Colombo appare, ‘invisibile’, per assistere alla causa (fallita) della
sua beatificazione. Al di là della bassa ricorrenza, è anche questa una conferma della grande imperfezione dell’edificio: è chiaro a molti che l’elemento magico ha una sua importanza, ma non si sa bene come usarlo, e
si finisce per metterlo da una parte, al di fuori delle vicende degli uomini.
Quarto bivio: il magico è presente, attivo nella storia, manifesto, ma
compare soltanto in un satellite, o ‘riempitivo’ della narrazione. Se questa
soluzione ricorre a sua volta in pochi casi, è probabilmente perché nel romanzo del boom c’è, in assoluto, una chiara prevalenza dei nuclei rispetto
ai satelliti (e questo è un tema da sviluppare, non c’è dubbio). In Mascarò
di Haroldo Conti, ad esempio, l’evento magico – un rito per placare la furia del mare – occupa lo spazio di un episodio minore; in Io, il supremo, la
spiegazione mitica del mondo appare, ma persa nel flusso degli argomenti.
Quinto bivio: il magico occupa il centro della scena, ma è localizzato
soltanto in un personaggio. Al livello successivo, come si vede, questo caso viene sviluppato nelle due varianti possibili, a seconda che la magia
(incarnata in un personaggio, in una manifestazione, in un episodio) sia
vista come cosa normale o come cosa inaccettabile. In alcuni casi, i poteri
magici sono infatti percepiti come anormali: santoni che scatenano la repressione militare e la guerra civile; bambine internate come streghe;
donne che attraversano le barriere del tempo. Un bel pasticcio: perché il
magico è presente, non c’è dubbio, ma incarnato in una figura deviante,
come i fantasmi o i licantropi di tanti racconti europei. Un pasticcio, intendo, perché il magico visto come un’anomalia è un dato ovvio, a cui il
pubblico occidentale è già abituato da tempo: la familiarità con le figure
del mito, con la consapevolezza, sotto sotto, che non ci si può credere fino
DAL REAL MERAVILLOSO AL REALISMO MAGICO
/ 33
in fondo. Ecco, un magico così poco reale non aggiunge nulla, all’orizzonte di aspettative del lettore: un’arma spuntata nelle mani del narratore.
Come vincere la lotteria, e smarrire il biglietto.
Più curiosa, e infatti assai rara, è la soluzione alternativa: il magico è
incarnato in un personaggio – un monaco volante; uno stregone; un
grottesco cavaliere invisibile – ma tutti gli altri lo accettano come se fosse
una cosa normale. Una specie di correzione in corsa: incarnare la magia in
un solo personaggio significa associarle lo stigma dell’eccezionalità, decentrarla – però evidentemente c’è la sensazione che la cosa non funzioni, e
si cerca di recuperare facendola passare come una prerogativa sì rara, ma
tutto sommato accettabile (e quanta imperfezione, anche qui).
Cinque bivi, che portano via l’85% del campione: magico assente; solo nominato; non manifesto; sacrificato nei riempitivi; localizzato. Eppure, al di là della prima diramazione, quella più radicale (e che andrà studiata a parte, va da sé), il magico è presente in tutte le storie: ma perché
non è sufficiente? Perché questi appaiono come rami minori?
Non certo perché queste soluzioni narrative, di per sé, fossero insufficienti, questa è la risposta: ma solo perché hanno trovato avversari più
forti. È il senso stesso di un modello ispirato alla lotta per la vita, mi pare:
mostrare come la dimensione di mercato non sia una caratterizzazione
posticcia della storia letteraria – prima la creazione, e poi la circolazione –
ma la sua vera, principale ragione. In altre parole, il primato di un’opera
non è nell’incarnare lo spirito del tempo (l’anima e il mondo; la forma e
l’idea), ma nel rappresentarlo meglio della concorrenza.
E chi ci riesce meglio della concorrenza, qui, è visibile al punto 11,
dove l’elemento magico è presente, attivo, distribuito nella storia, e diffuso in una grande varietà di personaggi e di situazioni, al punto da essere
esso stesso la normalità. Un magico, per così dire, oggettivo: non dilaniato
dal dubbio, e non compromesso dalle ideologie; e che infatti, nella più
parte dei casi, è calato in una struttura narrativa fortemente monologica.
Non più un fatto magico a sé, insomma: ma una realtà in cui esistono il
patto con il diavolo e la lievitazione, la resurrezione dei corpi e l’apparire
delle divinità; dove gli eroi combattono per centinaia di anni, i vivi parlano con i morti, e i veggenti intrecciano il destino del mondo.
Tante strade possibili, si era detto all’inizio: ed è così, prima tante vie
erano percorribili, e ognuna probabile come le altre. Ma poi uno guarda
la categoria del magico diffuso, e in una ventina di titoli trova Cent’anni
di solitudine, Foglie morte, Grande sertão, Il ladrone, Il regno di questo mon-
34 /
ANDREA MICONI
do, Pedro Páramo, Uomini di mais, Vento forte, Teresa Batista stanca di
guerra, La casa degli spiriti – trova, in breve, il cuore del boom latinoamericano, e allora si dice che no, non tutte le strade erano percorribili allo
stesso modo; ma saperlo prima, non è cosa di questo mondo.
Un magico diffuso, ho detto, o anche ambientale: perché non solo avvolge l’intero spazio della narrazione, manifestandosi in personaggi diversi, ma è accettato da tutti, e si presta a spiegare in sé il corso della storia.
Come la meravigliosa serie di carabattole di Cent’anni di solitudine: la profezia del bambino con la coda di maiale, il fantasma di Prudencio Aguilar
e le carte di Pilar Tenera; e poi cantastorie che vivono duecento anni e sacerdoti che galleggiano in aria, il funerale sotto una pioggia di fiori, la peste dell’insonnia e le maledizioni, fino alle profezie di Melquiades, che
riavvolgono la storia mentre si alza il vento che distrugge Macondo.
A voler cercare un genere prossimo, siamo nella categoria di ‘meraviglioso puro’ fissata da Todorov, e precisamente nella variante del ‘meraviglioso esotico’, in cui “si riferiscono avvenimenti soprannaturali senza
presentarli come tali”,11 come nel Milione e nelle Mille e una notte, e questo perché non c’è alcun “motivo di metterli in dubbio”. Un mondo dove
la magia è normale, e dove semmai è la normalità, a rivestirsi di mistero:
“la resurrezione di un morto non provoca la minima sorpresa”, scrive Vargas Llosa di Cent’anni di solitudine, “mentre il laboratorio di dagherrotipia provoca a José Arcadio il massimo stupore: […] per raccontare una
resurrezione il narratore si trasferisce sul piano della realtà oggettiva, per
raccontare una fotografia, sul piano dell’immaginario”.12 Al termine di
questo straniamento, insomma, la spiegazione magica è diventata la norma: ho la facoltà di presentire le cose, dice un personaggio dolente di Miguel Angel Asturias, “ma beninteso, codesta facoltà ce l’hanno in molti”
(Uomini di mais, “Maria Tecún”, XVI).
E così Carpentier: “Tutti sapevano che l’iguana verde, la farfalla notturna, il cane sconosciuto, il pellicano inverosimile erano semplici trave11
Tzvetan Todorov, Introduction à la litterature fantastique (1970), trad. it. di Klersy
Imberciadori, La letteratura fantastica, Milano: Garzanti, 1977, p. 58. Il modello di Todorov (strano puro; fantastico strano; fantastico meraviglioso; meraviglioso puro, diviso in
iperbolico, esotico e strumentale) è certamente la migliore tassonomia disponibile sul tema. Il suo limite, tuttavia, è il limite di tutte le tipologie, ovvero quello di prevedere in sé
tutti gli sviluppi possibili – mentre a me, come detto, interessa la tensione tra la differenziazione delle forme, e la selezione codificata nel canone.
12
Mario Vargas Llosa, García Márquez: historia de un deicidio, Barcelona: Barral, 1971,
p. 572.
DAL REAL MERAVILLOSO AL REALISMO MAGICO
/ 35
stimenti. Dotato del potere di trasformarsi in ruminante, in uccello, pesce o insetto, Mackandal visitava di continuo le fazende”.13 Ce l’hanno in
molti; tutti sapevano… Una magia diffusa nell’ambiente: che inebria i
personaggi; rende le donne irresistibili e i guerrieri invincibili; spiega le
leggi della storia; intreccia il passato al futuro; punteggia le vicende con la
successione struggente delle piogge e dei giorni. Lukács, Problemi di teoria del romanzo:
[nel realismo fantastico] realistico è il modo di scrittura, il disegno preciso
dei particolari necessari nel loro legame organico con le grandi forze sociali
[…]. Ma la storia narrata è consapevolmente non realistica e fantastica.
Questo elemento fantastico nasce qui […] dalla comparazione satirica del
vecchio mondo in dissoluzione e di quello nuovo che sta nascendo.14
Il contatto tra due mondi, scrive Lukács – il vecchio che muore, il nuovo
che ancora non nasce – è la faglia in cui prende corpo la forma di compromesso del ‘realismo fantastico’: una struttura realista, che contiene in
sé una storia incredibile. La cornice narrativa importata dall’Europa, che
abbraccia i contenuti della cultura locale – è davvero così semplice, la genesi del realismo magico?
Il tema meriterà maggiore spazio; qui dirò brevemente che, dopo aver
accettato per buona questa spiegazione – il romanzo che incornicia gli
elementi della tradizione mitico-orale, e li guida ad una lenta transizione
verso il realismo – ho iniziato a pensare che le cose fossero più complicate. Ancora una volta, la definizione di Lukács è infatti corretta per la storia della letteratura europea (il romanzo del seicento; il realismo magico
fiorito tra le nevi dell’immensa semiperiferia russa) – ma generalizzare al
mondo quello che vale per l’Europa non è, forse, uno dei peccati capitali
della critica letteraria?
Che il realismo fantastico sia una forma di transizione tra il mondo
epico-mitico e l’età del romanzo, insomma, è certamente plausibile; eppure, a me pare che nella letteratura latinoamericana accada piuttosto il
contrario. È il romanzo realista, la prima conquista morfologica del subcontinente: e la forma egemone, per tutto l’ottocento e fino agli anni
trenta del novecento, è quella delle storie ‘di fondazione’, ispirate ai temi,
13
14
153.
Alejo Carpentier, op. cit., p. 25.
Vittorio Strada (a cura di), Problemi di teoria del romanzo, Torino: Einaudi, 1976, p.
36 /
ANDREA MICONI
tutt’altro che magici, dell’amore e della nazione.15 Poi, però, la progressione della storia letteraria si arresta: ed è solo liberandosi del realismo, che il
romanzo latinoamericano produce i suoi capolavori riconosciuti. E di
certo, rispetto alla nostra abitudine storiografica, questo è un curioso ritorno all’indietro – un po’ come quel breve racconto di Alejo Carpentier,
in cui la vita del protagonista scorre placidamente all’inverso, dalla morte
alla nascita. Altro che giacenze di un’antica cultura: prima il realismo, e
dopo – con la mediazione del surrealismo; della cultura dei mass media;
delle mode primitiviste – il recupero del tema magico e della sua forza di
evocazione, in cui l’inserimento della retorica orale, come già scrive Alessandro Portelli del romanzo nordamericano, è una strategia espressiva
controllata dalla “capacità progettuale della scrittura”.16 Prima il realismo,
e dopo il realismo magico – ma come si spiega? Panofsky, La prospettiva
come forma simbolica:
Quando la ricerca attorno ad un determinato problema artistico è giunta
a un punto tale di maturazione che – a partire dalle vecchie premesse –
sembra infruttuoso procedere nella stessa direzione, avvengono di solito
quei grandi ritorni al passato o meglio quei cambiamenti di rotta che
[…] creano, proprio attraverso la rinuncia alle posizioni già raggiunte,
cioè attraverso un ritorno a forme di rappresentazione apparentemente
‘più primitive’, la possibilità di valersi del materiale di scarto del vecchio
edificio per la costruzione del nuovo.17
“Quei grandi ritorni al passato”, di cui è punteggiata la storia dell’arte:
una ricerca all’indietro, con buona pace di tutte le filosofie della storia;
un recupero di vecchi materiali di scarto, utili per rispondere ad esigenze
simboliche altrimenti non risolvibili. Il ciclo della storia letteraria si inverte, ho detto prima: ma se questo accade, nel romanzo latinoamericano, è perché è la storia stessa a segnare un’inversione di rotta, ed aprire
15
Doris Sommer, Foundactional Fictions: The National Romances of Latin America,
Berkeley: University of California Press, 1991.
16
Alessandro Portelli, Il testo e la voce. Oralità, letteratura e democrazia in America, Roma: Manifestolibri, 1992, pp. 87-104. Però: in America del Nord, come spiega Portelli,
l’oralità è tradotta prevalentemente in forma di dialogo; nel realismo magico latinoamericano, in strutture narrative decisamente monologiche. Una differenza accidentale, o lo
scarto tra due esigenze simboliche davvero diverse – la retorica della democrazia, e l’indolenza delle periferie?
17
Erwin Panofsky, Die Perspektive als ‘symbolische Form’ (1927), trad. it. di Enrico Filippini, La prospettiva come ‘forma simbolica’ e altri scritti, Milano: Feltrinelli, 1980, p. 50.
DAL REAL MERAVILLOSO AL REALISMO MAGICO
/ 37
una crisi di senso a cui soltanto una nuova forma simbolica poteva dare
sollievo. Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, scrive Doris
Sommer, la “storia latinoamericana non sembrò più progressiva”, rispetto
alla linea idealtipica dello sviluppo, e quindi, questo è il punto, non più
rappresentabile con la “biografia nazionale positivista”18 incarnata dal romanzo europeo. Con il consolidamento dell’egemonia statunitense sul sistema-mondo, insomma, le lancette della storia si bloccano: il cammino
di emancipazione degli stati nazionali si svuota di sostanza storico-politica, e lascia intravedere un nuovo posizionamento nelle periferie del sistema. Un nuovo spazio geopolitico, e una nuova esigenza simbolica, a cui il
realismo, abituato a nuotare nelle acque tranquille dello stato-nazione,
non sa davvero rispondere: e qui, la ‘risposta casuale’ dell’innovazione
morfologica finisce per piegare all’indietro la curva del tempo, pescando a
piene mani nel ‘materiale di scarto del vecchio edificio’ – i miti orali; il
retaggio dell’epica; le leggende locali; le forme grottesche e iperboliche
del racconto popolare. Imperfezione, non significa anche arrangiarsi con
quello che capita?
Bene: cede l’impalcatura del realismo, ed affiora la ricchezza delle forme narrative precedenti al romanzo moderno. Ora, è questa davvero, come spesso si dice, una risposta mitica all’egemonia culturale dell’occidente?19 Una rielaborazione autonoma della forma romanzesca, in grado di
fare da controcanto alla visione coloniale del mondo? La risposta presuppone alcuni approfondimenti teorici, e quindi ci tornerò in separata sede;
ma avanzo qualche dubbio, al proposito. Perché il Sud America del realismo magico – quello dei neri giganteschi, dei cantastorie ciechi e dei galeoni arenati, dei riti magici e dei vecchi sapienti, di donne dalla bellezza
che fa impazzire gli uomini, danze e desolazione, pergamene misteriose e
demoni nascosti dalla foresta – ecco, questo Sud America somiglia davvero troppo allo stereotipo proprio della cultura occidentale. Ora, certamente, il pubblico europeo colto sa di non potersi permettere più una visione così stereotipica del mondo (dopo decenni di dibattiti postcoloniali: davvero no) – ma se può cercarla altrove, questa visione, e se magari la
18
Doris Sommer, op. cit., p. 2.
Faccio riferimento, in sostanza, alla tesi postcolonialista forte (Bill Ashcroft, Gareth
Griffiths, Helen Tiffin, The Empire Writes Back: Theory and Practice in Post-Colonial Literatures, London-New York: Routledge, 1989), che francamente non mi convince del tutto; anche se questo articolo ha un taglio più analitico che teorico, e cercherò di riprendere
il tema al più presto.
19
38 /
ANDREA MICONI
trova nella stessa narrativa latinoamericana, allora la tentazione è davvero
troppo forte. Uno stereotipo storicamente fondato, si dirà, se si pensa al
tempo ciclico delle narrazioni precolombiane; all’incontro di etnie e religioni diverse; alla cultura instabile delle semi-periferie – sarà, ma pur
sempre uno stereotipo. Karl Marx, Discorso sul libero scambio:
Voi pensate forse, signori, che la produzione del caffè e dello zucchero sia
il destino naturale delle Indie occidentali. Ebbene, due secoli fa la natura,
che non si immischia troppo nelle faccende commerciali, non vi aveva
messo né la pianta del caffè, né la canna da zucchero.20
Uno stereotipo: ma prodotto in proprio. Ecco, tutto questo spiega, secondo me, la centralità del ‘meraviglioso esotico’, o, come l’ho più semplicemente definito, del ‘magico diffuso’. Perché di narrazioni magiche,
diciamo il vero, il lettore europeo ne conosce già molte: ma se il mito è
un fattore secondario, appena evocato, o addirittura deviante, come nei
rami secchi di questo diagramma evolutivo, allora davvero niente di nuovo. Ecco, ad un magico non oggettivo il pubblico occidentale era già abituato da tempo: solo un magico, per così dire, di sistema, poteva offrire
qualcosa di nuovo.
O detto altrimenti: che il fantastico potesse costituire un problema,
una perturbazione nell’ordine delle cose, lo sapevamo da tempo (e l’uccisione di Dracula ha salvato l’anima nera dell’occidente). Ma non sarebbe
un mondo migliore, quello in cui il magico è la risposta?
III. E va bene: molti ci provano, e solo qualcuno ci riesce; c’era bisogno
di scomodare Darwin, si dirà? Non sarà, più semplicemente, che alcuni
scrittori sono più bravi degli altri, e sopravvivono alla competizione per
ragioni di qualità? Sì, se per qualità si intende, in modo laico, una particolare combinazione di elementi morfologici, che rende un’opera più idonea alle esigenze del pubblico. No, se dietro alla qualità si ripropone la
tronfia abitudine del giudizio estetico – e magari, l’idea del disegno intelligente come motore della storia della cultura.
Può essere, allora, che un autore sia semplicemente (e, per così dire,
intenzionalmente) più bravo degli altri? Per rispondere, ho ripetuto l’esperimento sugli autori più letti tra quanti hanno codificato il realismo magi20
Karl Marx, Discour sur la question du libre-échange (1848), trad. it. di Franco Rodano, Discorso sul libero scambio, in Id., Opere, Roma: Editori Riuniti, 1973, vol. 6, p. 481.
DAL REAL MERAVILLOSO AL REALISMO MAGICO
/ 39
co (e anche quelli con una produzione sufficientemente ampia per sviluppare il modello), Jorge Amado e Gabriel García Márquez, come mostrato
dal diagramma 2. Il campione, qui, è ridotto ad una trentina di testi, ma
l’articolazione complessiva non si restringe: segno che, almeno nelle fasi
di formazione di un genere, la logica della risposta casuale sembra davvero
dominante.
Amado, come si vede, intercetta la dimensione del magico ‘diffuso’ –
pur destinandole uno spazio testuale ridotto, rispetto alla futura stagione
del boom – già in due opere degli anni trenta (Mar morto e Capitani della
spiaggia), in cui la narrazione mitica fa da sfondo alle vicende, portando
con sé la spiegazione di tutti i dilemmi – il vaiolo; il mistero dell’avvenire;
il maltempo. Un esempio:
Un’altra sera, una sera buia d’inverno, in cui i pescherecci non s’avventuravano in mare, notte di collera di Yemanjà e Xangô, […] Pedro Proiettile, il Gamba-Zoppa e João Grande andarono ad accompagnare la madredi-santo Don’Aninha […].
‘Ogun è offeso’, aveva spiegato la madre-di-santo Don’Aninha.21
1937, un quarto di secolo prima del boom: una sera in cui la collera degli
dèi fa ribollire l’oceano, tre ragazzi accompagnano una donna a placare
l’ira della divinità del ferro… Certo, nella fattispecie la magia è intrisa di
idolatria pagana, e forse questo non ne fa l’esempio più calzante, quanto
a contenuti. Ma se uno guarda la morfologia del discorso – la magia come spiegazione oggettiva del reale; il dialogo dei personaggi ridotto ad attestazione passiva di eventi decisi in altre sfere; perfino la marca temporale in apertura – allora sembra chiaro che la soluzione era proprio lì, ancora una volta, a portata di mano. Però, è un aspetto di cui evidentemente
l’autore non sa bene come servirsi, e così l’accantona, e per una trentina
di anni si dedica a racconti a sfondo sociale e politico: le lotte dei lavoratori; il malaffare del Brasile; la dittatura; le faide sanguinarie tra
fazenderos. Certo, per un po’ l’elemento magico deve rimanergli in testa,
e infatti ne appaiono alcune ombre: in Terre del finimondo, viene nascosto
nella capanna di uno stregone della foresta, in modo che non intralci
troppo la storia; poi si sbriciola nell’accenno alla veggenza e alla maledizione (Sudore) o nel riferimento ad una profezia (Messe di sangue), ma già
21
Jorge Amado, Capitaes de areia (1937), trad. it. di Elena Grechi, Capitani della spiaggia, Milano: Garzanti, 1997, p. 99.
40 /
ANDREA MICONI
Diagramma 2 - Storie parallele: Il magico in Jorge Amado e Gabriel García Márquez 22
22
Legenda del diagramma 2:
Amado [A]: 1930, Il paese del carnevale; 1933, Cacao; 1935, Jubiabà; 1936, Mar Morto;
1937, Capitani della spiaggia; 1942,Terre del finimondo; 1944, I padroni della terra; 1946,
Messe di sangue; 1954a, La luce in fondo al tunnel; 1954b, Tempi difficili; 1954c, Agonia
della notte; 1954d, Sudore; 1958, Gabriella garofano e cannella; 1964a, Due storie del porto
di Bahia; 1964b, I guardiani della notte; 1966, Dona Flor e i suoi due mariti; 1969, La bottega dei miracoli; 1973, Teresa Batista stanca di guerra; 1976, Vita e miracoli di Tieta d’Agreste; 1979, Alte uniformi e camicie da notte; 1984, Tocaia grande; 1988, Santa Barbara
dei fulmini; 1992, I turchi alla scoperta dell’America
García Márquez [GM]: 1955, Foglie morte; 1961, Nessuno scrive al colonnello; 1962a, I
funerali della Mamà Grande; 1962b, La mala ora; 1967, Cent’anni di solitudine; 1970,
DAL REAL MERAVILLOSO AL REALISMO MAGICO
/ 41
non è più chiaro se i personaggi ci credano realmente. E infatti, nell’opera più ambiziosa della sua carriera, la trilogia dei Sotterranei della libertà,
di magico non c’è traccia.
Poi, il pendolo riprende l’oscillazione opposta, e negli ultimi decenni
Amado si dedica in modo più coerente all’affresco delle mitologie popolari, con il loro corredo di profezie e di religioni meticcie. Ora, la perfezione non è di questo mondo, e infatti il celebre romanzo della svolta
(Gabriella garofano e cannella) è ancora sospeso a metà tra le due istanze,
e perfino un personaggio assai prossimo ai motivi del magico come Gabriella – che spande odore di cannella, e danza invece di camminare – è
coinvolto in una parentesi politica a dir poco insensata. Ma ormai il più è
fatto; dietro l’angolo, c’è già un mondo in cui i demoni abitano la notte e
le prostitute recuperano la verginità per incanto; un mondo in cui non ci
si meraviglia di niente, vista la consuetudine “con ogni sorta di cose stupefacenti: il lupo mannaro, la mula-senza-testa, il gigante Adamastor, la
signora coperta d’oro” (Tocaia grande, “Le prime case”, VIII) – e chi più ne
ha, più ne metta.
García Márquez, per conto suo, scopre il magico già nel suo primo romanzo, Foglie morte, che apre il ciclo di Macondo: il velo struggente della
predestinazione; il potere insondabile dell’almanacco; il vento che porta
la fine – insomma, tutti gli elementi poi perfezionati nella formidabile
macchina narrativa di Cent’anni di solitudine (salvo che la poetica non si
sposa bene con la forma, e il racconto omodiegetico non consente ancora
quello stato di oggettività della storia, e di dolente fatalismo dei personaggi, che renderà indimenticabile il suo capolavoro).
Ad ogni modo, la strada è spianata, e il successo planetario di Cien
anos sembra codificare definitivamente il genere: e invece, chissà perché,
l’elemento magico inizia a stingere. Viene confinato nei riempitivi, ridotto ad allusioni, citato di passaggio; e infine, in Dell’amore e di altri
demoni, caricato per intero sulle spalle della giovanissima Sierva María
(che infatti non regge la pressione, e paga con la vita). Il magico era la soluzione, e adesso diventa il problema: cos’è accaduto, nel mezzo?
L’autunno del patriarca, 1975. Tecnicamente, qui l’elemento magico è
ancora presente: il dittatore governa per centinaia di anni, il che non è
Racconto di un naufrago; 1972, La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della
sua nonna snaturata; 1975, L’autunno del patriarca; 1981, Cronaca di una morte annunciata; 1985, L’amore ai tempi del colera; 1986, Le avventure di Miguel Littín, clandestino in
Cile; 1989, Il generale nel suo labirinto; 1994, Dell’amore e di altri demoni.
42 /
ANDREA MICONI
normalissimo; e tra le altre cose lo fa, più esplicitamente, consultando le
cartomanti (e naturalmente le fa giustiziare, se la predizione non è di suo
gusto). Ma è ormai un dettaglio, una rimanenza poetica, perché, nella
maggior parte dei casi, l’elemento mitico è letteralmente rifiutato dalla
storia: l’apparizione delle caravelle di Colombo, si capisce dopo qualche
pagina, avviene in un sogno del protagonista; la morte e resurrezione del
dittatore trova la spiegazione più banale, perché a morire davvero era stato un sosia, Patricio Aragonés; e le guarigioni miracolose, null’altro che
suggestione dei sudditi. E all’incontro con la morte, poi,
lui disse che no, morte, che non era ancora la sua ora, che doveva accadere durante il sonno nella penombra dell’ufficio come era stato annunciato
fin da sempre nelle acque premonitrici dei catini, ma lei ribatté che no,
generale, che è accaduto qui, scalzo e coi vestiti di bisognoso che aveva
indosso.23
Dal primo della stirpe incatenato ad un albero, alla fine che arriva nel posto e nel momento sbagliato: ma se non era questa, la morte annunciata
dalla profezia, vuol dire che la profezia era falsa, tutto qua – vuol dire che
l’età del magico è tramontata (anche se, naturalmente, “coloro che trovarono il corpo avrebbero detto che era stato sul pavimento dell’ufficio con
l’uniforme di tela”). Gli eventi, insomma, sembrano richiedere ancora una
spiegazione magica, ma non c’è più niente da fare: a spiegare le stranezze
del reale sono soltanto l’arbitrio e la meschinità del potere. E così, tanto
limpida e oggettiva era la struttura di Cent’anni di solitudine, tanto L’autunno del patriarca si contorce in un diluvio di subordinate che rende il
senso mefitico delle gerarchie – e la distanza tra il patriarca ed i sudditi è
tale che nessuno, infine, sarà in grado di riconoscerne il corpo. La forma si
contorce su se stessa: la collettività – il noi che regge buona parte della narrazione – non riesce a contenere l’ego del dittatore, e ne subisce ogni arbitrio. E così, il patriarca impone il finale delle soap operas; vende il mare per
sanare il bilancio di stato; ordina le repressioni più assurde; dichiara guerra
alla chiesa di Roma; manipola le estrazioni della lotteria… Con le parole
di un altro dittatore, quello di Augusto Roa Bastos: “Io sono l’arbitro. Posso decidere una cosa. Ideare i fatti. Inventare gli avvenimenti”.24
23
Gabriel García Márquez, El otono del patriarca (1975), trad. it. di Enrico Cicogna,
L’autunno del patriarca, Milano: Mondadori, 1983, p. 260.
24
Augusto Roa Bastos, Yo el Supremo (1974), trad. it. di Stefano Bossi, Io il supremo,
Milano: Feltrinelli, 1978, p. 212.
DAL REAL MERAVILLOSO AL REALISMO MAGICO
/ 43
La frase completa; poi il soggetto sottointeso; infine, sottointeso anche il verbo ausiliario: con la più semplice delle soluzioni grammaticali, la
cornice di arbitrarietà scompare nello spazio di tre proposizioni, e il punto di vista unico del supremo viene oggettivato nella realtà circostante.
Cos’era dunque accaduto, nel mezzo? Che il circolo della storia si è compiuto, e le nefandezze militari precipitano il Sud America nella pagina
oscura della politica recente. Il ‘mondo giovane’ di Cien Anos – in cui perfino la guerriglia del colonnello Buendía era ascritta all’ordine superiore
nel mito – ha perso la sua verginità. Una risposta obbligata alla storia contemporanea, anche qui? Nient’affatto: più semplicemente, la risposta di
Márquez – al mercato, il compito di giudicarla.
Giravolte, errori, scoperte casuali, recupero di materiali abbandonati –
“le cose più strane e diverse, pezzi di spago o di legno, vecchi cartoni”…25
Ma insomma, è davvero l’autore, il soggetto della storia letteraria? Dipende da quale storia si vuole rappresentare, non c’è dubbio; eppure, più si
guarda la morfologia dei testi, e più l’evoluzione del romanzo appare
quello che è, un guazzabuglio di tentativi, in cui – nelle fasi di latenza del
paradigma – ciascuno impara e disimpara continuamente, torna sui suoi
passi, accantona la soluzione giusta per riscoprirla chissà come più avanti.
Ora, allo stato attuale – e, va da sé, date soprattutto le mie competenze –
non sono in grado di proporre una valutazione complessiva dell’approccio evolutivo (tra breve, comunque, ne discuterò alcuni limiti); ma di certo, questa mi sembra la sua conquista maggiore: sottrarre la storia della
cultura ad ogni ipoteca idealista, e restituirla al profilo irregolare, e quindi
assai più interessante, delle sue condizioni materiali.
Gli adattamenti biologici sono “straordinari ma goffi”, scrivono Cavalli Sforza, Menozzi e Piazza, “come se fossero il risultato di continui aggiustamenti […] non secondo un disegno preciso, ma attraverso tentativi
ed errori, in un processo storico dettato dall’occasionale verificarsi di mutazioni spontanee in momenti e luoghi particolari”.26 Continui ‘adattamenti funzionali’, che portano ad un risultato straordinario, ma goffo: che
nasca qui, un genere letterario, anziché dal fuoco che brucia nell’anima?
IV. Da ultime, alcune considerazioni sul modello darwiniano, che cercano di rispondere ad un paio di dubbi cresciuti nel corso di questo lavoro:
25
François Jacob, Evoluzione e bricolage. Gli ‘espedienti’ della selezione naturale, Torino:
Einaudi, 1978, p. 17.
26
Luigi Luca Cavalli Sforza, Paolo Menozzi e Alberto Piazza, op. cit., p. 19.
44 /
ANDREA MICONI
se davvero un singolo fattore può essere considerato decisivo in un processo evolutivo; e, come valutazione complessiva, fino a che punto è sostenibile l’analogia con le leggi dell’evoluzione.
Quanto al primo argomento – se un singolo fattore può essere considerato decisivo in un processo evolutivo – rispondo brevemente, e onestamente, di no. L’ho già anticipato: il realismo magico, come il romanzo
poliziesco, costituisce un caso certamente privilegiato, in cui un elemento
morfologico è (probabilmente) sufficiente a caratterizzare il genere. Può
darsi che esistano altri casi paragonabili (non so: il tema dell’amore nel
romanzo rosa), ma di certo, nella enorme maggioranza dei casi, le cose
stanno diversamente, ed è semmai una combinazione di fattori, a risultare decisiva. E anche nel mio caso, per di più, l’approfondimento del modello presuppone sempre un incrocio tra diverse variabili: il senso mitico
unito all’oggettività malinconica del monologismo, si è detto del romanzo del boom; il mito raccontato in forma eterodiegetica, quanto a Cent’anni di solitudine; un incontro tra i temi ed i luoghi, ho ripetuto più volte, e
più in generale, del romanzo latinoamericano. E questi sono, appunto,
incroci tra diverse variabili di analisi. E allora, come se ne esce?
Se ne esce, credo, con una soluzione molto usata nelle scienze naturali
e nella ricerca sociale, che è l’analisi multivariata: l’uso sincronico di una
serie di variabili. Ma questa è una storia tutta da scrivere, perché l’analisi
multivariata presuppone un paio di passaggi essenziali – la scelta del campione di analisi, e soprattutto la quantificazione delle variabili – che sono
il pane quotidiano di tanti ricercatori, ma ancora un oggetto misterioso,
per chi si occupa di letteratura. Staremo a vedere.
E infine, che dire della grande eresia di un modello ispirato alle scienze naturali? Quello che ci interessa, ha scritto un secolo fa Georg Simmel,
non è l’analogia tra “le realtà della società e dell’organismo”, ma “l’analogia del metodo di trattazione”27: non è sulla biologia che bisogna appiattire lo studio dei fatti sociali, insomma, ma sulle leggi dell’evoluzione biologica. Leggi di evoluzione, ma del campo letterario: qualcuno provò anche
a fissarle, verso la fine del XIX secolo (esistenza; differenziazione; fissazione; azione dei modificatori; trasformazione),28 ma si trattava davvero di
27
Georg Simmel, Soziologie (1908), trad. it. a cura di Alessandro Cavalli, Sociologia, Torino: Comunità, 1998, p. 21.
28
Ferdinand Brunetière, L’evolution des genres dans l’histoire de la letterature (1890),
trad. it. a cura di Paolo Bagni, L’evoluzione dei generi nella storia della letteratura, Parma:
Pratiche, 1980, pp. 15-16.
DAL REAL MERAVILLOSO AL REALISMO MAGICO
/ 45
un positivismo un po’ rozzo. Ma ora, c’è da chiedersi, è davvero necessario rifarsi al paradigma evoluzionista? O non basta, magari, lavorare su
una ‘morfosfera’, uno ‘spettro’ delle variazioni tecnico-stilistiche (basato
sul concetto di canonizzazione di Šklovskij, ad esempio)? Insomma, va
bene una storia letteraria come storia delle forme (si fa per dire: è cosa
tutt’altro che accettata, purtroppo); va bene la diversificazione morfologica e lo strozzatura del canone; ma poi Darwin, serve davvero? Domanda
complessa, secondo me: a cui, infatti, non so proprio rispondere. Sì e no,
direi, se dovessi basarmi sulle mie conoscenze attuali.
No, perché un approccio propriamente evoluzionista richiede un lavoro su scala molto più ampia, rispetto, ad esempio, al caso che ho cercato
di proporre. E questo perché un modello evolutivo ha bisogno di individuare un momento di origine delle tecniche prese in esame – e in questo
il realismo magico, la struttura indiziaria del poliziesco, o lo stile indiretto
libero, a modo loro, costituiscono ancora dei casi privilegiati. Tuttavia,
più in generale, se accettiamo che la storia letteraria non funzioni per invenzione di nuove forme, ma per adattamento dei materiali esistenti –
“mutamento di funzione”, secondo i formalisti russi –29 apparirà come,
nella grande maggioranza dei casi, questo momento di origine sia di fatto
impossibile da localizzare, o perso in tempi lontanissimi. E allora, una
storia evolutiva delle tecniche letterarie sembra recuperabile appunto su
una scala molto ampia – quella, insomma, di una geografia letteraria
comparata aperta a mutamenti e trasformazioni che durano secoli (le innovazioni morfologiche), e magari a volte millenni (la lunga durata dei
temi epico-mitici). Un progetto straordinario, un po’ sulla linea della storia economica di lunga durata, o della Storia e geografia dei geni umani: e
per questo, diciamolo pure, realisticamente improponibile.
Sì, invece, se si concorda sulla necessità di una meta-teoria, di un paradigma capace di orientare le analisi testuali (ed è difficile non concordare) – e se si accetta di prendere, in parole un po’ rozze, il meno peggio che
si ha a disposizione (parole rozze, per un concetto nobile: scegliere il meno peggio, o la spiegazione più probabile, è la logica stessa della ricerca
scientifica). E allora, rispetto alle alternative – la metafisica paralizzante
delle categorie di sintesi; la dottrina normativa delle humanities; il pasticciato paradigma della sociologia del romanzo; lo sfrenato individualismo
29
Jurj Tynjanov, “O literaturnoj evoljucii” (1927), trad. it. “L’evoluzione letteraria”, in
Tzvetan Todorov (a cura di), I formalisti russi, Torino: Einaudi, 1968, pp. 125-43.
46 /
ANDREA MICONI
metodologico del postmoderno – il pur delicato modello darwiniano offre, di certo, almeno un vantaggio (oltre al vantaggio generale: quel rigore
‘un po’ calvinista’ della ricerca, proprio delle scienze naturali, che tanto
male non farebbe). L’origine delle specie:
sembra incredibilmente assurdo che la selezione naturale possa aver formato l’occhio, con tutti i suoi inimitabili congegni […]. Tuttavia […] se
è possibile dimostrare che esistono numerose gradazioni da un occhio
perfetto e complesso ad un altro molto imperfetto e semplice […] allora
la difficoltà di credere che, grazie alla selezione naturale, si possa formare
un occhio perfetto […] cessa di essere consistente.30
La perfezione come anomalia, che si spiega soltanto sullo sfondo delle
mille forme imperfette proprie dell’evoluzione: e allora, per quanto ci riguarda, la storia letteraria come un dialogo continuo tra generi alti e bassi, tra forme canoniche e non canoniche (come nel disegno teorico di
Šklovskij e Bachtin) – una storia per cui la lettura ossequiosa dei capolavori non basta più, ma quello che conta è il perché alcune opere risaltano
sullo sfondo di tanta letteratura normale (e solo un’analisi comparata, qui,
può essere produttiva).
L’imperfezione: ecco il vantaggio (e Moretti, in effetti, ci ha lavorato già
da Opere mondo). Una storia letteraria irregolare, dominata dalla casualità
delle variazioni morfologiche, nelle fasi di apertura, e dalla codifica di un
genere, vincente sulle ‘linee minori’, nelle fasi di stabilità (questo, almeno,
in una versione della teoria evoluzionista, quella degli ‘equilibri punteggiati’). Una oscillazione continua tra lunghe fasi di stabilità, e di imitazione
del canone, e brevissime ma brucianti fasi di strappo, in cui i paradigmi si
incrinano, e la risposta casuale attiva la concorrenza per la definizione di
un nuovo canone. Lunghe parentesi di stabilità, e brevi periodi di rottura –
ma non è una cosa già sentita? Altroché: è la logica dell’evoluzione biologica in una delle sue versioni forti, come detto; ma anche dei grandi sistemi
dell’economia-mondo (i rarissimi passaggi di egemonia);31 delle rivoluzioni
30
Charles Darwin, The Origin of Species (1859), trad. it. a cura di Pietro Omodeo, L’origine delle specie, Roma: Newton Compton, 2000, pp. 176-77.
31
“Ogni volta che si ha un décentrage, si opera una polarizzazione attorno ad un nuovo
centro, come se ogni economia-mondo non potesse vivere senza un centro di gravità, senza un polo. Questi processi di décentrage e récentrage sono comunque rari e, per questo, tanto più importanti”. Fernand Braudel, La dynamique du capitalisme (1977), trad. it. di Giuliana Gemelli, La dinamica del capitalismo, Bologna: Il Mulino, 1981, p. 80; corsivo aggiunto.
DAL REAL MERAVILLOSO AL REALISMO MAGICO
/ 47
del sapere (i paradigmi di Kuhn);32 dello sviluppo delle tecnologie della conoscenza (le fasi di Innis);33 della storia del costume e delle mentalità (le
Annales). Una storia letteraria, insomma, più vicina ai cicli della storia generale (anche se destinata a rispondere con regole sue proprie, che sono
quelle della forma) – e una storiografia letteraria, di conseguenza, più vicina ai procedimenti della altre scienze. Se la posta in gioco è questa, come
mi sembra, è un’occasione da non lasciarsi scappare.
Appendice
Cronologia delle opere analizzate
1926
1930
1933
1934
1935
Don Segundo Sombra, Ricardo Guiraldes
Il paese del carnevale, Jorge Amado
Cacao, Jorge Amado
Huasipungo, Jorge Icaza
Jubiabà, Jorge Amado
Canaima, Romulo Gallegos
1936
Mar Morto, Jorge Amado
1937
Capitani della spiaggia, Jorge Amado
1938
I cani affamati, Ciro Alegría
1941
L’invenzione di Morel, Adolfo Bioy Casares
Museo del romanzo della Eterna (primo romanzo bello), Macedonio Fernández
Tutto il verde perirà, Eduardo Mallea
Il mondo è grande e alieno, Ciro Alegría
1942
Terre del finimondo, Jorge Amado
Per questa notte, Juan Carlos Onetti
1944
I padroni della terra [São Jorge dos Ilhéus], Jorge Amado
1944-46 Racconti, José Lezama Lima
1945
Piano d’evasione, Adolfo Bioy Casares
1946
Messe di sangue, Jorge Amado
Il duello, João Guimarães Rosa
L’ora e il momento di Augusto Matraga, João
Guimarães Rosa
1947
Nessuno accendeva le lampade, Felisberto
Hernández
1948
Il tunnel, Ernesto Sabato
1949
Il regno di questo mondo, Alejo Carpentier
1950
La vita breve, Juan Carlos Onetti
1951
Bestiario, Julio Cortázar
1953
I passi perduti, Alejo Carpentier
La morte al Messico, Juan Rulfo
La pianura in fiamme, Juan Rulfo
1954
Tempi difficili, Jorge Amado
Sudore, Jorge Amado
32
1955
1956
1957
1958
1960
1961
1962
1963
Fine del gioco, Julio Cortázar
Agonia della notte, Jorge Amado
La luce in fondo al tunnel, Jorge Amado
Il sogno degli eroi, Adolfo Bioy Casares
Foglie morte, Gabriel García Márquez
Evaristo Carriego, Jorge Luis Borges
Pedro Páramo, Juan Rulfo
La fucilazione, Alejo Carpentier
Il Signor Presidente, Miguel Angel Asturias
Miguilim, João Guimarães Rosa
Uomini di mais, Miguel Angel Asturias
Gabriella garofano e cannella, Jorge Amado
La via lattea, Alejo Carpentier
Ritorno alle origini, Alejo Carpentier
Festa di sangue, José María Arguedas
L’ombelico della luna, Carlos Fuentes
Figlio di uomo, Augusto Roa Bastos
Gli occhi che non si chiudono, Miguel Angel
Asturias
Nessuno scrive al colonnello, Gabriel García
Márquez
Due storie del porto di Bahia, Jorge Amado
La mala ora, Gabriel García Márquez
Storie di cronopios e di famas, Julio Cortázar
Il secolo dei lumi, Alejo Carpentier
I funerali della Mamà Grande, Gabriel García
Márquez
Vento forte, Miguel Angel Asturias
La morte di Artemio Cruz, Carlos Fuentes
La città e i cani, Mario Vargas Llosa
Aura, Carlos Fuentes
I Peruviani, Ciro Alegría
Grande Sertão, João Guimarães Rosa
I sette pazzi, Roberto Arlt
La bomba dell’Avana, Severo Sarduy
Thomas S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions (1962), trad. it. di Adriano
Cargo, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino: Einaudi, 1995.
33
Harold A. Innis, Empire and Communications (1950), trad. it. a cura di Andrea Miconi, Impero e comunicazioni, Roma: Meltemi, 2001.
48 /
1964
1965
1966
1967
1968
1969
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
ANDREA MICONI
I lanciafiamme, Roberto Arlt
Così in pace così in guerra, Guillermo Cabrera
Infante
Mulatta senza nome, Miguel Angel Asturias
I guardiani della notte, Jorge Amado
Il persecutore, Julio Cortazar
Tre tristi tigri, Guillermo Cabrera Infante
La casa verde, Mario Vargas Llosa
Il gioco del mondo, Julio Cortázar
Il posto che non ha confini, José Donoso
Dona Flor e suoi due mariti, Jorge Amado
Cent’anni di solitudine, Gabriel García Márquez
Cambio di pelle, Carlos Fuentes
Il mondo allucinante, Reinaldo Arenas
Conversazione nella “Catedral”, Mario Vargas
Llosa
La bottega dei miracoli, Jorge Amado
Il ladrone, Miguel Angel Asturias
Diario della guerra al maiale, Adolfo Bioy Casares
Rulli di tamburo per Rancas, Manuel Scorza
Racconto di un naufrago, Gabriel García Márquez
L’osceno uccello della notte, José Donoso
Il banchetto di Severo Arcangelo, Leopoldo
Marechal
Il manoscritto di Brodie, Jorge Luis Borges
I fiumi profondi, José Maria Arguedas
La volpe di sopra e la volpe di sotto, José Maria
Arguedas
Storia di Garabombo, l’invisibile, Manuel
Scorza
La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata, Gabriel
García Márquez
Cobra, Severo Sarduy
Teresa Batista stanca di guerra, Jorge Amado
Triste, solitario y final, Osvaldo Soriano
Pantaleòn e le visitatrici, Mario Vargas Llosa
Dormire al sole, Adolfo Bioy Casares
Io il supremo, Augusto Roa Bastos
Concerto barocco, Alejo Carpentier
Tutte le stirpi, José Maria Arguedas
Il sexto, José Maria Arguedas
Il ricorso del metodo, Alejo Carpentier
L’autunno del patriarca, Gabriel García Márquez
Il libro di sabbia, Jorge Luis Borges
Il bacio della donna ragno, Manuel Puig
Vita e miracoli di Tieta d’Agreste, Jorge Amado
La zia Julia e lo scribacchino, Mario Vargas
Llosa
La ricerca del giardino, Héctor Bianciotti
Il cavaliere insonne, Manuel Scorza
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1988
1989
1990
1991
1992
1994
2001
Alte uniformi e camicie da notte, Jorge Amado
La vampata, Manuel Scorza
L’Avana per un infante defunto, Guillermo
Cabrera Infante
L’arpa e l’ombra, Alejo Carpentier
Tanto amore per Glenda, Julio Cortázar
Il gallo d’oro, Juan Rulfo
La misteriosa scomparsa della marchesina di
Loria, José Donoso
Le relazioni lontane, Carlos Fuentes
Cronaca di una morte annunciata, Gabriel
García Márquez
La guerra della fine del mondo, Mario Vargas
Llosa
Mascarò, il cacciatore americano, Haroldo
Conti
La casa degli spiriti, Isabel Allende
L’amore non è amato, Héctor Bianciotti
L’arcano, Juan José Saer
La danza immobile, Manuel Scorza
Artisti, pazzi e criminali, Osvaldo Soriano
Tocaia grande, Jorge Amado
Storia di Mayta, Mario Vargas Llosa
L’amore ai tempi del colera, Gabriel García
Márquez
Il gringo vecchio, Carlos Fuentes
L’avventura di un fotografo a La Plata, Adolfo
Bioy Casares
La neve dell’ammiraglio, Álvaro Miutis
Chi ha ucciso Palomino Molero?, Mario Vargas
Llosa
La resa del leone, Osvaldo Soriano
Le avventure di Miguel Littín, clandestino in
Cile, Gabriel García Márquez
Memoria del fuoco, Eduardo Galeano
Elogio della matrigna, Mario Vargas Llosa
Ilona arriva con la pioggia, Álvaro Mutis
L’ultimo scalo del Tramp Steamer, Álvaro Mutis
Santa Barbara dei fulmini, Jorge Amado
La notte delle stelle azzurre, Hector Bianciotti
Il generale nel suo labirinto, Gabriel García
Márquez
Il mondo alla fine del mondo, Luis Sepùlveda
Armibar, Álvaro Mutis
Un’ombra ben presto sarai, Osvaldo Soriano
Abdul Bashur, sognatore di navi, Álvaro Mutis
Il piano infinito, Isabel Allende
Una bambola russa, Adolfo Bioy Casares
I turchi alla scoperta dell’America, Jorge Amado
Dell’amore e di altri demoni, Gabriel García
Márquez
La frontiera scomparsa, Luis Sepùlveda
La metà di una vita, Viadiadhar Surajprasad
Naipaul
§
PARAGRAFO
II
forme
§
3
Claudio Cattaneo
Cornici per un assassinio
I confini del testo in Libra di Don DeLillo
Ora sono un unico corpo, una massa indifferenziata e la
cosa lo turba.
Don DeLillo, Mao II, 1991
All’uscita di Libra, nel 1988, era lecito chiedersi cosa si potesse ancora
raccontare sull’assassinio di Kennedy, e se fosse possibile offrire un nuovo
sguardo su quei “sette secondi che hanno spezzato la schiena al secolo
americano”.1 Esito di un percorso quasi sterminato di ricerche, indagini e
narrazioni a diverso gradiente di finzionalità, il romanzo di Don DeLillo
s’inserisce obbligatoriamente in uno spazio discorsivo denso e vasto in cui
convergono testi di natura e origini diversissime. Questo apparato testuale non viene né abolito né ridimensionato bensì inglobato in un progetto
ambizioso che si prefigge di indagare la testualità dell’evento più che inseguirne la verità storica. Una lettura intertestuale, più volte sollecitata per
le opere di DeLillo,2 risulta fondamentale alla comprensione di Libra, dato che l’istanza intertestuale in questo caso non è solo e non tanto una
chiave di lettura quanto la chiave di ‘scrittura’, per così dire, del romanzo:
non effetto contingente, bensì elemento fondante. Forza e bellezza di
1
Don DeLillo, Libra, trad. it. di Massimo Bocchiola, Torino: Einaudi, 2000, p. 172. In
seguito citato con il numero di pagina, tra parentesi, nel testo.
2
Si vedano in tal senso Thomas Carmichael “Lee Harvey Oswald and the Postmodern
Subject: History and Intertextuality in Don DeLillo’s Libra, The Names and Mao II”,
Contemporary Literature, 34, 1993, pp. 204-18; Anne Longmuir, “The Language of History: Don DeLillo’s The Names and the Iranian Hostage Crisis”, Critique, 46:2, 2005,
pp. 105-22; François Happe, “La conspiration du hasard. Histoire et fiction dans Libra de
Don DeLillo”, Revue Française d’Études Américaines, 68, 1996, pp. 98-107; e Joseph Kronick, “Libra and the JFK Assassination: A Textbook Operation”, Arizona Quarterly, 50:1,
1994, pp. 109-32.
PARAGRAFO II (2006), pp. 51-68
52 /
CLAUDIO CATTANEO
questo romanzo risiedono infatti non tanto in ciò che esso ‘dice’ ai lettori
quanto nel chiedere loro di assumere un ruolo primario nella costruzione
del suo significato in qualità di ‘persone (in)formate sui (dai) fatti’, testimoni dell’avvenimento del testo nel momento della sua fruizione. Libra si
rivela così testo dinamico e multiplo, strumento di riflessione sulla capacità di lettura (e scrittura) del reale e sul coinvolgimento del lettore in
questo processo di ricostruzione.
Al romanzo giova dunque uno schema concettuale che valorizzi il suo
aspetto di apertura e il suo alto coefficiente ‘comunicativo’ e che, allo
stesso tempo, sottolinei l’importanza dei suoi limiti (nel senso topografico di confine), i quali rivestono il ruolo, paradossale certo, di indicatori
proprio della sua ‘porosità’. Non va infatti dimenticato che, nonostante
l’apertura al multiforme e vasto apparato di testi che lo precedono sulla
scena dell’assassinio Kennedy, DeLillo deve in qualche modo ‘scartare’ e
filtrare per cercare di ‘far stare’ l’assassinio dentro un romanzo. Un ideale
modello di analisi dovrà dunque dar conto di un romanzo che, inquadra
e stabilizza sì la sua narrazione ma non la sigilla da tutto ciò che l’ha preceduta (né, soprattutto, da quanto la seguirà), e resta sospeso in una dialettica insolubile tra apertura e chiusura, e tra un ‘dentro’ e un ‘fuori’.
Proprio su tali presupposti si fonda il modello del framing, in accordo
al quale un testo non è interpretabile in quanto entità assoluta e conclusa,
ma in relazione ad altri testi e agli eventuali sottotesti al suo interno.3
L’ambiente comunicativo o spazio discorsivo in cui opera un testo non è
pre-esistente ad esso ma scelto, generato e modificato continuamente. A
differenza del termine contesto, che rischia spesso di indicare uno strumento aproblematico di ricostruzione del significato testuale, il framing è,
per dirla con Jonathan Culler, “qualcosa che facciamo”,4 un’azione e non
un insieme statico di riferimenti. Ogni atto di lettura è così un atto di
3
Va sottolineato che l’inglese framing (da frame, ‘cornice’), implica più significati. In
primo luogo, traduce l’italiano ‘incorniciare’, ovvero l’includere un oggetto, fisico o ideale,
entro dei confini o limiti ben riconoscibili. Esso rende però anche ‘inquadrare’, ossia l’individuare un oggetto, anche nel senso visivo dell’inquadratura cinematografica o, come avviene in Libra, di un mirino di fucile. Infine, framing significa ‘incastrare’, ‘tendere una
trappola’ a qualcuno per farlo apparire colpevole. Tutti questi significati sono veicolati, articolati e sfruttati sia dal modello di indagine qui adottato, che delimita, inquadra e incastra gli elementi di Libra, sia dal romanzo stesso, in cui l’azione dei cospiratori, dalla pianificazione fino all’esecuzione, non può prescindere dal framing, in tutte le sue accezioni.
4
Jonathan Culler, Framing the Sign: Criticism and its Institutions, Oxford: Blackwell,
1988, p. ix. Dove non altrimenti indicato, la traduzione è mia.
CORNICI PER UN ASSASSINIO
/ 53
framing perché il testo va prima di tutto isolato da una serie di altri testi,
ovvero da una serie di riferimenti esterni. Allo stesso tempo, una volta incorniciato, il testo va anche confrontato con altre ‘cornici’. Incorniciare
(framing) significa dunque demarcare “in modo biunivoco ovvero contemporaneamente inclusivo e esclusivo”.5 La relazione che il testo instaura
con le altre istanze testuali, siano queste esterne o sottounità testuali interne, si colloca su vari livelli e ad ognuno di questi corrisponde una cornice differente.
i) La cornice ‘extratestuale’ (extratestual framing) si identifica con le
conoscenze che il lettore ‘porta’ con sé, con i pre-concetti o l’enciclopedia
che influenzano la sua interpretazione, tra cui, ad esempio, le informazioni generiche in merito alla letteratura (conoscenze e aspettative di genere)
o quelle specifiche sul singolo testo.
ii) La cornice ‘circumtestuale’ (circumtextual framing) è costituita dall’oggetto-libro e dai suoi confini ‘tattili’ (copertina, sovraccoperta, etc.).6
iii) Ulteriore cornice è quella ‘intratestuale’ (intratextual framing), la
quale comprende la suddivisione in sezioni (capitoli, paragrafi), i segni
grafici (corsivi, stacchi, illustrazioni), le note, le frasi ripetute come Leitmotiv e, in genere, “ogni componente che può improvvisamente alterare
la modalità attraverso cui un lettore comprende e percepisce il testo”.7
iv) Infine – prossima a quella extratestuale per il suo rimando a conoscenze pregresse ma con riferimento specifico alla conoscenza di testi in
qualche modo imparentati con quello in analisi – è la cornice ‘intertestuale’ (intertextual framing), in cui il testo segnala quanto la sua struttura
dipenda “allo stesso tempo dalla somiglianza e dalla differenza con certi
altri tipi di testi” e come esso contribuisca a modificare “il sistema discorsivo precedente”.8
5
Ian Reid, “Framing the Text”, in Id., Narrative Exchanges, London: Routledge, 1992,
pp. 40-58.
6
È evidente il richiamo alle ‘soglie’ testuali di Genette. Se ciò emerge in maniera emblematica per questa ‘cornice’, che ricalca approssimativamente il paratesto genettiano, è
l’intero schema, come riconosce lo stesso Reid, ad essere debitore delle intuizioni dello
studioso francese, il cui apporto in tale ambito resta fondamentale. Si vedano tra gli altri
Gérard Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris: Seuil, 1982, trad. it. di
Raffaella Novità, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino: Einaudi, 1997 e Id.,
Seuils, Paris: Seuil, 1987, trad. it. a cura di Camilla Maria Cederna, Soglie. I dintorni del
testo, Torino: Einaudi, 1989.
7
Ian Reid, op. cit., p. 49.
8
Ivi, p. 51.
54 /
CLAUDIO CATTANEO
Frame I. L’assassinio
In Libra è la cornice extratestuale a imporsi come espressione massima della
forte tendenza del romanzo allo scambio dialogico – il quale assume, a tratti, anche i connotati di una lotta – con l’apparato discorsivo creatosi sull’assassinio Kennedy. Quello che per molti si può considerare l’Assassinio per
antonomasia segna il destino di Nicholas Branch, ex agente della CIA in
pensione cui viene affidato l’incarico di scrivere la storia dell’attentato, paradossalmente destinata a rimanere “segreta”, la storia che “forse nessuno
leggerà mai” (p. 58). Branch svolge la sua missione chiuso in una stanza destinata ad archivio per i materiali relativi ai fatti di Dallas che un misterioso
Curatore gli fa pervenire durante i quindici anni della sua indagine. Simbolo di una storiografia tradizionale, legata ad una concezione che intuisce la
Storia come lineare e teleologica, egli non riesce a gestire l’ipertrofia dei dati e dei reperti sull’assassinio, documenti di ogni tipo che sembrano prendere vita propria come una massa inarrestabile che divora la sua esistenza.
La carta di “libri e documenti” di cui è ormai coperto anche il pavimento
inizia infatti a “scivolar fuori dalla stanza, varca la soglia, invade la sua casa”
(p. 352). Branch si scontra disperatamente contro la materia e, come un
marinaio che cerca di tappare una falla a mani nude, “[d]eve spingere sempre nuovi libri negli scaffali, incastrarli a forza, inserirli di sbieco, comprimere tutto, serbare tutto”. Nonostante questo, “[l]’afflusso di materiale
continua” (p. 352). Branch condivide così il destino del lettore alle prese
con i misteri che avvolgono l’assassinio e deve farsi faticosamente strada attraverso la molteplicità narrativa dei documenti con una storia che, creando una selezione, stabilisca dei confini e offra un disegno coerente.
Secondo John Johnston, tale personaggio ricoprirebbe perciò un doppio ruolo. Da un lato, rappresenterebbe il fallimento di un resoconto “rigorosamente storico e governato empiricamente”, condannato dall’incapacità di dominare la “molteplicità dell’informazione che prolifera dall’evento, di rappresentarlo come una totalità coerente, ancor meno di spiegarlo”.9 D’altro canto, farebbe anche da diga all’afflusso di dati all’interno
del romanzo, rendendone possibile la scrittura (e la lettura). La posizione
di Johnston è per molti versi condivisibile. Tuttavia, Branch è una diga
sull’orlo della distruzione, un eroe tragico di cui vengono impietosamente
9
John Johnston, “Fictions of the Culture Medium: The Novels of Don DeLillo”, in
Id., Information Multiplicity: American Fiction in the Age of Media Saturation, Baltimore:
Johns Hopkins University Press, 1998, pp. 190-91.
CORNICI PER UN ASSASSINIO
/ 55
evidenziati l’inettitudine e i fallimenti e che dopo anni di ricerche è in
grado di produrre solo poche righe della sua improbabile storia dell’assassinio, concludendo che “è prematuro fare lo sforzo di attribuire alle note
una coerenza storica. Forse sarà sempre prematuro. Perché i dati continuano ad affluire” (p. 281). È vero, momentaneamente Branch “sigilla il
resto del romanzo dalla contaminazione di un caos inintelligibile”.10 È
anche vero, d’altro canto, che egli non può nulla contro la pervasività del
retroterra enciclopedico che il lettore porta inesorabilmente con sé.
Al contrario, l’impossibilità di chiudere la stanza dei documenti è sintomatica del fallimento che DeLillo ha abilmente ‘pianificato’ per poter lasciare ‘aperta’ la storia sull’attentato. La stanza di Branch diviene il simbolo
dell’apertura del romanzo in una relazione di reciprocità tra interno ed
esterno. La carta esce dalla stanza e, quindi, dal romanzo. Più precisamente, la carta è sintomo di un romanzo che fuoriesce dai propri confini per
invadere la realtà extratestuale, quella del lettore. A sua volta, il lettore è invitato ad entrare nella stanza di Branch come in una biblioteca, a prendere
in prestito, esaminare e, soprattutto, dare il proprio apporto. Oltre al significato astrologico (‘Libra’ è il segno della Bilancia, quello dell’attentatore
della storiografia ufficiale e protagonista del romanzo, Lee H. Oswald),11 il
titolo ci riporta inequivocabilmente all’inglese librarian, ‘bibliotecario’, e
dunque a ‘libro’, a sottolineare una sorta d’autocoscienza della materia (la
minacciosa massa dei documenti sull’assassinio) e la vocazione ad una forma di ‘libro perfetto’ che ricorda tanto i paradossi della Biblioteca di Borges quanto i giochi linguistici di Joyce. Per Branch, il Rapporto Warren è
“il romanzo esplosivo che Joyce avrebbe scritto se si fosse trasferito a Iowa
City e fosse campato cent’anni”, ovvero il “Libro Joyciano dell’America, ricordate – il romanzo che non lascia fuori niente” (p. 172).12 Anche Libra
10
Ivi, p. 191.
La Commissione Parlamentare incaricata di indagare nuovamente sugli omicidi politici dei Kennedy e di Martin Luther King stabilì che l’assassinio di John Kennedy fu frutto di un complotto, confermò Oswald come l’esecutore o uno degli esecutori materiali,
ma non indicò né il numero né i nomi degli eventuali complici. Cfr. House Select Committee on Assassinations, Final Report of the Select Committee on Assassinations, U.S. House
of Representatives, Ninety-Fifth Congress, Second Session. Assassination Report, Washington:
U.S. Government Printing Office, 1979.
12
Sul rapporto tra Libra e la relazione finale della Commissione Warren si vedano ad
esempio Joseph Kronick, op. cit., e Anthony DeCurtis, “‘An Outsider in This Society’: An
Interview with Don DeLillo” (1982), trad. it. “Emarginati, assassini, misteri”, in AA.VV.,
Tra due oceani. Interviste con gli scrittori di “Linea d’ombra” (1983-1991), Milano: Linea
d’ombra, 1991, pp. 171-95.
11
56 /
CLAUDIO CATTANEO
aspira a questa universalità, sebbene in chiave negativa, in una combinazione di rassegnazione di fronte all’evidenza, e pianificazione perfetta ad opera
di DeLillo. Il romanzo non può includere ogni tassello non solo per i suoi
limiti ontologici ma perché viene meno la possibilità di distinguere nettamente i confini tra un ‘dentro’ e un ‘fuori’, categorie ormai confuse: come
escludere o includere alcunché se non si è in grado di dire dove è il dentro
e dove è il fuori? Ma proprio per questo tutto è incluso: perché nulla può
essere radicalmente escluso.
Si può perciò affermare che Libra rappresenti il paradosso dell’apertura: aprendosi a tutti i testi che narrano i fatti che lo costituiscono e includendoli ‘fisicamente’ in uno spazio al suo interno (la stanza di Branch),
Libra include anche se stesso in questa stanza dato che esso è a sua volta
fra i testi stessi. Non a caso, il Curatore fa pervenire a Branch non solo
documenti, prove e riscontri di ogni tipo, ma anche “letteratura, venticinque anni di romanzi e opere teatrali” (p. 411), e ci si chiede se in questo corpus letterario non ci debba essere anche il romanzo che stiamo leggendo. Come l’universo, infinito ma richiuso su se stesso, questo romanzo include se stesso al proprio interno in quanto parte integrante del discorso che rappresenta. Libra ha insomma la stessa morfologia paradossale di una striscia di Möbius, figura della geometria topologica. Nella sua
configurazione più elementare, una striscia di Möbius è costituita da una
striscia rettangolare a due superfici dalla quale, attraverso la congiunzione
plastica ‘ideale’ dei vertici opposti dei due lati brevi, si ottiene una nuova
figura in cui non è più possibile distinguere tra superficie interna e esterna, ‘fuse’ misteriosamente in un’unica superficie che, appunto, non è
orientabile, come mostra ad esempio la Band van Moebius II (1963) di
Maurits C. Escher.
Le formiche marciano in due file indiane su una figura tridimensionale apparentemente a doppia superficie. In realtà, se si segue mentalmente
il percorso di ognuna di loro, ci si rende conto che non esiste una differenza tra superficie interna o esterna e che le formiche marciano tutte in
un’unica fila e su un’unica superficie che è, appunto, non orientabile.
‘Dentro’ e ‘fuori’ diventano, in altri termini, categorie fluttuanti e interscambiabili.
Anche in Libra ciò che è incluso nel romanzo si ritrova contemporaneamente al suo esterno e il romanzo stesso è parte ideale di quell’ammasso di testi che compare in più di una scena narrata. Questa ambivalenza – questa ‘chiusura aperta’ – non è relegata infatti alla dimensione
CORNICI PER UN ASSASSINIO
/ 57
narrativa ma si estende all’esperienza ‘fisica’ del ‘circumtesto’. Nell’edizione originale americana (apparsa per i tipi della Viking) la copertina rimanda di nuovo alla conoscenza extratestuale ma, allo stesso tempo, alla
narrazione testuale vera e propria, ovvero a ciò che si legge nel romanzo.
Su espressa richiesta dell’autore,13 essa riporta infatti una foto che ritrae
Oswald in atteggiamento da rivoluzionario, con il fucile in una mano e
nell’altra le copie di The Worker e di The Militant, riviste della sinistra militante. Questa foto, che compare nella narrazione come omaggio di
Oswald al faccendiere George de Mohrenschildt (tra l’altro su due diversi
piani narrativi: quello vero e proprio, e quello meta delle vignette di
Branch), fuoriesce dalla narrazione e si ‘fissa’ sulla copertina, supporto visibile e palpabile, estendendo i confini fisici del romanzo.14 Libra si arricchisce così di un’estensione ‘möbiusiana’, realizzando in qualche modo
13
Cfr. Anthony DeCurtis, op. cit., p. 182.
La foto fu consegnata dalla moglie di de Mohrenschildt alla Commissione Parlamentare sugli assassinii dei fratelli Kennedy e del reverendo King. Non manca chi ritiene che si
tratti di un fotomontaggio, e chi sostiene la teoria del complotto aggiunge alle perplessità
tecniche il fatto ‘sospetto’ che la foto sia stata ritrovata solo parecchi anni dopo l’attentato,
traendone un’ulteriore prova della manomissione della verità storica da parte dei cospiratori. Accompagnato da queste perplessità, il ritratto da ‘militante’ di Oswald è comparso in
molti articoli, dossier e documentari, entrando quindi nella massa di documenti sull’attentato che precedono e seguono Libra. La scelta editoriale voluta da DeLillo funge dunque
da collettore di nuova densità di significati e di interpretazioni; da un lato, si intreccia il romanzo a molte altre narrazioni più o meno note al lettore, dall’altro, si inserisce un elemento paranoico che contamina la ‘soglia’ tra il dentro e il fuori con il sublime senso di ‘fedele
incredulità’ tipica di chi si affida alle spiegazioni cospirative della Storia.
14
58 /
CLAUDIO CATTANEO
ciò che lo scrittore John Crowley ha confessato essere un’aspirazione del
suo scrivere: “Quando leggi dovresti poter dire ‘Aspetta un attimo. Questo è il libro che ho in mano. Mi stanno raccontando della natura del libro che ho in mano’”.15
Frame II. La cospirazione
Tra l’extratesto e l’intratesto si inserisce un’altra dialettica fondamentale a
Libra e che si fa ulteriore metafora tra ‘dentro’ e ‘fuori’, ovvero il rapporto
tra Libra e il genere del ‘romanzo cospirativo’.16 Aperto alle soluzioni tipiche del genere, Libra non si esaurisce infatti in esse ma se ne smarca in un
confronto dinamico.
Il conspiracy novel presenta delle forti connessioni con la sua controparte non-finzionale, dato che il linguaggio delle teorie cospirative è carico a sua volta di una marcata componente narrativa – a prescindere ovviamente dal fatto che le teorie cospirative sono narrazioni di come siano
‘in realtà’ avvenuti determinati eventi storici.17 Un aspetto da rilevare,
speculare a questa doppia relazione, è perciò l’atipicità del romanzo cospirativo, vista la commistione insolubile tra realtà e finzione. Nettamente
riconoscibile è inoltre il prestito di molte soluzioni tematico-formali da
generi precedenti, su tutti il romanzo poliziesco e la spy story, in particolare per la loro enfasi sulla agency dei protagonisti,18 soprattutto dell’eroedetective, e per lo spazio solitamente riservato all’operazione ermeneutica,
alla ricerca della verità (la quest). Non si deve però pensare al detective del
romanzo cospirativo come ad un investigatore o ad un poliziotto in senso
stretto. Piuttosto, può essere una persona che, per attitudine, circostanza
o professione (giornalisti, scienziati, studenti, professori o chiunque si oc-
15
Thomas M. Disch, “The Fact of Magic”, Science Fiction Digest, 1:2, gennaio-febbraio
1982, p. 134.
16
Il tópos della cospirazione raggiunge risultati eccelsi, quando (è il caso di Philip K.
Dick e Thomas Pynchon, i maestri del ‘genere cospirativo’) la paranoia è elevata a vero e
proprio sistema di pensiero, a qualità fondante dell’episteme.
17
Si veda a tal proposito Mark Fenster, Conspiracy Theories: Secrecy and Power in American Culture, Minneapolis: University of Minnesota Press, 2001, pp. 111 e sgg.
18
Con agency si intende l’azione volontaria del singolo e, soprattutto, la possibilità, attraverso di essa, di determinare in maniera autonoma il proprio destino. La cospirazione
elimina lo spazio d’azione dell’individuo, pre-determinando la sua vita. Per questo nell’ambito delle teorie del complotto e del romanzo cospirativo l’aspetto della agency assume
una valenza non solo formale, ma latamente ideologica.
CORNICI PER UN ASSASSINIO
/ 59
cupi di “problemi di conoscenza e sapere”),19 investiga, analizza, e tenta di
costruire tesi che riconducono all’ordine una realtà frammentata.
Il romanzo cospirativo, secondo Steffen Hantke, è riconducibile ai criteri che Edgar Allan Poe ascriveva al racconto ‘di raziocinio’, ovvero un
racconto che si fonda su un plot originato dall’incrocio di due percorsi ermeneutici: quello del lettore che individua il senso del testo, e quello dei
protagonisti che svelano il mistero.20 Il motore dell’investigazione, e del
testo nel suo insieme, è un evento traumatico nell’esistenza del protagonista (“un’apparente coincidenza lo strappa dalla sua quotidianità e dalla
sua routine professionale”)21 che lo costringe a rinegoziare l’ordine del
plausibile e del vero, e lo spinge ad una forma archetipica di quest.
L’enfasi sulla dialettica tra mascheramento e disvelamento ha come
conseguenza la centralità del momento della scoperta della verità – la scoperta di una prova dell’esistenza della cospirazione più che la sua soluzione
e sconfitta – il quale assume valenze escatologiche. Questo snodo cruciale,
assimilato da Mark Fenster a una ‘boa’ narrativa, fa entrare l’eroe stesso
dentro il disegno cospirativo: per lui si apre una nuova ‘era’ perché entra
nella Storia, ovvero nell’insieme delle “più vaste forze politiche, sociali,
economiche e storiche che sono vulnerabili al raggio d’azione della cospirazione”.22 La sua vita, il suo mondo e la sua realtà non saranno più ciò
che erano prima e, in quanto parte integrante (o, più esattamente, integrata) dell’universo dei cospiratori, sarà sottoposto ai medesimi rischi e pericoli con cui devono convivere i nemici della cospirazione. L’azione cognitiva crea un universo alternativo dove il Dasein dell’eroe trova una nuova
collocazione e un nuovo senso. L’atto del naming, ovvero l’individuazione
di colpe e verità, non mira a determinare una verità storica, ma a ritrovare
un’origine mitica del mondo. La rivelazione funge da “telos per l’universo
narrativo” che “legittima retroattivamente l’esistenza di ogni singolo movimento narrativo precedente” e, ovviamente, quella “del testo stesso”.23
Sebbene racconto del ‘complotto del secolo’, Libra si pone in rapporto
19
Steffen Hantke, Conspiracy and Paranoia in Contemporary American Fiction: The
Works of Don DeLillo and Joseph McElroy, Frankfurt: Lang, 1994, p. 7. Si veda anche James Fulcher, “American Conspiracy: Formula in Popular Fiction”, Michigan Quarterly Review, 22, inverno 1983, p. 153.
20
Steffen Hantke, op. cit., p. 14.
21
James Fulcher, op. cit., p. 154.
22
Mark Fenster, op. cit., p. 112.
23
Steffen Hantke, op. cit., p. 15.
60 /
CLAUDIO CATTANEO
ostinatamente dinamico con la tradizione del conspiracy novel, creando
punti di tensione tra le aspettative del lettore e quanto effettivamente gli
viene offerto. La struttura narrativa del romanzo prevede due filoni incrociati a cui si sovrappongono le scene nella stanza di Branch. Un primo filone propone una sorta di biografia di Lee Harvey Oswald, dalla sua infanzia fino al 25 novembre 1963, giorno successivo alla sua morte, avvenuta due giorni dopo quella del presidente. Il secondo filone segue invece, dal 17 aprile al 25 novembre 1963, le vicende di un gruppo di cospiratori (guidato da Win Everett, ex agente della CIA messo forzatamente a
riposo) dalla pianificazione all’esecuzione dell’attentato. Benché non si
possa inizialmente escludere una sorta di ‘colpo di scena’, in cui si scopra
che l’attentatore non sia né Oswald né il gruppo di cospiratori che lo manovra, prevale il senso di predestinazione e di inevitabilità grazie alla maestria di DeLillo, il quale fa ‘cadere’ un filone narrativo dentro l’altro. Come ha sostenuto Ickstadt, il lettore è spinto a credere fin dall’inizio che
Oswald sia l’oggetto dei piani dei cospiratori e ne ha la conferma quando,
dopo essersi rincorsi per tutto il romanzo, i due filoni si sovrappongono
ed uniscono fatalmente il giorno dell’attentato.24 La ‘boa’ narrativa di
Fenster non riguarda perciò la scoperta del complotto ma la scoperta della congiunzione tra l’universo di Oswald e quello della cospirazione che
avviene quando, quasi per caso, Oswald entra nell’ufficio di Guy Banister, un complice di Everett, per offrirsi come volontario anti-castrista.
Oswald è un anti-eroe irretito dalla cospirazione fino a rimanerne ‘vittima’ – un’ulteriore contraddizione – in quanto suo ‘esecutore’. Pur essendo il protagonista del romanzo con cui il lettore tende a simpatizzare,
Oswald non corrisponde alla figura del detective hard-boiled che dovrebbe scoprire, anticipare e, possibilmente, sventare il complotto. Questa figura è sostituita, come nei romanzi cospirativi, da una sorta di investigatore (Branch), la cui missione però fallisce doppiamente: non solo, occupandosi dell’attentato a posteriori, non ha potuto evitare che avvenisse;
anche il suo intervento investigativo è destinato alla sconfitta.
Non si assiste, tuttavia, ad un banale capovolgimento dei sentieri già
battuti e ad una ‘vittoria’ netta della cospirazione: i cospiratori non trionfano, perlomeno non completamente. Everett aveva infatti programmato
24
Cfr. Heinz Ickstadt, “Loose Ends and Patterns of Coincidence in Don DeLillo’s
Libra”, in Bernd Engler e Kurt Muller (a cura di), Historiographic Metafiction in Modern
American and Canadian Literature, Paderborn: Ferdinand Schöningh, 1994, p. 304.
CORNICI PER UN ASSASSINIO
/ 61
un falso attentato (“[n]on colpiremo il presidente. Lo mancheremo. Vogliamo una cilecca spettacolare”, p. 49) per mobilitare l’opinione pubblica sulla questione cubana e per vendicarsi di Kennedy, il quale, secondo i
cospiratori, stava tradendo il suo paese e chi, come loro, aveva rischiato
più volte la vita per liquidare Castro. Il piano di Everett è fallimentare sin
dalle prime fasi di gestazione dato che i complici (fanatici anti-comunisti,
membri o ex-membri dell’intelligence, semplici mercenari) non vogliono
o non possono recepirne la finezza. Il livello di sofisticazione che Everett
vi infonde non tiene in considerazione che il coinvolgimento di un numero così alto di complici implica obbligatoriamente l’alto ‘rumore di
fondo’ del caso, della contingenza e dell’errore umano. Kennedy muore,
così come Lee Oswald, il capro espiatorio individuato dai cospiratori, ma
ciò accade più per una serie di coincidenze e incidenti di percorso che per
le istruzioni elaborate nel piano originale.25 Molto di più, la cospirazione
non raggiunge il proprio scopo, quello dell’escalation cubana. Per contro,
non produce che sfiducia e incertezza, incrinando la possibilità di una
qualsiasi attività politica e, soprattutto, di una ricostruzione dell’avvenimento coesa, omnicomprensiva e persuasiva ai più.
Nella sua cella presso la stazione di polizia di Dallas, quando la morte
di Kennedy si è consumata, Oswald è spinto a ricomporre, come Branch
cercherà di fare anni dopo, i frammenti della sua storia. Pensa fra sé che
“[d]opo il delitto viene la ricostruzione” (p. 403), rendendosi conto di
avere trovato lo scopo della propria vita, un nuovo inizio corrispondente
ad un istinto di rielaborazione narrativa. Tuttavia, è ormai parte di un
meccanismo incontrollabile e, prima che il suo racconto possa svilupparsi, viene ucciso da una scheggia impazzita del complotto, il proprietario
di locali a luci rosse Jack Ruby, il quale ‘riaggiusta’ – un’altra mossa goffa,
priva dell’eleganza delle soluzioni cospirative – la parte finale del piano.
Oswald doveva essere ucciso da uno dei complici di Everett direttamente
dopo l’attentato, ma il caso e la contingenza hanno il loro peso, così come la forza prorompente e inarrestabile del plot, che, ci viene detto in varie occasioni, non può fare altro che muoversi autonomamente verso la
morte. Questa è la tendenza delle trame, pensa Everett: “evolvere in direzione della morte”, e la stessa idea della morte è “insita nella natura di
ogni trama” (p. 208). Non solo. Un disperato Branch, alle prese con fatti
assolutamente contrastanti perfino in merito ai particolari più banali qua25
Cfr. Heinz Ickstadt, op. cit., p. 304.
62 /
CLAUDIO CATTANEO
li i colori degli occhi o dei capelli dei protagonisti, deve rassegnarsi al fatto che “avvenimenti forti generano una loro rete di incoerenze. I semplici
fatti sfuggono all’autenticazione” (p. 280).
I cospiratori stessi si ritrovano ‘fuori’ dal loro stesso meccanismo, il
quale possiede ormai vita propria. Così Branch, verso la fine del romanzo, dovrà smentire il mito di una cospirazione perfetta, condiviso solitamente da chi la osserva da fuori. Per chi ne è estraneo, un complotto
sembra essere “la perfetta attuazione di un piano”, ovvero “tutto quello
che la vita normale non è”: un gioco “segreto, gelido, sicuro, attento” che
rimane “eternamente inaccessibile” (p. 409). La cospirazione, simbolo di
unità (‘con-spirare’: respirare insieme) e quindi di chiusura, mostra il
fianco alle anomalie e alle imperfezioni del caso e diventa metafora di un
testo che, una volta immesso nel mondo, si arricchisce di particolari inaspettati ma ormai insostituibili e fondanti.
Frame III. L’ossessione
È proprio l’impossibilità di chiudere definitivamente il ‘testo’ Kennedy ad
averne alimentato il ‘mito’ collettivo, ossia il carattere ossessivo che informa
fatalmente un ulteriore livello dell’indagine intertestuale di Libra.26 Non è
infatti possibile astrarre e separare l’opera di DeLillo da quei pochi secondi
di Dallas. Essi costituiscono una sorta di sottofondo costante di tutta la sua
produzione, un monumento letterario al trauma di una nazione.
Già in Americana (1971), la fine dell’odissea formativa di David Bell
attraverso l’America avviene proprio nella piazza più tristemente famosa di
Dallas. David ripercorre con la sua auto il tragitto del corteo presidenziale
del giorno dell’attentato suonando il clacson in un gesto blasfemo e liberatorio di profanazione del luogo del lutto. In Running Dog (1978) uno dei
protagonisti confessa quasi imbarazzato che la moglie “[s]i corica con il
Rapporto Warren. Lo sta leggendo da otto o nove anni. Nove, credo. Da
26
Il carattere ‘ossessivo’ di tale interesse è radicato nella coscienza americana lungo diverse generazioni già prima dell’assassinio ed è l’esito dell’attività ‘drammaturgica’ di Kennedy
stesso, del suo entourage e dei media prima, durante e dopo la fine della sua carriera politica. Come osserva John Hellmann, “[l]’ossessione per Kennedy iniziò all’inizio del ventesimo secolo, nei sogni di un bambino allettato che leggeva la versione roman(ticiz)zata della
storia. L’ossessione ha resistito, come i sogni febbrili di una nazione che legge e rilegge la
storia della sua vita e della sua morte. Dall’inizio fino ad oggi, la narrativa è stato l’aspetto
distintivo della mistica su Kennedy”. John Hellmann, The Kennedy Obsession: The American Myth of JFK, New York: Columbia University Press, 1997, p. 147.
CORNICI PER UN ASSASSINIO
/ 63
cima a fondo. Ventisei volumi”.27 Il romanzo, al pari di Great Jones Street
(1973), ruota attorno ad un filmato, la fantomatica registrazione di un’orgia avvenuta nel bunker di Hitler pochi giorni prima della capitolazione
del Reich. Dato il suo oggetto e l’inafferrabilità (tale da metterne in dubbio l’effettiva esistenza), la registrazione si carica di un’aura mitica analoga
a quella del filmato di Zapruder, il quale ritrae la scena dell’attentato dalla
prospettiva della famosa Collinetta Erbosa, per alcuni la prova definitiva
dell’infondatezza della versione della Commissione Warren.
Con Libra, DeLillo affronta l’argomento in maniera diretta ed estesa e
il romanzo è investito di una funzione liberatrice, terapeutica. I riferimenti all’attentato continuano tuttavia anche nei romanzi successivi, in particolar modo in Underworld (1997), dove la rielaborazione è più complessa
e meno diretta. Qui l’attentato sembra essere incluso nel discorso più ampio sulla Guerra Fredda, di cui il romanzo rappresenta una sorta di epitaffio.28 Nonostante compaia ancora il filmato di Zapruder, per il quale s’inscena ad un certo punto una proiezione segreta, il riferimento più importante sembra essere il valore simbolico e quasi epico che si ascrive alla storia personale del protagonista, Nick Shay. La misteriosa scomparsa del padre (presunta vittima di un omicidio) durante l’adolescenza assume i connotati escatologici dell’inizio del crollo di un paese che perde il pater familias, padre edipico della nazione ucciso dai propri figli.
Oltre alla valenza simbolica legata alla figura paterna e al fatto che
tanto il padre di Nick quanto Kennedy siano stati uccisi con un colpo
d’arma da fuoco, i dettagli di entrambi gli omicidi ci spingono ad intravedere un chiasmo tra Underworld e Libra.29 Questa relazione ci viene
suggerita da un particolare piuttosto banale: la marca di sigarette, Lucky
Strike, fumate dal padre di Nick. Il nome (letteralmente: ‘colpo fortunato’) e il logo (Nick è ossessionato dal pensiero che i cerchi concentrici di
colore nero, verde, bianco e rosso, con il rosso a dominare nel cerchio
27
Don DeLillo, Running Dog, trad. it. di Silvia Pareschi, Torino: Einaudi, 2005, p. 73.
Si veda a tal proposito Peter Knight, “Everything Is Connected: Underworld’s Secret
History of Paranoia”, in Hugh Ruppersburg e Tim Engles (a cura di), Critical Essays on
Don DeLillo, New York: G. K. Hall, 2000, pp. 283-99.
29
Il chiasmo fra la morte di Kennedy e quella del padre di Shay (che la immagina secondo modalità mafiose, con il padre portato in un luogo isolato e freddato con un colpo
alla testa) è completo in relazione alle traiettorie dei proiettili: nel caso di Kennedy il
proiettile entra di fronte e esce dalla nuca, mentre per il padre di Shay “entra dalla nuca e
si fa strada fino al cervello”. Don DeLillo, Underworld, trad. it. di Delfina Vezzoli, Torino:
Einaudi, 1999, p. 93 (d’ora innanzi riferito nel testo con la sigla U).
28
64 /
CLAUDIO CATTANEO
centrale, ricordino il bersaglio di un poligono di tiro), assumono un valore simbolico in contrasto simmetrico con l’attentato di Dallas descritto in
Libra. Non si può infatti non pensare alle raccomandazioni di Everett sul
fatto che l’attentato dovesse apparire come una “cilecca spettacolare”.
Ciononostante, egli non può fare altro che assistere impotente – con la
stessa impotenza e lo stesso edipico rimorso di Nick nei confronti del
presunto omicidio del padre – alla trasformazione del suo piano in un vero e proprio ‘colpo fortunato’: in un lucky strike, appunto.
L’attentato di Dallas, ormai prodotto di rielaborazione emotiva e culturale, viene confrontato in Underworld con una data, il 3 ottobre 1951, legata a due eventi simbolicamente contemporanei: la famosa partita di baseball tra i Dodgers e i Giants, che conquistarono il campionato in un finale
altamente spettacolare, e il primo test nucleare sovietico. DeLillo pone in
risalto questa contemporaneità dipingendola come una cesura simbolica
tra un ‘prima’ e un ‘dopo’. La partita è l’ultima traccia, l’ultimo grande avvenimento dell’era che precorre l’epoca della Bomba, certo, ma anche della
televisione. È la differenza di partecipazione agli eventi definita dal nuovo
rapporto con il mezzo televisivo a sottolineare questa cesura. Dopo la vittoria dei Giants, racconta un collega di Nick, Brian Glassic, la gente uscì per
festeggiare; “[q]uando hanno sparato a JFK”, continua Glassic, “la gente si
è rintanata dentro casa a guardare la televisione al buio e a parlare al telefono con amici e parenti. Eravamo tutti separati e soli” (U, p. 98). Poco dopo Shay, tifoso dei Dodgers sconfitti, dice di essere ‘morto’ interiormente il
giorno della partita – prologo di un’altra morte, quella (sancita a Dealey
Plaza) della realtà ‘maneggiabile’ e rassicurante. Quando sente della sconfitta, non gli è necessario uscire: “Ero già fuori”, dice, “[m]i sono precipitato
dentro. Ho chiuso la porta e sono morto”; e Jane Farish, una collega aggiunge: “Stavi anticipando Kennedy” (U, p. 99).
Con Underworld non si chiudono del resto i riferimenti alla morte di
Kennedy. Il viaggio di Eric Packer, protagonista del romanzo più recente
di DeLillo, Cosmopolis (2003), a bordo di una Lincoln (non solo, come
noto, la limousine su cui viaggiava Kennedy il giorno dell’attentato, ma
anche riferimento a un altro presidente assassinato) si incontra (e scontra)
attraverso un’affollata New York in un giorno d’aprile dell’anno 2000 con
un corteo presidenziale, un ennesimo riferimento a Dallas.
DeLillo stesso riconosce all’avvenimento la funzione catalizzatrice e
formativa per la sua intera carriera. In una celebre intervista, a chi gli
chiede se avrebbe potuto inventare l’attentato, DeLillo risponde che fu al
CORNICI PER UN ASSASSINIO
/ 65
contrario l’attentato “a inventare” lui: all’epoca, dice DeLillo, “non ero
uno scrittore completamente formato” e verosimilmente “non sarei diventato il tipo di scrittore che sono se non fosse stato per l’attentato”.30
Si può così aggiungere un altro livello semantico al titolo del romanzo, dato che Libra si posiziona a metà della carriera dello scrittore (perlomeno a livello temporale), e funge da ‘bilancia’ tra quanto è stato scritto
prima e dopo. Una lettura intertestuale di Libra non può infatti vedere
nei continui riferimenti a Dallas solo un tic di DeLillo ma l’intenzione e
la necessità, ovvero la condizione necessaria e sufficiente, di un racconto
più globale del quadro culturale che nasce il 22 novembre 1963, e di cui
la scrittura di DeLillo si fa eccezionale interprete.
Frame IV. L’algebra
La presenza di riferimenti trasversali all’assassinio nell’opera di DeLillo
invita ad una sorta di ‘caccia’ al riferimento non confinata ad una lettura
intertestuale ma estesa anche alla cornice intratestuale di Libra, in primo
luogo attraverso la suddivisione del testo in due sottofiloni narrativi indipendenti, espressione del simbolismo matematico di un romanzo “a lisca
di pesce”, usando l’immagine di Anne Tyler,31 e in generale della produzione di DeLillo, spesso guidata dal “piacere ovvio che è intrinseco ai giochi numerici o alle simmetrie di duplicazioni”.32 La prima narrazione occupa i capitoli dispari. I titoli riportano i luoghi (“Nel Bronx”, “A New
Orleans”, etc.) dove si svolge la tormentata storia di Lee Oswald. La seconda narrazione, che occupa i capitoli pari, riporta in chiave cronologica
(i capitoli sono contrassegnati da date) l’attuazione del piano di Everett.
Come si è detto, il racconto della vita di Oswald occupa un periodo molto ampio, dall’infanzia a New York fino al 1963, per un totale di circa
undici anni, mentre la storia della cospirazione occupa solo pochi mesi.33
Verso la fine del romanzo, le due narrazioni si avvicinano cronologicamente, si sovrappongono ed infine si fondono negli ultimi quattro capi30
Anthony DeCurtis, op. cit., pp. 171-72.
Anne Tyler, “Dallas, Echoing Down the Decades”, New York Times Book Review, 24
luglio 1988, p. 1, cit. in John F. Keener, “Conspiratorial Identity: Biography, Fiction, and
the Oswald Enigma”, in Id., Biography and the Postmodern Historical Novel, Lewiston:
Mellen, 2001, p. 97.
32
Heinz Ickstadt, op. cit., p. 310.
33
Per la datazione dei capitoli e il calcolo cronologico della trama si veda John F. Keener, op. cit., p. 98.
31
66 /
CLAUDIO CATTANEO
toli, sebbene questi continuino ad avere titoli che alternano il luogo (Dallas) alla data (dalla fine di ottobre fino al 25 novembre).
Il romanzo è suddiviso inoltre, trasversalmente alle due narrazioni, in
due parti, denominate semplicemente “Parte prima” e “Parte seconda”,
introdotte entrambe dal simbolo grafico del segno zodiacale della Bilancia che incornicia un epitaffio: il primo tratto da una lettera di Oswald a
suo fratello Robert, il secondo dalla testimonianza di Jack Ruby di fronte
alla Commissione Warren. Due parti come i due bracci della bilancia,
sebbene non completamente simmetriche, dato che la prima include undici capitoli e la seconda tredici. In totale ventiquattro, ovvero il doppio
dei segni zodiacali, oltre che gli anni di Oswald al momento della sua
morte, che avviene nel ventiquattresimo capitolo, il 24 novembre.
L’undicesimo capitolo della seconda parte (ovvero il ventiduesimo nella conta generale) ha per titolo “22 novembre”, data che, come fa notare
Heinz Ickstadt, può essere scritta come 22/11 o 11/22: di nuovo, il doppio.34 Doppia è peraltro la figura stessa di Oswald, di cui esistono la versione caotica e casuale del filone biografico e quella del complotto di Everett, che invece risponde a criteri di precisione, quasi di ingegneria sociale. Le due si sovrappongono definitivamente proprio il 22 novembre. Il
titolo del romanzo è quindi “metafora del [suo] design artificialmente bilanciato”.35 Il numero undici, e il suo essere doppio, diventa inoltre una
sorta di marchio dei momenti cruciali della vita di Oswald: undici sono
ad esempio gli anni della vita di Oswald ripercorsi dal romanzo. Se ci si
lascia andare all’ossessione per i numeri di Nick Shay in Underworld, costantemente alla ricerca del tredici nella somma algebrica delle date o nel
numero di lettere dei nomi dei protagonisti degli eventi fondamentali
della storia e della sua vita – “se uno conta le lettere, se è abbastanza
strambo da fare una cosa così […] può avere la divertente sorpresa di ritrovarsi davanti il solito tredici (U, p. 139) – si può scoprire (“avere la divertente sorpresa”) come due delle coincidenze che forse decidono la vita
di Oswald accadono a undici (il ‘solito undici’) capitoli di distanza l’una
dall’altra. Nel sesto capitolo (“20 maggio”, parte prima, filone cospirativo) Oswald entra infatti nell’ufficio di Guy Banister per chiedere di potersi infiltrare nel movimento anti-castrista. La stessa scena si ripropone
undici capitoli dopo, ovvero nel diciassettesimo capitolo (“A New Or34
35
Cfr. Heinz Ickstadt, op. cit., p. 310.
Ivi, p. 311.
CORNICI PER UN ASSASSINIO
/ 67
leans”, parte seconda, filone biografico). George de Mohrenschildt parla
per la prima volta ai cospiratori di Oswald nel quarto capitolo (“26 aprile”, prima parte) come attentatore del generale Walker, attentato che avviene undici capitoli dopo, nel quindicesimo (“A Dallas”, seconda parte).
Coincidenze? Più che il tentativo di determinarne intenzionalità o casualità, è interessante sottolineare come sia la struttura del testo a provocare e rendersi terreno di una tale ricerca.36 Il romanzo riflette il proprio
gioco inscenando la sua stessa natura ‘enigmistica’ e contagiando il lettore
della sua paranoia. La passione che spinge quest’ultimo a sfogliare, ritornare su un passaggio precedente e a calcolare il numero dei capitoli, delle
parole, perfino delle singole lettere, rispecchia l’ossessione morbosa di
Branch ma anche di Oswald, il quale, nella lettura dei classici marxisti
durante l’adolescenza, è costretto dai suoi problemi di dislessia a seguire il
testo “con il dito indice, parola per parola per parola” (p. 48) alla ricerca
disperata di una rivelazione che gli apra la strada al senso ultimo delle parole, a quel “Verbo diretto, epilettico, che può abolire la notte” come l’ha
definito Pynchon.37 Il lettore, come Branch, Oswald, Everett e poi Ruby,
cade nella stessa trappola e nello stesso smarrimento, in balia dello stesso
atroce dubbio di essere alla mercé di un perfido Curatore che si diverte a
celare al momento decisivo la verità. Tale ‘ansia da riferimento’ è scatenata, ad esempio, ogni volta che ci s’imbatte in una frase ricorrente, come le
macabre filastrocche sui nomignoli che Oswald ripete autisticamente tra
sé, basate sul gioco di parole tra hide e hell, richiamo evidente alla dualità
perversa Jekyll / Hyde o quella specie di mantra che Oswald ripete più
volte, “c’è un mondo dentro il mondo” (pp. 13, 47, 153, 277). A questo
punto perché non abbandonarsi al divertimento, triviale ma squisitissimo, di scorgere un ironico cammeo di DeLillo nel nome della spogliarellista Double DeLite, con la quale lo scrittore condivide, oltre alle iniziali,
il double delight – il ‘duplice piacere’, se non il ‘piacere per il doppio’?
Questo emergere dalla diegesi per concentrarsi sulla fisicità del testo,
questo sfogliare e risfogliare animati dalla stessa passione del biblioteca36
Sulla tensione fra caos e necessità/disegno nell’opera di DeLillo si vedano Stefania
Consonni, “Disegni e realtà. Le finzioni di Don DeLillo”, Paragrafo, 1, 2006, pp. 9-30, e
Id., “‘The Shot Heard Round the World’. Baseball e cospirazioni narrative in Underworld
di DeLillo”, Nuova Corrente, 51, 2004, pp. 319-41. Colgo l’occasione per ringraziare Stefania Consonni per i preziosi consigli nella stesura di questo lavoro.
37
Thomas Pynchon, The Crying of Lot 49 (1966), trad. it. di Liana Burgess, L’incanto
del lotto 49, Roma: e/o, 1998, p. 118.
68 /
CLAUDIO CATTANEO
rio, ha una volta di più l’effetto antitetico di porre il lettore di fronte alla
finzionalità di una costruzione troppo perfetta per non essere, appunto,
una finzione e, allo stesso tempo, di estendere i confini del romanzo (“il
libro che ho in mano” di Crowley) permettendone uno ‘sbarco’ nella
realtà, e coinvolgendo il lettore nelle trame del testo. L’intuizione formale
più forte di Libra pare in definitiva quella di esplorare i confini del romanzo, nel senso narratologico ma anche topografico del termine, andando ad instaurare una dinamica insoluta tra ciò è che è ‘dentro’ e ciò che è
‘fuori’ di esso. L’apertura tra queste due dimensioni è testimoniata da
frontiere in continuo movimento che supportano l’incontro con un testo
a più dimensioni.
DeLillo ci regala insomma un romanzo aperto perché scevro di una
versione definitiva: non solo ambiguo nella sua decifrazione, ma infinito.
Da un lato, in-finito (in continua costruzione) grazie alle letture che, come nella stanza di Branch, continuano ad ammassarsi nell’universo culturale in cui s’inserisce e allo stesso tempo ingloba. Dall’altro, in(de)finito
nei suoi confini semantici, narrativi e addirittura fisici. Un romanzo che,
in una struttura che ricorda i paradossi di Escher, include – oltre a questa
indefinitezza – se stesso.
§
4
Massimo Verzella
Embers di Christopher Hampton
e la traduzione della malinconia
Il 15 febbraio 2006 al Duke of York’s Theatre di Londra è andata in scena
la prima di Embers,1 un adattamento dell’omonimo romanzo di Sándor
Márai2 a firma di Christopher Hampton. Il dramma si svolge in un castello ai piedi dei Carpazi, uno spazio della memoria, un ‘mausoleo di
granito’ che partecipa silenzioso al nostos dell’esule, Konrad, che, a distanza di quarantuno anni dalla sua fuga improvvisa, ritorna dall’amico Henrik per una resa dei conti definitiva. È il 14 agosto 1940 e l’Europa è di
nuovo incendiata da una guerra mondiale. I due protagonisti, ex ufficiali
dell’esercito austro-ungarico, hanno vissuto la caduta dell’impero asburgico, la rivoluzione bolscevica, la prima guerra mondiale, l’ascesa della Germania nazista. Hanno subito i colpi della storia in perfetta solitudine, l’uno nelle umide e piovose terre della Malesia, l’altro nelle stanze silenziose
del suo castello. Henrik è sopravvissuto in attesa di questo momento, in
attesa di un confronto con l’amico di un tempo, colpevole di aver tradito
il patto di eterna amicizia che per tanti anni aveva protetto il loro amore
1
Commissionato e prodotto da Eric Abraham, per la regia di Michael Blakemore, con
Jeremy Irons nel ruolo di Henrik e Patrick Malahide nel ruolo di Konrad.
2
A gyertyák csonkig egnék (letteralmente, “Le candele bruciano fino alla fine”), pubblicato in Ungheria nel 1942, è stato riscoperto nel 1998 da Roberto Calasso, ed è noto al pubblico internazionale con il titolo inglese Embers, quale appare nel 2001 nella traduzione di
Carol Brown Janeway (che, va detto, ha lavorato su una versione in lingua tedesca, Die
Glut). Per il dramma di Hampton si farà riferimento all’edizione Faber and Faber (London, 2006; d’ora innanzi riferito nel testo con la sigla E). Tutte le citazioni in italiano dal
romanzo di Márai rimandano all’edizione Adelphi, Braci, a cura di Marinella D’Alessandro
(Milano, 1998; d’ora innanzi riferito nel testo con la sigla B). È evidente che, di traduzione
in traduzione, molto si è perso della ricchezza lessicale del testo originale. Su questo tema si
vedano George Szirtes, “The Candle that Burned Right Down”, Guardian, 15 dicembre
2001 e, soprattutto, Tibor Fischer, “The Alchemist in Exile”, Guardian, 5 gennaio 2002.
PARAGRAFO II (2006), pp. 69-82
70 /
MASSIMO VERZELLA
puro e innocente, salvo poi vacillare al limitare dell’età adulta. Il romanzo
è tutto incentrato sul dialogo tra i due amici, dialogo che presto si trasforma in un monologo di Henrik che, fra riflessioni, digressioni e un’accurata ricostruzione dei fatti che determinarono la fuga di Konrad, cerca di
trovare una risposta ai tanti perché scolpiti nella sua mente. Con l’ausilio
di numerosi flashback il narratore onnisciente racconta l’infanzia euforica
dei due protagonisti, il loro incontro e gli anni trascorsi insieme al collegio militare; offre un ritratto dei genitori di Henrik, un capitano della
guardia molto influente e una raffinata contessa francese, e infine descrive
la Vienna imperiale, un’unica grande famiglia di ungheresi, tedeschi, moravi, cechi, serbi, croati e italiani, tutti desiderosi di sintonizzare la propria vita sulle frequenze e sulle pulsazioni di una città viva e pronta ad
aprire le sue cantine e i suoi caffè, le sue salette private e i suoi saloni da
ballo a chiunque volesse celebrare i fasti di una capitale dove “tutto e tutti
erano così perfettamente al loro posto” (B, p. 55). Le digressioni gettano
luce sul progressivo saldarsi dell’amicizia tra Henrik e Konrad e sui tempi
e i modi (profondamente diversi) del loro inserimento in questa realtà
culturale, ovvero nel mondo dorato dell’aristocrazia viennese, nei rituali
di una società chiusa, armonica e assiologicamente ordinata.
Ogni detour arricchisce di echi e risonanze il dramma di Henrik, ricomponendo, tassello dopo tassello, gli scenari di uno smottamento epistemico che trascina i “figli dell’impero” nel baratro di un mondo disarmonico e privo di senso:
E allora perché dovremmo aspettarci qualcosa di diverso da un mondo
che è pieno di incoscienza e di invidia, di astio e di prepotenza? Ci sono
giovani che si precipitano, con la baionetta in canna, contro giovani di
nazionalità diversa, uomini che si scannano a vicenda, regole e accordi un
tempo sacri che vengono calpestati. Soltanto le passioni vivono e bruciano e chiedono vendetta al cielo… (B, p. 148)
In una ricca e argomentata nota recensiva ai romanzi di Márai, J.M.
Coetzee ha scritto: “A ben vedere la novella è l’espediente che permette a
Henrik di riflettere ad alta voce sui meccanismi della gelosia e di esprimere
le sue idee sulla vita; si legge come una trascrizione occasionalmente goffa
di un’opera teatrale”.3 Dal suo punto di vista il tessuto di un’avvincente
pièce teatrale sarebbe stato allungato e stirato fino ad ottenere un romanzo
3
J. M. Coetzee, “Dupe of History: Embers and Five other Books”, New York Review of
Books, 48:20, febbraio 2001, p. 42. Laddove non è altrimenti indicato la traduzione è mia.
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 71
lento e, per certi aspetti, sfilacciato. Tuttavia, sul tema delle potenzialità
drammatiche di Embers si registrano voci e opinioni discordanti. Secondo
Charles Spencer “la storia risulta ben più accattivante sulla pagina scritta”.4
Paul Taylor, sulla linea di Coetzee, definisce il romanzo “un goffo tentativo
di romanzare un dramma”, salvo proseguire così: “In maniera perversa,
nella versione scenica di Christopher Hampton la materia ha dato forma
ad un dramma ugualmente intrattabile”.5 Così infine Kate Bassett: “È uno
sproloquio, una massa di ricordi continuamente riesumati che in un romanzo possono anche catturarti ma che in scena appaiono rigidamente
inerti”.6 Siamo dunque di fronte a un romanzo incarnato sullo scheletro
leggero di una pièce teatrale che Hampton ha saputo recuperare servendosi di un bisturi ben affilato?7 O forse è meglio parlare di un tentativo fallito di tradurre per la scena un testo dalle scarse propensioni drammatiche?
Niente nodo senza ostacoli, ammonisce Jacques Scherer.8 Naturalmente gli ostacoli possono essere sia esteriori sia interiori, la differenza di rango
sociale tra Henrik e Konrad è un ostacolo; la difficoltà da parte di Henrik
di rinunciare alle certezze del mondo infantile per confrontarsi con le sfide
dell’età adulta è un altro ostacolo, e di quelli difficili da superare. Stando ai
canoni dell’estetica classica, osserviamo che il dramma possiede una certa
unità di interesse, le due scene principali, i (pochi) dialoghi e il monologo
di Henrik sono tutti orientati a mettere in rilievo la personalità del protagonista.9 Quanto all’unità di tempo, Hampton soddisfa in pieno i criteri
4
Daily Telegraph, 2 marzo 2006, ristampato in AA.VV., “Embers”, Theatre Record, 26:5,
26 febbraio-11 marzo 2006, p. 235. A questa sezione del Theatre Record, in cui sono raccolte tutte le recensioni a Embers prese qui in esame, farà riferimento d’ora innanzi la sigla
TR, in coda all’indicazione del quotidiano in cui sono originariamente apparse.
5
Independent, 3 marzo 2006 (TR, p. 236).
6
Independent on Sunday, 5 marzo 2006 (TR, p. 237).
7
Sulle pagine dello Spectator (11 marzo 2006; TR, p. 238) Lloyd Evans definisce il romanzo di Márai “un libro misero ed estremamente statico”; al contrario ha parole di elogio per l’adattamento di Hampton: “Ma per qualche miracolo l’intrattabile bolo è stato
assimilato e trasformato in un’opera teatrale insolitamente avvincente”. Tra gli estimatori
della versione teatrale figura Michael Billington che sul Guardian (2 marzo 2006; TR, p.
235) la giudica elegante, elegiaca e penetrante.
8
Jacques Scherer, La dramaturgie classique en France, Paris: Libraire Nizet, 1959, p. 63.
9
Qui il maestro è Molière, drammaturgo con il quale Hampton ha saputo dialogare a
livello intertestuale fino a proporre una sorta di Misanthrope dalla polarità invertite in The
Philanthropist (1970), grande successo di critica e di pubblico. Su questo dramma si vedano Fernando Cioni, “‘They could not be seen’: Hampton, Molière and the White Knight”, Assaph 100:9, 1993, pp. 115-27, e Ben Francis, Christopher Hampton: Dramatic Ironist, Oxford: Amber Lane Press, 1996; in particolare le pp. 25-35.
72 /
MASSIMO VERZELLA
dell’estetica classica, saldando tempo della finzione e tempo reale. Ancora,
il dinamismo del dramma, e del romanzo, sono garantiti dalla sospensione,
dalla proiezione nel futuro della riuscita/fallimento dello scopo. Lo stato
d’ansia in cui versano il lettore e lo spettatore è innescato da una serie di
prolessi che annunciano sviluppi drammatici svelati solo nel finale delle
due opere. Già nell’incipit, la balia, Nini, chiede al generale di prometterle
di non agitarsi. È una richiesta che, nella sua vaghezza, crea uno stato di
tensione. Vedendo i due amici ripartire insieme per Vienna dopo l’estate
trascorsa al castello, la contessa esclama, rivolgendosi a Nini: “Finalmente
un matrimonio riuscito” (B, p. 40; E, p. 5); ma quest’ultima non sorride
alla battuta e, poco oltre, osserva: “Un bel giorno Konrad lo lascerà”. Seguono pagine che descrivono l’intenso legame che unisce i due giovani ma
il capitolo sesto del romanzo si apre con una avversativa che getta un’ombra su questa amicizia apparentemente perfetta: “Ma Konrad possedeva
un rifugio dove l’amico non poteva seguirlo: la musica” (B, p. 46). Un’altra anticipazione è data dal padre di Henrik, il capitano della guardia, che
osserva: “Konrad non diventerà mai un vero soldato” (B, p. 49; E, p. 16),
quasi a voler smuovere i tizzoni di una differenza caratteriale che consumerà poco a poco l’amicizia che lega i protagonisti.
In questo dramma apparentemente assoluto, ovvero compiuto e autonomo, staccato da tutto ciò che è esterno, ambientato e sviluppato nel
presente di un unico spazio scenico (e quindi privo di ‘montaggio’), si insinua ben presto il tarlo del tempo, che rosicchia poco a poco le strutture
tipiche del teatro classico, in primis la dialettica intersoggettiva e il qui e
ora della scena, per far spazio al ritorno del passato. A questo punto l’opera abbandona il piano drammatico e si fa lirica mentre il ritiro formale
del dialogo conduce, inevitabilmente, all’epica. In uno studio sulla crisi
del dramma postrinascimentale e quindi della forma ‘chiusa’ del classicismo, Peter Szondi individua una fase di transizione nel teatro di Ibsen e
Čechov, due autori che hanno cercato di inserire tematiche epiche nella
forma tradizionale, prendendo in prestito modelli e griglie propri di un
genere letterario ben diverso, il romanzo. Il critico osserva che il punto di
partenza di Ibsen “era di carattere epico, egli dovette acquisire l’impareggiabile maestria di cui dà prova nella costruzione dei suoi drammi. E
avendo egli acquisito questa maestria, non si vide più, sotto i suoi drammi, la base epica”.10 Spetta alla funzionalizzazione drammatica colmare
10
Peter Szondi, Theorie des modernen Dramas (1956), trad. it. Teoria del dramma moderno, a cura di Cesare Cases, Torino: Einaudi, 2000, p. 23. Per un approfondimento sul
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 73
l’abisso esistente fra il presente e il passato che si sottrae all’attualizzazione. Tuttavia, prosegue Szondi, “[r]aramente Ibsen è riuscito a ottenere
che l’azione presente fosse tematicamente all’altezza di quella evocata e
che si fondesse omogeneamente con essa”.11 Il ‘trucco’ è quello di fondere
passato e presente nei Leitmotive intesi come fatti, oggetti o eventi simbolici, come il tintinnio dei bicchieri in Spettri. Passando a Čechov e, in
particolare, al dramma Tre sorelle, opera che Hampton amava molto e
adattò per le scene inglesi,12 Szondi sottolinea come sia l’attesa di un ritorno al passato a ‘riempire di sé’ la vita delle sorelle Prozorov: “Il loro
presente è oppresso dal passato e dall’avvenire; è un intervallo, un periodo d’esilio, dove la sola meta è il ritorno alla patria perduta”.13 Eppure,
nonostante questa clamorosa rinuncia tematica alla vita presente a favore
del ricordo sembrerebbe sferrare il colpo di grazia alla forma drammatica
‘chiusa’, gli eroi di Čechov non osano completare il percorso che conduce
all’isolamento e al distacco dal presente; finiscono così per restare sospesi
in una zona intermedia tra il mondo e l’io, tra passato e presente. Preservate le categorie di cui ha bisogno, la forma tradizionale si salva ma diventa ibrida e, per così dire, plastica. I diversi momenti dell’azione appaiono accostati e a volte perfino impilati l’uno sull’altro, senza un nesso
preciso, quasi a voler garantire al dramma un minimo di movimento che
teatro epico si veda Bertolt Brecht, Schriften zum Theater (1957), trad. it. di Emilio Castellani, Roberto Fertonani e Renata Mertens, Scritti teatrali, Torino: Einaudi, 1962.
11
Peter Szondi, op. cit., p. 23.
12
Hampton ha tradotto e portato in scena due drammi di Čechov, Zio Vanya (Royal
Court, Londra 1969) e Tre sorelle (Playhouse Theatre, Londra 2003), nonché numerosi
drammi di Ibsen. Sul debito di Hampton nei confronti di Ibsen e Čechov si veda “Christopher Hampton”, in John L. DiGaetani (ed.), A Search for a Postmodern Theater: Interviews with Contemporary Playwrights, New York: Greenwood, 1996). Su questo tema si
veda, inoltre, Alistair Owen (ed.), Hampton on Hampton, London: Faber, 2005. In questo
volume è riportata una lunga intervista concessa da Hampton ad Alistair Owen. Tra i tanti riferimenti al teatro di Čechov spicca la seguente riflessione: “Penso che non ci sia niente di meglio di un dramma ben fatto, cosa rara perché ciò che permette a un dramma di
funzionare, sia nella performance sia nella scrittura, è l’energia. Un grande scrittore come
Čechov può trasformare una combriccola di russi di mezza età che si vanno lamentando
in giro in qualcosa che parla dell’essenza della vita – e questo perché un’incredibile quantità di energia ha guidato la creazione di queste scene” (p. 10). Sulla figura di Hampton
come mediatore culturale si veda Alber-Reiner Glaap, “Translating, Adapting, Rewriting:
Three Facets of Christopher Hampton’s Work as a Playwright”, in Nicole Boireau (ed.),
Drama on Drama: Dimensions of Theatricality on the Contemporary British Stage, New
York: St. Martin’s, 1997, pp. 215-30.
13
Peter Szondi, op. cit., p. 25.
74 /
MASSIMO VERZELLA
a sua volta possa innescare il dialogo: “Ma anche il dialogo è senza peso,
come un pallido colore di fondo da cui si staccano, come pennellate più
vive, i monologhi (travestiti da repliche), in cui si condensa il significato
del tutto. L’opera vive infatti di queste autoanalisi rassegnate, in cui questi personaggi giungono via via ad esprimersi; ed è stata scritta proprio in
funzione di esse”.14 Szondi parla sempre di Tre sorelle, ma pare stia analizzando Embers.
A questo sottoinsieme creato dall’intersezione di forme epiche e drammatiche appartiene infatti il dramma di Hampton, un’opera che diversi
critici avrebbero voluto inquadrare in un ambiente semiotico più rigido e
ordinato, per neutralizzarne le spinte centrifughe negli spazi angusti di un
rigida descrizione culturale. In realtà, sia il romanzo di Márai sia il suo
adattamento per la scena ‘vivono’ e producono significati in una zona di
confine tra due generi letterari, un territorio neutro ma fertile, nel quale
tecniche narrative e sottocodici scenici si intrecciano e si fecondano reciprocamente fino a confluire in un codice ibrido. Il romanzo paradossalmente rispetta le unità aristoteliche di azione, tempo e luogo, ha dunque
la struttura di un dramma ‘chiuso’ e funziona perché sa innestare flashback e viaggi della memoria in un testo che rasenta spesso la forma drammatica. Al contrario, il testo scenico non presenta sviluppi o peripezie di
rilievo, è statico e ristagnante, oppresso dal peso del passato e della grande
Storia, eppure funziona perché Hampton riesce ad accogliere e a ‘tradurre’ il tempo nell’azione drammatica sfruttando al meglio le infinite possibilità e potenzialità dei numerosi codici scenici.
Nel suo adattamento di Embers, Hampton agisce alla stregua di un restauratore incaricato di eliminare le decorazioni verbali con cui Márai ha
rivestito le pareti scabre di un’opera concepita, con ogni probabilità, in
forma di rappresentazione scenica: attualizza e condensa gli elementi della fabula nel monologo di Henrik senza perdere per strada le battute e le
riflessioni più cariche di significati; conserva il tenore e i registri del romanzo nonché il linguaggio dello spazio artistico descritto da Márai, la
stanza di Henrik, ambiente che esprime e incarna una precisa visione del
mondo, con il suo soffitto a volta, le finestre ampie, la poltrona rivestita
di seta francese e il ritratto ottocentesco della madre.15 I flashback vengo14
Ivi, p. 28.
Appare felice, dunque, la scelta, da parte dello scenografo Peter J. Davison, di riprodurre fedelmente questa ambientazione in scena nello spettacolo prodotto da Eric
Abraham per il Duke of York’s Theatre di Londra.
15
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 75
no condensati, smontati e quindi ridistribuiti nel testo. La nascita e lo
sviluppo dell’amicizia pura e perfetta che lega Henrik e Konrad, la loro
esperienza presso il collegio militare e il loro isolarsi dagli altri per rifugiarsi in una inespugnabile fortezza emotiva, poco o nulla si perde nella
traduzione. Il passato, il tempo euforico in cui Henrik e Konrad erano
“come gemelli nell’utero materno” (B, p. 37), proprio come Leontes e Polixenes in The Winter’s Tale,16 non è raccontato da una voce fuori campo,
è nel tono infantile con cui Henrik chiede a Nini di preparare la grande
sala da pranzo, nel profumo delle pietanze riproposte a distanza di anni –
il roast beef, i gamberi, il gelato flambé – nella bottiglia di Pommard dell’ottantasei, nel vaso azzurro di cristallo pieno di dalie, nelle candele azzurre e perfino nella disposizione delle poltrone nella stanza. Il rituale del
pasto, con i suoi preparativi è l’icona stessa di un passato che Henrik vuole rimettere in scena, per tentare di riscriverne il finale. La scelta di conservare la sequenza (apparentemente sacrificabile) dedicata alla descrizione particolareggiata dei preparativi per la cena e alla cura profusa nell’allestimento della scena dell’incontro così che non ci siano differenze fra l’ultimo pasto consumato con Krisztina e Konrad e la sua ripetizione quarantuno anni dopo, si rivela vincente. Attraverso un sapiente e attento allestimento scenografico, e, in particolare, il Leitmotiv delle candele azzurre,17 Hampton fissa il tempo come differenza tra un passato euforico e un
16
Nel dramma di Shakespeare l’abbandono dell’infanzia implica l’abbandono della innocence sostituita dalla colpa, polisemicamente indicata dal lessema sangue: “Se avessimo
continuato quella vita, / e la nostra natura fanciullesca non si fosse rafforzata / con un
sangue più saldo, avremmo potuto arditamente dire al cielo / ‘siamo innocenti’, una volta
riscattata / la colpa originale”. Il racconto d’inverno, trad. it. di Demetrio Vittorini, Milano: Garzanti, 2002, I, ii, vv. 71-74. Nel momento in cui identifica questa colpa nell’incontro dei due re con le rispettive mogli, Polixenes sottolinea il potere corruttore e destabilizzante del legame coniugale. Molte le affinità con Embers. L’amicizia tra Henrik e
Konrad è più forte delle differenze di rango (Konrad proviene da una famiglia aristocratica decaduta e impoverita) ma si basa su una disciplina, una sorta di regola monastica, basata su rinunce e sottrazioni, per questo comincia a sfaldarsi non appena entra in scena
Krisztina, la donna che sposerà Henrik. Quest’ultimo è tanto sedotto e stordito dal sogno
intossicante di un’amicizia edenica ed eterna che cerca di eludere i problemi della sessualità, con tutte le loro complicazioni e le loro implicazioni nel ciclo procreativo. Il nuovo
legame con la moglie presuppone, nei confronti dell’amico, l’instaurazione di un rapporto
diverso da quello infantile ma Henrik non è pronto ad accettare il cambiamento e si illude di poter includere l’altro sessuale nel cerchio magico del legame omoerotico con l’amico d’infanzia.
17
Inscritto nel titolo dell’originale che, ricordiamolo, suona letteralmente “Le candele
bruciano fino alla fine”.
76 /
MASSIMO VERZELLA
presente disforico, tra il cosmo simbolico asburgico e il caos dell’Ungheria post-bellica.18
Se il codice scenografico incarna il passato, al codice delle luci e dei
suoni è affidato il compito di tradurre effetti e sfumature che Márai consegna alla parola scritta:
HENRIK:
Bene, ci stiamo avvicinando al cuore della questione.
Nella pausa seguente, una raffica di vento scuote le finestre e in lontananza la saetta solforosa di un fulmine squarcia il buio. La corrente elettrica
salta mentre un rombo di tuono brontola nel cielo notturno. (E, p. 19)
Il fulmine diventa una sorta di gong che dà inizio al match tra i due sfidanti, ma al tempo stesso segnala il coinvolgimento della natura e della
terra ungherese nel dramma che ha colpito i due protagonisti. Il dramma
privato risuona nella Storia, anch’essa segnata dalla profanazione del modello simbolico a pattuizione verticale di ascendenza medievale.19 Adesso
è la penombra ad avvolgere il racconto di Henrik, che, nel baluginio delle
lampade ad olio e delle candele azzurre, rievoca i fantasmi del passato ricostruendo nei minimi dettagli gli eventi immediatamente successivi al
tentato ‘fratricidio’, fino a quando, improvvisamente, torna l’elettricità e
l’ambiente si illumina di nuovo, scoprendo le ‘nudità’ di Konrad che ora
appare scosso e ansioso di sapere.
A livello linguistico il passato si attualizza nei meccanismi della referenza anaforica. Nel romanzo di Márai il motivo del patto e del giuramento
che vincola l’amicizia dei due protagonisti si ripete a intervalli regolari fino
a diventare il refrain che lega e tiene assieme i flashback narratoriali. Parole
come patto, giuramento, impegno, promessa solenne, legame, dovere, obbligo,
vincolo, ricorrono spesso nel testo e formano il paradigma dell’amicizia come legge, come contratto eterno e indissolubile: “Non dimentichiamo che
l’amicizia non è soltanto uno stato d’animo ideale ma una legge umana inflessibile. Nel mondo del passato fu la più potente delle leggi, quella su cui
si fondarono i sistemi giuridici di grandi civiltà” (B, p. 117).20 Si tratta
18
Un caos che, stando a quanto scrive Petronella Wyatt in un interessante articolo apparso sullo Spectator (“It Was Better Under Communism”, 30 aprile 2005), regna ancora
sovrano nell’Ungheria contemporanea.
19
Sull’opposizione simbolico/immaginario si veda Alessandro Serpieri, Retorica e immaginario, Parma: Pratiche, 1986.
20
Nel suo adattamento Hampton conserva questa importante affermazione di Henrik.
È evidente che lo spessore semantico di questi termini si è assottigliato notevolmente nel
passaggio dall’ungherese al tedesco e nel successivo passaggio dal tedesco all’inglese.
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 77
dunque di un legame, un sentimento, rigidamente codificato e quindi inviolabile, perché rappresenta, metonimicamente, il patto che unisce i popoli ungherese e austriaco al sovrano e alle regole di una società organizzata in una rigida gerarchia di ranghi e obblighi sociali.
Hampton maneggia con cura il paradigma modellato da Márai, lascia
alla referenza anaforica il compito di ricomporre, tassello dopo tassello, il
mosaico di un milieu storico-culturale che agisce sulle vicende individuali
dei protagonisti, orientandone azioni e comportamenti. Ma è nel personaggio stesso di Henrik, nei suoi gesti lenti e la sua voce malinconica,
nella sua nostalgica ostinazione a vivere fuori dal tempo, che si completa
la traduzione scenica dell’episteme asburgica. Figura caratterizzata da
un’elevata tipicità, Henrik è il rappresentante di una precisa casta sociale,
gelosa della sua chiusura e dei suoi privilegi ma sconfitta dal tempo e dagli eventi della Storia. Al contrario Konrad è il rappresentante del cambiamento e tradisce, già dalla sua passione per la musica – arte ‘pericolosa’
in quanto capace di sprigionare “una forza eversiva capace di sollevare i
mobili” (B, p. 48) –, un’indole diversa, più vicina a quella della contessa
francese (la madre di Henrik). La comune predilezione per Chopin, musicista di madre polacca e di padre francese nonché parente lontano di
Konrad (anch’egli nato in Polonia), unisce la coppia Konrad/contessa che
finisce per darsi come il polo della passionalità e della sensibilità artistica,
contro il polo dell’ordine rappresentato dalla coppia formata da Henrik e
da suo padre. La musica e le forze del cambiamento contro le forze dell’omeostasi, da questo scontro si produce la scintilla che rimette in moto l’azione drammatica, ostacolata a più riprese dall’insorgere di tematiche epiche entro gli spazi angusti della forma tradizionale.
Di fronte alla possibilità e all’idea stessa di cambiamento Henrik reagisce ‘esplosivamente’, puntando i piedi e opponendo le certezze del passato
al caos prodotto dalle forze disgreganti della storia. Per sfuggire ai guasti
prodotti dal tempo lineare si rifugia nell’isolamento e nell’attesa, addolciti
dalla speranza di riuscire, prima o poi, a eludere il cambiamento e a curvare la linea del tempo fino a saldare le giunture di passato e presente nel
punto esatto in cui si è spezzato il patto con l’amico di sempre. In altri termini, Henrik si chiude al mondo e decide di vivere il suo dolore proprio
come fa Miss Havisham in Great Expectations, nella reclusione. Abbandonata dal promesso sposo il giorno stesso delle nozze, Miss Havisham si isola e si nega al tempo per elaborare le sue trame di vendetta nei confronti
del destino avverso (e del sesso maschile), la sua determinazione continua-
78 /
MASSIMO VERZELLA
mente ravvivata dalla vista della torta nuziale in decomposizione.21 Lo
“spazio vuoto” (B, p. 63), che segnala la rimozione del ritratto di Krisztina
dalla parete dove è esposto anche il ritratto della madre è la ‘torta nuziale’
di Henrik. L’ennesimo Leitmotiv carico di ricordi del passato. La cicatrice
sul muro parla di una lacerazione impossibile da ricomporre, di un trauma
che Henrik non vuole superare ma che, al contrario, vuole vivere fino in
fondo, consumarlo nell’attesa della vendetta, rituale simbolico che, tagliato dall’incombere della morte, non può più darsi. La contrazione topologica che vede Henrik ritirarsi da Vienna al bosco dove va in scena l’ultima
battuta di caccia, dal castello alla stanza in cui è nato, metafora del ventre
materno e quindi dell’attesa di una eventuale rinascita, procede parallela a
quella storica, allorché l’impero austro-ungarico si sgretola a livello geografico, politico e culturale sotto i colpi della prima guerra mondiale e della
rivoluzione bolscevica. Si tratta, in altri termini, di una contrazione epistemica caratterizzata dalla completa dissoluzione dei codici rituali e dei modelli comportamentali di derivazione medievale che per anni avevano dato
ad Henrik l’idea di vivere e operare nella garanzia del Senso.
Perse le certezze assiologiche che garantivano la stabilità del cosmo,
Henrik si trova a dover fare i conti con la sua identità esplosa, con la perdita dell’essere e una precarietà omologa allo statuto indistinto dell’attore.
Di qui la scelta di recitare l’ultimo ruolo ancora significativo, quello del
malinconico, figura tipica nella drammaturgia inglese,22 a partire dai malcontent elisabettiani. Così come Amleto è costretto a confrontarsi con un
mondo svuotato di senso, con un tempo sconnesso e una cultura in dissesto, Henrik deve affrontare il crollo dei valori in cui ha sempre creduto, la
fine dell’impero austro-ungarico, in una parola, il cambiamento. A Konrad, che giustifica il suo mancato arruolamento nel reggimento ungherese
in occasione della prima guerra mondiale asserendo che in quel periodo
era già diventato un cittadino britannico, Henrik risponde così:
HENRIK:
No, io penso che in nessun caso è possibile cambiare la propria
nazionalità. Abbiamo fatto un giuramento all’imperatore, o al Re, come
mio padre insisteva a chiamarlo.
21
Si veda, in proposito, Francesco Marroni, “Melancholy as a Narratorial Paradigm in
Great Expectations”, in Francesco Marroni (a cura di), Great Expectations. Nel laboratorio
di Charles Dickens, Roma: Aracne, 2006, pp. 9-28.
22
Paola Pugliatti, “Dalle convenzioni alla regolarità”, in AA.VV., Interazione, dialogo,
convenzioni. Il caso del testo drammatico, Bologna: Clueb, 1983, pp. 14-15.
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 79
KONRAD:
il mondo che abbiamo giurato di difendere non esiste più.
per me esiste ancora.
KONRAD: esisteva un mondo per il quale valeva la pena di vivere e di morire ma è svanito adesso, andato. Quello nuovo non significa niente per me.
HENRIK: Be’, per me è sempre vivo. (E, p. 14)
HENRIK:
Henrik si ostina a credere nel sogno di un impero che possa raccogliere
popoli di tante diverse etnie in un’unica grande famiglia in grado di salvaguardare le differenze culturali e le specificità dei suoi singoli membri.
Che il sogno di una convivenza armonica e pacifica tra popoli e classi sociali diverse, basata su regole e codici di condotta di stampo medievale
(fissi e immutabili), sia svanito lasciandosi alle sue spalle solo tracce di
ostilità, è cosa difficile da accettare: “Immagino che l’intero sistema culturale in cui siamo cresciuti sia infine prossimo ad essere spazzato via: ma
nonostante ciò, per qualche assurda ragione, la brama di vendetta persiste” (E, p. 41).
A ben vedere, la malinconia appare incisa nel codice genetico della famiglia di Henrik. Ne soffre la madre, catapultata dalla luminosa Parigi attraverso i tetri scenari mittleeuropei fino al castello nei Carpazi di proprietà del marito. Nel viaggio attraverso la puszta, la desolazione che opprime gli spazi sconfinati della grande pianura deserta le dà le ‘vertigini’,
così come la vista dei campi di granturco dall’aria devastata. Perfino l’ufficiale della guardia, assumendo la prospettiva della moglie, ovvero osservando la sua terra come se fosse la prima volta, percepisce l’atmosfera malinconica effusa dai suoi scenari desolati: “Guardava le case basse con le
persiane verdi e i porticati bianchi […] le case annidate in fondo ai giardini, abitate dagli uomini della sua razza con le camere linde dove gli
sembrava di conoscere ogni mobile, e persino l’odore che si sprigionava
dagli armadi. Guardava il paesaggio che adesso, nella sua solitudine e malinconia, toccava il suo cuore come non gli era mai accaduto” (B, p. 25).
Per arginare e controllare i logorii prodotti dell’umore malinconico la
contessa interviene sul castello, facendo arrivare decine di carri pieni di
mobili, di tele, damaschi e stampe, un esercito di oggetti ‘caldi’ per combattere il freddo che minaccia uno spazio vitale assediato da una natura
selvaggia e ostile. Alla penombra ungherese la contessa oppone la luce e i
colori dei tessuti importati da Parigi e al silenzio della landa desolata oppone la musica mediante la quale sogna di addomesticare perfino le belve
rintanate nei boschi circostanti. La sequenza che descrive il suo arrivo nel
castello ungherese è molto importante perché stabilisce il tono del ro-
80 /
MASSIMO VERZELLA
manzo, crea quell’atmosfera triste e nostalgica che avvolge e imprigiona i
personaggi nelle sue spire. Nel testo drammatico Hampton ha l’accortezza di riproporla, spolpata e ridotta all’osso, ma non per questo meno efficace e suggestiva:
HENRIK:
Lei veniva da Parigi, da un mondo di pettegolezzi, musica e balli
all’ambasciata; e ora si trovava ai confini della pianura ungherese, in un
castello così isolato e così silenzioso che potevi sentire la neve cadere. Ricordo l’estremo sconcerto che velava il suo volto allorché, seduta alla finestra, osservava mio padre rincorrere i lupi con il suo coltello da caccia. Si
amavano; ma c’era qualcosa di insormontabile tra di loro. (E, pp. 16-17)
Hampton mette in rilievo l’isolamento e la remoteness del castello ungherese per instaurare subito l’opposizione Francia vs. Ungheria che subito
dopo si traduce nello sguardo allucinato con cui la contessa osserva il marito trasformarsi nell’ominide efferato e selvaggio che rincorre i lupi armato di un semplice coltello da caccia. Proprio la malinconia è il laccio
che tiene unita la coppia contessa/Konrad. Anche quest’ultimo è stato
sradicato dalla sua terra per seguire un percorso esistenziale che non gli
appartiene. Ai ricevimenti e alle parate viennesi Konrad preferisce l’intimità di una stanza pervasa dalla musica di Chopin, lui sì, uno spirito affine. Malinconico è il suo sguardo sul passato, sulle rinunce patite dai genitori, aristocratici impoveriti, per permettergli di intraprendere la carriera
militare. Il sacrificio dei genitori, gli sguardi spenti e tristi di sua madre e
l’orgoglio di un padre determinato a riscattare il suo fallimento ad ogni
costo costituiscono il fardello che per anni ha piegato la schiena e il morale di Konrad, nonché uno dei fattori decisivi per la rottura del patto di
amicizia eterna siglato con Henrik, il figlio ricco e viziato di un favorito
dell’Imperatore.
Infine la ‘malattia’ colpisce anche Henrik, all’indomani del dramma
che si compie durante e dopo la battuta di caccia. Da quel momento il
tradimento di Konrad diventa la sua idea fissa, l’astro immobile attorno
al quale ruota ogni suo pensiero. Henrik ha bisogno di rivedere l’amico
per ridare ordine al suo vissuto interiore, per capire quali intenzioni si celassero dietro il suo disegno omicida, quali sentimenti abbiano ostacolato
l’atto sacrilego, e ancora quali angustie abbiano paralizzato il dito di Konrad sul grilletto del fucile. Vittima ignara e inconsapevole della trama ordita dagli amanti, Henrik si appropria del ruolo di vittima e lo recita fino
in fondo. Ma, rispetto alla contessa e allo stesso Konrad, l’umore malin-
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 81
conico di Henrik appare ‘contaminato’ da un’altra perversione del sentimento, il masochismo. Gilles Deleuze ha scritto che la forma del masochismo è l’attesa: “Appartiene essenzialmente al masochismo l’esperienza
dell’attesa e della sospensione fisica, di legatura, di agganciamento, crocifissione. Il masochista è moroso, ma la parola ‘moroso’ significa innanzi
tutto il ritardo o il rinvio”.23 Più innanzi, Deleuze chiarisce la sua riflessione: “Il masochista attende il piacere come qualcosa che è essenzialmente in ritardo e si aspetta il dolore come una condizione che rende finalmente possibile (fisicamente e moralmente) l’arrivo del piacere”.24 Il masochista quindi rinvia il piacere in attesa del dolore che renderà possibile
la gratificazione e appare sempre in ritardo nei confronti di un appagamento eternamente differito. Ovviamente il piacere è quello della chiusura, quello di scrivere la parola fine e vedere il sipario nascondere la scena
caotica della vita. Il dolore, al contrario, è legato al sapere, all’avere confermati i propri dubbi, al fatto di percepire nel volto dell’amico la fisionomia della fine. Henrik è un masochista soprattutto perché sceglie la
sofferenza, preferisce il dolore alla morte allorché non approfitta dell’occasione offertagli dalla Grande Guerra per chiudere la sua vita con un atto di coraggio, pieno di senso. Al contrario egli si ostina a proseguire il
suo cammino esistenziale sobbarcandosi, oltre al fardello della sconfitta
privata, anche il peso di questa sconfitta dell’umanità. Masochista è infine l’atteggiamento di chi vive nell’attesa di conquistare una verità che già
possiede, nell’attesa di un rituale, la vendetta, desemiotizzato all’indomani del tramonto dell’Impero. Deleuze rileva altresì il significato particolare della fantasia nel comportamento del masochista: “La pratica masochista […] consiste nel neutralizzare il reale e nel sospendere l’ideale nell’interiorità pura del fantasma”.25 Il fantasma è la scena sognata, drammatizzata, ritualizzata, la scena che Henrik sogna di allestire per l’ultima volta
anche in assenza di Krisztina. Seduto a tavola di fronte all’amico, proprio
come in passato, Henrik chiude il cerchio del tempo e taglia fuori il presente insieme ad una realtà che ha perso nitore e consistenza a tutto vantaggio del sogno, strutturato sul paradigma della continuità e della permanenza di un modello esistenziale ipercodificato.
23
Gilles Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch. Le froid et le cruel (1967), trad. it. di
Giuseppe Da Col, Il freddo e il crudele, Milano: Studio Editoriale, 1996, p. 80.
24
Ivi, p. 81.
25
Ivi, p. 82.
82 /
MASSIMO VERZELLA
La tipicità della figura del malinconico nel teatro inglese non è che
l’ennesimo catalizzatore attraverso il quale Hampton riesce a tradurre il
romanzo di Márai in testo drammatico. Il suo adattamento, come l’amicizia dei due protagonisti, si basa su sottrazioni e rinunce, su attualizzazioni e funzionalizzazioni complesse, ma la struttura non cede, perché i
paradigmi su cui poggia l’edificio narrativo sono resi accuratamente mediante l’utilizzo di tutti i codici scenici, non ultimo la performance degli
attori protagonisti. La malinconia venata di masochismo che avvolge, come una bruma densa e scura, le pagine del romanzo di Márai, si traduce
nel lento ma inesorabile consumarsi delle candele azzurre, nella cicatrice
sul muro che denuncia un trauma irrisolto, nella voce malinconica di Jeremy Irons (Henrik) e nell’incresparsi del volto di Patrick Malahide
(Konrad). Ogni canale della comunicazione drammatica trasmette un
frammento del discorso che Márai affida alla parola scritta, fino a quando
il messaggio si addensa di nuovo intorno al motivo dell’attesa, malinconica, della fine.
§
5
Enrico Lodi
La retorica del potere
nei discorsi del primo franchismo
L’analisi retorica dei discorsi ufficiali prodotti dal franchismo durante la
guerra civile1 e nei primi anni del regime istauratosi al suo termine consente di operare un taglio prospettico sull’ideologia che li ha intessuti;
uno spaccato più ravvicinato di quello che possono offrire altre modalità
di indagine, maggiormente impostate in termini politico-sociologici.2 Tale premessa non comporta una pretesa di oggettività nell’affrontare l’argomento. Nessuna critica può illudersi di possedere un metalinguaggio
universalmente adeguato alla descrizione di una realtà storica, tanto più
che isolare un periodo e un corpus di testi da analizzare presuppone di
per sé una scelta orientata secondo criteri schematici e classificatori, che
eccedono quelli strettamente linguistici. Ciò nonostante è coerente pensare che l’adozione di uno sguardo ‘testuale’ aiuti a districarsi nelle griglie
concettuali che strutturano una determinata ideologia e a svelarne le strategie di costruzione identitaria.
Il primo franchismo.
Complessità costitutiva tra politica culturale, censura e propaganda
Sia a livello di configurazione politica che di caratteristiche ideologiche,
la quasi quarantennale dittatura di Francisco Franco è stata sottoposta a
diverse interpretazioni. Per esigenze di chiarificazione come anche, proba1
Quando cioè non si era ancora costituito in regime ma presentava già i tratti ideologici specifici che avevano portato all’Alzamiento.
2
Il corpus di discorsi preso in considerazione in questo saggio si compone principalmente di articoli di giornale e interventi ufficiali di Francisco Franco. Le due testate da
cui sono stati tratti più esempi sono ABC, quotidiano di orientamento monarchico e Arriba, organo ufficiale del partito falangista.
PARAGRAFO II (2006), pp. 83-101
84 /
ENRICO LODI
bilmente, per una sorta di imbarazzo al momento di proporre una definizione, la maggioranza degli studi che si sono occupati del franchismo,
analizzandolo nei suoi differenti aspetti, non ha potuto esimersi dal fare
una pur breve ‘carrellata’ sulle principali definizioni attribuitegli. Alla domanda ‘cosa fu il franchismo?’ sono state date diverse risposte che non si
escludono a vicenda.
Lo storico francese Hermet3 utilizza la definizione di ‘autoritarismo
conservatore’ in forza della considerazione secondo cui la dittatura avrebbe voluto, partendo dalla base d’appoggio delle vecchie oligarchie dominanti, estenderla alle classi medie sfruttando la loro ansia di sicurezza e riconoscimento di status. Si tratterebbe quindi, nella sua concezione, di un
regime che, mantenendo come fondamento la sussistenza di settori privilegiati, si caratterizza come conservatore. Stanley Payne, nella sua voluminosa opera sul fascismo,4 descrive il caso spagnolo come ‘dittatura sincretica’ in relazione alla presenza di tratti che permetterebbero di classificarla, almeno inizialmente, come ‘semifascista’. Uno degli studiosi più citati
dalla letteratura del settore è Juan J. Linz,5 che ha coniato la definizione
di ‘regime autoritario’ ad hoc per il caso spagnolo, sottraendosi così alla
tendenza classificatoria dominante che propone una ripartizione netta tra
democrazia e totalitarismo.
Il regime autoritario si distinguerebbe essenzialmente per un pluralismo politico limitato; l’assenza – meglio sarebbe indefinitezza – di una
ideologia; la mancanza di mobilitazione politica della popolazione, in effetti mai attuata con efficacia in Spagna; l’importanza dell’esercito e la debolezza del partito unico autoritario. Proprio questo ultimo punto, unito
alla considerazione di come la Falange detenesse il monopolio dell’apparato ideologico fascista in Spagna, giustifica la considerazione secondo cui
nel paese non si diede mai un fascismo per così dire estensivo, ma ci si limitò ad una imposizione ‘dall’alto’. Del resto ‘dall’alto’ era avvenuta anche la consacrazione istituzionale del partito stesso, che nel periodo repubblicano della propria esistenza, dal 1933 al 1936, non aveva mai riscosso una partecipazione effettiva della popolazione e aveva quindi falli3
Guy Hermet, “La España de Franco, formas cambiantes de una situación autoritaria”,
in Id., Ideología y sociedad en la España contemporánea. Por un análisis del franquismo, Madrid: EDICUSA, 1977.
4
Stanley G. Payne, El fascismo, Madrid: Alianza Editorial, 1982, pp. 143-64.
5
Juan J. Linz, “Una teoría del régimen autoritario. El caso de España”, in Id., Política y
sociedad en la España del siglo XX, Madrid: Akal, 1978.
LA RETORICA DEL POTERE NEI DISCORSI DEL PRIMO FRANCHISMO
/ 85
to nell’instaurazione del processo di socializzazione politica che auspicava.
Altro fattore che concorse a minare la solidità e l’indipendenza del partito
fu senza dubbio l’assassinio del suo leader carismatico, José Antonio Primo de Rivera, nel 1936. La sua scomparsa, avvenuta per mano dei repubblicani, portò alla creazione di una nuova icona nel patrimonio ieraticomitologico della dittatura, ma soprattutto consentì a Franco di proclamarsi legittimo erede del fondatore della Falange e quindi padrino a vita
del partito rimastone orfano. Ciò stette a significare la definitiva cristallizzazione della sua libertà d’azione. Si erano poste così le basi di una presenza politica sempre più burocratizzata e sempre meno operativa del partito unico.
La politica culturale del ‘Nuovo Stato’ rifletté specularmente gli equilibri di potere interni al regime, inscenando una partita giocata primariamente tra la componente fascista e la Chiesa. La disomogeneità dei modelli ideologici proposti si tradusse in una spartizione di competenze a livello
dei singoli campi d’azione pertinenti la politica culturale. Ciò avvenne sin
dalla formazione del primo governo franchista il 30 gennaio del 1938, prima ancora, quindi, della vittoria definitiva sui repubblicani. Quello che
anteriormente si chiamava Ministero dell’Istruzione Pubblica e delle Belle
Arti prese il nome di Ministero dell’Educazione Nazionale e venne ricoperto da Pedro Sainz Rodríguez, appartenente alla destra cattolica e sottoposto all’autorità morale rappresentata gerarchicamente dal cardinale
Gomá; la Falange, dal canto suo, monopolizzò l’ambito dell’informazione
dal Ministero dell’Interno attraverso la figura di Serrano Suñer. Questa
suddivisione dei settori di competenza fu velata da una maschera di complementarità che in concreto, e in modo ancora più marcato con il passare
degli anni,6 comportò la supremazia degli ideali cattolici, tanto più funzionali alla costituzione identitaria della dittatura quanto più divenivano anacronistici quelli fascisti propugnati dalla Falange.
Censura e propaganda, facce distinte dello stesso meccanismo, cercarono da un lato di impedire la sovversione e il dissenso politico, dall’altro
di strutturare il consenso attorno al regime, anche attraverso l’incoraggiamento a una più o meno effettiva partecipazione di massa della popolazione. Tuttavia le manifestazioni di piazza, organizzate sul modello delle
adunate fasciste ed esaltate dalla retorica falangista come palese riconosci6
Chiamando in causa altre definizioni date al franchismo, si passò da un fascismo frailuno a un vero e proprio nacional-catolicismo.
86 /
ENRICO LODI
mento plebiscitario del franchismo, furono in realtà eventi utilizzati dall’establishment al fine di silenziare, con il rumore delle singole celebrazioni, la generale situazione di malcontento dettata principalmente dalle
drammatiche condizioni in cui versava il paese, che si trovava in difficoltà
anche nel reperimento di generi alimentari in quantità sufficiente per tutti.7 Piuttosto si ebbe un tentativo prolungato e, alla luce della durata della
dittatura, efficace di ottenere coercitivamente la sottomissione acritica
delle masse;8 ed è forse in questo senso che il carattere iterativo, quasi
narcotizzante, della propaganda franchista raggiunse il suo scopo.
Per quanto concerne gli aspetti di censura e di generale limitazione
della libertà di parola e opinione, è bene considerare come la politica
informativa del regime nascesse in una situazione di conflitto armato,
comportando come diretta conseguenza l’adozione di misure estremamente restrittive dettate dalla necessità di un controllo totale del flusso di
notizie e gestite in grande misura dalle alte sfere militari.
Già dall’agosto del 1936 la Junta de Defensa Nacional istituì un Gabinete de Prensa, diretto dal giornalista Juan Pujol e seguito, nel novembre
dello stesso anno, da una Oficina de Prensa y Propaganda presieduta dal
generale Millán Astray, noto per il suo screzio con Unamuno.9 Di essa fecero parte nomi di rilievo dell’ambiente, come Juan Aparicio o Ernesto
Giménez Caballero. Il 23 dicembre formulò una propria normativa censoria in cui, all’articolo 1, si dichiarava l’illegittimità della “produzione, il
commercio e la circolazione di giornali, riviste e ogni tipo di materiale
stampato e registrato pornografico o di letteratura socialista, comunista,
7
Si veda in Justino Sinova, La censura de prensa durante el franquismo (1936-1951),
Madrid: Espasa Calpe, 1989, pp. 246 e sgg. Attraverso specifici dettami che prenderanno
il nome di consignas si vietava anche di parlare esplicitamente di banchetti e perfino di citare il nome di alimenti considerati ‘di lusso’.
8
In Javier Jiménez Campo, “Rasgos básicos de la ideología dominante entre 1939 y
1945”, Revista de Estudios políticos, 15, 1980, p. 116-17, si riportano le parole del falangista Salvador Merino che nel 1940 diceva: “Vogliamo le masse […] ma non per ottenere la
loro adesione […] bensì per […] sottometterle a quadri di comando”. Salvo diversa indicazione, le traduzioni sono mie.
9
Miguel de Unamuno, esponente di rilievo della Generazione del 98, aveva trovato una
collocazione di prestigio all’interno del ‘nuovo Stato’. Nonostante tutto lo aveva criticato
apertamente, soprattutto per la scarsa considerazione in cui era tenuta la cultura. Ne è testimonianza il diverbio con il generale Millán Astray, il quale aveva ribadito all’intellettuale le premesse ‘culturali’ a cui preferiva attenersi: viva la muerte, muera la inteligencia. La
conseguenza di questo scontro, per come riporta l’aneddotica, fu la clausura domestica di
Unamuno sino al giorno della sua morte, avvenuta pochi mesi dopo.
LA RETORICA DEL POTERE NEI DISCORSI DEL PRIMO FRANCHISMO
/ 87
libertaria e, in generale, dissoluto” nelle zone occupate.10 Questa impostazione, seguita sostanzialmente nel corso dei primi anni del franchismo,
creava una sovrapposizione tra categorie ideologiche e morali, instaurando una vasta area di ambiguità. Saranno tuttavia questi principi, improntati alla salvaguardia dell’immagine di Stato, Esercito e Chiesa, che guideranno le comisiones depuradoras nel vaglio delle opere presenti nelle biblioteche e che regolamenteranno la censura di stampa obbligatoria, istituita nel maggio del 1937, di competenza della Delegación del Estado para
Prensa y Propaganda. Si trattava ovviamente di censura preventiva, a cui
veniva riconosciuto peraltro il principio di infallibilità, con la relativa impossibilità di ricorso da parte delle sue vittime.
Parallelamente alla Delegazione, di matrice militare, il partito unico
aveva provveduto a creare la propria Delegación de Prensa y Propaganda de
FET y de las JONS. Tra i falangisti più noti che vi collaborarono si possono
annoverare Torrente Ballester, Pedro Laín Entralgo, Giménez Arnau,
García Valdecasas, Dionisio Ridruejo e Antonio Tovar.
Con la formazione del primo governo di Franco le competenze relative a censura e propaganda furono affidate in modo più netto alla Falange,
attraverso l’istituzione del Servicio Nacional de Prensa y Propaganda – poi
Dirección General de Prensa –, dipendente dal Ministero dell’Interno, che
a sua volta cambierà nome in Ministero del Governo e di cui era ministro
Serrano Suñer, braccio destro del Caudillo e vertice della dirigenza falangista. Non tarderanno a farsi sentire le conseguenze. Attraverso la Dirección General Serrano nominò Tovar responsabile della radiodiffusione,
aspetto molto curato dal regime, Ridruejo della Propaganda e Giménez
Arnau della stampa. Questi, pur negando una sua effettiva responsabilità
una volta tramontato il regime,11 redasse la tanto discussa Ley de Prensa
del 22 aprile 1938, che rimase in vigore sino al 1966.
Tale provvedimento, preso in piena guerra civile e improntato quindi
a una severità marziale, si basava sul concetto di fondo di una stampa
concepita come semplice prolungamento delle funzioni dello stato e perciò repressiva di qualsiasi esercizio di libertà da parte del giornalista. Pur
senza menzionare direttamente la parola – che proviene dal registro mili10
Román Gubern, La censura. Función política y ordenamiento jurídico bajo el franquismo (1936-1975), Barcelona: Península, 1981, p. 10.
11
In José Antonio Jiménez Arnau, Memorias de memoria, Barcelona: Destino, 1978,
p. 181.
88 /
ENRICO LODI
tare –, veniva istituito un sistema di consignas,12 attraverso cui si dettavano con dovizia di particolari i temi da trattare nei singoli articoli, in che
modo argomentarli e persino le parole da usare o quelle vietate. Il preambolo della Ley de prensa rende chiaramente l’idea di quali fossero i fini a
cui tendeva un inquadramento così serrato:
Non poteva perdurare un sistema che continuasse a tollerare l’esistenza di
quel ‘quarto potere’, di cui si voleva fere una premessa indiscussa […]
Non poteva ammettersi che il giornalismo continuasse a vivere ai margini
dello Stato […] Bisogna evitare i mali provenienti dalla libertà di tipo democratico. La stampa deve essere sempre al servizio dell’interesse nazionale, un’azienda pubblica al servizio dello Stato.13
Lo stato franchista, che poco a poco si avvicinava alla vittoria definitiva
contro una Repubblica agonizzante, non permetteva quindi manifestazioni di libertà, o meglio, nel suo linguaggio ampollosamente ambiguo ‘offriva’ una “libertà integrata che non potrà più sfociare in quel libertinaggio verso la Patria e lo Stato, attentare contro di essi e proclamare il diritto alla menzogna, all’insinuazione e alla diffamazione come sistemi metodici di distruzione della Spagna”.14
Si negava dunque ogni principio liberale e si dava una responsabilità
interpretativa altissima a chi doveva giudicare un ipotetico scritto, in forza della vaghezza di frasi come ‘sminuire il prestigio della Nazione’ o ‘seminare idee pericolose’. Le sanzioni venivano applicate con rigore e variavano da multe pesantissime, alla sospensione dal servizio del giornalista o
del direttore interessato, fino alla radiazione dall’albo e al sequestro della
testata. Ne conseguiva un clima di sostanziale terrore che riguardava sia la
categoria dei giornalisti che quella dei censori, generalmente non preparati sotto il profilo culturale, e costretti in turni di lavoro massacranti ad affrontare situazioni che li vedevano impossibilitati ad una scelta netta, dovendosi barcamenare tra i dettami non chiari della legge e delle consignas,
e i capricci di autorità spesso in conflitto tra loro.
L’apparato di controllo risultava godere di una estensione capillare,
pur in un contesto generale di “organizzata disorganizzazione”15 che non
12
Non si è tradotto il termine per la complessità delle connotazioni che comporta e che
avrebbe reso limitante un corrispettivo italiano. Consigna indica infatti la ‘consegna’, come
disposizione, ma anche l’ordine militare.
13
Román Gubern, op. cit., pp. 28-29.
14
Ivi, p. 29.
15
Justino Sinova, op. cit., p. 148.
LA RETORICA DEL POTERE NEI DISCORSI DEL PRIMO FRANCHISMO
/ 89
permetteva mai un’applicazione sistematica, bensì reinterpretabile arbitrariamente di volta in volta. Questa precarietà rientrava precisamente nell’idea funzionale che aveva Franco della stampa: una completa subordinazione alle esigenze dello Stato, e, quindi, alle sue.
Nonostante esempi episodici di attenuazione – come l’ordinanza del
25 marzo 1944, che disponeva l’esenzione dalla censura preventiva per le
pubblicazioni liturgiche – in sostanza, la Ley de Prensa rimase in vigore fino al 1966, quando ad essa ne subentrò una più liberale. La censura manifestava così la sua duplice faccia: da un lato si proclamava legittimo baluardo in azione contro forze destabilizzanti, dall’altro esercitava la privazione della libertà di espressione. Tale atteggiamento ambivalente è emblematico di una dittatura che, soprattutto nei primi anni, rinnegava
qualsiasi concezione libertaria perché controproducente alla prosecuzione
del proprio esercizio di potere. Nelle parole di Sinova, “con una mano
strangolava, con l’altra lo negava”.16
Il sogno di un regime effettivamente persuasivo e capace di mobilitare
grandi masse entusiaste dovette quindi da subito cedere il passo a pratiche più dimesse ma costanti di coercizione, con il fine di mantenere saldi
al loro posto i vertici del potere. La presa di coscienza della fine di una simile illusione, d’altra parte, coincise con la detronizzazione di FET y de las
JONS dal monopolio nella gestione dell’immagine del ‘nuovo Stato’, assegnatole dopo la vittoria sui repubblicani e cessato con l’incorporazione
delle mansioni di propaganda nel cattolicizzato Ministero dell’Educazione Nazionale. I falangisti, che ottimisticamente avevano pensato ai primi
anni del regime come a una fase di transizione verso uno stato fascista in
ogni suo aspetto, furono in sostanza emarginati in parallelo al tracollo europeo dell’auge ideologica totalitaria.
L’ideologia cattolica godeva certamente di una maggiore penetrazione
sociale e i suoi gruppi di potere furono deputati a raccogliere l’eredità della Falange. È preciso il giudizio di Chueca, secondo cui “la Chiesa, l’Esercito, il capitale erano stati semplicemente ri-posti nelle loro privilegiate
posizioni del passato e disponevano di appoggi e risorse politiche proprie.
La Falange, che tanto aveva contribuito a tale cambiamento, no. Solo politicamente disponeva di garanzie peraltro assai dubbie”.17 Al partito uni16
Ivi, p. 279.
Ricardo Chueca, “FET y de las JONS”, in Josep Fontana (a cura di), España bajo el
franquismo, Barcelona: Editorial Crítica, 1986, p. 73.
17
90 /
ENRICO LODI
co comunque restava la direzione della più grande catena giornalistica
mai esistita in Spagna e la parziale paternità di uno stile linguistico e gestuale che in certa misura è riuscito a sopravvivere nel tempo.
Sono quindi varie le cause che rendono problematica la collocazione
ideologica della dittatura franchista in un modello indicativo di riferimento, prima tra queste il suo caratterizzarsi in termini fortemente personali, con un Caudillo che era contemporaneamente sostituto a tempo indeterminato del re in uno stato definito monarchico, capo dell’Esercito,
del Governo e quindi della Falange, unico partito permesso. La presenza
di poli di potere diversi, e il loro alternarsi in base alle esigenze dettate dagli equilibri interni e internazionali, comportò conseguenze sul piano della formulazione dei discorsi così contestualizzati.
Si configura in questo modo lo sfondo in cui la dittatura di Franco dovette esercitare le sue doti di equilibrismo, ora sostenendo i suoi ideali alleati dell’Asse,18 ora cercando di dissimulare nei limiti del possibile la propria partecipazione nel momento della loro disfatta.19 L’ostilità degli alleati,
una volta terminato il conflitto, risultò comunque evidente e si esplicitò
nei termini di un marcato raffreddamento nei rapporti diplomatici con la
Spagna; processo culminato nell’embargo e nell’esclusione della stessa
dall’ONU, nel dicembre 1946. La reazione, l’unica possibile, fu quella di far
passare l’idea di un isolamento auto-imposto nei confronti di un quadro
internazionale moralmente condannabile, a cui contrapporre un modello
di Spagna ancorato ai valori tradizionali della monarchia e del cattolicesimo. Una delle parole-testimone20 del periodo divenne quindi autarchia,
idea già mussoliniana di completa indipendenza nazionale, auspicato agglutinante sociale attorno al quale creare un consolidamento del consenso.
Fu proprio il ribadire costantemente una supposta diversità spagnola –
e il suo articolarsi, attraverso i discorsi del franchismo, in un universo linguistico e simbolico che la connotasse in termini di atemporalità – a delineare i tratti costitutivi dell’ideologia di un regime che cercava nella (ri)costruzione di un mondo immutabile la ricetta della propria sopravvivenza.
18
Il contributo militare concreto apportato dalla Spagna si limitò alla spedizione della
tanto mitizzata quanto esigua “División Azul”.
19
A livello di apparato simbolico è significativa, ad esempio, l’abolizione nel 1945 del
saluto romano, brazo en alto.
20
Ci si rifà qui alla terminologia adottata in Miguel Angel Rebollo Torío, Estudios sobre
el vocabulario político Español (1931-1971), Cáceres: La Minerva Cacereña, 1976. A sua
volta, l’autore spagnolo si riconduce agli studi linguistici di Georges Matoré.
LA RETORICA DEL POTERE NEI DISCORSI DEL PRIMO FRANCHISMO
/ 91
La lingua del vincitore e il tempo ideologizzato
“Ecco la lingua del vincitore […] non la si parla impunemente, si finisce
per assimilarla, per vivere secondo il suo modello”:21 riflettendo sulla lingua del Terzo Reich, Victor Klemperer, filologo tedesco ed ebreo, annotava le conseguenze dell’esposizione al mondo linguistico ufficiale del regime: l’assimilazione del suo modello ideologico.
In modo analogo, anche i discorsi dei primi, cruenti, anni della dittatura di Franco elaborarono un modello, imposero una descrizione del
mondo circostante. Tesero a esprimere una Weltanshauung. Proprio questo
termine, nota Klemperer, era particolarmente caro al regime nazista per la
sua connotazione nel campo semantico della percezione sensibile. Etimologicamente poteva essere considerato come visione mistica (Schau) del
mondo (Welt), andandosi a inscrivere nell’ambito suggestivo della rivelazione religiosa. Weltanshauung divenne negli anni del Terzo Reich un sostituto costante di filosofia. La lingua nazista “vi trovava quello che per lei
era il più importante opposto dell’attività del filosofare. Infatti filosofare è
un’attività della ragione, del pensiero logico, di cui il nazismo è un nemico mortale”.22 Anche il franchismo, pur facendo leva su diversi elementi
in parte già radicati nel retroterra culturale spagnolo, adottò criteri simili
di rifiuto del razionale nelle proprie strategie di legittimazione. È coerente
pensare che una simile scelta di campo argomentativo, in regimi non democratici, sia da ascrivere alla volontà di superare le aporie che segnano le
loro narrazioni, laddove un ricorso a espedienti logico-razionali comporterebbe la messa in luce di forzature e violenze nella giustificazione delle
proprie istanze. L’irrazionale, il fantastico sono canoni operativi preferiti
dal franchismo per la loro connotazione in termini emotivi, non logici.
Una delle istanze primarie del regime fu procurarsi una collocazione
stabile lungo l’asse del tempo. La preoccupazione di garantirsi continuità
politica portò a privilegiare un punto di vista che precludesse la prospettiva a eventuali cambiamenti futuri. Stabilità e staticità vennero così sostanzialmente a coincidere. Non si propose dunque una concezione temporale lineare: essa avrebbe implicato l’idea di un possibile mutamento, o
comunque di una ricerca di perfezione che si considerava già raggiunta.
L’alternativa offerta non fu però nemmeno quella di una visione ciclica:
21
Victor Klemperer, LTI, la lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Firenze: Giuntina, 1998, p. 24
22
Viktor Klemperer, op. cit., p. 184.
92 /
ENRICO LODI
essa avrebbe comportato il rischio di uno smarrimento della congiuntura
franchista in una serie di snodi storici che potevano così comprometterne
l’unicità. Piuttosto, secondo Marie-Aline Barrachina,
si trattava di una sorta di negazione pura e semplice del passare del tempo, di una percezione pressoché simultanea di avvenimenti non classificati secondo l’ordine cronologico bensì secondo una scala manichea di valori, una sorta di quarta dimensione che conduce all’idea di eternità.23
Il franchismo si proclamò erede del passato più glorioso della storia spagnola, codificando un’impalcatura commemorativa di tutte le sue date
‘storiche’. Si crearono in questo modo una serie di appuntamenti simbolici che scandivano, celebrazione dopo celebrazione, il passare del tempo. Il
primo aprile si evocava la Vittoria del 1939 e la Pace, il 19 dello stesso
mese era il giorno dell’Unificazione, il 2 maggio quello dell’Indipendenza, il 18 luglio si riunivano i festeggiamenti per il Glorioso Alzamiento e
quelli della Exaltación del Trabajo, il primo ottobre era il Giorno del Caudillo, il 12, della Hispanidad, il 29, della fondazione della Falange e dei
caduti, il 20 novembre, infine, era lutto nazionale: si piangeva la morte
del primo falangista e ora martire ufficiale del regime José Antonio Primo
de Rivera.24
La Guerra Civile, che fornì la maggior parte del bagaglio celebrativo a
disposizione del franchismo, rappresentava una sorta di orizzonte degli
eventi: “Un profondo bacino di tempo non storicizzabile, vale a dire: una
catastrofe espiatoria che resuscitava in chiave tragica quello che c’era di
mitico in altri momenti del passato remoto”.25 Si creava così un’intersezione tra due livelli storici: da una parte il ricorso al passato ogni qual
volta fosse stato possibile evocarlo, dall’altra la celebrazione delle festività
del ‘nuovo Stato’. Una sorta di fuoco incrociato all’insegna della ripetitività che otteneva l’effetto di moltiplicare la valenza commemorativa e
astraente del presente. Un tempo immobile, stagnante; un tempo in cui
23
Marie-Aline Barrachina, Propagande et culture dans l’Espagne franquiste 1939-1945,
Grenoble: Ellug, 1998, p. 181.
24
Il livello di inquadramento istituzionale in cui era tenuta tale codificazione emerge
anche dalla pubblicazione che all’epoca si faceva di volumi dedicati a esplicitare l’importanza delle commemorazioni. Si veda ad esempio Francisco Moret Messerli, Conmemoraciones y fechas de la España nacionalsindicalista, Mardid: Vicesecretaría de Educación Popular, 1942.
25
Rafael R. Tranche e Vicente Sánchez Biosca, NO-DO. El Tiempo y la Memoria, Madrid: Cátedra, 2001, p. 290.
LA RETORICA DEL POTERE NEI DISCORSI DEL PRIMO FRANCHISMO
/ 93
non si dava l’alternativa del cambiamento. La quarta dimensione di cui
parla Barrachina finisce quindi col diventare asfittica, una ‘non-dimensione’ che grava sulle altre tre.
I discorsi del franchismo traspirano la concezione che il regime aveva
della storia. Si consideri il seguente brano, scritto in occasione del trasferimento della salma di Primo de Rivera:
Il significato più alto della sepoltura di José Antonio lo offrono la distanza, il cammino e il ritmo di marcia, al passo. […] Oggi ci troviamo di
fronte a un lutto dinamico, in movimento. […] La sensazione che sia una
cosa costante, che non possa fermarsi, che nuove spalle si sostituiscano ad
altre, e che le reliquie proseguano lì, fluttuando nell’aria […]. Via retta e
deserta, via in lutto, via antica, senza motori, senza fumo, e senza polvere
[…] anche gli alberi vorrebbero marciare. […] Un popolo che vuole salvarsi e redimersi deve lavorare così, tutti devono offrire, generosamente,
le spalle per portare il peso in un onorevole avvicendamento, e marciando
senza fretta, senza parlare, con passo lento e sicuro. […] José Antonio,
dopo la morte, detta un passo, un ritmo, una sicurezza nel destino. La
nostra migliore storia è stata fatta così, lungo sentieri, camminando.26
Nel testo è subito visibile la volontà di creare un ponte simbolico tra l’episodio descritto e il ‘cammino’ parallelo della storia nazionale. Il tempo si
connota di tratti connessi al cattolicesimo, sino a diventare cammino di redenzione – “salvarsi e redimersi” – attraverso il sacrificio – “offrendo le spalle” – e senza che si dia la possibilità di metterne in questione il significato –
“senza parlare”. L’incedere liturgico e rituale si colora tuttavia anche di tratti
semantici appartenenti all’ambito militare, connotandosi come “marcia”. Il
ritmo dato da tale incedere si appiattisce in una temporalità sospesa, espressa dall’immagine ambiguamente escatologica dei resti del novello martire
che fluttuano nell’aria. L’effetto di sospensione viene accentuato dai dettagli
surreali con cui viene descritta la processione: la ripetizione anaforica di
strada è funzionale all’accostamento paratattico di una qualificazione asettica – “retta e deserta, senza fumo e senza polvere” – che richiama i paesaggi
di Dalí e De Chirico. Il testo pare ricercare quella che Lausberg, definendo
l’ornatus vigoroso, chiama “esperienza faticosa del bello”.27
Il suo tipico registro connotativo e solenne fa giocare la significazione
26
ABC, La lección de un entierro, 23/11/1939.
Heinrich Lausberg, Elementi di retorica, Bologna: Il Mulino, 1992, § 166. A propria
volta, l’Ornatus si definisce come abbellimento retorico del discorso, attraverso il ricorso
abbondante a tropi e figure; idealmente opposto alla chiarezza lineare: la Perspicuitas.
27
94 /
ENRICO LODI
sul piano emotivo, mentre il ricorso a un lessico ora religioso, ora militare
chiama in causa i valori a cui maggiormente si ispirava il regime: l’inquadramento militare e la consolidata tradizione del discorso cattolico. Secondo il cognitivista Geroge Lakoff, “l’essenza della metafora è la comprensione e l’esperienza di una cosa in termini di un’altra”;28 andrebbe superata la vecchia distinzione tra ‘letterale’ e ‘metaforico’ in quanto lo
schema operativo metaforico plasma il concetto da esso filtrato. In questo
senso – si vedrà anche più avanti – la metafora religiosa permea i discorsi
del primo Franchismo, tendendo a rappresentarlo come allegoria storica
di significati primariamente trascendenti e fideistici.
La ripresa frequente del passato imperiale, declinata nell’allegoria manichea con cui il regime rappresentò la guerra civile, portò a un impiego
abbondante di metafore che dipinsero il Franchismo in termini di rinascita: “Inizia la primavera di Spagna. Alle spalle resta l’inverno di tutto il precedente, il freddo della fede caduta, uragani e tormente”.29 In una sorta di
prosopopea “Madrid apparve ieri vestendosi della splendida gala di primavera”;30 analogamente viene presentata la dicotomia simbolica luce-tenebre: “ci apprestiamo a continuare la nostra storia nel giorno stesso in cui
nella capitale della nazione splende un sole per molto tempo oscurato”.31
Nonostante la metafora stagionale – e temporale in genere – definisca
il regime come un punto di partenza, la ciclicità delle immagini che vengono proposte ne limita lo slancio, fissandone i confini in un presente
eternizzante e proponendo con puntualità l’idea del ritorno al passato.
Sono continui i flashback tematici che operano la ripresa dei miti a cui si
appoggia il franchismo, ma questa risulta evidente anche dalle scelte lessicali. Il prezzo da pagare affinché non cessi l’amanecer, il ‘farsi giorno’ spagnolo, è che il tempo si blocchi; si vorrebbe “innestare l’attualità sul passato”.32 La cristallizzazione nel presente, commista a tale ripresa del passato, si manifesta in un abbondante ricorso alla prefissazione: quello spagnolo sarà un “ri[-]sorgere”,33 la Falange dichiara di voler procacciare un
“ri[-]nascere possibile che ci riporti all’equilibrio passato e, attraverso
28
George Lakoff e Andrew Ortony, Metaphor and Thought, Cambridge: Cambridge
University Press, 1992, p. 5.
29
“En el día de hoy”, ABC, 2 aprile 1939.
30
“La gloriosa jornada de ayer”, ABC, 29 marzo 1939.
31
Articolo senza titolo, ABC, 29 marzo 1939, p. 3.
32
Francisco Franco Bahamonde, Franco ha dicho, Madrid: Ediciones Carlos Jaime, 197,
p. 158.
33
Ibidem.
LA RETORICA DEL POTERE NEI DISCORSI DEL PRIMO FRANCHISMO
/ 95
quello, alla grandezza”;34 sotto la guida di Franco la Spagna quindi “ri[]crea la propria Storia”.35 In definitiva tutto questo risulta coerente con
l’ideale franchista che, viste anche le limitazioni materiali a una vocazione
imperialistica, si rifaceva non all’ideale della “conquista”, bensì alla spirituale “re conquista” sui nemici della religione.
Un’ontologia elementare poi, seguendo quella che Klemperer chiama
la “maledizione del superlativo”,36 porta il regime a connotare in termini
di ‘storica’ la sua attualità, evocativa di un passato fastoso. Il comunicato
ufficiale della fine della guerra diventa “storico documento” e il nuovo regime evoca la “grandezza storica” spagnola.37 Le macerie dell’Alcazar di
Toledo, del resto, sono classificate come “storiche rovine”38 perché hanno
partecipato alla mitizzata resistenza contro l’esercito repubblicano più che
per il loro passato secolare. Il particolare risalto che si vuole dare a questo
tipo di aggettivazione emerge anche dalla sua collocazione in relazione al
sostantivo: è infatti frequente il ricorso all’iperbato, che inverte l’ordine
tradizionale sostantivo-aggettivo, attribuendo a quest’ultimo una posizione di preminenza spaziale e semantica.
Fissare il tempo in questo modo, con una scrittura che si auto-suggestiona, vuol dire precludere vie di fuga, la ripetizione dell’uguale cancella
la altre prospettive. L’utopia, che prevede racconti di emancipazione, ripiega nel mito grazie al cattolicesimo, che vincola la salvezza in uno spazio comodo in quanto ‘altro’ (l’al di là) e si radica nel passato tradizionale.
Al posto del racconto di emancipazione quindi si sostituisce quello del
mito che, secondo Lyotard, è tipico del discorso totalitario:
una delle proprietà del racconto [mitico] è quella di poter raccogliere,
mettere in ordine e trasmettere non soltanto delle descrizioni, ma anche
delle prescrizioni, delle valutazioni, dei sentimenti. La tradizione trasmette gli obblighi annessi ai nomi con le prescrizioni relative a tale situazione, legittimandole per il semplice fatto di porle sotto l’autorità del nome
[…] in questa pratica narrativa è quindi in gioco una vera e propria politica, immersa tuttavia nell’insieme della vita istituita dai racconti. In questo senso tale politica può essere definita totalitaria.39
34
“Significación de una fecha”, Arriba, 29 ottobre 1943.
“En el día de hoy”, ABC, 02 aprie 1939.
36
Victor Klemperer, op. cit., p. 274.
37
“Empieza la paz”, ABC, 04 aprile 1939.
38
“18 de julio”, ABC, 18 luglio 1939.
39
Jean-Francois Lyotard, Le postmoderne expliqué aux enfants, (1986), trad. it. Il Postmoderno spiegato ai bambini, Milano: Feltrinelli, 1987, p. 6.
35
96 /
ENRICO LODI
Gli elementi mitici vengono proposti non secondo le modalità narrative
tradizionali ma in maniera sfumata, quasi onirica. Ciò avviene attraverso
la ricerca di uno stile peculiare che si riflette e manifesta soprattutto nel
linguaggio, attraverso una concezione estetizzata per cui diventa possibile
parlare allegoricamente di un “libro meraviglioso che inizia come Storia e
finisce in Poesia”.40
Come sostiene Ulrich Prill, sussiste una “differenza costitutiva che si
fa nella scrittura mitica tra Chronos, ossia il tempo come flusso, e Kaíros,
ossia il tempo come momento caricato di significazione mitologica”.41 La
scrittura franchista, con le caratteristiche che la costitutiscono, è predisposta per accogliere e presentare un tempo inteso come Kaíros. Esso, per
essere apprezzato, necessita non tanto di una capacità interpretativa razionale, quanto piuttosto di una esegesi mistica che sposti i canoni cognitivi
nell’ambito del culto: culto verso Dio, verso la Nazione e il suo Capo,
culto verso gli Eroi e infine – e qui il cerchio si chiude – culto verso la
Storia.42
Il concetto franchista di Spagna
Una volta configurato un tempo mitico, il discorso franchista è pronto
per accogliere al suo interno i nomi di cui parla Lyotard in relazione ai
racconti della tradizione. Tra le preoccupazioni principali dell’establishment vi sarà quella di formulare una nozione di patria confacente alle
proprie esigenze di legittimazione. La spaccatura intestina deflagrata nella
guerra civile non si poteva ignorare al momento di presentare un’immagine compatta della Spagna, cosicché il regime vincolò l’unità nazionale
proprio a una ideologia oppositiva che vedesse contrapposti i vincitori del
conflitto ai sostenitori della repubblica sconfitta, costantemente evocati
come nemici della patria e relazionati ai circuiti del ‘bolscevismo internazionale’ e della onnipresente minaccia massonica:43 “La nuova Spagna è
40
“18 de julio”, ABC, 18 luglio 1939.
Cit. in Mechtild Albert, Vencer no es Convencer, Frankfurt am Main: Vervuert, 1998,
p. 167.
42
Non è casuale che i grandi mistici spagnoli, in primo luogo San Juan de la Cruz, venissero all’epoca proposti con orgoglio nazionalistico.
43
È interessante a questo proposito “La leyenda negra de la República Española”, riportato in appendice a Gabriel Jackson, La República Española y la guerra civil, Barcellona:
Grijalbo, 1976. Lo stesso Franco, sotto lo pesudonimo di Jakim Boor scriveva articoli di
tema antimassonico sul quotidiano Arriba.
41
LA RETORICA DEL POTERE NEI DISCORSI DEL PRIMO FRANCHISMO
/ 97
questo: una lotta aperta della verità contro la menzogna, dell’onore contro il crimine e, in una parola, della Patria contro l’antipatria […] la forza
della massoneria risiede precisamente in quel misterioso segreto del non
sapere mai chi sono né quanti sono i massoni”.44
Con una capillare distribuzione all’interno dei propri discorsi, il franchismo fece del nemico un elemento non solo obbligato, bensì addirittura necessario alla propria formulazione identitaria. I valori cattolici, che
colorano questa dicotomia, finirono col vedere nella sollevazione militare
una cruzada:
La nostra crociata è stata l’Alzamiento che, per la seconda volta nella nostra
Storia portò il nostro popolo a sollevarsi dalla sua decadenza e ad alzarsi
contro il marcio e il decadente. E questo Movimento, nel quale tutti siete
stati attori […] riunì sotto le nostre bandiere tante persone che […] sentirono nell’anima accendersi il santo fuoco dell’amore patriottico, travolti
dal romanticismo delle nostre consignas, e dall’ispirazione dei nostri canti,
che rese possibile la vittoria e con essa la Spagna Una, Grande e Libera.45
Emerge, a partire dal pensiero del Generalísimo, l’ambigua consistenza di
una unità propugnata come valore primario e allo stesso tempo concepita
sulla base di una scissione radicale della società. I nemici della Spagna
franchista sono nemici della fede, e l’azione repressiva contro di essi è legittimamente definibile come ‘crociata’. Questo divenne uno dei termini
fondamentali del regime. La sua definizione fu sempre vincolata a quella
dei nemici, grazie ai quali trovava la propria ragione di esistere giustificando così un costante ripescaggio sia della memoria della guerra civile
che del ‘deprecabile’ periodo repubblicano che la precedette:
Quando la rapina rossa assaltava le nostre proprietà e svaligiava palazzi e
musei; quando l’oro spariva dalle banche e il denaro dalle nostre povere
tasche, quando l’anello dei nostri sponsali ci era strappato di mano, la coperta dal nostro letto; […] quando si bruciavano le chiese e si saccheggiavano le dimore dei nostri più pacifici cittadini; […] quando cadevano
esanimi il probo e l’intelligente, mentre il ‘responsabile’ della canagliata si
stiracchiava le gambe nell’auto rubata […], noi speravamo!46
44
“Al enemigo masón”, El Norte de Castilla, 26 febbraio 1940, p. 3.
Francisco Franco Bahamonde, op. cit., p. 42. Sono stati lasciati in spagnolo i termini
che perderebbero la propria specificità in traduzione.
46
“Premio a la fe y a la esperanza”, ABC, 29 marzo 1939.
45
98 /
ENRICO LODI
Nel frammento riportato si accostano figure di accumulazione – anafora,
ripetizione – e di omissione – lo zeugma in “l’anello dei nostri sponsali ci
era strappato di mano […] la coperta dal nostro letto” – in un consueto
effetto retorico amplificante.
Si nota qui però anche un artificio abbastanza usato dalla retorica del
franchismo: la chiusura di un termine tra virgolette ironiche per indicare
come l’impiego della parola – in questo caso responsabile – fosse menzognero da parte di chi originariamente ne rivendicava l’attribuzione.
Klemperer, avendone riscontrato la presenza cospicua nel linguaggio del
Terzo Reich, nota come
probabilmente, un uso ironico delle virgolette deve essere iniziato immediatamente dopo l’introduzione di questo segno di interpunzione, ma
nella LTI […] prevale di gran lunga. Perché ha in odio la neutralità, perché deve aver sempre un avversario, perché deve sempre trascinare nella
polvere l’avversario.47
Con la dittatura spagnola, questo fenomeno grafico si produsse principalmente negli anni di maggior vigore della retorica falangista e riguardò per
lo più termini o espressioni di ambito repubblicano e democratico. La rivista Legiones y Falanges, caso singolare di collaborazione editoriale continuativa con l’Italia fascista, pubblicava spesso immagini di miseria e devastazioni sottotitolate didascalicamente con l’uso di virgolette ironiche.48
Un articolo della stessa rivista, per esempio, si intitola “La ‘opinión pública’ suprimida”,49 e procede al suo interno a una sistematica confutazione
dei principi costituzionali liberali. L’opinione pubblica viene aborrita come idea obsoleta e nociva al Movimiento franchista, e proprio per questo
motivo non la si prende in considerazione se non come concetto estraneo. In questo senso si può sostenere che le virgolette funzionino qui come una sorta di guanto in lattice che permetta di afferrare elementi socialmente e politicamente infetti senza rischiare il contagio. Andò così
perduta buona parte del senso ironico del contrasto a vantaggio della demarcazione testuale di una zona semantica esplicitamente interdetta.
Al dispiego di virgolette ironiche si fece accompagnare un uso antifra47
Victor Klemperer, op. cit., p. 99.
Frasi tipiche potevano essere “Esto es la ‘civilización’ roja” o “efectos de la ‘protección’
moscovita a la infancia”. Cfr. “La ‘opinión pública’ suprimida”, Legiones y Falanges, 10
agosto 1942, p. 18.
49
Ibidem.
48
LA RETORICA DEL POTERE NEI DISCORSI DEL PRIMO FRANCHISMO
/ 99
stico dei termini che gli avversari facevano propri, capovolgendone il senso: “uguaglianza nei cenci e nella fame e una perenne farsa ufficiale, la cui
verità sanguinolenta tutti sapevano”.50 Allo stesso modo si parla del giornalismo repubblicano in termini di “felici articoli dove si applaudivano i
criminali”,51 fino a negare implicitamente il diritto alla vita dell’avversario
per le supposte efferatezze compiute: “non solo pensavano di avere diritto
alla vita e alla libertà, pretendevano persino che li pagassimo”.52 La formula non solum/sed etiam crea una sorta di contrapposizione tra dato e nuovo, per cui l’elemento informativo nuovo – e sorprendente – è che il nemico vuole essere pagato, mentre si dà per conosciuta la pretesa del suo
diritto di vivere, naturalizzandone l’assurdità nell’immaginario del lettore.
Una volta dato il via al processo di disumanizzazione, il nemico può essere
detenuto in una specie di lager discorsivo, dove si trova costretto alla rappresentazione di un baccanale satanico che giustifichi la prosecuzione della ‘crociata’ di Franco: “una enorme camera di tortura dagli indicibili orrori […] dei mostri insospettabili abortiti improvvisamente nel Carnevale
rivoluzionario con grottesche e orribili maschere, ubriachi di vendetta”.53
Le descrizioni che si danno della ‘Anti-Spagna’ sono collocate nell’ambito della dissoluzione totale, della depravazione; adottando un lessico che
si pone al limite dell’infernale e che, nell’evocazione disordinata e impetuosa di immagini orrifiche, ignora la distinzione grammaticale tra sostantivi e
aggettivi, ugualmente impiegati nella confusione satanico-carnevalesca che
si vuole rappresentare. Nel testo sopra riportato, ad esempio, si parla di
“mostri abortiti nel carnevale rivoluzionario” ma, a livello informativo, sarebbe stato equivalente scrivere “aborti mostruosi”, e via dicendo.
L’introduzione del referente testuale nemico prevede nei discorsi del
primo franchismo la assoluta identificabilità. La sua presenza cioè, pur
connotata secondo tratti deformi e vaghi, è data per certa. Sintomatico di
ciò è come alcune espressioni appartenenti ad aree semantiche diverse fossero divenute sinonimicamente paradigmatiche nel linguaggio ufficiale:
rojo era considerato sinonimo di comunista, e si usava anche come aggettivo in relazione a termini spregiativi di svariato tipo, da vesanía (roja) a milicianada, da fraude a barbarie. Termini più neutri, come izquierdismo, si
accompagnano ad aggettivi deformanti come rabioso.
50
“En la hora final”, ABC, 1 aprile 1939.
“Atención a los cínicos”, ABC, 4 aprile 1939.
52
Ibidem.
53
“Sabado santo de España”, ABC, 1 aprile 1939.
51
100 /
ENRICO LODI
Le connotazioni del nemico oscillano sovente tra il mostruoso e il selvaggio; non sono rari i discorsi dedicati interamente alla descrizione di un
locus horridus che sarebbe conseguenza dell’applicazione dei principi del
liberalismo:
vaga agitato, convulso, come bestia tra le bestie e persino più miserabile
di loro, l’uomo di Rousseau… Rousseau crea il suo uomo, nel cui ‘pedigree’ ritroveremmo Hobbes, quello dell’apotema: homo homini lupus, Spinoza, Bentham: tutto il naturalismo, tutto il razionalismo senza dimenticare le più primitive sette eretiche… quello che è più importante è vederne le conseguenze e queste furono di ordine politico: la Dichiarazione dei
diritti del 1789 […] e le Istituzioni Democratiche che ancora spirano in
pieno XX secolo. […] a partire da quel momento vediamo che un vento
di dissoluzione e provvisorietà si abbatte sopra tutte le cose umane, rendendo sterili i migliori sforzi costruttivi.54
Per un uomo dai tratti bestiali, le cui caratteristiche vengono raccolte sotto
l’etichetta cinofila del ‘pedigree’, e dedito ‘ereticamente’ a quella sorta di
culto idolatrico che sarebbe la democrazia, si profila il castigo che su di lui
“si abbatte” nei termini biblici della sterilità. Quasi un contrappasso alla
sfrenata lascivia che si produrrebbe in seno alle comunità democratiche.
Il castigo è l’altra faccia del sacrificio, quella più oscura, ma che deve
affrontare anche lo ‘spagnolo buono’ per purgare l’eredità storica del suo
passato scomodo. D’altronde il male è endemico, presente nel corpo nazionale come un tumore in un corpo biologico malato: “Sicuro. Ciò che
vidi era qualcosa di molto simile a come se il pus estratto con una operazione chirurgica volesse tornare nelle vene per mescolarsi nuovamente al
sangue sano. Si faranno carico i nostri governanti acciocchè questo non
possa succedere”.55 La similitudine è attenuata, si limita a esplicitare solo
un termine di comparazione: ciò che sarebbe “molto simile” alla malattia
– cioè l’elemento che subisce il paragone – viene presentato solo come
“ciò che vidi”, di conseguenza è l’immagine morbosa a conservare il monopolio della focalizzazione.
La presenza dell’antagonista pone le condizioni affinché si possa avere
poi, attraverso una catartica passione, l’espiazione dei peccati che permetta il risorgere del popolo spagnolo: “se l’egoismo e l’odio di classe non ci
54
“El liberalismo, germen de la decadencia española”, Legiones y Falanges, 3 gennaio
1941.
55
“Despedida”, ABC, 04 aprile 1939.
LA RETORICA DEL POTERE NEI DISCORSI DEL PRIMO FRANCHISMO
/ 101
avesse impedito di comprendere quelle verità, fiumi di sangue e mari di
lacrime non sarebbero stati versati nell’angoscia di un popolo che si faceva a brandelli”.56 In questo frammento si introducono i ‘peccati originali’
di egoismo e odio di classe come preludio ad una sorta di diluvio biblico
– “fiumi […] e mari”. Esso sembra riprendere la retorica impiegata da
Churchill nel discorso inaugurale del suo governo,57 quando sostenne che
non aveva altro da offrire se non “sangue, fatica lacrime e sudore”.
Il sacrificio si configura come una caratteristica costitutiva del regime,
e quest’ultimo come manifestazione terrena della volontà divina: “La
guerra fu vinta perchè gli spagnoli non risparmiarono un solo sforzo per
vincerla; oggi dobbiamo pesuaderci che, per conquistare definitivamente
la pace, il processo di sacrificio nazionale non deve interrompersi”.58 È
questo il registro in cui si articola la dinamica discorsiva populista del primo franchismo. La coscienza del nemico, il castigo, il sacrificio, la malattia, sono tutti elementi che prendono forma nei testi attraverso il codice
della comunicazione religiosa. E, come sostiene anche Jiménez Campo,
“Quello che è importante mettere in risalto […], è che la presenza del
fattore religioso si continui a percepire anche quando l’ideologia non vi fa
direttamente riferimento, quando sono, apparentemente, le sole relazioni
sociali quelle tenute in considerazione e l’esistenza secolare degli individui
l’oggetto esclusivo dei contenuti espressi”.59
Secondo il politologo spagnolo si genera in questo ambito lo spazio
ideologico del populismo. Esso viene a configurarsi appunto come discorso religioso in cui la religione, come tema, non è presente. La retorica religiosa, del resto, era la più confacente alla volontà del potere di mantenere viva la coscienza di una comunità divisa al suo interno. In essa si inscenava la rappresentazione della lotta eterna tra Bene e Male, e il regime ne
doveva orientare le sorti per volontà di Dio, conducendo il popolo spagnolo a un lieto fine opportunamente sempre rimandato.
56
“Significación de una fecha”, Arriba, 29 ottobre 1943.
Il cambio di governo avvenne in data 13/05/1940, vista la risonanza del discorso, è
ipotizzabile una sua influenza formale anche su testi di ideologia opposta.
58
“18 de julio”, ABC, 18 luglio 1939.
59
Javier Jiménez Campo, “Integración simbólica en el primer Franquismo”, Revista de
Estudios políticos, 21, 1981, p. 140.
57
§
PARAGRAFO
II
TEMI
§
6
Silvia Ulrich
Gli eredi di Felix Krull
Dai ‘falsi’ di Wolfgang Hildesheimer
alle imposture del caso Gert Postel
Sappiamo tutti che l’arte non è verità. L’arte è una menzogna che ci insegna a comprendere la verità, almeno
quella verità che come uomini riusciamo a intendere.
Pablo Picasso
Quando nel 1954 uscirono le Confessioni del cavaliere d’industria Felix
Krull,1 pubblico e critica letteraria accolsero l’opera con grande entusiasmo; lodavano l’indiscusso valore con cui il romanzo compendiava – malgrado la frammentarietà – l’intera evoluzione di un fenomeno culturale affiorato in Germania agli albori della Gründerzeit, diffusosi poi con impeto
straordinario negli anni della Repubblica di Weimar, e destinato infine ad
arrestarsi solo quando il nazismo operò quell’inesorabile involuzione spirituale atta a nullificare ogni forma di individualismo creativo e antiborghese. Mediante l’attenta osservazione delle ludiche contraddizioni di uno
splendore borghese ormai defunto, il Krull, già nel momento del suo tardivo esordio sembrava destinato ad esaurire ogni ulteriore attestazione letteraria di impostura. La belle époque – il comune denominatore di tutte le
vicende di avventurieri apparse fino ad allora – era definitivamente tramontata portandosi via lo ‘scenario’ prediletto dal cavaliere d’industria, il
più adatto alla messinscena di ruoli mistificatori sempre diversi. La critica,
dedicatasi immediatamente ad un’attenta esegesi del romanzo, ritenne superflue ulteriori indagini sulla sopravvivenza del fenomeno in opere successive. Vi sono tuttavia esempi che non hanno mancato di destare attenzione, benché i casi di attualità più significativi siano rimasti di fatto cor1
Thomas Mann, Bekenntnisse des Hochstaplers Felix Krull, trad. it. di Lavinia Mazzucchetti, Le confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, Milano: Mondadori, 1993.
PARAGRAFO II (2006), pp. 105-19
106 /
SILVIA ULRICH
puscoli nel cosmo letterario non meno che nella stampa scandalistica.2 Ai
tempi del Krull insomma, l’apice dell’impostura doveva ancora essere raggiunto; il culmine in Germania sarebbe stato toccato nel 1999.
In quell’anno a Berlino si riunì il Primo Congresso dei Cavalieri d’Industria Tedeschi. Il tema era la Millanteria, il fulcro dell’era postmoderna.3
Più che un vero e proprio simposio, si trattava di una ‘rimpatriata’ di impostori di ogni fatta, desiderosi di contribuire per puro amore della verità,
con aneddoti, facezie, storie (naturalmente false) di vita vissuta alla formazione della consapevolezza collettiva che l’impostura è una costante umana: ogni realtà reca il segno indelebile della finzione, forma e contenuto
convergono oggi come un tempo fino all’assoluta identità o all’inevitabile
dissolvenza. Il congresso non celebrava – come insegnano le confessioni
della tradizione letteraria – l’autocompiacimento di se stessi, bensì il riconoscimento dell’impostura come linguaggio collettivo, per il pregio che
possiede di rischiarare verità nascoste inventandole di sana pianta.4
Il crescente individualismo che ha contrassegnato l’Occidente dalla fine della guerra al nostro presente si è progressivamente sostituito all’antica ansia borghese di relazionarsi con quei milieu ritenuti superiori per influenza e prestigio; per contro, il venir meno del vincolo sociale quale
unico vero presupposto dell’appartenenza a una classe ha favorito un graduale isolamento dei singoli tale da aumentarne la vulnerabilità. L’inganno nell’era attuale è sempre meno plateale, sicché la messinscena del cavaliere d’industria ha luogo più facilmente nel privato, nella diabolica complicità tra l’artefice e la sua vittima, all’ombra di qualunque testimone;
l’anonimato, assai più che il pubblico applauso, è il vero obiettivo dell’odierno avventuriero, ben più avido di denaro oggi che in passato. Il passaggio formale dal teatro5 al romanzo, che il Krull ha operato, ha trasformato l’impostura da messinscena pubblica a strategia individuale, tesa tra
il soggetto che si confessa e il lettore; negli anni Cinquanta tale riflessione
raggiunge il pubblico sotto forma di radiodramma, una varietà di espres2
Cfr. Stephan Porombka, Felix Krulls Erben. Geschichte der Hochstapelei im 20. Jahrhundert, Berlin: Bostelmann & Siebenhaar, 2001, in part. le pp. 119-89.
3
Cfr. la pagina internet <http://www.jf-archiv.de/archiv99/289yy27.htm>.
4
Robert Mingau, Hochstapelei und postmoderne Gesellschaft – Über-Leben einer anthropologischen Konstante. Ausblick auf das dritte Jahrtausend, intervento d’apertura del suddetto congresso, cit. in Stephan Porombka, op. cit., p. 7.
5
Cfr. Silvia Ulrich, “Il cavaliere d’industria tra condanna e apologia. L’avventuriero in
Vincenzo Martini, Frank Wedekind, Robert Musil e Hermann Broch”, Crocevia, 3, 2006,
pp. 190-209.
GLI EREDI DI FELIX KRULL
/ 107
sione scenica in grado di stabilire un legame diretto tra ciascun attore e il
singolo spettatore. Ai giorni nostri poi la virtualizzazione dei rapporti interpersonali ha favorito una diffusione tanto capillare dell’impostura da
renderla spesso incontrollabile; internet è il regno in cui la truffa serpeggia, proprio come un tempo erano gli sfarzosi non-luoghi dell’inautenticità, gli hotel di lusso, i rinomati ristoranti, la Borsa o le grandi banche a
schiudere agli arrampicatori sociali vantaggiose quanto incalcolabili opportunità. Un falso titolo – oggi accademico poiché più credibile dell’antica onorificenza nobiliare – resta ancora la chiave d’acceso al regno del
fantastico, un punto debole che nella sobria e pragmatica società tedesca
contemporanea finisce tuttora per sorprendere. Per quanto in definitiva
sia mutata la pur ricca facoltà espressiva dell’impostura, il contenuto è rimasto pressoché inalterato. Nella Germania postbellica i cavalieri d’industria non si sono dissolti; sono tornati alla ribalta con rinnovato vigore; al
pari di un virus potente si insinuano nel quotidiano, artefici di una mimesi sempre più autentica e ardua da smascherare. Merito, certo, della loro indiscussa bravura. Mentitori abilissimi, essi interpretano ruoli molteplici con una verosimiglianza ‘scientifica’ (compaiono nei panni di medici, professori, giuristi), tale da sconcertare il professionista più esperto,
proprio come Thomas Mann aveva celebrato l’apoteosi del falso principe
che appare più autentico e convincente di un vero re.
Il riaffiorare dei cavalieri d’industria nella letteratura dopo il 1945 è
da ricondurre prevalentemente al boom economico, simbolo dell’ondata
di benessere che investì l’Europa occidentale a vari livelli, allorché le fasce
più colpite dagli effetti disastrosi del conflitto si ritrovarono a dover ricominciare la propria vita da zero. La propensione a ‘voltare pagina’ che caratterizzò la società tedesca dei primi anni Cinquanta, e l’indegno revisionismo delle atrocità dei campi di sterminio, si propose agli occhi di molti
come nulla osta alla ‘riscrittura’ del passato individuale. Il milieu borghese
poi, l’humus imprescindibile che fa da sfondo ai raggiri dei predecessori
di Krull, è sopravvissuto praticamente intatto – dietro la maschera di una
rinnovata identità – al processo di denazificazione del paese. Negli anni
Cinquanta la Germania del Piano Marshall andava incontro a una nuova
belle époque. Con simili premesse storico-sociali, quasi a conferma dell’universalità dei corsi e ricorsi storici, c’è da chiedersi per quale motivo il fenomeno dell’impostura non avrebbe dovuto ripresentarsi con slancio e vigore rinnovati. Dal 1945 a oggi i cavalieri d’industria in Germania dilagano più che mai per le strade, sugli schermi cinematografici o nei para-
108 /
SILVIA ULRICH
disi mediatici, ma anche nella letteratura, e non solo d’intrattenimento.6
Chi sono dunque gli eredi di Felix Krull?
Nel 1953, sull’onda di una serie di opere neo-picaresche, esce il romanzo Falsi e falsari di Wolfgang Hildesheimer.7 L’ambientazione è molto
simile a quella del Krull: l’artista Anton Velhagen narra la propria storia,
un intreccio di avventure facenti capo all’immaginario principato di Prozegovina e al suo pittore nazionale (ovvio, inesistente) Ayax Mazyrka.
Formalmente, la forma dell’autobiografia fittizia riprende il capolavoro
manniano, tuttavia la problematica della finzione analizzata da Hildesheimer fa del rapporto menzogna-verità – lo stesso su cui Krull fonda le proprie confessioni – l’apologia dell’assoluta inattendibilità del narrato, tanto
contenutistica quanto strettamente narratologica, esito di uno sperimentalismo stilistico che, senza troppe forzature, si può definire ‘negativo’:
Il pittore Ayax Mazyrka, detto anche il ‘Rembrandt della Prozegovina’,
una delle personalità più significative della storia dell’arte, non è mai esistito. Le sue opere sono dei falsi e la storia della sua vita è un’invenzione.
Che questo fatto sia chiaro fin d’ora perché è sia il punto di partenza che
il movente per queste mie note. Non mi aspetto che il lettore mi presti
fede e se questo fatto viene messo per la prima volta nero su bianco, è soltanto perché – a dispetto di ogni incredulità – è di importanza fondamentale per quel che credo di dover raccontare. (FF, p. 9)
L’incipit del romanzo esprime in nuce l’intera estetica dell’autore, volta a
cambiare i connotati ai concetti di verità-finzione che già il Krull aveva
invertito: Krull era mentitore in quanto geniale artista, i personaggi di
Hildesheimer sono invece artisti in quanto geniali falsari. Tutti nel romanzo rivestono il ruolo di contraffatori: Robert Guiscard, presunto zio
del protagonista, Philipp Roskol, suo precettore e la ‘zia’ Lydia, collezionatrice di false anticaglie; tutti quanti maestri dell’imbroglio, spesso addirittura rivelato, a dimostrazione del fatto che il moderno cavaliere d’indu6
Cfr. Evelyn Finger, “Unheiligenschein. Brich aus, wenn du kannst”, Die Zeit, 27 aprile 2003. Nel sottotitolo l’autrice poneva in risalto l’attualità del fenomeno: “Nei film e nei
libri pullula di cavalieri d’industria e di imbroglioni geniali. Ma perché queste canaglie sono così affascinanti?” Una possibile risposta si trova nel libro-scandalo di Gert Postel,
Doktorspiele. Geständnisse eines Hochstaplers (2001), che ha portato alla ribalta un fenomeno sociale creduto ormai estinto da tempo.
7
Wolfgang Hildesheimer, Paradies der falschen Vögel (1953), trad. it. di Paola Galimberti, Falsi e falsari, Milano: Marcos y Marcos, 1991, p. 9. D’ora in avanti la sigla FF farà
riferimento a questo volume.
GLI EREDI DI FELIX KRULL
/ 109
stria ha raggiunto la piena consapevolezza del proprio mentire: “Non sono un pittore”, afferma Robert, “sono un falsario, ma un falsario geniale,
un grande, non uno di quei miseri imitatori di prati e di boschi che si appropriano di una piccola fetta di storia dell’arte e se la imparano a memoria” (FF, p. 56). Una simile ammissione ricorda un po’ la riabilitazione
che Thomas Mann fa a proposito del furto nel Krull, un inchino di fronte all’art pour l’art. La finzione è arte rispettabile nella misura in cui crea
verità nuove di zecca, assolutamente credibili e indubitabili. Non siamo
di fronte all’apoteosi della dissimulazione, ma di una forma di estro al
‘negativo’, poiché crea, falsificandola, la verità e i suoi stessi fondamenti.
Così, una volta inventato il pittore Mazyrka, ecco immaginata anche la
sua biografia, un saggio di storia dell’arte di singolare “fantasia scientifica”
(FF, p. 63); un’aporia della gnoseologia dopo il 1945, che solo l’ossimoro
può davvero esprimere: “Sì – risposi per amore della verità – mia zia possiede due autentici Mazyrka” (FF, p. 77), afferma Velhagen con quell’incrollabile sicurezza che solo la menzogna può davvero conferire.
In questo breve romanzo Hildesheimer rinuncia a proporre ulteriori
riflessioni sull’inautenticità di ogni testimonianza, tanto verbale quanto
scritta, che ancora nel Krull trovava ampio spazio. Nel testo mancano vere digressioni sull’estetica della finzione e quando se ne fa cenno (“Che
cos’è un quadro autentico?”, FF, p. 121), si tratta solo di fugaci interrogativi, apparentemente aperti, cui è il tessuto narrativo stesso a dare risposta. Perché il falsario geniale falsifica anche l’arte apocrifa, e il giovane
Velhagen, malgrado il tentativo di dare espressione in modo tradizionale
alla propria vena artistica, una volta abbandonato il proprio ruolo di paesaggista prozegovniaco morto prematuramente, scopre come la propria
opera sia stata falsificata proprio da colui che lo ha iniziato all’arte del falso, lo zio Robert. Non potendo smascherarlo, pena la rivelazione della
propria identità, Velhagen persevera nel solo inganno di sopravvivere alla
propria morte, universalmente riconosciuta come tale ma proprio per
questo altrettanto ingannevole: essa conferisce al personaggio quel tanto
di ermetico che è in fondo la caratteristica precipua di ogni cavaliere d’industria.8 Nel momento in cui l’originale smaschera l’imitazione, Velhagen
comprende come la verità agli occhi del mondo appaia una menzogna e
l’individuo autentico un impostore: ecco perché l’autenticità si mostra
8
Cfr. Claudia Monti, “Una scrittura ermetica. Il Felix Krull”, Cultura tedesca, 1, 1994,
p. 99-114.
110 /
SILVIA ULRICH
non già come una verità comprovata dalla realtà, ma esclusivamente come ciò che “è dichiarato autentico da uno o più esperti” (FF, p. 121).
L’arte tematizzata nel romanzo, un vero falso materiale oltre che ideologico, è figlia dell’etica borghese del profitto; e profondamente borghesi sono in fondo tutti i personaggi della commedia, a cominciare da Robert
Guiscard, del quale il nipote e discepolo Velhagen afferma che “l’accumulo
di ricchezze era la forza che lo muoveva” (FF, p. 40),9 fino a Liane, una
spia che il matrimonio con Robert trasforma in poco tempo in “una vera
donna di casa” (FF, p. 89). Anche il ministro della cultura prozegovniaco è
un cultore del falso a puro scopo di lucro (“Abbiamo un solo olandese, un
Rubens, che – detto tra noi – non è autentico” (FF, p. 59); infine lo stesso
Velhagen, che dopo la leggendaria fucilazione del suo personaggio, mutata
la propria identità e ritrovatosi a dipingere sui marciapiedi, afferma: “Sarebbe stata un’impresa titanica spiegare che la posizione di un pittore di
strada, anche se socialmente inferiore a quella del suo collega d’atelier, rendeva materialmente molto di più” (FF, p. 109). In tal modo Hildesheimer
rintraccia e snida una borghesia diabolicamente camuffata, pronta a tutto
pur di sopravvivere ai tempi, avvolta nel canovaccio della finzione di sempre; se poi è lo stesso artista-falsario ad affermare che “i tempi sono cambiati e non ha alcun senso ignorare il cambiamento; bisogna adeguarsi”
(FF, p. 88), significa che l’impostore è ancora sempre un prodotto imperfetto del trionfo borghese; o forse davvero perfetto per via della fiera rinuncia a “smascherare i mali esistenti o addirittura di correggerli” (FF, p. 9). Il
compito di miglioratore del mondo, del resto, non si addice a una canaglia, poiché va da sé che perseguendo i propri interessi egli debba inevitabilmente danneggiare il prossimo. Ma sconcerta assai più la considerazione
del protagonista, secondo cui “è molto difficile stabilire dove siano veramente gli interessi: l’azione di ieri, pensata e ripensata, oggi può rivelarsi
affrettata e sciocca, il fatto di oggi è il misfatto di domani” (FF, p. 122). La
distanza temporale, che nella satira di Hildesheimer muta gli avvenimenti
in verità storiche, altera il valore di un’azione, la fa mutare di segno.
Tramontata la parola quale garanzia di attendibilità, la Sekurität borghese, portata allo scoperto dalla narrazione, cerca appoggio nella presun9
Mediante l’allusione allo storico condottiero normanno Roberto Guiscardo l’autore
insiste sull’attitudine a plasmare l’identità servendosi di personaggi realmente esistititi, di
cui le figure fittizie del romanzo si offrono come copia. La falsificazione del ‘lignaggio’ del
resto è una pratica che il cavaliere d’industria mette in atto frequentemente; essa diviene
la base su cui tutte le finzioni si fondano.
GLI EREDI DI FELIX KRULL
/ 111
ta autenticità di fatti storicamente accaduti. Nell’indagine fantasmagorica
che l’autore compie attraverso un’Europa balcanica dalla fisionomia cangiante, dove Paesi mai realmente esistiti scompaiono con grande rapidità
dalla carta geografica – sono chiare le allusioni all’invasione della Polonia
nel 1939 –10 emerge un quadro tanto ilare quanto inquietante: l’intera
storia dell’arte si rivela una pedagogia del falso, fin dal primo approccio
accademico al disegno, che avviene mediante l’esercizio della copia, definita nient’altro che imitazione. Non stupisce come il cavaliere d’industria, plasmando il proprio talento sulla pratica dell’emulazione, faccia
dell’arte pittorica il regno di nuove conquiste. Il problema morale che
sottende al difficile rapporto verità-menzogna emerge proprio dal potenziale mistificatorio che contrassegna l’Europa negli anni Cinquanta. La
finzione non costituisce più un ‘caso’ meritevole di indagine sociologica e
psicologica; essa appartiene più che mai al contesto socio-politico, con il
quale ogni riflessione sulla realtà è inevitabilmente costretta a confrontarsi. L’argomento stesso del romanzo viene presentato con grandissima naturalezza, quasi con ingenua innocenza, sì da instillare nel lettore il dubbio che nelle trame del racconto non si nasconda davvero una verità ignota ai più e su cui nessuno ha mai osato porre domande:
[Le] gallerie europee e americane […] traboccano di falsi – uno qui, uno
là, sistemati con mano abile – ma nessuno ne parla perché non rientra nell’ambito della vita di tutti i giorni. E certamente in questi ultimi anni ci
sono state altre cose che hanno assorbito in misura crescente l’interesse del
pubblico e che – chi potrebbe mai negarlo – per l’immediato futuro dell’umanità sono ben più significative di qualche quadro falso. (FF, pp. 9-10)
Così come la vera autenticità del gesto pittorico può nascondersi anche
nella silenziosa attività del falsario, allo stesso modo la rivelazione della ve10
“Il principato di Prozegovina è ormai scomparso dalla cartina dell’Europa da più di
vent’anni e, fatta eccezione per un piccolo pugno di ex prozegovniaci dallo spirito nazionalista, oggi non sono più molti quelli che si cullano nell’illusione di una rinascita di quello stato. Il governo in esilio, formatosi a Londra durante l’ultima guerra mondiale, esiste tutt’ora
e si riunisce una volta all’anno, ma nessuno sa di preciso cosa governi e così si avanza la supposizione che si tratti di un’istituzione destinata a scomparire. Tuttavia lungi da me l’idea di
voler scoraggiare coloro che, imperterriti, continuano a crederci. E perché mai dovrei farlo?
Chi di noi sa quale assetto avrà la carta geografica dopo la prossima guerra mondiale scagli
la prima pietra contro i prozegovniaci” (FF, p. 79). Il narratore (oltre al riferimento specificamente musiliano) possiede una forte consapevolezza storica profeticamente inquietante,
dal momento che la vicenda non è storicamente determinata, ma si presenta atemporale come una fiaba, dunque fittizia per quanto autentica nel messaggio che trasmette.
112 /
SILVIA ULRICH
rità può avvenire mediante l’inautenticità della narrazione. Hildesheimer
estremizza la riflessione operata da Thomas Mann nel Krull: lì era falsa la
materia narrata, ma veridica la narrazione; qui invece sono false entrambe;
tutto è simulato e contemporaneamente anche dissimulato, senza che per
questo gli opposti si annullino, proprio come prospettava il teatro dell’assurdo, di cui Hildesheimer fu un eclettico rappresentante. Narrare il falso
per ‘amore della verità’ è dunque l’ironico imperativo categorico del romanzo. Ma la riflessione sulla verità, divenuta nel dopoguerra tedesco il
cardine attorno al quale ruota gran parte della letteratura impegnata e
d’intrattenimento, non può prescindere dalla riflessione sull’etica che l’arte può e deve ancora veicolare. Come per il furto compiuto da Krull, anche la creazione di un dipinto attribuibile a Rubens è un atto sublime, un
lungo e autentico processo creativo che presuppone la facoltà di “calarsi
interamente nella personalità dell’autore del modello” (FF, p. 57). L’avvicendamento dei ruoli è ancora sempre il fondamento dell’impostura ‘in
guanti gialli’, sempre meno picaresca, al contrario decisamente più evoluta; ma si è virtualizzato mutando di linguaggio, che ora non è più esclusivamente verbale, bensì affida il suo compito al muto potere di convincimento di un disegno. “Arte della persuasione” (FF, p. 61) viene definita
nel testo: la regina delle arti – nell’era postmoderna assai più che in passato – eletta a fondamento da un capitalismo estremo che fa dell’apparenza
un principio universalmente sostenibile. In un quadro tanto ambiguo come quello che emerge dal romanzo, Hildesheimer, a dispetto dell’atteggiamento rinunciatario che adotta, non esita a emettere un appello all’autenticità, auspicandone una presenza ancora intatta nell’intimo di ogni uomo, per quanto irriducibilmente menzognero: “Le persone migliori sono
quelle alle quali la vita si manifesta nella sua veste più semplice e che tirano avanti ignare davanti ai punti più scabrosi della verità; nel mondo delle
loro rappresentazioni non c’è posto per la malvagità” (FF, p. 110). Anche
per Hildesheimer, come già per Thomas Mann, la riabilitazione dell’errore
acquista proporzioni metafisiche – proteiformi ed ermetiche – che invitano ad un confronto responsabile con le verità scottanti del passato recente.
È un messaggio, questo, che si riverbera anche nel dramma Der Drachenthron (1955),11 una libera interpretazione della leggenda della principessa cinese Turandot. La nota sfida che Turandot impone ai suoi preten11
La traduzione letterale del titolo – Il trono del drago – non rende il gioco di parole tra
Drache (drago) e Drachen (arpia, megera) chiaramente riferito a Turandot.
GLI EREDI DI FELIX KRULL
/ 113
denti viene reinterpretata alla luce della tradizione canagliesca. L’aspirante
in questione, infatti, è un falso principe che giunge nel palazzo della principessa quasi per caso e acconsente di sottoporsi alla temibile gara di conversazione, fino a quel momento mai superata da nessuno. Egli però può
superarla poiché conosce le verità inconfessate dell’Impero – l’omicidio
dei pretendenti per l’annessione dei loro regni – che la principessa occulta
dietro l’orrido rito di corteggiamento. Non è di scena la tradizionale lotta
tra Bene e Male, ma tra due tipi di male diversi, il male assoluto (Turandot) e il male relativo (falso principe), pronti a fronteggiarsi in una pericolosa singolar tenzone senza esclusione di colpi. Malgrado tutto, la maggiore levità si raggiunge proprio durante la gara, che è poi un gioco funambolico teso sopra il baratro della morte:
TURANDOT: Del mio predecessore, l’imperatore Yo-Minh, si narra di come un suo sguardo bastasse a nobilitare l’umanità intera.
FALSO PRINCIPE: Onorata Principessa Turandot, sapete bene che a nessuno si attribuiscono tante virtù come a un probo antenato, specialmente
quando è morto da tempo.
TURANDOT: Principe, credo che le Vostre formulazioni siano audaci più
di quanto Vi convenga.
FALSO PRINCIPE: Non credo sia stata l’audacia delle formulazioni a costare la testa ai miei predecessori su questo scranno.12
Pur rimanendo pressoché immutata la natura dell’impostura rispetto alle
precedenti commedie di avventurieri,13 il dramma rappresenta il mutato
contesto in cui agisce l’avventuriero del secondo Novecento: l’esperienza
della guerra, che nell’opera compare come evento quasi metafisico, rende
l’argomento assai più sarcastico di quanto avviene in Falsi e falsari, dove il
tutto si risolve in sorriso dolce-amaro; acquistano poi notevole importanza le rivendicazioni femministe di Turandot (“Non mi vengano a dire che
non avrei fatto bene a farvi giustiziare tutti, voi uomini”, DD, p. 184) e
più in generale la lotta tra i due sessi, che sarà in definitiva lo scoglio contro cui l’orgoglio femminile della principessa andrà a schiantarsi:
12
Wolfgang Hildesheimer, Der Drachenthron, Zürich: Haffmans Verlag, 1984, pp. 5960. Laddove non altrimenti indicato, la traduzione è mia. D’ora in avanti la sigla DD farà
riferimento a questo testo.
13
Alla corte del Regno Cinese la principessa Turandot, che ha fatto voto di concedersi
in sposa al principe che la vincerà in una gara di conversazione, attende il principe di
Astrachan. Quando questi giunge, Pnina, ex principessa ridotta in schiavitù dal diritto
bellico, lo smaschera come impostore, senza tuttavia convincerlo a ritirarsi dalla prova,
114 /
SILVIA ULRICH
TURANDOT: Il Principe d’Arabia, hanno dovuto portarlo singhiozzante al
patibolo!!
FALSO PRINCIPE: Posso ben immaginarlo. Amava la sua moglie più giovane sopra ogni cosa! […] Aveva tre mogli, Voi dovevate essere di certo la
quarta. […] Le altre mogli gli avevano dato solo figlie femmine; voleva
ancora un paio di maschi vigorosi! (A poco a poco cresce l’agitazione.) Devo
ammettere che lo capisco. Voi no? (L’agitazione cresce.) Voi tacete, Principessa! (Pausa, L’agitazione cresce.) (DD, pp. 72-73)
Infine vi è la ricerca di un’etica della verità, raggiunta mediante l’indagine
dei lati oscuri della menzogna, che nel dramma non è solo individuale,
ma anche e soprattutto di Stato:
PNINA: È per il tuo bene se mantieni il culto degli dei.
TURADOT: È […] il privilegio del sovrano. Comunque in loro nome ho
fatto voto di castità.
PNINA: [...] Non dimenticare che io so chi ti viene a trovare di notte nella
tua camera da letto.
TURANDOT: Il ricatto, cara Pnina, non si addice a una ex principessa.
PNINA: Non più di quanto non si addica a una futura sovrana ingannare
il suo popolo. (DD, p. 30)
L’inganno collettivo si lega inscindibilmente a una fede ottenebrata e alla
superstizione, quel substrato mitico di sensazioni e fantasie irrazionali che
permette la manipolazione dell’opinione pubblica al fine di giustificare
una sfrenata ambizione di potere. Così – velata dalla metafora sinologica
– l’Autorità falsifica ogni profezia per legittimare agli occhi del popolo
ogni pretesa imperialista, operando una sorta di autodivinazione: “Non
saremmo Gran Sacerdoti, se non fossimo in grado di convincere il popolo
del contrario di ciò che ha visto” (DD, pp. 14-15). Come è lecito attendersi, spetta proprio all’avventuriero, sia esso paladino della verità o pragmatico falsario, adempiere a un compito moralmente elevato: “sono venuto”, afferma il falso principe, “per domare un mostro” (DD, p. 44).
L’avventuriero, smascherato da una Pnina tanto più arrivista quanto meno in grado di godere dei privilegi concessi all’élite, è investito del grave
durante la quale egli, rivelando gli omicidi della Corte, mette in difficoltà la Principessa,
decretandone la sconfitta. Ma il cavaliere d’industria, amante della libertà e paladino della
verità, non accetta di divenire re di un Regno macchiatosi di crimini orribili e abbandona
la principessa al vero principe di Astrachan, un barbaro violento e guerrafondaio, giunto
nel frattempo e assetato a sua volta di potere.
GLI EREDI DI FELIX KRULL
/ 115
compito di smascherare le menzogne e i crimini della corte imperiale, la
cui logica ha sostituito quella capitalistica del profitto. Egli infatti, che
difficilmente resiste alla seduzione del denaro, rimane invece assolutamente indifferente al fascino del potere, anzi lo schiva con fierezza, preferendo un’uscita di scena silenziosa e dimessa. Domina l’atteggiamento rinunciatario di chi ha compreso il fondamento di ogni avventura, quella
“radicale finitudine” –14 come l’aveva definitita Georg Simmel che ne aveva teorizzato i fondamenti – ossia la sua totale indipendenza dagli eventi
che la precedono e la seguono e che fanno della vita un Tutto unitario. La
rinuncia del falso principe all’investitura imperiale, tuttavia, pone le basi
per la reiterazione all’infinito del gioco, giacché egli pregusta l’effetto benefico e vivificante di nuove conquiste proprio nel regno di Astrachan, di
cui si è spacciato regnante senza nemmeno conoscerne l’esistenza. Benché
alieno dall’utopia di cambiare il mondo, il cavaliere d’industria risulta vittorioso poiché in fondo non ha nulla da perdere. Ecco perché in un paese
moderno è di gran lunga più gradito un avventuriero che non la minaccia
imperialista di un esercito omicida e devastante.15
La consapevolezza della guerra e dei suoi crimini, che attraversa con
tono perentorio tutta la pièce, sovrasta le parti in gioco come la biblica
pietra, dapprima scartata e divenuta ora sgradita testata d’angolo. Intesa
in tutta la sua negatività, la guerra appare come condizione che incoraggia l’ambiguità e provoca scambi di ruoli inattesi, molto spesso anche
coatti:
PNINA: Tu sei colei che mi ha reso schiava.
TURANDOT: Non io, ma il diritto bellico. Noi abbiamo sconfitto il vostro
paese. Se voi aveste sconfitto il nostro, oggi sarei io la tua schiava.
PNINA: Noi non avremmo attaccato il vostro paese. (DD, p. 15).
L’avventuriero, nostalgico dell’infinito gioco delle possibilità dell’io, può
solo prenderne atto adeguandovisi: “Cara Pnina: si è ciò che si è, non ciò
che si era. Tu sei una schiava e io un Principe. L’unica differenza che esiste tra me e gli altri principi è che io non sono sempre lo stesso principe”
(DD, p. 32). Anche nel dopoguerra dunque, come già avveniva nella tra14
Georg Simmel, “L’avventura”, in Id., Saggi di cultura filosofica, Milano: Longanesi,
1985, p. 16.
15
Cfr. DD, p. 104: “In ogni caso si accetterà di gran lunga più volentieri un avventuriero a ogni corte che non l’imperatore della Cina alla testa di un esercito omicida e devastante”.
116 /
SILVIA ULRICH
dizione, il cavaliere d’industria continua a volgere a proprio vantaggio situazioni di per sé profondamente contaminate da un male sociale inestirpabile, senza che venga prospettata alcuna possibilità di riscatto. Spogliando, battuta dopo battuta, la Cina leggendaria dalla sua veste esotica
e fiabesca, Hildesheimer denuncia le contraddizioni di una Germania postbellica dove i criminali nazisti si nascondono impuniti dietro la maschera di sprovveduti funzionari, fruitori di una morale ipocrita molto spesso
deleteria.16
Di questa pièce esiste anche una seconda versione, nota al pubblico soprattutto in forma di radiodramma, intitolata Die Eroberung der Prinzessin Turandot [La conquista della principessa Turandot].17 Scritta nello stesso
anno, essa si presenta però profondamente diversa dalla prima, nonostante i pochi rimaneggiamenti. Turandot, da artefice dei delitti commessi a
corte, diventa vittima inconsapevole, mentre il cavaliere d’industria, sempre nelle vesti di falso principe, interpreta con cognizione di causa il ruolo di Freier, nel senso di Befreier, ossia colui che libera la principessa dalla
tirannia di un sistema perverso. Pentito del tragico cinismo con cui si
chiudeva la prima versione – tutto sommato in netto contrasto con l’intrinseca positività dell’avventuriero – Hildesheimer immagina ora un cavaliere d’industria in grado in qualche modo di offrire ancora possibili alternative allo sfacelo, non già per cambiare il mondo (presupposto negato
a priori nella Weltanschauung dell’autore), bensì per amore della reiterazione all’infinito di un gioco che tiene l’uomo avvinto a una realtà cui in
fondo è impossibile sottrarsi.
La Turandot di questa nuova versione si presenta arricchita di grande,
nobile saggezza; una ricchezza più profonda e genuina, in grado di trattenere l’avventuriero a corte. Entrambi infatti sceglieranno di governare
protetti da un anonimato che libera da vincoli e rituali di potere avvertiti
16
Nella battuta del Custode delle Vacche Sacre (“Ci risparmino gli dei la sventura del
latte sacro che diventa nero. Sarebbe la distruzione immediata del nostro regno”; DD, p.
42) vi è un chiaro riferimento alla lirica di Paul Celan, Todesfuge (1944), uno dei principali atti d’accusa contro i crimini nazisti degli anni immediatamente successivi alla guerra.
17
Il passaggio dalla prima alla seconda versione si deve sostanzialmente alla ‘negatività’
che la vicenda aveva assunto agli occhi della critica. Nella postfazione, l’autore dichiara
che Der Drachenthron non è una vera e propria commedia, dal momento che la vicenda
alla fine non si volge in positivo. Tutto in effetti rimane com’è. Nella seconda versione, invece, Turandot sposerà il cavaliere d’industria e vivrà con lui alle spalle del principe barbaro autentico e della schiava Pnina, divenuta sua moglie per ritornare a essere regina, regnando guidati dai loro consigli e dalla loro saggezza.
GLI EREDI DI FELIX KRULL
/ 117
come fasulli. Il vitalismo dell’avventura trova così una possibile fine nel
fingere di ignorare quelle forze che ne stanno alla base, un po’ come
preannuncia la parabola narrata da Turandot all’inizio del primo atto a
proposito dell’inganno agli dèi.18 Più che un vero e proprio raggiro, è
un’astuzia non priva di malizia ma innocua, che preannuncia la volontà
positiva di perseguire il bene della collettività, malgrado i mali che contaminano il presente. Inoltre le rivendicazioni femministe della principessaamazzone si attenuano sensibilmente, a favore invece di una riflessione
più approfondita sui crimini compiuti in seno alla stessa Autorità che dovrebbe impedirli. Nella scoperta che l’ignara Turandot fa dei ripetuti omicidi, perpetrati in suo nome, dei pretendenti che lei credeva solo spogliati
degli averi, emerge la rigorosa denuncia del capitalismo che nasconde, in
modo talvolta inconsapevole, un legame diretto con il totalitarismo: ciò
che compare camuffato dalla cinica legge degli affari non può che nascondere la diaboliche dinamiche della sopraffazione, che sempre più
spesso implicano l’eliminazione di un rivale politico, oltre che di un partner economicamente debole.
Testimone e insieme coartefice di tali dinamiche è anche Gert Postel,
autore delle memorie-scandalo Doktorspiele. Geständnisse eines Hochstaplers (2001). Questo volume si inscrive nella tradizione della memorialistica e, idealmente, anche al termine dell’evoluzione secolare dell’impostura, inaugurata nel 1905 dalle memorie dell’avventuriero rumeno
Georges Manolescu. Esistono alcune importanti analogie tra le memorie
di Gert Postel e l’estetica della finzione di Hildesheimer, in particolare
per quanto riguarda la creazione della verità partendo da un substrato
completamente fittizio. Nella fantasmagoria delle proprie avventure, Postel inventa personaggi cui assegna il compito di farsi garanti per lui; è il
caso dell’immaginario dottor Olivarez, di cui egli fornisce una particolareggiata presentazione:
M’ero immaginato d’aver avuto in una delle mie costellazioni un assistente di sessantatre anni, originario del Brasile, di nome Dott. Olivarez. Oli18
“Nel lontano Nord vive un popolo che venera l’uccello Kuru. Ma il Kuru non è solo
l’uccello sacro: arrostito è un piatto prelibato. Poiché in quel paese è vietato ucciderlo, lo
si fa cacciare agli uomini del popolo vicino. Per costoro è sacro l’uccello Rokh, che è anch’esso una leccornia di cui i regnanti sono ghiotti. Essi chiamano a cacciarlo la gente del
popolo che adora il Kuru, sicché avviene un intenso scambio di cacciatori tra i due popoli
per ingannare gli dèi”. Wolfgang Hildesheimer, Die Eroberung der Prinzessin Turandot,
Frankfurt am Main: Fischer, 1969, p. 22.
118 /
SILVIA ULRICH
varez sosteneva di aver conseguito la libera docenza in patria e di essere
stato, prima del suo trasferimento a Zschadraß, direttore di un gigantesco
ospedale psichiatrico in mezzo alla foresta vergine. Sotto di lui pare lavorassero trecento medici […] Olivarez era assolutamente eccentrico […]
Era poco pulito ed estremamente parsimonioso…19
Nella narrazione il Konjunktiv I, volto a stabilire una certa distanza tra il
narratore e il fatto narrato mettendone velatamente in dubbio l’attendibilità, cede quasi subito il passo all’indicativo, decretando così il passaggio
da creazione della fantasia a prodotto reale e autentico. A poco serve la
prefazione alle memorie – redatta da una personalità del mondo medico
del cui nome Postel si è servito per uno dei suoi colpi – nella quale si avvisa il lettore di non prendere troppo sul serio le rivelazioni del reo confesso in quanto frutto di “una percezione distorta della realtà, un rapporto alterato con la verità” (DGH, p. 16). È la totale smentita dell’aletheia,
di cui Postel pone il sigillo all’impostura nella misura in cui l’accosta al
giornalismo, che per tradizione in Germania non gode di una reputazione lusinghiera: “Il mio giornalista preferito [si chiama] Volker Zastrow.
[…] scrive per la Frankfurter Allegemeine Zeitung ciò che vuole e glielo
pubblicano pure! […] Parlando con me ha capito in fretta che io in realtà
non so mentire. Suona paradossale per un cavaliere d’industria, uno che
ha ingannato e deluso tanta gente, eppure è la verità“ (DGH, pp. 88-89).
Dura veritas sed veritas sembra dire Postel, riecheggiando con grande ironia proprio quella stessa legge che egli a più riprese ha sfrontatamente trasgredito. L’esile portalettere senza titoli di studio si rivela però un Ermes
camaleontico, custode di un messaggio di autenticità in cui egli per primo crede fino all’inverosimile.
Vi è nella sua narrazione la matura consapevolezza di trovarsi nel punto di confluenza di più tradizioni letterarie, dall’Hochstaplerliteratur propriamente detta alle più accreditate autobiografie della storia, che egli
mostra di conoscere molto bene, evitando al tempo stesso di qualificarsi
19
“[Da] hatte ich mir ausgedacht, ich hätte in einer meiner Situationen einen 63-jähriger Assistentenarzt gehabt, der aus Brasilien stammte und Dr. Olivarez geheißen habe.
Olivarez behauptete, er habe sich in seiner Heimat habilitiert und sei vor seinem Umzug
nach Zschadraß Leiter eines gigantischen psychiatrischen Hospitals mitten im Urwald
gewesen. Nahezu dreihundert Ärzte hätten unter ihm gearbeitet. […] Olivarez war ein absoluter Exot. […] Er war unsauber und extrem sparsam…” Gert Postel, Doktorspiele. Geständnisse eines Hochstaplers, Frankfurt am Main: Eichborn, 2001, p. 43 (corsivi miei).
D’ora in avanti la sigla DGH farà riferimento a questo volume.
GLI EREDI DI FELIX KRULL
/ 119
come semplice imitatore dei suoi modelli: “è evidente”, afferma, “che anche con un modello quale il ‘Felix Krull’ si può scrivere un libro sull’impostura mediocre” (DGH, p. 125); l’avvicendamento dei ruoli nel suo caso non si limita alle maschere proteiformi che gli hanno fornito un volto,
ma si trasmette al travestimento letterario con cui egli camuffa la propria
biografia, e che reca il distintivo di grandi poeti quali Günter Grass,
Heinrich Heine o Paul Celan (DGH, pp. 82, 160-61). La letteratura, il
regno della finzione narrativa mutatasi in realtà, rappresenta la ‘verità
estetica’20 pronta a cedere all’impostura quella dignità e credibilità che solo l’inoppugnabile autorevolezza dei grandi del passato può avvalorare.
Un po’ come avviene in Falsi e falsari, dove l’imitazione non è considerata
artificio, ma un modo ancora possibile di essere creativi nella società contemporanea tragicamente segnata dal male assoluto.
Con la propria confessione Postel opera altresì un tentativo di autoassoluzione dai propri misfatti. Partendo dagli episodi più spiacevoli della
storia tedesca dopo il 1945 – con particolare riferimento alla dittatura
Rdt – la sua narrazione culmina nella lucida consapevolezza di rappresentare ancora sempre il male minore: “Dal mio punto di vista, non avevo
nulla da ridire contro il principio del governo sassone, secondo cui è meglio assumere un imbroglione non qualificato piuttosto che un qualificato membro della Stasi” (DGH, p. 40). È la stessa consapevolezza di cui si
nutre la regale superiorità del falso principe di Astrachan di fronte a Turandot, e che pare destinata a perpetuarsi da un sistema economico-politico all’altro percorrendo l’asse infinito della Storia, quasi a voler scongiurare l’avvento di futuri, ancora più perversi totalitarismi.
20
Cfr. Käthe Hamburger, Wahrheit und Ästhetische Wahrheit, Stuttgart: Klett-Cotta,
1979, p. 141. Schiller, il primo a considerare la verità come principio estetico assai più
moderno del bello, definisce la ‘verità estetica’ estremamente ingannevole.
§
7
Francesca Pagani
Dal ‘cielo stellato’ di Mallarmé
alle ‘bolle d’inchiostro’ di Reverdy
L’immaginario del libro magico nella poesia francese della modernità
Dei saperi rivelati da Teeto, la scrittura è la sola arte che susciti diffidenza e
inquietudine: proponendosi quale sostituta dell’esercizio della memoria e
dell’apprendimento, essa sottrae gli uomini alla conoscenza diretta della
realtà, unica fonte del vero sapere.1 Il libro, che accoglie e diffonde quest’arte, è guardato con ugual sospetto;2 in questo oggetto, in grado di suggerire
un mondo che, seppur illusorio, appare più credibile e convincente del
mondo reale, si esercitano materialmente l’autorità e il potere seduttivo propri alla scrittura.3 Per questo i detrattori di un sapere giudicato ‘libresco’ non
mancano di ricordare come il mondo raffigurato dai libri non sia che un artificio rinchiuso in una massa di oggetti che la polvere ricopre rapidamente.4
Tuttavia il libro diviene, nell’era in cui sorge la scienza moderna, la
metafora più immediata e ricorrente della natura, ovvero di quella stessa
realtà che gli si opponeva e che lo si accusava di voler riprodurre.5 Infatti
1
Platone, Fedro, 274d-275b.
Relativamente agli immaginari del libro, si veda Alberto Castoldi, Bibliofollia, Milano:
Bruno Mondadori, 2004.
3
È la riflessione metaletteraria che Shakespeare sviluppa nella Tempesta. Prospero, attraverso il suo libro magico, crea un universo immaginario di sorprendente verosimiglianza,
la cui credibilità non viene meno neppure quando il suo stesso creatore ne dichiara ripetutamente la natura fittizia. Perché il libro cessi di esercitare il suo incantesimo, il mago
Prospero, che proprio in nome del suo amore per i libri aveva abbandonato l’esercizio della politica, deve allontanarlo irrimediabilmente da sé e restituirlo al dominio di quella natura che egli aveva osato sfidare. Così, egli scaglia il libro magico nelle profondità degli
abissi, lasciando che le leggi del cosmo riprendano il loro corso.
4
Hans Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt (1981), trad. it. di Bruno Argenton, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Bologna: il Mulino, 1989, p. 35.
5
Questa metafora apparve esplicitamente nel Liber creaturarum del filosofo catalano
Raimondo di Sabunda nel 1436.
2
PARAGRAFO II (2006), pp. 121-31
122 /
FRANCESCA PAGANI
la natura stessa, percepita come una totalità chiusa e significante, mossa
da leggi spesso nascoste, appare conoscibile solo attraverso un’operazione
di decifrazione che si avvicina in modo sorprendente all’esercizio della
lettura.6 Il mondo naturale e il libro, da realtà inizialmente e apparentemente antitetiche, si trovano a congiungersi: il mondo dei libri si sposa al
libro del mondo. Questo intreccio inatteso trova la sua origine nella cultura ebraica: il Dio della creazione inscrive nel mondo le linee del suo disegno; attraverso la natura condanna gli uomini o comunica loro l’avvenuta riconciliazione: il diluvio, le piaghe d’Egitto o l’arcobaleno sono da
leggersi come segni divini impressi nel Libro del mondo. Dio offre inoltre
la sua parola attraverso il Libro sacro, la Bibbia.7 Nelle Sacre Scritture la
metafora del libro celeste ricorre in modo particolare e con frequenza nel
Nuovo Testamento, mostrando come il cristianesimo abbia accolto e sviluppato questa figura di matrice ebraica. Il cielo fattosi libro illustra i due
Libri divini: uno è il cielo che materialmente ricopre la terra e che, all’annuncio della fine del mondo, si arrotolerà come una pergamena (Ap. 6,
14); l’altro è il Cielo in cui Dio ha scritto i nomi di coloro che sono destinati alla salvezza eterna (Ap. 5, 1-5; Lc. 10, 20). Quest’ultimo, “il libro
della vita”, si aprirà quando il primo si avvolgerà su di sé.
Il libro, immagine dei due Libri, acquisisce la dimensione di una totalità sacra che condivide un’intima comunione con il mondo. La prospettiva da noi proposta cerca di mostrare come questa visione non cessi di
attualizzarsi, persino in una modernità erede di una progressiva desacralizzazione, culminata nel XVIII secolo.
Nell’immaginario di poeti come Stéphane Mallarmé e Pierre Reverdy
che, malgrado un’evidente filiazione artistica, presentano una personalità
e una poetica nettamente divergenti, si nota la persistenza di questo senso
di sacralità che accompagna la creazione del libro. Non si tratta, in alcun
caso, di uno sguardo narcisistico rivolto alla propria attività – spesso sottostimata dagli stessi autori – ma del frutto di una riflessione che si inter6
Questo avviene nella scienza moderna come in letteratura: Montaigne, nel suo saggio
sull’educazione dei fanciulli, esprime il desiderio che il mondo sia il libro di riferimento
del proprio allievo (Essais I 25). Cartesio parla del “gran libro del mondo”, scegliendo la
stessa immagine che ricorrerà in Diderot (Jacques le Fataliste et son maître) e in Rousseau.
Baudelaire, nel sonetto Correspondances, presenta la Natura come “una tenebrosa e
profonda unità” da interpretare.
7
È interessante sottolineare che questo termine, che designa l’insieme dei libri sacri, è
un barbarismo dell’egiziano biblos, all’origine della parola biblioteca.
DAL ‘CIELO STELLATO’ ALLE ‘BOLLE D’INCHIOSTRO’ /
123
roga senza sosta sul senso del libro che si desidera scrivere e sulla sua relazione con la realtà. L’orientamento di entrambi i poeti, l’uno volto all’ideale della poesia pura, l’altro decisamente più ancorato al reale, portano
alla stessa visione del libro ‘magico’, che giunge a serrare la realtà e ad annientarla (Mallarmé) o a trasformarla (Reverdy).
In una lettera del 1867 destinata a Villiers de l’Isle-Adam, Mallarmé
esprime un pensiero che lo tormenta da tempo; dichiara di aver “compreso l’intima correlazione della Poesia con l’Universo”, e per questa ragione
vorrebbe poterli giustapporre nella sua opera. In questo periodo, il suo
“sogno intimo” si traduce nella realizzazione di “due libri, al contempo
nuovi ed eterni”:8 la fusione del libro poetico e dell’universo non si è ancora compiuta. Negli anni successivi Mallarmé inizia a ritenere che la
semplice giustapposizione del mondo poetico e dell’universo, colti nella
loro correlazione, non risulti più soddisfacente; egli desidera raggiungere
una vera ‘comprensione’ nel senso letterale del termine, ovvero una presa
globale che abbracci l’universo e la poesia riunendoli una profonda unità.
Prende allora corpo il progetto letterario che Mallarmé cercherà di realizzare nel corso di tutta la sua vita: il sogno dei due libri lascia posto all’aspirazione del Libro assoluto.9 Malgrado l’intenso lavoro di un ventennio,
questo Libro non assunse mai una forma definitiva; di questo testo incompiuto e per questo rimasto ancor più ideale, Mallarmé lascia solamente alcune indicazioni nella sua corrispondenza e in alcune note sparse
che avrebbero dovuto essere bruciate dopo la sua morte. Il Libro di Mallarmé è un’architettura vuota, che si vuole solidamente organizzata, e di
cui si può solo indovinare la silhouette e, soprattutto, l’intenzione che la
anima. Il suo autore descrive lo sforzo creatore che mira a “uno dei più
grandi lavori letterari mai tentati”.10 È un’impresa la cui realizzazione incontra una tale resistenza che il suo progetto non può che confermarsi
come grandioso e massimamente ambizioso. Il risultato vuole porsi come
8
Stéphane Mallarmé, “Lettre à Villiers de l’Isle-Adam” (24 settembre 1867), in Œuvres
complètes, t. I, Paris: Gallimard, 1998, p. 724. Laddove non altrimenti indicato, la traduzione è mia.
9
“Così egli è giunto a voler dare all’arte della scrittura un senso universale, un valore
d’universo, e ha riconosciuto che l’oggetto supremo del mondo e la giustificazione della
sua esistenza, – per quanto gli si accordasse questa esistenza, non potesse essere che un Libro”. Paul Valéry, “Lettre sur Mallarmé” (1927), in Œuvres complètes, t. I, Paris: Gallimard, 1997, p. 636-37.
10
Stéphane Mallarmé, “Lettre à Paul Verlaine” (3 novembre 1883), in Œuvres complètes, cit., p. 780.
124 /
FRANCESCA PAGANI
unico, totale, definitivo: un mondo chiuso in cui la parola e la realtà siano tutt’uno, in una nuova alleanza tra la parola e l’universo. Questa idea
di unità e di creazione estrema ossessiona Mallarmé e a tal punto che egli
ne cerca le forme in qualunque opera, persino in quelle di altri autori.
À rebours di Huysmans è accolto con entusiasmo perché “nulla gli
manca”, il mondo e la poesia vi si ritrovano nei “profumi, musiche, liquori e i libri vecchi e quasi futuri; e quei fiori!”.11 La dimensione di questo
libro sembra assumere “un qualcosa di spaventoso; ponendo qualcosa di
definitivo”. À rebours è il “libro unico che doveva essere fatto”.12
Nondimeno il libro unico di Huysmans non cancella il progetto mallarmeano e l’esigenza del suo Libro rimane immutata. L’atteggiamento
dell’autore di fronte alla creazione di un’unità assoluta è quella di un demiurgo che compie il suo incantesimo. Nella celeberrima lettera del 1885
a Paul Verlaine, Mallarmé dichiara la “pazienza d’alchimista” con la quale
ha tentato di realizzare la sua “Grande Opera”: il Libro che sia in grado di
contenere la “spiegazione orfica della terra”.13 Tutto l’universo sarà contenuto, compreso, spiegato nel Libro grazie all’alchimia della parola, alla
magia della musica verbale,14 ai poteri orfici del grande alchimista. È per
questa ragione che quando il Libro assoluto, totale e sacro si chiude, tutto
si abolisce; il tempo si arresta e si annulla. È questa immagine che ritorna
in due occasioni negli appunti di Mallarmé: la prima si ritrova in Igitur,
opera anch’essa incompiuta, nella quale un libro aperto predice l’atto il
cui adempimento porterà all’abolizione del caso. Nel momento in cui Igi11
Stéphane Mallarmé, ”Lettre à Joris-Karl Huysmans” (18 maggio 1884), in Œuvres
complètes, cit., p. 781.
12
Ibidem.
13
“[A] parte dei brani in prosa e dei versi di gioventù […] ho sempre sognato e tentato
altro, con una pazienza d’alchimista, pronto a sacrificare ogni vanità e soddisfazione, come un tempo si bruciarono i mobili e le travi del tetto, per alimentare il forno della Grande Opera. Cosa? È difficile a dirsi, un libro, molto semplicemente, in vari tomi, un libro
che sia un libro, architettonico e premeditato, e non una raccolta di ispirazioni del caso,
fossero anche meravigliose… Andrò oltre, dirò: il Libro convinto che in fondo non ve ne
sia che uno solo, tentato a sua insaputa da chiunque abbia scritto, persino dai Geni. La
spiegazione orfica della terra, che è il solo dovere del poeta e il gioco letterario per eccellenza: perché il ritmo stesso del libro allora vivo e impersonale, persino nella sua impaginazione, si giustappone alle equazioni di questo sogno, o Ode.” Stéphane Mallarmé, “Lettre à Paul Verlaine” (16 novembre 1885), in Œuvres complètes, cit., p. 788.
14
“Faccio Musica, e chiamo così […] l’al di là magicamente prodotto da alcune disposizioni della parola, in cui questa non resta che allo stato di mezzo di comunicazione materiale con il lettore come i tasti del pianoforte.” Stéphane Mallarmé, “Lettre à Edmund
Gosse” (10 gennaio 1893), in Œuvres complètes, cit., p. 807.
DAL ‘CIELO STELLATO’ ALLE ‘BOLLE D’INCHIOSTRO’ /
125
tur “chiude il libro – soffia sulla candela, – con il suo soffio che conteneva il caso: e incrociando le braccia, si corica sulla cenere dei suoi antenati”15 egli non si limita a annunciare la sua morte e quella della sua famiglia, ma marca la conclusione di ogni operazione di creazione. Perché Igitur è, nominalmente, la formula che porta alla fine della prima creazione,
quella del mondo: “Igitur perfecti sunt cæli et terra, et omnis ornatus eorum”. Chiudendo il suo libro, Igitur compie un atto che va in direzione
opposta a quello compiuto dalla creazione divina della vita: egli abolisce
il mondo, e con esso il tempo. Negli appunti che Mallarmé raccoglie nel
suo progetto al Libro si ritrova la stessa immagine: “Il libro sopprime il
tempo ceneri”.16
In Balzac l’abbinamento libro e tempo invertiva i suoi effetti: è il tempo che crea il libro solcando di rughe il viso deformato di Zambinella. Il
tempo cancellava dalla fisionomia del personaggio ogni traccia umana e
vitale e inscriveva, nell’accumulazione di strati ‘temporali’, il suo viso di
morte in forma di libro.17
Accanto al Libro ideale e sognato, Mallarmé coltiva il progetto di altri
libri che, seppur non senza lunghe e faticose revisioni, giungono a una
realizzazione concreta e acquisiscono una presenza materiale: Un Coup de
Dés jamais n’abolira le Hasard è in modo particolare l’emblema di una riflessione che prende corpo, di un pensiero che si illustra da sé. Questo testo, imprescindibile per la poesia contemporanea, partecipa appieno alla
visione mallarmeana dell’universo; nella configurazione materiale dei segni tipografici, separati da spazi bianchi in cui si mette in atto “l’intervento della carta”,18 il testo crea il suo mondo che, sulla superficie della
pagina, assume l’aspetto di un cielo stellato.19 Nella creazione del libro si
15
Stéphane Mallarmé, Igitur (1925), in Œuvres complètes, cit., p. 477.
Stéphane Mallarmé, “Notes en vu du ‘Livre’”, in Œuvres complètes, cit., p. 563.
17
“Queste gibbosità, più o meno rischiarate dalle luci, produssero ombre e curiosi riflessi, tali da togliere definitivamente al viso i caratteri della faccia umana. Inoltre gli anni
avevano incollato così fortemente sulle ossa la pelle gialla e fine del viso, che essa vi disegnava una moltitudine di rughe, circolari come le increspature dell’acqua intorbidata dal
sasso di un bambino, o ramificate come l’incrinatura di un vetro, ma sempre profonde e
fitte come i fogli nel taglio di un libro.” Honoré de Balzac, Sarrasine (1830), trad. it. di
Elina Klersy Imberciadori, Milano: Garzanti, 2000, p. 12.
18
Stéphane Mallarmé, “Observation relative au poème Un Coup de Dés jamais n’abolira
le Hasard” (1897), in Œuvres complètes, cit., p. 391.
19
“La costellazione vi [alla poesia] imprimerà, secondo leggi esatte e per quanto concesso a un testo stampato, fatalmente, un andamento di costellazione”. Stéphane Mallarmé,
“Lettre à André Gide” (14 maggio 1897), in Œuvres complètes, cit., p. 816.
16
126 /
FRANCESCA PAGANI
inscrive nuovamente la creazione di un mondo. Lo confermano le parole
di Valéry in merito allo stesso Coup de Dés: “Ha tentato, pensavo, di elevare finalmente una pagina alla potenza del cielo stellato!”.20 Il Coup de
Dés rappresenta agli occhi di Valéry il momento della creazione avviato
da un atto magico;21 questo prestigio dà origine a una costellazione in cui
si inserisce un mondo nuovo.
Era mormorio, insinuazioni, tuono per gli occhi, tutta una tempesta spirituale condotta di pagina in pagina sino agli estremi del pensiero, sino a
un punto di ineffabile rottura: là, il prestigio si produceva; là, sul foglio
stesso, un non so quale scintillio degli ultimi astri tremava infinitamente
puro nello stesso vuoto intercosciente dove, come una materia di nuova
specie, distribuita in ammassi, in scie, in sistemi, coesisteva la Parola!
Questo assetto senza precedenti mi pietrificava. L’insieme mi affascinava
come si fosse manifestato un nuovo complesso astrale; come se fosse
comparsa una costellazione che finalmente avesse avuto un significato. –
Non assistevo a un evento dell’ordine universale e non era, in qualche
sorta, lo spettacolo della Creazione del Linguaggio che mi era rappresentata su quel tavolo, in quell’istante, da quell’essere […]?22
Per una poeta della generazione di Pierre Reverdy l’eredità di Mallarmé è
ineludibile; è di nuovo il Coup de Dés, la cui pubblicazione, nel 1914,
precede di un anno quella della prima raccolta di versi di Reverdy, che segna con ogni evidenza gli esordi di questo poeta. Il giovane Reverdy, trasferitosi da Narbonne, sua città natale, a Parigi nel 1910, guarda con interesse alle audaci ricerche tipografiche di Mallarmé. Il suo lavoro di correttore di bozze gli permette di acquisire le conoscenze e la perizia tecnica
necessarie per sperimentare impaginazioni nuove e inedite. Così, Reverdy
adotta una scrittura che distribuisce i versi secondo una disposizione grafica del tutto autonoma dalla sintassi e dal ritmo della parola.
20
Paul Valéry, “Au Directeur des Marges” (1920), in Œuvres complètes, cit., t. I, p. 626.
“Accadeva che questo poeta, che è il meno primitivo dei poeti, procurasse – mediante
l’accostamento insolito, stranamente cantante, e come incantatorio delle parole, mediante
il fulgore musicale del verso e la sua singolare pienezza – l’impressione di ciò che nella poesia delle origini costituiva l’elemento di maggior potenza: la formula magica. L’analisi squisita della propria arte, aveva probabilmente condotto Mallarmé a una teoria, e a una sorta
di sintesi, dell’incantesimo”. Paul Valéry, “Je disais quelquefois à Stéphane Mallarmé…”
(1936); trad. it. in Id, Varietà, a cura di Stefano Agosti, Milano: SE, 1990, p. 218.
22
Paul Valéry, “Le Coup de Dés, Lettre au Directeur des Marges”, in Œuvres complètes,
cit., t. I, p. 624.
21
DAL ‘CIELO STELLATO’ ALLE ‘BOLLE D’INCHIOSTRO’ /
127
Intorno al 1924 Reverdy recupera alcune poesie pubblicate nelle prime raccolte del 1918 e del 1919 e satura la maggior parte degli spazi vuoti inseriti all’interno del testo, conferendo a quest’ultimo un aspetto meno disunito.23
Questo esempio è il sinonimo di una ricerca che, come Reverdy dichiarò in un articolo del 1918,24 vede l’impaginazione come uno dei mezzi
di realizzazione della ‘nuova poesia’; la disposizione dei caratteri nello spazio della pagina deve pertanto potersi modellare alle esigenze espressive della poesia. Malgrado l’influenza di Mallarmé, l’impaginazione adottata da
Reverdy aspira a un effetto del tutto diverso da quella resa dalle “suddivisioni prismatiche dell’Idea […] in qualche messa in scena spirituale esatta”25 a cui mirava il Coup de Dés; essa non traduce né una rappresentazione
ontologica dell’ideale, né un gusto estetico che potrebbe essere erroneamente messo in relazione con il cubismo artistico, al quale Reverdy fu
strettamente legato. L’aspetto tipografico dei suoi componimenti sposa, come per Mallarmé, il mondo che nasce dal testo. Tuttavia l’evocazione dell’idea pura che Mallarmé materializza nelle sue opere è completamente estranea al mondo poetico di Reverdy, dove tutto è contingente e angosciante.26
Un testo sminuzzato da continui tagli bianchi, l’isolamento di alcune
parole nello spazio della pagina sono per Reverdy l’immagine di un mondo a brandelli, dove gli oggetti si materializzano in una solitudine inquietante e misteriosa. Evidente è lo scarto rispetto all’unità ottenuta dalla
“costellazione” del testo di Mallarmé: quando Reverdy nei suoi componimenti crea delle stelle, si tratta sempre di astri isolati o radunati in gruppi
di due o tre, e le raccolte che evocano più da vicino delle costellazioni,
Étoiles peintes (1921) e Les épaves du ciel (1924) non cessano di ricordare
come queste non siano che piccoli oggetti d’inchiostro e di carta.
Riprendere le proprie poesie e eliminarne gli spazi vuoti significa per
Reverdy reagire all’angoscia di un mondo che gli appare in tutta la sua la23
Su questo argomento cfr. Michel Collot, Poésie moderne et structure d’horizon, Paris:
PUF, 1989, pp. 50-70.
24
“La sintassi è un mezzo di creazione letteraria. È una disposizione delle parole – e una
disposizione tipografica adeguata e legittima”. Pierre Reverdy, “Syntaxe”, Nord-Sud, 14,
aprile 1918, ripreso in Id., Nord-Sud, Self-Defence et autres écrits sur l’art et la poésie (191726), Paris: Flammarion, 1975, p. 82.
25
Stéphane Mallarmé, “Observation relative au poème Un coup de Dés jamais n’abolira
le Hasard” (1897), in Œuvres complètes, cit., p. 391.
26
Cfr Enrico Guaraldo, Il senso e la notte. Esperienze poetiche di Reverdy, Napoli: Giannini, 1984.
128 /
FRANCESCA PAGANI
cerazione. Egli dichiara a questo proposito, in una conversazione con
Benjamin Péret, che questo lavoro di riscrittura lo ha condotto a un risultato che, lungi dal soddisfarlo, lo “disgusta meno”.27
A cosa si deve questo disgusto, non esclusivamente imputabile a una
certa insoddisfazione nei confronti di un’opera che si desidererebbe più vicina alla perfezione? Per tentare di rispondere a questo interrogativo occorre, abbozzate le caratteristiche del mondo poetico – e dunque del mondo
dei libri – di Reverdy, abbordare la visione del suo ‘libro del mondo’.
Il senso della realtà è molto affinato in Reverdy. Egli scrive a Jean
Rousselot: “Credo persino che pochi realisti […] abbiano quanto me
questo senso funesto della realtà”.28
Questo nasce da un rapporto che si stabilisce sempre attraverso un contatto fisico, quasi un corpo a corpo con cui Reverdy si misura e che risulta
abbastanza sgradevole, spesso brutale. La realtà è dura, spinosa, bruciante;
essa sfugge, non si lascia stringere, come se le pagine di questo mondo, sfogliandosi troppo rapidamente, impedissero la comprensione e la percezione
della sua estensione globale. Eppure il fascino esercitato è irresistibile: “È
soprattutto l’asprezza della sua esigenza nei confronti del reale che rende il
poeta assolutamente inadatto a incorporarsi in esso. Ne indovina la
profondità estrema, vorrebbe toccarlo. Vorrebbe soprattutto raggiungere i
limiti di tutto ciò che ha valore ai suoi occhi perché illimitato”.29
Un’immagine adottata da Reverdy per descrivere il suo rapporto con il
mondo è quella dell’accecamento di fronte a una realtà troppo luminosa e
bruciante per essere osservata, toccata e compresa. Per questa ragione Reverdy oppone a un mondo ardente e abbagliante un fuoco in grado di
contrastarlo: è la poesia, “il forno che brucia il reale”,30 che riuscendo ad
abbracciare e a serrare per un istante il mondo, nello spazio di una pagina, lo trasforma e lo rende più sopportabile. Questa è per Reverdy l’ancestrale funzione dell’arte, che “colma i […] bisogni che il reale non trasformato non può soddisfare”.31
27
Benjamin Péret, “Pierre Reverdy m’a dit…”, Le Journal littéraire, 18 ottobre 1924, ripreso in Nord-Sud, Self-Defence et autres écrits sur l’art et la poésie, cit., pp. 227-33.
28
Pierre Reverdy, Lettres à Jean Rousselot, Paris: Rougerie, 1973, p. 29.
29
Pierre Reverdy, Le Livre de mon bord. Notes 1930-36 (1948), Paris: Mercure de France, 1989, p. 251-52.
30
Pierre Reverdy, Le gant de crin. Notes (1927), trad. it. di François Livi, Il guanto di
crine, Milano: Ares, 1993, p. 33.
31
Pierre Reverdy, En vrac. Notes, suivi de Un morceau de pain noir, Paris: Flammarion,
1989, p. 85.
DAL ‘CIELO STELLATO’ ALLE ‘BOLLE D’INCHIOSTRO’ /
129
Reverdy utilizza le espressioni di ‘realtà’ vs. ‘Grande Realtà’32 per segnare il passaggio dal mondo fuggente, incomprensibile, avvicinabile solo
per urti rapidi e violenti, alla sua trasformazione ottenuta attraverso il
fuoco sacro della poesia. Questa modificazione si realizza grazie all’intervento del poeta che, non potendo misurarsi con l’universo nella sua totalità, coglie alcuni frammenti della realtà e li avvicina con equilibrio. Reverdy espone questo pensiero nella sua celebre teoria dell’immagine poetica.33 L’immagine rappresenta la presa di possesso della realtà, l’istante di
quiete che fissa l’eterno movimento degli esseri, in cui è possibile trarre
una porzione del mondo ‘reale’ e inscriverlo in quello della realtà poetica.
Nella ‘fenditura’ tra questi mondi, in cui opera l’immagine, si pone il
poeta, incantatore in grado di trarre una nuova realtà dallo scontro tra “il
duro e l’impuro del reale e la tenera, forte e al contempo debole, natura
umana”.34 Questa operazione permette all’uomo di integrarsi alla realtà e
di conseguenza di godere di un vero contatto con il mondo.35
L’aspirazione del poeta stregone, “debole e forte” al contempo della limitatezza e della potenza della sua creazione è, come per Mallarmé, votata all’assoluto:
Il poeta è essenzialmente l’uomo che aspira alla sfera del reale, al piano
divino, alla creazione misteriosa e evidente. […] la poesia scritta non è, in
definitiva, che il risultato di questa aspirazione a una realtà assoluta su un
piano in cui possono agire solamente gli slanci di una grande potenza intuitiva unitamente a un senso estremamente acuto dei rapporti più lontani che uniscono ogni cosa.36
32
Espressioni equivalenti sono la realtà superiore, la realtà artistica, la realtà al di sopra
della vita, la realtà al di sopra del reale. Al proposito si veda Étienne-Alain Hubert, “La
‘grande réalité’”, in AA.VV., Reverdy aujourd’hui, Paris: Presses de l’École Normale Supérieure, 1991, pp. 53-65.
33
“L’Immagine è una pura creazione dello spirito. Non può nascere da un paragone, ma
dall’accostamento di due realtà più o meno distanti. Più i rapporti delle due realtà saranno
lontani e giusti, più l’immagine sarà forte, maggiore sarà la sua potenza emotiva e la sua
realtà poetica”. Pierre Reverdy, “L’image” (1918), trad. it. in Id., Il guanto di crine, cit., p. 48.
34
Pierre Reverdy, Lettres à Jean Rousselot, cit., p. 32.
35
“Scrivere mi ha salvato – ha salvato la mia anima. Non riesco a immaginare quella
che sarebbe stata la mia vita se non avessi scritto. Ma credo di non essere né uno scrittore,
né un artista. Bensì un uomo che non ha trovato altri mezzi per mantenere un contatto
con la vita, di restare a galla, ho scritto come ci si aggrappa a una boa”. Pierre Reverdy,
Lettres à Jean Rousselot, cit., p. 33.
36
Pierre Reverdy, Nord-Sud, Self-Defence et autres écrits sur l’art et la poésie, cit., p. 206.
Si noti come il rimando ai ‘rapporti lontani’ evochi nuovamente la teoria dell’immagine
poetica formulata da Reverdy.
130 /
FRANCESCA PAGANI
Ma questo suo desiderio di eternità e di totalità è destinato al fallimento.
Infatti, la magia della poesia non è che una fissazione provvisoria di una
scintilla di vita che, essendo un frammento della realtà fuggitiva, sebbene
trasformato dal poeta, non dura che un solo istante e porta solo l’apparenza dell’assoluto. “La poesia sta alla vita come il fuoco sta al legno. Ne
emana e la trasforma. Per un breve momento, adorna la vita di tutta la
magia delle combustioni e delle incandescenze. È la forma più ardente e
più imprecisa della vita. Poi la cenere”.37
La cenere, che per Mallarmé aveva sancito l’abolizione del caso, del
tempo e della vita, segna qui lo spegnersi di un frammento luminoso nei
bagliori dell’universo, la fine di uno scintillio troppo breve per aspirare alla dissoluzione del mondo.
Il potere di trasformazione con cui la poesia di Reverdy si avvicina al
“piano divino, della creazione misteriosa e evidente”38 attiene sempre all’ordine di un’attività manuale; il poeta è un muratore che sistema le pietre39 del suo linguaggio, un artigiano che costruisce i suoi versi con un lavoro duro e paziente.40 La superficie della pagina diviene una materia solida, come la pietra o l’ardesia, che resiste ai tentativi di iscrizione.41 Come i suoi antenati,42 Reverdy modella le pietre – che portano il suo nome
– con le mani, perché la mano è la parte del corpo a diretto contatto con
la superficie che accoglie la scrittura. Essa è “forse il riassunto più completo dell’uomo, della sua personalità globale”;43 è il ‘ libro interiore’ che
scrive il libro della realtà. Nella mano, come nel resto del corpo, circola il
sangue, linfa della vita e del potere di creazione che si fa inchiostro “Il
mio dito sanguina/ Io ti scrivo/ Con”.44
Tale è la portata della manualità nella poesia di Reverdy da suggerire
l’abbandono di quella attività di ricerca tipografica che aveva impegnato
il poeta per lunghi anni. Nel 1948 la raccolta Le Chant des Morts è pubblicata presso l’editore Tériade. Si tratta di poesie manoscritte prive di ti37
Pierre Reverdy, Le Livre de mon bord, cit., p. 72.
Pierre Reverdy, “Poésie”, Le journal littéraire, 7 giugno 1924, ripreso in Id, Nord-Sud,
Self-Defence et autres écrits sur l’art et la poésie, cit., p. 206.
39
Si noti il gioco di parole tra pierres (pietre) e Pierre, nome di battesimo di Reverdy.
40
Pierre Reverdy, Le Livre de mon bord, cit., p. 91.
41
Les Ardoises du toit (1918) e Pierres blanches (1930) sono i titoli di due raccolte poetiche.
42
Molti di loro furono scultori.
43
Pierre Reverdy, En vrac, cit., pp. 31-32.
44
Pierre Reverdy, Quelques poèmes (1916), in Id., Plupart du temps, 1915-22, Paris: Gallimard, 1945, p. 69.
38
DAL ‘CIELO STELLATO’ ALLE ‘BOLLE D’INCHIOSTRO’ /
131
tolo, come se l’assieme costituisse un canto senza soluzione di continuità.
La calligrafia di Reverdy è rotonda, larga, spaziosa, si appropria della pagina sino ai suoi margini. Questa raccolta è illustrata da Picasso che, cogliendo perfettamente le intenzioni dell’amico, si è limitato a scandire il
testo con un semplice tratto di colore rosso. In questa splendida opera
d’arte, ammirabile in uno dei suoi esemplari presso la biblioteca Jacques
Doucet di Parigi, i due artisti raggiungono una tale sintonia che, come
diceva Tériade, paiono “parlarsi”.45 La grafia di Reverdy traduce la manualità del suo lavoro poetico e Picasso, con le sue rosse litografie, sottolinea la vitalità del ‘canto dei morti’ e restituisce all’inchiostro il colore che
questo possiede nell’immaginario di Reverdy, divenendo materialmente il
sangue del poeta.46
Nell’esperienza poetica di Reverdy, l’aspirazione all’assoluto propria
dell’arte si misura con una contingenza mai completamente soggiogata: la
realtà, malgrado ogni incantesimo volto a dare un altro aspetto al mondo,
rivela sempre il suo lato ostile e angoscioso. Il libro del mondo arriva così
a corrispondere pienamente, nel sonno o nel sogno dell’immaginazione,
al mondo dei libri. Ovunque, “bolle d’inchiostro”. E gli affetti raggiungono la forma corporea di quello strumento magico che Reverdy ha sempre
impiegato nella sua lotta con la realtà:
Ancora ieri, contemplavo le luci sinistre di un cielo perturbato che riflettevano la superficie uniforme di uno stagno nero in cui venivano a scoppiare, in grappoli solleciti, delle bolle d’inchiostro. Sempre, qualunque
siano gli eventi, delle bolle d’inchiostro.
Mi svegliai, paralizzato dall’angoscia e velato da un madore di ghiaccio,
solo quando vennero ad avvisarmi che il mio miglior amico era morto assassinato. Il suo corpo era stato ritrovato nella cantina di un albergo sinistro frequentato solo da persone completamente sprovviste di mezzi di
sussistenza. Il commissario di polizia mi chiese se potessi identificare il
cadavere. Lo intravedevo tra lo spiraglio della porta. La ferita era veramente impressionante. A partire dal pomo d’Adamo sino all’ombelico,
era aperto – come un libro.47
45
Cit. in E.A. Hubert, Bibliographie des écrits de Pierre Reverdy précédée d’une lettre inédite à Jacques Doucet, Paris: Minaud, 1976, p. 15.
46
“Ci sono autori che scrivono con la luce, altri con il sangue, con la lava, con il fuoco,
con la terra, con il fango, con la polvere di diamante e infine quelli che scrivono con l’inchiostro, gli sfortunati, solo con l’inchiostro”. Pierre Reverdy, Le Livre de mon bord, cit.,
pp. 45-46.
47
Pierre Reverdy, “Prière d’insérer dans l’édition de 1945”, in Id., Plupart du temps, cit.,
pp. 387-88.
§
PARAGRAFO
II
letture
§
8
Lucia Quaquarelli
La vittoria di un’onda
Palomar di Italo Calvino
Una collezione di tracce visibili
Verso la fine degli anni Sessanta Italo Calvino esprime la volontà di fare
del “seguito di dati oggettivi” che gli sembrano sommergere il mondo
(quel “mare di oggettività” che aveva inizialmente suscitato la sua inquietudine) una via possibile verso una riattivazione della capacità umana di
vedere e, insieme, verso una riaffermazione della coscienza nel mondo:
“per essere certi di cosa la coscienza è, di qual è il posto che occupiamo
nella sterminata distesa delle cose”.1
Gli ultimi dieci anni della vita e dell’opera di Calvino sono occupati
da una riflessione letteraria che fa dell’oggetto il polo dialettico essenziale
per la ricostruzione di uno sguardo autentico sul mondo, uno sguardo capace di isolare e interrogare un pezzo di realtà nelle sabbie mobili dell’oggettività e, insieme, interrogare se stesso.
Sono gli anni della nascita del Signor Palomar, ma anche quelli di
un’attività giornalistica militante, che si mescola all’attività propriamente
letteraria per nutrirla e nutrirsene. Gli “esercizi di descrizione” di Calvino, il suo “diario su problemi di conoscenza minimali”, prendono così, in
forza di un lavoro continuo di riscrittura, aggiustamento e riformulazione, numerose denominazioni: “Osservatorio del Signor Palomar”, “Taccuino del Signor Palomar”, poi Palomar, Collezione di sabbia, e ancora
Una pietra sopra e Sotto il sole giaguaro.
La versione definitiva del romanzo Palomar viene pubblicata nel
1983, ma lo sguardo stupefatto e inquisitore del Signor Palomar fa la sua
1
Italo Calvino, “Il mare dell’oggettività”, in Una pietra sopra, in Id., Saggi 1945-1985,
Milano: Mondadori, 1995, vol. I, p. 58.
PARAGRAFO II (2006), pp. 135-48
136 /
LUCIA QUAQUARELLI
prima apparizione pubblica sul Corriere della Sera il primo agosto del
1975 (La corsa delle giraffe). Un articolo di giornale, dunque, come articoli di giornale sono tutti gli altri ventisei che, variamente modificati e
organizzati in serie di tre, danno vita a Palomar.2
Palomar si presenta subito, a partire dalla sua genesi, come una collezione di frammenti. Fogli sparsi, schegge, che ritrovano la loro unità grazie ad un certo numero di elementi di coesione: una voce narrativa comune che parla dall’esterno della storia (ma che spesso vede con gli occhi di
Palomar);3 la presenza quasi esclusiva di un solo personaggio, il Signor
Palomar; la ripetizione programmatica dello schema delle avventure; l’esistenza di una vera e propria cornice narrativa.
Nel verso dell’indice, infatti, Italo Calvino fa scivolare alcune indicazioni che danno conto dei numeri che accompagnano il titolo di ogni avventura di Palomar. Quei numeri, scrive Calvino, non possiedono soltanto un valore ordinale, ma corrispondono anche a tre aree tematiche specifiche, a “tre tipi di esperienza e d’interrogazione che, proporzionati in varia misura, sono presenti in ogni parte del libro”:4
Gli 1 corrispondono generalmente a un’esperienza visiva, che ha quasi
sempre per oggetto forme della natura; il testo tende a configurarsi come
una descrizione.
Nei 2 sono presenti elementi antropologici, culturali in senso lato, e l’esperienza coinvolge, oltre ai dati visivi, anche il linguaggio, i significati, i
simboli. Il testo tende a svilupparsi in racconto.
I 3 rendono conto d’esperienze di tipo speculativo, riguardanti il cosmo,
il tempo, l’infinito, i rapporti tra l’io e il mondo, le dimensioni della
mente. Dall’ambito della descrizione e del racconto si passa a quello della
meditazione. (p. 872)
Tali considerazioni costituiscono l’impalcatura narrativa all’interno della
quale Calvino ha inserito, a posteriori, le avventure di Palomar e in funzione della quale le ha selezionate, modificate e organizzate. Un macrotesto potente e restrittivo, che rivela un disegno generale e indica una gri2
Per la genesi di Palomar, cfr. Francesca Serra, Calvino e il pulviscolo di Palomar, Firenze: Le Lettere, 1996.
3
Si noti che tra le trasformazioni più significative che subiscono i ‘taccuini’ del Signor
Palomar in vista della costruzione di Palomar c’è il passaggio dalla prima alla terza persona
narrativa.
4
Italo Calvino, Palomar, in Id., Romanzi e racconti, Milano: Mondadori, 1992, vol. II,
p. 872.
LA VITTORIA DI UN’ONDA
/ 137
glia d’azione del personaggio di cui stabilisce persino la logica sequenziale
interna: fare esperienza del mondo significa vederlo e descriverlo; interrogarlo porta il discorso sul piano del senso (ovvero al di là dell’esperienza,
del linguaggio e del simbolo); cercare di capire il mondo significa mettere
in gioco la mente e la propria capacità di riflessione, astrazione e generalizzazione.
Si tratta di un disegno assai ambizioso, che il Signor Palomar non riuscirà mai a rispettare fino in fondo, ma che garantisce, sul piano della
narrazione, la coesione di Palomar e, insieme (mostrandosi rapidamente e
solo alla fine del libro), l’autonomia di ogni sua parte.
Abbiamo infatti l’impressione di avere a che fare con pezzi di un mosaico strutturale e di senso più generale, un mosaico che tuttavia si nega
continuamente, volendo salvaguardare l’irriducibile unicità dei suoi tasselli. Palomar sembra avanzare al ritmo di un fumetto, forma adatta a restituire, come ha più volte sottolineato Calvino, una struttura contrappuntistica, sospesa tra ironia e melanconia, tra nostalgia di una sequenza narrativa forte e accettazione del valore inviolabile e autonomo del frammento.
Ora, per uno scrittore per il quale la creazione letteraria deve necessariamente passare per una “rifondazione di stile”, non è strano che la volontà di stabilire nuove relazioni con il mondo grazie a un’osservazione ‘discreta’ (e dunque frammentaria, pulviscolare) della realtà trovi il suo analogon esemplare nella configurazione stessa del testo. La discontinuità del
mondo che passa attraverso lo sguardo discreto e miope di Palomar è già
tutta nella ‘morfologia’ del discorso che ne permette l’esistenza, così come
la volontà (vana ma irresistibile) di Palomar di superare i dati percettibili
in vista della costruzione di un modello trova il suo analogo in una “poetica del frammento” calviniana che cela la volontà di un disegno generale e
l’ambizione suprema della letteratura di farsi catalogo del possibile:
Sa, in una letteratura il cui centro non è da nessuna parte, siamo tutti più
o meno degli eccentrici. La mia ossessione è sempre stata quella di tracciare una carta, di ricostituire un disegno generale, ma forse è solo una
mania, come tante altre.5
Ed è proprio in questa tensione (mai risolta dunque costitutiva) tra l’uno e
il molteplice, tra Io individuale e Universo, tra dato e modello, tra micro5
Mario Fusco, “Italo Calvino, le relève de la garde”, Magazine littéraire, 165, ottobre
1980, p. 18.
138 /
LUCIA QUAQUARELLI
testo e macrotesto, che prendono vita, in modo insieme narrativo e strutturale, gli incontri bizzarri e inquieti del Signor Palomar con la realtà.
Per questo la categoria di ‘collezione’, così come Italo Calvino l’ha descritta nel suo Collezione di sabbia, mi sembra la più appropriata per introdurre Palomar e per ritrovarvi, in una dimensione di “diario di tracce
visibili”,6 il rapporto tra coscienza e mondo (fittizi).
La collezione rappresenta infatti per Italo Calvino una descrizione del
mondo e, insieme, un diario del collezionista: è il riflesso del “bisogno di
trasformare lo scorrere della propria esistenza in una serie di oggetti salvati
dalla dispersione, o in una serie di righe scritte, cristallizzate fuori dal flusso continuo dei pensieri”,7 poiché il collezionismo è “l’unica logica capace
di dare unità e senso omogeneo alla dispersione delle cose”.8 In un mondo
triturato ed eroso, la pratica della collezione, anche di una collezione di
sabbia, può ancora servire, forse, a scrivere le regole di esistenza di un modello universale e a rassicurare circa il posto che in esso ha l’uomo.
La collezione è insieme scelta e raccolta di dati reali che, per la loro
unicità di modelli di una specie e per la loro comune partecipazione alla
specie, sono allo stesso tempo loro stessi e altro da sé. Valgono come singolarità ma, allo stesso modo, rinviano a un modello che le riassume e le
integra tutte. Dati reali che, inoltre, nella loro dimensione di oggetti scelti dal collezionista e sottratti alla loro funzionalità abituale, si garantiscono lo statuto di veri e propri interlocutori della coscienza.
Quella del Signor Palomar è in realtà una collezione assai strana: egli
cerca di collezionare tutta la realtà raccogliendone pezzi ‘significativi’. In
ogni avventura (che corrisponde a un capitolo), infatti, Palomar seleziona
un oggetto “limitato e preciso” entro il quale tenta di circoscrivere, attraverso una meticolosa osservazione iniziale e una conseguente speculazione
razionale, la molteplicità dei fenomeni della realtà.
Ecco lo schema generale di tutte le avventure Palomar (tutte eccetto
l’ultima): un frammento di realtà si impone agli occhi del Signor Palomar, Palomar si trasforma in sguardo inquisitore, occhio che descrive e
mente che riflette. Uno scheletro comune che si ripete continuamente
(lavorando anch’esso alla coesione dell’opera), ma che registra nella sua riproposizione incessante alcune trasformazioni, alcuni leggeri spostamenti
all’interno della coscienza del personaggio.
6
Italo Calvino, Collezione di sabbia, in Id., Saggi 1945-1985, cit., vol. I, p. 412.
Ivi, p. 413.
8
Ibidem.
7
LA VITTORIA DI UN’ONDA
/ 139
Certo il Signor Palomar non rinuncia mai al suo ambizioso progetto
di conoscenza, ma “in seguito a una serie di disavventure intellettuali” (p.
968), in seguito a una dolorosa successione di insuccessi, azzarda di volta
in volta nuove vie di accesso al reale, fino a cambiare in modo considerevole la sua posizione di fronte al mondo e, alla fine, ‘organizzare’ lucidamente la sua morte. Tali mutazioni impalpabili ma continue fanno di Palomar, mi pare, non soltanto una collezione di avventure inserite in una
cornice macro-strutturale, ma un vero e proprio romanzo che racconta,
per episodi, la storia avventurosa di un personaggio di nome Palomar, le
sue trasformazioni, le sue angosce, le sue scoperte successive, le sue delusioni e, infine, la sua morte.
Un’onda, semplicemente un’onda
Il mare è appena increspato e piccole onde battono sulla riva sabbiosa. Il
signor Palomar è in piedi sulla riva e guarda un’onda. Non che egli sia assorto nella contemplazione delle onde. Non è assorto perché sa bene
quello che fa: vuole guardare un’onda e la guarda. (p. 875)
Questo l’inizio delle avventure del Signor Palomar. Non si tratta di immersione contemplativa, né di naufragio, né di semplice esperienza: Palomar conosce perfettamente le sue intenzioni: “vuole guardare un’onda e
la guarda”. E il narratore precisa:
non sono ‘le onde’ che lui intende guardare, ma un’onda singola e basta:
volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un
oggetto limitato e preciso.
Il Signor Palomar, nuovo Lucrezio,9 educa il suo sguardo all’intenzionalità e opta per la precisione assoluta, evitando ogni irruzione nel vago e
nell’indistinto.
È così che Palomar “vede spuntare un’onda in lontananza, crescere, avvicinarsi, cambiare di forma e di colore, avvolgersi su stessa, rompersi, sva9
Nel corso di una intervista con Pierre Fournel, Italo Calvino afferma: “Ho due libri di
riferimento, il De rerum natura di Lucrezio e Le metamorfosi di Ovidio. Mi piacerebbe che
tutto quello che scrivo fosse legato all’uno o all’altro, o meglio a tutti e due. Palomar è
senza dubbio dalla parte di Lucrezio: è l’ambizione, vana, di una conoscenza minuziosa
della natura delle cose, così minuziosa che la stessa sostanza delle cose si dissolve nel momento esatto in cui viene percepita”. Pierre Fournel, “Italo Calvino: Cahiers d’exercice”,
Magazine littéraire, 220, giugno 1985, p. 85.
140 /
LUCIA QUAQUARELLI
nire, rifluire” (p. 875). E l’operazione sembra essersi compiuta con successo, quando Palomar si accorge della presenza di elementi di disturbo:
Però isolare un’onda separandola dall’onda che immediatamente la segue
e pare la sospinga e talora la raggiunge e travolge, è molto difficile; così
come separarla dall’onda che la precede e che sembra trascinarla dietro
verso la riva, salvo poi magari voltarglisi contro come per fermarla. […].
Insomma non si può osservare un’onda senza tenere conto degli aspetti
complessi che concorrono a formarla e di quelli altrettanto complessi a
cui essa dà luogo. (pp. 875-76)
Il molteplice prende allora il sopravvento sull’uno, la complessità sulla
semplicità e l’osservazione che si voleva precisa, puntuale, immediata, è
travolta dal tempo, dall’indefinito e dall’incommensurabile, poiché gli
aspetti da prendere in considerazione variano e si moltiplicano incessantemente.
Il Signor Palomar ripete di nuovo a se stesso il suo compito iniziale e
riafferma la sua volontà di guardare un’onda, semplicemente un’onda,
mettendo in atto una seconda strategia che cerca di superare l’ostacolo
del tempo:
Palomar intende […] cogliere tutte le componenti simultanee senza trascurarne nessuna, il suo sguardo si soffermerà sul movimento dell’acqua
che batte sulla riva finché potrà registrare aspetti che non aveva colto prima; appena si accorgerà che le immagini si ripetono saprà di avere visto
tutto quello che voleva vedere e potrà smettere. (p. 876)
Allora l’osservazione/descrizione riprende con rinnovato vigore e con essa
l’instancabile tentativo di ridurre il molteplice all’uno. Ma le componenti
dell’onda sfuggono di nuovo a una determinazione ‘nominalista’: l’onda
si confonde con il tappeto bianco di schiuma che l’aspetta sulla spiaggia e
non si sa più cosa sia l’onda e cosa il tappeto.
Questa volta è l’incertezza delle frontiere spaziali che impedisce la realizzazione del progetto di guardare semplicemente un’onda. Tuttavia, la lotta
per la conoscenza non si ferma, e il Signor Palomar tenta adesso di circoscrivere e di semplificare, sul piano dello spazio, il suo campo di osservazione: decide di tenere conto di un solo “quadrato […] di dieci metri di riva per dieci metri di mare”, all’interno del quale poter portare a termine
un inventario preciso “di tutti i movimenti d’onde che si ripetono con varia frequenza entro un dato tempo” (p. 877). Ma le difficoltà persistono, e
LA VITTORIA DI UN’ONDA
/ 141
anche la terza strategia di osservazione è destinata all’insuccesso, poiché
“salta sempre fuori qualcosa di cui non aveva tenuto conto” (ibidem).
Insomma, per quanto il Signor Palomar riduca il suo campo di esperienza, quest’ultimo non cessa di moltiplicarsi, aprendo prospettive smisurate e mettendo in scacco il progetto iniziale.
Guardare un’onda, un’onda soltanto, si rivela impossibile. L’onda è superficie inesauribile dai contorni indefiniti, che abita l’istante e il divenire
incessante. Ogni tentativo di ridurre la complessità del mondo a un meccanismo più semplice è destinato al naufragio e la seconda fase dell’operazione prevista da Palomar, “estendere quella conoscenza all’intero universo” (p. 879), non si dà mai.
L’ostinazione del movimento incessante e vago delle onde registra allora la sua vittoria definitiva sull’osservatore: “L’ostinazione che spinge le
onde verso la costa ha partita vinta: di fatto, si sono parecchio ingrossate.
Che il vento stia per cambiare?” (p. 879)
Ora, perché il Signor Palomar non riesce a guardare un’onda? Che
ruolo hanno le onde in questo scacco doloroso? Che tipo di rapporto caratterizza l’esperienza che Palomar fa della realtà?
Palomar è incapace di distinguere un’onda dal complesso insieme delle onde, perché le onde sono più ostinate di lui e rifuggono ad ogni volontà di sistematizzazione, restando indefinibili. Perché le onde agiscono
alla stregua di Palomar. Si oppongono alle sue intenzioni con una forza
sorprendente e la molteplicità irriducibile e vertiginosa delle onde trionfa
sulla volontà di Palomar di vedere un’onda, una soltanto.
Le onde “si rivoltano” con la volontà esplicita di fermare altre onde,
“si rompono”, “svaniscono”, “s’arruffano”, fanno delle “gobbe”, dimostrando la loro attitudine a compiere azioni di solito negate al loro statuto di oggetti naturali. Esse esercitano qui il ruolo di vere e proprie antagoniste all’azione del personaggio principale dell’azione: le onde impediscono al Signor Palomar di raggiungere il proprio scopo e di realizzare il
proprio progetto ultimo di conoscenza. E lo fanno intenzionalmente,
con ostinazione. Ancora, in qualità di personaggi, concorrono in modo
sostanziale allo sviluppo degli avvenimenti: onde e Palomar, infatti, sono
entrambi, con la stessa autorità e la stessa intenzionalità, all’origine dell’azione narrativa, un’azione che si afferma dall’inizio come conflitto tra
individui.
L’analisi dell’organizzazione sintattico-logica del racconto va in questo
senso: il ‘conflitto’ ha inizio con un movimento di “piccole onde” che cat-
142 /
LUCIA QUAQUARELLI
tura l’attenzione di Palomar, poi Palomar “vede spuntare un’onda in lontananza”, ma “la gobba dell’onda venendo avanti s’alza”, “comincia a rimboccarsi di bianco” e si confonde con la spiaggia, allora Palomar “cerca di
limitare il suo campo di osservazione”, ma di nuovo “un’onda lunga sopravviene” per confondere in modo ostinato, definitivo e vittorioso il disegno generale che Palomar cerca di tracciare sull’acqua.
Ad ogni iniziativa delle onde corrisponde un’iniziativa di Palomar; gli
avvenimenti si sviluppano sulla base della tensione prodotta da una doppia pressione, quella delle onde e quella di Palomar, soggetti logici dell’azione in modo alterno e ugualmente significativo sul piano evenemenziale. E il passaggio da un soggetto all’altro, da un’azione all’altra, è ritmato
dalla presenza, all’inizio della frase, delle congiunzioni avversative “però”
e “ma”, che prolungano in prospettiva lo spazio del racconto e contribuiscono a una segmentazione sintattica che rinvia all’organizzazione del
dialogo o, ancora, del contrasto.
Palomar e onde si affrontano in modo dialettico e discorsivo, e in un
concerto sincopato di ostinazioni e mutue necessità di definizione, sono le
onde ad avere la meglio. E così Palomar perde la pazienza, volta le spalle al
mare e si allontana dalla spiaggia, “ancor più insicuro di tutto” (p. 878).
Una leggera rigatura di paralleli
Il Signor Palomar è sconfitto, le onde vittoriose. Mi sembra tuttavia che
l’impaziente Signor Palomar, nella sua battaglia contro le onde, riesca a
segnare un punto a suo favore. A seguito del naufragio della terza strategia, Palomar sembra infatti capire qualcosa di molto importante: “appuntare l’attenzione su un aspetto lo fa balzare in primo piano e invadere il
quadro” (p. 878).
Che si tratti di una riflessione di Palomar o del narratore, non è chiaro. La voce che racconta si mescola troppo profondamente a quella del
personaggio (e questo senza segni visibili di passaggio) per poterne essere
sicuri. Tuttavia, la presenza di considerazioni simili in altri episodi, per le
quali la paternità appare più certa, ci autorizza a vedere in queste parole il
primo abbozzo di una consapevolezza dolorosa che accompagnerà il Signor Palomar nelle sue relazioni conflittuali con la realtà: ogni tentativo
di comprensione del mondo implica un’azione perturbante da parte del
soggetto. La conoscenza dell’oggetto, anche quella che vuole affermarsi
attraverso un rapporto ottico con il reale, non può compiersi al di fuori
LA VITTORIA DI UN’ONDA
/ 143
del soggetto. E il soggetto, filtro insuperabile, seleziona, trasforma, interpreta nel momento stesso in cui guarda.10
Il titolo della prima avventura – Lettura di un’onda –, che inaugura in
modo profetico la serie di incontri tra Palomar e la realtà, fa eco a tali
considerazioni.11 Il mondo non si offre alla conoscenza o alla semplice visione del mondo: si espone alla lettura o si nega. E leggere il mondo significa precisamente fare selezioni, dirigere l’attenzione su certi elementi
a scapito di altri, trasformando profondamente e definitivamente la
realtà, il suo statuto di dato, la sua configurazione e la sua apparenza: leggere il mondo significa interpretarlo. Sulla lettura Italo Calvino, lo stesso
anno della pubblicazione di Palomar, si è espresso in questi termini:
Leggere, più che un esercizio ottico, è un processo che coinvolge mente e
occhi insieme, un processo di astrazione o meglio un’estrazione di concretezza da operazioni astratte, come il riconoscere segni distintivi, frantumare tutto ciò che vediamo in elementi minimi, ricomporli in segmenti
significativi, scoprire intorno a noi regolarità, differenze, ricorrenze, singolarità, sostituzioni, ridondanze.12
E Palomar, a sua volta, si chiede: “Ma come si fa a guardare lasciando da
parte l’io? Di chi sono gli occhi che guardano?” (p. 969).
Dedicarsi a una lettura del mondo significa fare astrazione del mondo
per sezionarlo e, successivamente, ricomporlo in “segmenti significativi”
per il lettore, sulla base di regole che rinviano insomma assai più al lettore
che al mondo stesso. E introdurre, come è il caso di Palomar, esercizi di
osservazione del mondo sotto il segno di letture significa riconoscere fin
da subito la presenza di un diaframma – l’invalicabile diaframma dell’io –
che si frappone fatalmente tra esperienza del mondo e mondo. Nulla si
può conoscere fuori dall’io.
10
Negli stessi anni, come ricorda Ruggero Pierantoni, la medesima preoccupazione riguardo alle alterazioni esercitate dall’atto di osservazione sul fenomeno osservato circola
tra i fisici: “Non è possibile ricavare informazioni da un fenomeno, né descrivere una situazione fisica, né definire una legge, senza alterare proprio quel fenomeno, modificare
quella situazione, contraddire quella legge. In breve il rapporto tra osservatore ed osservato è ineluttabilmente distruttivo o alterativo”. Ruggero Pierantoni, “Metafore di una mappa”, in Giorgio Bertone (a cura di), Italo Calvino. La letteratura, la scienza e la città, Genova: Marietti, 1988, p. 104.
11
Circa il ruolo decisivo dell’incipit sullo sviluppo della storia, cfr. Italo Calvino, “Cominciare e finire”, in Id., Saggi 1945-1985, cit., vol. II, p. 735.
12
Italo Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, in Id., Saggi 1945-1985, cit., vol. II,
pp. 1871-72.
144 /
LUCIA QUAQUARELLI
Nelle sue passeggiate nei sentieri del reale, Palomar fa continua esperienza dell’irrimediabile trasformazione che infligge ai fenomeni osservati,
tuttavia, un episodio in particolare merita attenzione, in forza del suo valore metanarrativo, della sua capacità di riflettere su se stesso, offrendosi
probabilmente come chiave di lettura privilegiata della storia di cui ci rimanda l’immagine.
In una notte chiara di luna piena, il Signor Palomar si procura un telescopio e va in terrazza con la ferma decisione di approfittare della triplice
opposizione di Marte, Saturno e Giove. Dopo un’osservazione “farfugliata
e tossicchiante” di Marte, Palomar scopre nel suo telescopio Saturno:
eccolo nitidissimo, bianchissimo, esatti i contorni della sfera e dell’anello;
una leggera rigatura di paralleli zebra la sfera; una circonferenza più scura
separa il bordo dell’anello; questo telescopio non capta quasi altri dettagli
e accentua l’astrazione geometrica dell’oggetto; il senso d’una lontananza
estrema anziché attenuarsi risalta più che a occhio nudo. (p. 905)
Al momento dell’apparizione di Saturno (svelamento improvviso, guizzo),13 la gioia di una visione limpida, netta, dai contorni esatti, che Palomar ottiene con il suo telescopio, è irrimediabilmente negata dalla presenza di “una leggera rigatura di paralleli che zebra la sfera” (p. 905). Una
rigatura sospetta, che difficilmente il lettore può ascrivere al pianeta, e
che spinge Palomar lontano, assai lontano, dall’oggetto osservato: “il senso d’una lontananza estrema anziché attenuarsi risalta più che a occhio
nudo”,14 constata Palomar deluso.
Accade infatti che le proprietà dello strumento della visione si mescolino a quelle dell’oggetto osservato e che Palomar, uomo preciso e diligente, inserisca queste e quelle, senza distinzione alcuna, nella descrizione
che ci dà di Saturno. Biancore, sfericità, anello e righe dei paralleli costituiscono insieme, senza distinzione, le qualità di Saturno.
L’astrazione geometrica della realtà prodotta dall’osservazione al telescopio rinvia ineluttabilmente alle leggi dello strumento di registrazione
e, pertanto, allontana definitivamente l’oggetto osservato.
Ora, si dà poi il caso che ‘Palomar’ sia il nome di un famoso telesco13
Cfr. A. Julien Greimas, De l’imperfection, Périgueux: Pierre Fanlac, 1987, pp. 23-33.
In un modo assai simile Merleau-Ponty ha scritto: “Così la proiezione in piano non
sollecita sempre il nostro pensiero a ritrovare la vera forma delle cose, come credeva Cartesio: superato un certo grado di deformazione, essa rinvia piuttosto al nostro punto di vista: quanto alle cose, esse fuggono verso una lontananza a cui nessun pensiero accede”.
Maurice Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Paris: Gallimard, 1964, p. 50.
14
LA VITTORIA DI UN’ONDA
/ 145
pio americano (il più potente all’epoca della stesura del romanzo) e che
questo dato inneschi nella mente del lettore un vero e proprio corto circuito, dato che sta leggendo la storia di un personaggio di nome Palomar
che mette i suoi occhi dentro un telescopio. L’impressione di doppio, di
abyme, s’impone. E il ‘diaframma’ che si era presentato come proprio dello strumento di osservazione si trasforma di nuovo, in un gioco di specchi, nel ‘diaframma dell’io’; rinvia al personaggio della storia e si fa, metanarrativamente, paradigma di tutto l’enunciato.
Nel breve momento in cui ‘Palomar-telescopio’ osserva Saturno al telescopio, abbiamo, in miniatura, l’immagine dolorosa della natura fatalmente perturbante della visione del personaggio, il dramma della sua impossibile efficacia cognitiva, che informa di sé tutto il destino di Palomar.
Ogni tentativo di riflessione libera dal peso dell’io è vano. E il sogno di
essere puro sguardo, l’ostinazione di “guardare le cose dal di fuori” (p.
968), restano per sempre sogno e ostinazione.15
Se Palomar non fosse così impaziente di raggiungere un risultato completo e definitivo della sua operazione visiva, ci confessa il narratore,
guardare il mondo “sarebbe per lui molto riposante e potrebbe salvarlo
dalla nevrastenia, dall’ulcera e dall’infarto”. E forse, aggiunge, “potrebbe
essere la chiave per padroneggiare la complessità del mondo” (p. 968).
Ma la semplice esperienza della complessità e dell’opacità del reale al di
fuori di ogni inferenza speculativa per Palomar è impossibile: ogni osservazione è speculazione e ogni impresa speculativa è impresa totalizzante
di comprensione. E in questa tensione tra consapevolezza della vanità di
ogni tentativo di conoscenza e l’impossibilità di rinunciare a un disegno
generale sta, mi sembra, la posizione particolare che Palomar occupa nel
dramma del pensiero occidentale, nella frattura irrimediabile e pericolosa
che corre tra sovranità del pensiero dialettico e morte della metafisica. Tra
pensiero ‘progettuale’ e speculativo e silenzio dell’ascolto.
Palomar abita quella zona interstiziale, quel punto di sospensione tra
indispensabile ricerca di un modello e quei ‘deboli’ silenzi di ascolto che
concludono il romanzo. Palomar vive nella totale consapevolezza del
dramma della sua interrogazione vana.
15
Come Palomar, Calvino: “Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del
self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale,
non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola,
l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il
cemento, la plastica” (Lezioni americane, in Id., Saggi 1945-1985, cit., vol. I, p. 733).
146 /
LUCIA QUAQUARELLI
Così, tra le riflessioni tormentate del Signor Palomar, pensatore ‘forte’
che ha perduto le sue illusioni, qualcosa cambia profondamente, la conoscenza prende una strada diversa, cambia direzione: l’oggetto partecipa
attivamente e contribuisce, in modo costitutivo e edificante, alla definizione della coscienza pensante. L’oggetto si fa supporto speculare e dialettico dell’io. Ha con la coscienza un rapporto relazionale, instaura con l’io
un dialogo continuo di mutua definizione. È attraverso l’osservazione
dell’oggetto che l’uomo può ritrovarsi:
Non possiamo conoscere nulla d’esterno a noi scavalcando noi stessi, egli
pensa ora, l’universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò
che abbiamo imparato a conoscere di noi. (p. 974)
L’esteriorità annunciata e vanamente perseguita non autorizza certamente
una sintesi generale, ma apre a una riflessione in profondità. La ‘lettura
visiva’ di Palomar, il suo tentativo di rendere leggibile il visibile, faticoso
e contraddittorio, mai decisivo, altro non è che la lettura che Palomar
fa di se stesso nelle cose. Una lettura nel corso della quale le cose hanno
il potere configurante e costitutivo di antagoniste e aiutanti insieme. Poiché aiutano Palomar a ritrovarsi nel mondo, a ridisegnare il suo posto
nella realtà.
In questo senso, la lettura che Palomar fa dell’onda rinvia allora davvero all’universo, ma a un universo dove l’antinomia soggetto/oggetto è
stata superata, un universo in cui gli uomini e gli oggetti si incontrano “a
metà strada […], dirigendosi l’uno verso l’altro”16, e dove ogni sintesi generale, totalizzate e rassicurante è impossibile.
La fiducia nel dominio razionale del mondo arriva con Palomar alla
propria fine. La tradizione occidentale di cui Palomar è erede ha vissuto,
16
A. Julien Greimas, op. cit., p. 28.
Un pensiero ‘ultrametafisico’ che non intende fondare, poiché non può rivendicare la
posizione di sovranità che le aveva attribuito la metafisica, ma che “opera uno sfondamento”: “il pensiero della verità non è un pensiero che ‘fonda’, come pensa la metafisica, anche
nella sua versione kantiana, bensì quello che, esibendo la caducità e la moralità proprio come ciò che fa l’essere, opera uno sfondamento” – Gianni Vattimo, “Dialettica, differenza,
pensiero debole”, in Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Milano: Feltrinelli, 1983, p. 23. Una ‘presa d’atto’ che, lontano dal dimenticare il pensiero
dialettico, ne prosegue l’eredità coniugandolo con la differenza. L’infimo, il frammento,
non può essere una riduzione del grande, dell’universale. Il dettaglio non funziona come
parte di un tutto, “ma come qualcosa che imponendosi di per sé sfugge alla totalizzazione,
non è percepibile dalla lingua generale” (ivi, p. 49). E Pier Aldo Rovatti aggiunge: “Tra
17
LA VITTORIA DI UN’ONDA
/ 147
prima di lui, la morte della metafisica e sulle spoglie del ‘pensiero calcolatore’ ha visto nascere, insieme a lui, un ‘pensiero debole’.17
L’attenzione ossessiva alla realtà, di Calvino come di Palomar, è assai
lontana da una preoccupazione di tipo positivista: entrambi, Calvino come Palomar, si servono di un metodo scientifico per descrivere la realtà,
hanno l’occhio esperto e attento dello zoologo e dell’archeologo, procedono con tutto il sapere del semiologo, ma sanno tuttavia che la loro descrizione non rivelerà mai completamente la realtà nascosta. La superficie
delle cose è inesauribile e l’osservazione dei dati della realtà può fornire
soltanto una descrizione possibile. Mai esaustiva, difficilmente vera. Mai
generalizzabile.
Resta solo la possibilità di un’osservazione interrogativa e congetturante. Avvicinarsi agli oggetti, affermare la caducità di ogni giudizio.
Eppure il pensiero di Palomar resta ancora fortemente progettuale
(anche se il progetto è riconosciuto inapplicabile) e l’esperienza della disgregazione del senso è un’esperienza dolorosa. È una delusione amara,
una preoccupazione bruciante. È paura dell’afasia, del mutismo (e non
del silenzio). Palomar è molto preoccupato perché il rischio è grande.18
Nessun altro personaggio calviniano del resto si è mai trovato in un
tale imbarazzo, costretto a riconoscere la vanità del suo cogito, o ancora
del cogito stesso. Degli altri personaggi di Calvino Palomar conserva però
l’ostinazione, l’opposizione, la sfida al “mare dell’oggettività”. Quello che
distingue e caratterizza Palomar è un nucleo duro di volontà (un midollo), un’intelligenza lucida, un’energia combattiva.
Palomar onora un impegno, ha una responsabilità, una responsabilità
anzitutto morale, quella ci creare “nuove vie per stabilire contatti con il
mondo”. Poiché il mondo esiste e Palomar lo sa. Poiché il mondo è nel
soggetto ed esperienza mutano le parti, le proporzioni, attraverso una cifra, uno stile, una
sfumatura. Il soggetto rimpicciolisce mentre si ingrossa l’esperienza. Il soggetto scompare?
Oppure è divenuto talmente ‘piccolo’ da potersi infine riconoscere nella sua esperienza?
L’esperienza si moltiplica, si confonde, diviene illeggibile? Oppure si è fatta talmente piena
di suoni che può finalmente essere udita? E come è possibile che questa dissonanza sia simile ad un silenzio? E ancora: il soggetto si è sfaldato, frammentato, disseminato? Oppure
nel divenire impercettibile si è riconosciuto, nello sciogliersi ha preso contatto con se stesso?” (Pier Aldo Rovatti, “Trasformazioni nel corso dell’esperienza”, ivi, p. 50).
18
Lo stesso Gianni Vattimo, nell’anno esatto della pubblicazione di Palomar, si chiede:
“parlare di debolezza del pensiero significa anche teorizzare una diminuita forza progetturale del pensiero stesso? Non nascondiamoci che il problema esiste”. Gianni Vattimo,
“Dialettica, differenza, pensiero debole”, cit., p. 27.
148 /
LUCIA QUAQUARELLI
pensiero e nelle cose, dato che le cose, gli oggetti che Palomar incontra
sul suo cammino, esistono anche senza di lui.19
Lo sguardo di Palomar è la forma privilegiata dell’interrogazione e il
grado ultimo della responsabilità etica: non sapere niente, ma saper riconoscere l’intensità e la precisione del proprio sguardo, essere certi della
necessità di guardare ma incerti, preoccupati, sull’oggetto osservato. E in
questa responsabilità sta il carattere tensivo, energetico della concezione
calviniana della realtà, in quell’impegno risiede l’importanza della nozione di progetto.20
Alla luce di queste riflessioni, lo scacco dell’ostinazione di Palomar e la
vittoria dell’onda non hanno ai miei occhi nulla di pessimista. Si tratta
tuttavia di uno scacco doloroso e inquieto. Doloroso perché la tensione
verso il modello non è un puro elemento dialettico, ma una necessità intima (sempre insoddisfatta). Inquieto perché una volta svanita la possibilità di dare unità e continuità all’esistenza, il rischio e quello dell’afasia,
del mutismo, del nulla.
“In fondo il pensiero può sbarazzarsi delle sue ossessioni solo in questo modo, attraverso l’indifferenza sulle conclusioni a cui dovrebbe giungere”,21 ha scritto Gianni Celati, ma Palomar non raggiunge questa indifferenza, meglio, la raggiunge preoccupato, addolorato: “L’universo forse
può andare tranquillo per i fatti suoi; lui certamente no” (p. 973).
19
“ll Signor Palomar pensa al mondo senza di lui: quello sterminato di prima della sua
nascita, e quello ben più oscuro di dopo la sua morte; cerca di immaginare il mondo prima
degli occhi, di qualsiasi occhio; e un mondo che domani per catastrofe o lenta corrosione
resti cieco. Che cosa avviene (avvenne, avverrà) mai in quel mondo? Puntuale un dardo di
luce parte dal sole, si riflette sul mare calmo, scintilla nel tremolio dell’acqua, ed ecco la
materia diventa ricettiva alla luce, si differenzia in tessuti viventi, e a un tratto un occhio,
una moltitudine di occhi fiorisce e rifiorisce […]. Si è convinto che la spada esisterà anche
senza di lui: finalmente s’asciuga con un telo di spugna e torna a casa” (p. 887).
20
A questo proposito Mario Barenghi scrive: “centralità della nozione di progetto come
rifiuto da un lato del soggettivismo sterile e ripiegato su di sé, dall’altro, di un’oggettività
indifferente, estraniante, amorfa, in cui l’io non sa riconoscersi come tale, perché non sa
imprimervi un contrassegno autenticamente umano”. Mario Barenghi, “Italo Calvino e i
sentieri che s’interrompono”, Quaderni piacentini, 15, 1984, p. 142.
21
Gianni Celati, “Palomar, nella prosa del mondo”, Nuova Corrente, 34:100, 1987, p. 240.
§
9
Valentina Locatelli
Christa Wolf,
una moderna Medea in California
La recente edizione italiana della biografia di Christa Wolf firmata da
Jörg Magenau1 è un sintomo evidente dell’interesse che questa figura è
stata in grado di raccogliere anche nel nostro paese. Che un’autrice ancora in attività diventi il soggetto di uno studio biografico, e soprattutto che
di lì a poco questo stesso testo sia tradotto anche al di fuori dei confini
nazionali e culturali a cui l’opera di Christa Wolf appartiene, è già di per
sé assai significativo. In oltre quattrocento pagine, arricchite da numerose
fotografie per lo più inedite, Magenau, nato nell’anno della costruzione
del Muro, cresciuto dalla parte occidentale, ritrae da un punto di vista
non convenzionale l’autrice più nota della Rdt. Il timore di leggervi per
questo un’interpretazione falsata degli avvenimenti lascia ben presto spazio alla scoperta di un testo che, al contrario, si accosta con molto rispetto e delicatezza alla vita di Wolf, mettendo in luce le trame di una storia
che non è solo quella personale dell’autrice.
La parte più interessante del testo di Magenau è quella che si riferisce
agli anni immediatamente successivi alla caduta del Muro di Berlino
quando, alla vigilia della riunificazione delle due Germanie, la Rft sembrò di colpo volersi riprendere il ‘bonus’ che i suoi critici avevano concesso agli scrittori Rdt durante tutti gli anni del regime: un capitolo della vita della scrittrice, sospeso tra Literaturstreit e Stasi-Debatte, che potrà essere utile integrare con l’aggiunta di un suo strascico statunitense.
Vediamo intanto per sommi capi le tappe del Literaturstreit. A pochi
mesi dalla riunificazione tedesca, evento che scosse non solo i paesi del
1
Jörg Magenau, Christa Wolf: Eine Biographie (2002), trad it. di Marina Pugliano,
Christa Wolf. Una biografia, Roma: e/o, 2004.
PARAGRAFO II (2006), pp. 149-68
150 /
VALENTINA LOCATELLI
blocco comunista, bensì l’intero assetto mondiale, si sviluppò un acceso
dibattito letterario che ebbe per oggetto Christa Wolf, probabilmente la
voce più rappresentativa e sino a quel momento più amata della Rdt. Il
dibattito, meglio noto agli specialisti come Literarurstreit, nacque in seguito alla pubblicazione del racconto Was bleibt,2 la prima opera letteraria a essere data alle stampe dopo la caduta del Muro di Berlino. Ciò che
tutti si aspettavano da Wolf era a quell’epoca una sorta di ‘romanzo della
svolta’ (Wenderoman), un’opera che potesse essere considerata significativa di un momento di trasformazione epocale nella storia della Germania.
Was bleibt però non è certo tale, e si presenta a un primo sguardo come il
resoconto della giornata tipo di una scrittrice sorvegliata per settimane
dagli uomini della Stasi: una scrittrice facilmente identificabile con la
stessa Wolf. Sebbene sia innegabile che l’autrice, come del resto molti
altri intellettuali della Rdt, avesse allora percepito la necessità di analizzare gli avvenimenti politici e sociali che avevano condotto la nazione a
quel famoso 9 novembre 1989, il suo racconto appare ancora fortemente
legato al passato, riferendosi a un arco temporale collocabile presumibilmente fra il 1976, anno della tanto contestata espulsione di Wolf
Biermann, e il 1979, data in cui la scrittrice venne ufficialmente cancellata dai registri dell’Associazione degli scrittori proprio a causa della sua
netta presa di posizione in relazione alla gestione del ‘caso Biermann’
da parte della SED.3
Il Literaturstreit esplose nel luglio del 1990 per poi protrarsi fino al
1993, anche se i suoi echi non si sono ancora oggi del tutto spenti. Il vero
oggetto del contendere, d’altronde, non fu tanto il racconto in sé quanto
l’autrice stessa. Si contestò il fatto che Wolf avesse proposto due date di
stesura dell’opera (giugno/luglio 1979 e novembre 1989),4 senza però
specificare che cosa fosse stato scritto in quale data, e in quali circostanze;
si citarono come aggravanti alcune dichiarazioni dell’autrice risalenti a
prima della pubblicazione, dove Wolf rivelava che Was bleibt era stato recentemente rielaborato, senza che tuttavia, nell’edizione definitiva, comparisse alcuna nota pensata per fornire al lettore la traccia di tali interventi. Ciò offrì spunto a numerose illazioni, che culminarono in una con2
Christa Wolf, Was bleibt (1990), trad. it. di Anita Raja, Che cosa resta, Roma: e/o,
1991.
3
SED, Sozialistiche Einheitspartei Deutschlands: il Partito socialista unitario tedesco
della Germania est.
4
Christa Wolf, Was bleibt, cit., p. 105.
CHRISTA WOLF
/ 151
danna morale dell’autrice, accusata infine di essere una vera e propria
“poetessa di stato”.5
Le prime avvisaglie del mancato gradimento di Was bleibt da parte
della critica occidentale sono senza dubbio riconducibili alle due recensioni di Ulrich Greiner e Frank Schirrmacher6 apparse rispettivamente l’1
e il 2 giugno 1990 su due fra le più prestigiose testate giornalistiche tedesche, quali Die Zeit e la Frankfurter Allgemeine Zeitung. La critica mossa
dai due giornalisti si rivolgeva in prima istanza contro la data di pubblicazione dell’opera: una pubblicazione di Was bleibt nel 1979 avrebbe avuto
il valore di una denuncia estremamente coraggiosa; a riunificazione praticamente avvenuta, non era altro che un’operazione oltraggiosamente vile
nei confronti di tutti coloro che negli anni del regime erano stati seriamente danneggiati dalla SED.
Sul dibattito si è scritto molto, e la sua evoluzione è stata minuziosamente ricostruita da Thomas Anz nel suo Es geht nicht um Christa Wolf.7
Uno sguardo diverso può venire perciò dall’esame del suo approdo in un
contesto distante come quello americano. Il l° febbraio del 1992, lacerata
da sentimenti contrastanti, dominata da un senso di estraneità che non le
consentiva più di riconoscere la propria terra di appartenenza nella Germania ormai riunificata, Christa Wolf comunicò in una lettera alla sua
traduttrice italiana Anna Chiarloni la volontà di allontanarsi da un contesto divenutole ormai ostile. L’autrice rese nota la decisione di lasciare il
paese per un periodo prolungato a partire dall’autunno di quello stesso
anno, giustificando tale scelta come conseguenza dell’emarginazione di
cui era vittima in Germania:
Qui naturalmente verifichiamo ogni giorno come le principali pagine culturali della Germania ovest, e anche una serie di uomini politici e molti
organi di informazione, maledicano ‘l’est’, lo demonizzino, compresa la
letteratura prodotta nella Rdt nel suo ultimo decennio di vita. Devo tirarmi fuori da questa atmosfera avvilente, qui non ho più niente da fare.8
5
Ulrich Greiner, “Mangel an Feingefühl”, Die Zeit, 1 giugno 1990, in Thomas Anz (a
cura di), Es geht nicht um Christa Wolf. Der Literaturstreit im vereinten Deutschland, München: Edition Spangenberg, 1991, pp. 66-70. Laddove non altrimenti indicato la traduzione è mia.
6
Ulrich Greiner, op. cit.; Frank Schirrmacher, “Dem Druck des härteren, strengeren
Lebens standhalten”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 2 giugno 1990, in Thomas Anz (a
cura di), op. cit., pp. 77-89.
7
Thomas Anz (a cura di), op. cit.
8
Jörg Magenau, op. cit., pp. 412-13.
152 /
VALENTINA LOCATELLI
Furono paradossalmente proprio gli Stati Uniti, terra che da sempre lo
stato socialista aveva identificato col nemico, a divenire per Christa Wolf
meta di un viaggio di espiazione, quasi un pellegrinaggio salvifico verso
occidente. Nel settembre del 1992 la scrittrice partì alla volta di Santa
Monica (California) per trascorrervi i nove mesi della borsa di studio
conferitale dal prestigioso Getty Center for the History of Art and the
Humanities. Si trattava di un’assenza prolungata, la più lunga che l’autrice si fosse mai concessa.
Sebbene il progetto principale della scrittrice fosse quello di raccogliere materiale per la stesura del suo romanzo successivo, Medea. Stimmen,9
Christa Wolf si trovò ben presto confrontata con un’ennesima polemica,
immediatamente ribattezzata dalla critica come Stasi-Debatte. Causa del
dibattito fu questa volta la scoperta, fra le pratiche raccolte dalla GauckBehörde,10 dell’esistenza di un’intera documentazione relativa all’attività
della scrittrice in veste di IM.11 Tra il 1959 e il 1962 Christa Wolf, alias
“Margarete”, avrebbe più o meno consapevolmente collaborato con gli
uomini della Stasi, per quanto tra il materiale raccolto non si possano annoverare che sporadiche valutazioni e generiche descrizioni relative ad alcuni colleghi intellettuali, peraltro non molto diverse da quelle che Wolf
era solita redigere adempiendo al suo lavoro di critico letterario. Il contributo di Christa Wolf venne complessivamente considerato di poca utilità,
sicché la Stasi rinunciò di lì a poco alla sua collaborazione, salvo poi intraprendere una sistematica attività di spionaggio della scrittrice e del marito a partire dal 1965, ovvero in concomitanza con la presa di posizione
molto critica di Wolf in occasione dell’XI Plenum della SED. Nel 1968
venne aperta una pratica operativa che rimase esecutiva fino a pochi giorni prima della caduta del Muro.12 Nei quarantadue fascicoli che costitui9
Christa Wolf, Medea. Stimmen (1996), trad. it. di Anita Raja, Medea. Voci, Roma:
e/o, 2000.
10
Gauck- Behörde: commissione fondata in seguito alla caduta del Muro per assolvere
il compito di delegazione federale deputata alla raccolta di tutta la documentazione relativa alla Stasi. Prende il suo nome da Joachim Gauck, il delegato federale che ne fu nominato responsabile.
11
IM, Informeller Mitarbeiter: informatore non ufficiale, informale.
12
La documentazione in questione fornita dalla Gauck-Behörde termina all’inizio degli
anni Ottanta. Sembra tuttavia certo che l’osservazione di Christa e Gerhard Wolf sia continuata fino alla fine di quel decennio e che per tanto i documenti a esso relativi siano stati distrutti dagli uomini della Stasi nel momento in cui la fine della Rdt era apparsa ormai
inevitabile.
CHRISTA WOLF
/ 153
scono le ‘pratiche della vittima’ (Opfer-Akten) Christa e Gerhard Wolf poterono leggere la cronaca di tutte le loro conversazioni, spiate giorno per
giorno da una rete fittissima di informatori della Stasi fra i quali figuravano anche alcuni tra gli amici più intimi della coppia e i cui resoconti insistevano soprattutto su una sempre più decisa ostilità dell’autrice nei confronti dello Stato.
Proprio da Santa Monica nel gennaio del 1993, Christa Wolf inviò alla redazione della Berliner Zeitung la sua Eine Auskunft:13 cercando di
chiarire e giustificare di fronte all’opinione pubblica una fase della propria vita sulla quale gravavano anche per lei dubbi e malintesi, Wolf dichiarò di aver per la maggior parte rimosso dalla memoria gli avvenimenti di quel triennio segnato dalla presunta collaborazione con la Stasi. Affermazioni di tale portata non tardarono ovviamente a fomentare un’ennesima sequela di accuse fra gli intellettuali tedeschi, portando alla nascita di una vera e propria nuova disputa, la cosiddetta Stasi-Debatte appunto. Come già per il Literaturstreit, sia consentito in questa sede di tralasciare l’analisi dei testi apparsi sui giornali tedeschi, e di rinviare il lettore
interessato alla consultazione di Akteneinsicht,14 compendio esaustivo che
raccoglie articoli, lettere e testimonianze di amici e ‘nemici’ di Wolf pronunciatisi in quell’occasione.
Manca invece del tutto un esame approfondito del punto di vista
americano, sicuramente molto significativo poiché svincolato da un coinvolgimento diretto e quindi, almeno in linea di massima, più obiettivo.
Scegliendo come voci di riferimento due testate statunitensi, il New York
Times e il Los Angeles Times, rappresentanti simbolici delle due coste americane, si vuole in questa sede delineare la posizione adottata dalla critica
giornalistica e dal pubblico americani in merito ai due dibattiti.
Innanzitutto viene spontaneo chiedersi chi fosse Christa Wolf per gli
americani. Tra le voci raccolte negli articoli a seguire emerge un quadro
piuttosto omogeneo al riguardo. Nell’immaginario americano Christa
Wolf è il simbolo della Germania orientale e dei valori che essa rappresenta, sia nel bene che nel male, e a seconda che se ne parli adottando un
punto di vista puramente letterario oppure più propriamente ideologico,
filo-comunista o filo-americano.
13
Christa Wolf, “Eine Auskunft”, Berliner Zeitung, 21 gennaio 1993.
Hermann Vinke (a cura di), Akteneinsicht Christa Wolf. Zerrspiegel und Dialog, Hamburg: Luchterhand Literaturverlag, 1993.
14
154 /
VALENTINA LOCATELLI
In un acuto articolo pubblicato sul Los Angeles Times il 5 ottobre
1990, Christine Schoefer presenta ai suoi lettori un efficace riassunto delle polemiche che avevano travolto Christa Wolf in seguito alla pubblicazione di Was bleibt. Muovendosi controcorrente rispetto alla critica tedesca, Schoefer descrive la scrittrice come un baluardo di integrità, portatrice di una visione del socialismo carica di dignità, giustizia e tolleranza, dichiarando con trasporto che “[l]’accusa di ‘poetessa di stato’ certamente
non colpisce nel segno!”15 Le diffamazioni e l’accusa di connivenza con la
Repubblica democratica tedesca, continua Schoefer, non sarebbero altro
che banali espedienti votati alla distruzione dell’immagine di Wolf in
quanto portavoce di una cultura, quella della Germania orientale, in questo modo inevitabilmente condannata al discredito – e, possiamo aggiungere, all’oblio. Che la tendenza nella Germania riunificata fosse quella di
una suddivisione arbitraria tra ‘buoni’ e ‘cattivi’ è del resto cosa nota;
screditare la cultura socialdemocratica della Germania orientale, applicandole etichette adatte a equipararla al regime nazionalsocialista, significava essenzialmente negare l’esistenza di quella schiera di intellettuali indipendenti, Wolf in prima linea, che avevano dato voce alla libertà intellettuale durante i quarant’anni della dittatura SED. Schoefer coglie quindi
perfettamente nel segno quando afferma: “Per quanti parallelismi vi si
possano individuare, il comunismo della Germania dell’est non era il nazionalsocialismo di Hitler. Repressione politica, corruzione e intimidazione non equivalgono ad Auschwitz, fatto questo di cui il lavoro di Wolf
rende testimonianza”.
Due anni dopo, anche il New York Times dedicò un lungo articolo alla
crisi dell’apparato culturale della ex Rdt, pubblicato solo qualche giorno
prima che Christa Wolf rilasciasse la sua Auskunft alla stampa tedesca.16
Anche qui, come già nell’intervento di Schoefer, la scrittrice viene definita come la più famosa della Germania orientale, una sorta di “madre confessore” della Repubblica democratica tedesca, cui per molti anni migliaia
di cittadini della Rdt avevano indirizzato delle vere e proprie lettere-confessioni. Di nuovo, anche tra le parole di Katie Hafner (non è forse privo
di significato che i primi articoli apparsi negli Stati Uniti fossero firmati
da due donne), si sottolinea la duplicità esistenziale di autori come Wolf,
15
Christine Schoefer, “Perspective on Cultural Reunification to Taint All, Discredit the
Best”, Los Angeles Times, 5 ottobre 1990, p. 7.
16
Katie Hafner, “A Nation of Readers Dumps Its Writers”, New York Times, 10 gennaio
1993, p. 22.
CHRISTA WOLF
/ 155
costretti a esprimere il proprio dissenso con moderazione, costantemente
impegnati in un difficile equilibrismo fra l’adesione al progetto socialista
e la volontà di affermare pubblicamente quella verità che non poteva trovare posto sulla stampa ufficiale della Rdt.
Ritornando con un salto al presente di quei giorni, Hafner ricorda agli
americani che Christa Wolf si trovava a Santa Monica dal settembre dell’anno precedente, ospite del Getty Center. Particolarmente curioso sembra il passo in cui, annunciando un imminente riemergere della voce di
Christa Wolf dal silenzio in cui era sprofondata, l’opinionista americana
insinua l’ipotesi che tale miglioramento sia la salutare conseguenza della
vita californiana, quasi che l’America potesse esercitare un benefico influsso (anche) sulla scrittrice tedesca. In effetti, il soggiorno a Santa Monica, come continua a spiegare Hafner, avrebbe concesso a Wolf il tempo
e la distanza necessari per riflettere sul suo ruolo, passato e futuro, nel panorama letterario tedesco. Sebbene di segno complessivamente positivo,
l’articolo del New York Times non manca tuttavia di tracciare alcune analogie con la posizione assunta a suo tempo da Frank Schirrmacher,17 raccogliendo l’idea di un’ambigua duplicità del ruolo degli intellettuali della
Rdt, Wolf inclusa, ma senza dimenticare che questi cronisti della socialdemocrazia erano anche gli unici a dare voce a un capitolo di storia che
altrimenti sarebbe stato cancellato in tutta fretta nella frenesia della riunificazione.
Fin qui l’opinione americana sembra quindi preferire una valutazione
il più imparziale possibile, tendenzialmente perfino accomodante, dell’opera e soprattutto della vita di Christa Wolf. Preannunciando la possibilità e la speranza che gli avvenimenti di quegli anni potessero trovare forma compiuta in un romanzo in grado di raccontarli al mondo intero,
Hafner profetizza che sia proprio Christa Wolf a doversi assumere il compito di un bilancio storico. (Che si possa intravedere nella recente pubblicazione di Ein Tag im Jahr18 l’adempimento di questo dovere?)
In un articolo apparso un paio di mesi dopo, Herbert Mitgang propone ai lettori della rubrica Books of the Times19 un estratto da due libri della
scrittrice, allora di recente pubblicazione negli Stati Uniti: The Author’s
17
Frank Schirrmacher, op. cit.
Christa Wolf, Ein Tag im Jahr. 1960-2000, München: Luchterhand Literaturverlag,
2003.
19
Mitgang Herbert, “Refracting an Author Through Reality and Fiction”, New York Times, 31 marzo 1993, p. 21.
18
156 /
VALENTINA LOCATELLI
Dimension e What Remains and Other Stories.20 Mitgang usa senza mezzi
termini la nozione di ‘ambivalenza’ per definire la produzione letteraria di
autori come Wolf e, rileggendo Die Dimension des Autors a posteriori, alla
luce della scoperta delle Stasi-Akten, gli incartamenti Stasi riguardanti
Christa Wolf, lo interpreta come il tentativo di dissimulare quella collaborazione con la Stasi di cui ormai l’opinione pubblica era venuta a conoscenza. Contemporaneamente però Mitgang solleva Was bleibt da qualsiasi accusa, e capovolge la prospettiva ‘tedesca’ che aveva fatto di quel libro,
in patria, il principale capo di imputazione contro Wolf. Secondo il giornalista americano, proprio Was bleibt dimostrerebbe finalmente una presa
di posizione forte e indipendente da parte di Wolf, lontana quindi da
quella duplicità di prospettive che invece sarebbe ancora trapelata dalle
opere precedenti.
Sicuramente Mitgang non sbaglia nel sottolineare la volontà di denuncia che trapela dalle pagine di Was bleibt, ma sembra dimenticare che
pure la critica tedesca più accanita non aveva messo in discussione il potenziale rivoluzionario del testo. Ciò che nella Germania della riunificazione disturbò i lettori del racconto fu, come si è detto, non tanto la materia trattata, quanto la scelta della sua pubblicazione fuori tempo, troppo
in ritardo per riuscire a proporsi come un vero e proprio j’accuse.
Complementare a quella di Mitgang è l’interpretazione che Richard
Eder propone ai lettori del Los Angeles Times.21 Questa volta prendendo in
esame solamente Was bleibt, Eder vi evidenzia una continuità ideale di
quell’ambivalenza rintracciabile come Leitmotiv in tutta l’opera di Wolf.
Sebbene egli riconosca il dovere del critico letterario di distinguere tra la
vita privata di un autore e la sua opera, non può fare a meno di notare che
con Wolf è il lavoro stesso a essere caratterizzato dall’ambiguità delle linee
di demarcazione. Quando ancora esistevano un est e un ovest lei vi si
metteva alla frontiera, parlando del degrado che soffiava da ambo le parti.
20
Si tratta rispettivamente di Christa Wolf, Die Dimension des Autors. Essays und Aufsätze, Reden und Gespräche. 1959-1985, (1990), trad. ingl. di Heike Schwarzbauer e Rick
Takvorian, The Author’s Dimension: Selected Essays, New York: Farrar, Straus & Giroux,
1993, e Was bleibt, (1990), trad. ingl. di Heike Schwarzbauer e Rick Takvorian, What Remains and Other Stories, New York: Farrar, Straus & Giroux, 1993, quest’ultimo edito in
America in un volume contenente anche altri racconti di Christa Wolf fra cui Juninachmittag (1967), Kleiner Ausflug nach H. (1971) e Neue Lebensansichten eines Katers (1974).
21
Richard Eder, “Dance of the Marionettes. What Remains And Other Stories by Christa Wolf ”, Los Angeles Times Book Review, 25 aprile 1993, p. 3.
CHRISTA WOLF
/ 157
La sua scrittura, che può essere forte e delicata, ha sempre posseduto una
complicata integrità.
A ben vedere, tuttavia, l’analisi del critico poggia su una lettura incerta della produzione wolfiana: se da un lato egli sostiene che, biografismi a parte,
è l’opera della scrittrice a essere macchiata da un’ambiguità morale, dall’altro, con uno scarto rapidissimo, ritorna subito dopo a volgere lo sguardo
sulla persona di Christa Wolf (si noti il pronome personale femminile ‘lei’
nella seconda frase della citazione), rimproverandole l’atteggiamento equivocamente in bilico tra adesione e denuncia incrociata delle due realtà tedesche, quella orientale e quella occidentale. Anche la scelta del vocabolario è una spia dell’indecisione del critico. L’integrità è per definizione sinonimo di purezza e interezza. Definendola “complicata”, Eder costruisce la
sua affermazione su di un ossimoro, quasi a contestare il senso di quella dichiarata ‘integrità’. Allo stesso modo, l’uso dei due aggettivi antitetici “forte e delicata” per definire la scrittura dell’autrice sembra confermare l’esitazione di Eder nell’assumere una posizione critica decisa non solo rispetto
al ‘caso Wolf ’ ma anche relativamente alle opere della scrittrice.
La terza voce a levarsi a proposito della pubblicazione di What
Remains and Other Stories e The Author’s Dimension è quella di Peter
Demetz.22 Prima di recensire propriamente i due testi, il critico del New
York Times propone un riassunto di quella che definisce la “paradossale”
biografia dell’autrice, senza peraltro nulla aggiungere di nuovo al consolidato cliché della scrittrice ‘ambigua’.
Demetz legge l’origine della fede comunista di Wolf alla luce di un
percorso di espiazione dai mali del nazionalsocialismo, all’ombra del quale la generazione della scrittrice era cresciuta. Nel caso di Wolf, però, la
disillusione aveva avuto bisogno di più tempo per emergere rispetto a
quella di molti suoi compagni. La decisione di restare fino alla fine, continua Demetz, nata dalla considerazione che avesse forse più senso rimanere e andare avanti a sperare e parlare piuttosto che fuggire e soccombere al silenzio, aveva condotto la scrittrice verso un cammino di progressiva autodistruzione.
Tornando alla questione della pubblicazione tardiva di Was bleibt, Demetz si chiede se Wolf non avesse forse fatto meglio a evitare del tutto di
dare il libro alle stampe: “Era certamente legittimo domandarsi se la si22
Peter Demetz, “The High Cost of a Dream”, New York Times Book Review, 4 aprile
1993, pp. 1, 18-19.
158 /
VALENTINA LOCATELLI
gnora Wolf non fosse stata sconsiderata nel dare alle stampe il racconto
all’epoca in cui molti fatti brutali sulla vita nell’est vennero alla luce”.
Demetz sembra dunque non considerare il movente intellettuale all’origine della pubblicazione di Was bleibt: il dovere di testimoniare una cultura indissolubilmente legata alla Rdt, e la volontà di mantenere viva una
memoria storica che molti sembravano invece voler sacrificare al processo
di repentina occidentalizzazione.
“Santa Monica, California, è l’ultimo posto al mondo dove mi sarei
aspettato di trovare Christa Wolf, l’autrice più nota della ex Germania dell’est”:23 così esordisce Todd Gitlin nel suo articolo, pubblicato nello stesso
numero del New York Times sul quale era apparso anche lo scritto di Demetz. La terra di Disneyland e Hollywood, con i suoi colori e le sue chiassose celebrità, sembra mal adattarsi a Christa Wolf, se non addirittura essere l’antitesi spirituale di quella Rdt di cui la scrittrice incarnava senza dubbio l’essenza. Non senza una sottile ironia, Gitlin ci ricorda che Wolf alloggiava allora in un “sontuoso” appartamento sulla costa occidentale del
nuovo mondo, ma che il direttore dell’hotel, forse non sapendo che la sua
cliente era stata una comunista di rilievo nella ex Rdt, continuava ignaro a
mostrarle con una punta d’orgoglio la foto di Ronald Reagan con un autografo del presidente. Sebbene la motivazione ufficiale del soggiorno di
Christa Wolf presso il Getty Center fosse quella di concedersi un periodo
di ricerca per raccogliere materiale sulla figura di Medea, protagonista del
suo successivo progetto letterario, Gitlin vi ravvisa il disperato tentativo
della scrittrice di sfuggire alla campagna diffamatoria che la perseguitava in
Germania, specialmente in seguito alla diffusione delle Stasi-Akten.
Sicuramente, la scoperta di una tale documentazione aveva innescato
una profonda crisi nell’autrice, consapevole di ricoprire un ruolo delicato
nel fragile equilibrio della (ex) Rdt. Tuttavia sembra fin troppo affrettato
vedere nella sua scelta di trascorrere un periodo di riflessione all’estero il
semplice camuffamento di una ritirata difensiva. L’autrice per antonomasia della revisione storica, del ricordo e dell’autobiografismo, l’autrice di
Kindheitsmuster,24 non poteva certo volersi sottrarre alla necessità di una
riconsiderazione della propria storia. Al contrario. Christa Wolf parla di
rimozione (Verdrängung) di quella fase della sua vita (ma cosa sono in
23
Todd Gitlin, “‘I Did Not Imagine That I Lived In Truth’”, New York Times Book
Review, 4 aprile 1993, pp. 1, 27-29.
24
Christa Wolf, Kindheitsmuster (1976), trad. it. di Anita Raja, Trama d’infanzia, Roma: e/o, 1992.
CHRISTA WOLF
/ 159
fondo tre anni in rapporto a una vita intera?) durante la quale collaborò
con gli uomini della Stasi. Se le si vuole credere, concedendole il beneficio del dubbio, è forse plausibile leggere nella sua partenza una volontà di
espiazione più che una fuga. Lontana da una Germania che già dalla pubblicazione di Was bleibt l’aveva ripudiata, lontana dalla caccia alle streghe
che stava perseguitando molti colleghi, fra i quali va ricordato il caso
esemplare di Heiner Müller, Christa Wolf non tacque, ma cercò le parole
più appropriate per ammettere il proprio sbaglio. Anche la Medea a cui
stava lavorando in quei mesi va quindi a maggior ragione letta come metafora della riscoperta del sé attraverso la via di un esilio auto-imposto.
Esilio volontario e responsabile dunque, non fuga codarda.
Tornando all’articolo, Gitlin ricorda che, a tre anni di distanza dalla
caduta del Muro e dalla fine di quella “grottesca mezza-nazione che aveva
amato, servito, criticato, dalla quale era stata premiata, che aveva odiato,
dalla quale si era progressivamente estraniata pur rifiutandosi di fuggirne”, Christa Wolf era ancora in grado di parlare con occhi sognanti del
momento in cui tutto sembrava possibile, dei giorni di quel novembre
1989 in cui la speranza di una rivoluzione dal basso e non violenta aveva
generato in molti l’utopia di una nuova Germania socialista. Ripercorrendo le tappe di Literaturstreit e Stasi-Debatte, Gitlin propone anche un
riassunto estremamente preciso ed esauriente non solo delle informazioni
svelate dagli incartamenti ritrovati dalla Gauck-Behörde, ma anche delle
accuse diffuse dalla stampa contro la scrittrice, nonché delle risposte che
la stessa Wolf aveva cercato di dare a se stessa e al suo pubblico. Particolarmente degne di nota nell’articolo sono tuttavia soprattutto alcune dichiarazioni che l’autrice avrebbe rilasciato a Gitlin in occasione di una
conversazione privata:
La signora Wolf una volta mi disse: ‘Io e i miei colleghi, i miei compagni, la mia generazione, credevamo che questa giovane nazione, la Rdt,
dovesse continuare a esistere. Volevamo avere l’opposto della Germania
nazionalsocialista. E credevamo sinceramente che lo stato che stavamo
costruendo sarebbe stato esattamente questo. Perciò guardavamo alla Stasi come a qualche cosa di necessario nelle circostanze del tempo. Ogni
stato ha un’organizzazione di sicurezza nazionale, persino oggi. A quell’epoca ero una persona piuttosto ingenua, specialmente nelle questioni
riguardanti l’ideologia.’ Ai suoi occhi la Germania dell’est, Stasi inclusa,
era lo strumento di quei comunisti che si erano dimostrati anti-nazisti
per via degli anni trascorsi nelle prigioni, nei campi di concentramento e
in esilio.
160 /
VALENTINA LOCATELLI
E così prosegue Gitlin:
Da quando furono diffuse le notizie relative al suo dossier da IM, la signora Wolf è caduta in una profonda depressione. La vidi in una di queste
occasioni, all’inizio di febbraio quando, durante una cena, si immerse in
lunghi e penosi silenzi. Non fosse stato per suo marito e le sue figlie, di
quarantuno e trentasei anni, ad attenderla in Germania – mi disse –
avrebbe potuto togliersi la vita quando il suo dossier da IM venne alla luce. Se non fosse stato per l’effetto controbilanciante delle quarantadue
Täter-Akte, disse, ‘non avrei potuto guardarmi in faccia’.
Si tratta di uno spaccato assolutamente inedito della vita della scrittrice: il
crollo di un mondo era anche il crollo del suo mondo.
Se l’articolo di Gitlin e quello di Demetz, versioni americane e pacificate di quel più famoso faccia a faccia tra Ulrich Greiner e Volker Hage,25 si
mantengono su posizioni piuttosto moderate, assai radicali sono invece le
reazioni dei lettori del New York Times. A poco meno di un mese di distanza dalla pubblicazione dei due articoli in questione, nella rubrica Letter to
the Editor vennero proposte due voci fra loro opposte a simboleggiare una
spaccatura anche fra coloro che, dalla distanza geografica e culturale degli
Stati Uniti, sembravano essersi fatti una chiara opinione sul ‘caso Wolf ’.
La prima lettera, firmata “L.H. Gann, Stanford, California”,26 accusa
il giornale di eccessiva indulgenza nei confronti della scrittrice. Secondo il
lettore (lettrice?), Wolf avrebbe sì criticato la Germania orientale per i
suoi eccessi, senza però mai censurarne le fondamenta marxista-leniniste:
La Germania dell’est non smise mai di glorificare Lenin e le sue dottrine
di vigilanza rivoluzionaria e terrore. Ora i ricordi si offuscano; nella Germania dell’est gli occhi si appannano, quando il passato è menzionato. Il
fatto resta: dalle sue origini la Germania dell’est si è fondata su una violenza manifesta. Le prigioni erano piene.
Scegliendo di restare, Christa Wolf non avrebbe dunque fatto altro che
contribuire alla legittimazione della Rdt, continua L.H. Gann, avvallando così un regime di matrice leninista. Entrando nel merito dell’improvviso filo-americanismo della scrittrice, L.H. Gann ricorda che
25
Si confrontino i seguenti articoli: Ulrich Greiner, “Mangel an Feingefühl” e Volker
Hage, “Kunstvolle Prosa”, Die Zeit, 1 giugno 1990, in Thomas Anz (a cura di), op. cit.,
pp. 66-70 e 71-76.
26
L.H. Gann, “Letter to the Editor”, New York Times, 2 maggio 1993, p. 30.
CHRISTA WOLF
/ 161
Wolf ha anche la memoria corta a proposito del virulento anti-americanismo un tempo instillato dall’intellighenzia della Germania est. Ora vive
in California, ospite della fondazione Getty, costruita – come qualcuno
avrebbe dichiarato in passato – sui superprofitti estorti ai poveri dal monopolio capitalistico americano nel suo ultimo o penultimo stadio di decadenza.
Da queste parole emerge con chiarezza un risentimento che travalica i
confini del semplice dibattito letterario per addentrarsi invece in una dichiarazione patriottica, dove l’America, e con essa i valori di indipendenza e libertà enunciati nella sua Costituzione, assurge a luogo emblematico
della democrazia.
Fra chi invece si schierò dalla parte di Christa Wolf, assolvendola da
ogni accusa, bisogna annoverare anche la voce autorevole di Josef Škvorecký. Lo scrittore praghese, da tempo residente in Canada, non scelse un
mezzo più ‘ufficiale’ per esprimere la propria opinione sul caso Wolf, limitandosi invece, come un lettore qualsiasi, a inviare una lettera alla redazione del New York Times:
Così Christa Wolf, nelle vesti di una giovane comunista convinta, 30 anni fa si incontrò per qualche volta con la Stasi, che ben presto la scaricò
non trovandola idonea al lavoro d’informatrice […] Da questi dossier i
virtuosi, i sempre puri e i semplici cacciatori di sensazione e lettori delle
rubriche di pettegolezzi l’hanno ripescata e condotta di fronte a una giustizia di massa.27
Quasi coetaneo della scrittrice, Škvorecký nacque in Boemia nel 1924 e
visse il dramma dell’ascesa al potere del nazionalsocialismo. Il suo primo
romanzo, I vigliacchi,28 scritto nel biennio 1948-49, non trovò pubblicazione fino al 1958 quando, immediatamente condannato dal partito comunista con l’accusa di infangare la memoria dell’insurrezione popolare
antinazista, venne ritirato dal mercato, segnando così l’inizio della fine
del Realismo socialista nella letteratura ceca. In seguito al fallimento della Primavera di Praga, Škvorecký si ritirò a Toronto, dov’è rimasto in volontario esilio fino a oggi. Le analogie evidenti con la storia personale di
27
Josef Škvorecký, “Christa Wolf ’s Politics. Letter to the Editor”, New York Times, 2
maggio 1993, p. 30.
28
Josef Škvorecký, Zbabělci, (1958), trad. it. di Giuseppe Mariano, I vigliacchi, Milano:
Rizzoli, 1969.
162 /
VALENTINA LOCATELLI
Christa Wolf consentono di meglio comprendere la posizione difensiva
assunta da Škvorecký in merito alle polemiche contro la scrittrice.
La storia della presunta collaborazione di Christa Wolf con la Stasi,
sostiene Škvorecký, sarebbe identica a quella di molte altre che egli stesso
stava allora raccogliendo per la Sixty-Eight Publishers,29 la casa editrice
fondata insieme alla moglie, la scrittrice e attrice Zdena Salivarová, dal
1971 impegnata a pubblicare libri cechi e slovacchi banditi dal mercato.
Lo schema secondo il quale avveniva il reclutamento di queste potenziali
‘spie’ sarebbe stato sempre il medesimo:
Dapprima la vittima prescelta viene più volte avvicinata, e quando trovata inerme e perciò inutile, lui o lei vengono abbandonati in un dossier. Il
candidato scartato non si sogna affatto che quei pochi incontri con i poliziotti gli abbiano fatto conquistare un posto nella lista degli agenti segreti. Lei o lui non hanno alcuna idea che un nome in codice sia stato loro
assegnato. Dato che non ci sono altri tentativi di reclutamento, lei o lui
dimenticano dell’episodio. Ora, trent’anni dopo…30
Nel 1993 Škvorecký chiudeva la sua lettera manifestando la speranza che
per il suo prossimo libro la scrittrice non si sarebbe lasciata sedurre da
una nuova ideologia. Il pubblico americano avrebbe tuttavia dovuto attendere fino alla fine di quel decennio maledetto per Christa Wolf prima
di poter giudicare se la profezia dello scrittore praghese si fosse o meno
avverata. Con ben due anni di ritardo rispetto alla Germania, Medea
trovò finalmente spazio anche sul mercato librario statunitense.31 In un
articolo firmato da David R. Slavitt,32 critico letterario del New York Times, la rilettura wolfiana del mito euripideo viene interpretata e presentata ai lettori americani in chiave strettamente autobiografica, quale vero e
proprio specchio del passato socialista dell’autrice. Christa Wolf vi tratteggerebbe dunque la figura di una Medea che, dalla lontana Corinto, si
immerge nel ricordo della Colchide natale, vagheggiandola come una
sorta di paradiso socialista “dove le persone vivevano in armonia le une
con le altre, e dove la proprietà era distribuita così uniformemente che
29
Il risultato di questa raccolta si può leggere in Josef Škvorecký (a cura di), Osočení,
Toronto: Sixty Eight Publishers, 1993.
30
Josef Škvorecký, “Christa Wolf ’s Politics”, cit., p. 30.
31
Nella traduzione di John Cullen: Medea. A Modern Retelling, New York: Doubleday,
1998.
32
David R. Slavitt, “Revenge Fantasy”, New York Times, 14 giugno 1998, p. 17.
CHRISTA WOLF
/ 163
nessuno invidiava il prossimo o tramava per prendersene i possedimenti
o la vita”.
Facendo riferimento alla Stasi-Debatte lanciata da Der Spiegel,33 Slavitt
definisce la storia di Medea come una sorta di supplica difensiva da parte
di una donna macchiata da una terribile colpa. Il giornalista ricorda le accuse lanciate qualche anno prima da Fritz Raddatz su Die Zeit e si chiede
“come [Wolf ] pote[sse] produrre un lavoro significativo e allo stesso tempo
‘condividere il divano con questi sgherri’ e ‘parlare con degli assassini’?”34
Al di là di ogni giudizio sulla validità o meno di una lettura critica in
chiave esclusivamente autobiografica, particolarmente ingiusto sembra il
commento conclusivo della recensione, dove si sostiene che Wolf avrebbe
dovuto forse cercare di discolparsi direttamente piuttosto che uscirsene
con un’arringa difensiva affidata alla figura mitica di Medea.
Slavitt però fa un passo avanti rispetto ad alcuni suoi contemporanei
tedeschi laddove non nega che, con Medea, Wolf non abbia solo cercato
di difendere se stessa da un passato scomodo, ma che al contrario il suo
fosse stato anche un tentativo di “pronunciarsi in favore di quegli Untermenschen sparsi ovunque, i calunniati, disprezzati e respinti!” Il critico del
New York Times non nasconde però una vena ironica quando, ricordando
che Wolf scrisse gran parte del romanzo in un hotel di Santa Monica come ospite del Getty Center, conferma che “[i] socialisti talvolta devono
essere realisti”.
Poco più di un mese dopo la pubblicazione dell’articolo di Slavitt, il
giornale pubblicò la lettera indignata di tale Margo Light, la quale esprimeva un profondo disaccordo con il critico.35 La lettrice denunciava come eccesso di zelo il voler presentare l’ultimo libro di Wolf alla luce della
Stasi-Debatte. A differenza di Heiner Müller, continuava Light, “che aveva lavorato a stretto contatto con la Stasi durante tutta la fine degli anni
Ottanta, l’affiliazione della Wolf ebbe luogo almeno quarant’anni fa, la
sua portata fu limitata e sicuramente trovò origine nella sua adesione
idealistica al socialismo”.
33
Anon., “Die ängstliche Margarete”, Der Spiegel, 25 gennaio 1993, in Hermann Vinke
(a cura di), op. cit., pp. 152-56.
34
Slavitt riporta qui in citazione alcune parole utilizzate dal critico tedesco nel seguente
articolo: Fritz J. Raddatz, “Von der Beschädigung der Literatur durch ihre Urheber”, Die
Zeit, 28 gennaio 1993, in Hermann Vinke (a cura di), op. cit., pp. 168-71.
35
Margo Light, “Christa Wolf ’s Past. To the Editor”, New York Times, 26 luglio 1998,
p. 4.
164 /
VALENTINA LOCATELLI
Il quadro complessivo che emerge dall’analisi incrociata degli interventi proposti in questo saggio dovrebbe essere un chiaro indice della generale tendenza della stampa americana a un ammorbidimento del giudizio sulla figura e sull’opera di Christa Wolf, specialmente se confrontato
con quel che si poteva trovare in quegli stessi anni sulle pagine delle maggiori testate tedesche. Tuttavia sia il New York Times che il Los Angeles Times non hanno mancato di riproporre, a volte in maniera assai corsiva, alcune delle linee d’accusa già sviluppate nell’ambito di questo dibattito in
Germania, senza introdurre opinioni nuove. Le riflessioni meno vincolate
all’interpretazione prestabilita sono emerse semmai negli interventi dei
lettori, decisamente più liberi nella presa di posizione sul caso.
Sia qui concessa una breve digressione su Medea. Dall’antichità classica ai nostri giorni, partendo da Euripide e passando per Grillparzer, Heiner Müller e Pasolini, la storia di Medea è stata tramandata come una rete dolorosamente intrecciata al filo della passione e del tradimento. Il mito vuole che Medea, mentendo al padre Eete, re della Colchide, avesse
aiutato gli Argonauti guidati da Giasone a riconquistare il vello d’oro per
poi fuggire con questi a Corinto. Lì l’amore travolgente di Medea sarebbe
stato ben presto soffocato dal veleno della gelosia per l’infedeltà del marito, cinicamente pronto a sposare un’altra donna esclusivamente in nome
del potere. Medea, in preda a un’ira violenta e distruttrice, avrebbe allora
dato fuoco alla città, ucciso la rivale in amore e infine assassinato i figli
avuti da Giasone.
Christa Wolf si rifiuta di credere a questa storia, sicura del principio
positivo che doveva aver dominato il matriarcato del quale Medea era una
diretta discendente: una simile realtà non poteva certo coesistere con alcun odio o pulsione distruttrice tanto violenti da condurre la somma sacerdotessa di Ecate a commettere il crimine più tremendo che si possa
imputare a una madre, quello cioè dell’infanticidio. Christa Wolf riesce a
rintracciare una fonte precedente a quella del drammaturgo greco, rielaborando il mito alla luce della storiografia antica. La scrittrice scopre così
che Euripide era stato pagato dagli stessi corinzi per alterare il racconto
cosicché, in occasione delle feste in onore di Dionisio, si fosse potuta presentare al resto dell’Egeo un’immagine positiva della città.
La chioma corvina selvaggiamente sciolta sulle spalle, la risata forte e
sicura di chi si lascia guidare dall’istinto, il coraggio di mostrare la propria
identità senza veli: questa è Medea, donna trasgressiva e infuocata, dominata dalla forza istintuale della natura, fattucchiera depositaria di un sa-
CHRISTA WOLF
/ 165
pere viscerale il cui segreto si dischiude solo a chi, come lei, sia pronto ad
accettare la magia delle cose e calarsi nel cuore della terra per svelarlo.
Medea scopre in questo modo che sia la Colchide che Corinto sono società fondate su un misfatto: ella confessa di essersene andata dalla terra
natale non potendo più tollerare di rimanere a vivere in un paese perduto, il potere del cui re era macchiato dal sangue del figlio. Ma se in Colchide il padre di Medea ne uccide il fratello per potersi assicurare il trono,
a Corinto il re fa assassinare la primogenita per strappare la corona alle
ultime speranze di buongoverno di un matriarcato ormai esangue. Medea, incapace di tacere il male, non trova pace né a est né a ovest. Solo
nella condanna conclusiva a un esilio di solitudine, persi gli affetti, il cuore ormai arido, ella trova la forza per tracciare un bilancio silenzioso, cosciente ormai di non appartenere più ad alcun luogo: “In quale luogo, io?
È pensabile un mondo, un tempo, in cui io possa stare bene? Qui non c’è
nessuno a cui lo possa chiedere. E questa è la risposta”.36
Medea, che nella radice stessa del suo nome (dal latino medicus) porta
il segno della guarigione (letteralmente “colei che sa consigliare e provvedere”),37 viene ingiustamente accusata di crimini di cui in realtà altro non
è che l’ennesima vittima sacrificale, uno fra gli esempi più dolenti di ‘capro espiatorio’ che la storia ci abbia mai consegnato. È facile intuire la
gioia di Wolf quando, durante le sue ricerche presso il Getty Center, riportò alla luce questa versione alternativa del mito. Un entusiasmo generato soprattutto dalla volontà di liberare Medea da un’ingiustizia ormai
perpetrata per secoli alle sue spalle da un patriarcato dispotico, tutto concentrato a individuare nella proprietà privata l’unità di misura della rispettabilità umana.
Medea è stato più volte interpretato come allusione alle relazioni tra
est e ovest, parabola degli avvenimenti tedeschi dei primi anni Novanta,
laddove la chiave di lettura più diffusa vedeva un’identificazione della
Colchide con la Germania orientale, e di Corinto con quella occidentale.
In effetti, numerose sono le similitudini tra la situazione storica e quella
mitologica presentate da Wolf. Ciò che la scrittrice sembra volere suggerire è che l’uomo da sempre si affanna alla ricerca di un capro espiatorio
cui addossare la colpa delle proprie sofferenze, in una storia fatta di crimini, carneficine e dolore, e che sembra riproporsi sempre uguale a se stessa,
36
37
Christa Wolf, Medea. Voci, cit., p. 224.
Ivi, p. 60.
166 /
VALENTINA LOCATELLI
nell’eco incessante di antiche tragedie. Trapela qui con forza il riferimento alla campagna di diffamazione promossa dalla stampa occidentale nei
confronti dell’autrice. Wolf rilegge il mito alla luce della propria esperienza personale di ‘espatriata’, ma nel farlo decide di usare questa figura di
donna a lei tanto vicina come testimone, a discolpa non solo di se stessa,
ma soprattutto dell’ormai invalsa tendenza nella storia dell’uomo a cercare un ‘colpevole’, troppo spesso di sesso femminile, così da poterlo investire di tutti i peccati e i crimini di una società, trascinandolo fin nell’abisso del suo annientamento emotivo:
Sai che cosa cercano [i navigatori del Mediterraneo], Medea? mi chiese
[Circe]. Cercano una donna che dica loro che non hanno colpe; che sono
gli dèi, oggetto casuale di adorazione, a trascinarli nelle loro imprese. Che
la scia di sangue che si lasciano dietro fa parte della mascolinità così come
gli dèi l’hanno determinata. Grandi bambini terribili, Medea. È cosa che
si intensificherà, credimi. Si propagherà. […] Ma nessuno di loro sopporta la disperazione, hanno addestrato noi a disperarci, qualcuno o qualcuna, deve pur portare il lutto. Se la terra fosse riempita solo dal rumore del
macello e dalle urla e dal piagnucolio dei vinti, semplicemente si fermerebbe, non credi?38
Ciò che in questa sede si vuole sottolineare è in particolare il nuovo valore che il concetto di Heimatlosigkeit, letteralmente ‘perdita della patria’,
sembra qui aver assunto per Wolf. Se fino a questo momento, nella sua
opera, la scrittrice si era limitata a tematizzare la patria come un luogo
d’elezione, riflesso appunto di quella ‘patria socialista’ che aveva accolto le
speranze di chi era stato cacciato dalla terra d’origine, con Medea questa
assume finalmente i contorni di un luogo reale, dove si è nati e alle cui
norme sociali ci si è progressivamente adattati. In questo caso, la scelta o
l’imposizione di un allontanamento forzato dalla propria terra viene compresa dal profugo solo nel momento del confronto con il nuovo ambiente, con la terra d’esilio. Inevitabilmente l’esule spera più o meno consciamente in un ricongiungimento con la patria, ideale o reale, e l’esilio finisce col configurarsi come un allontanamento temporaneo al termine del
quale si anela un ritorno alla propria terra, purificata forse da quell’elemento che aveva costretto all’espatrio. Se per Medea questo ‘elemento’
erano la consapevolezza di una società fondata su un crimine tremendo
38
Ivi, p. 104.
CHRISTA WOLF
/ 167
come l’infanticidio e la volontà di fuggire da un regno segnato da una dominio patriarcale e dispotico, per Christa Wolf si trattava dell’impossibilità di arrestare la liquidazione della propria patria ideologica. In Medea la
scrittrice torna quindi a riflettere sulla nozione di alterità, certo una delle
tematiche dominanti della sua produzione, questa volta però affrontandone la definizione da un nuovo punto di vista. Se finora la produzione
wolfiana si era limitata a tematizzare una cosiddetta Fremdheit in der Heimat (ovvero l’estraniamento all’interno dei confini della propria terra, e
basti qui pensare all’esempio di Cassandra,39 che pur sentendosi esclusa
dalla propria comunità decide infine di rimanervi), con Medea si è confrontati a una nuova tipologia di estraneità, quella appunto dello straniero in terra straniera o meglio della Fremdheit in der Fremde.40 Per Christa
Wolf non si tratta più di una semplice opposizione fra ‘proprio’ ed ‘estraneo’, bensì di una poliedrica sintesi fra questi due poli. Il senso di estraneità o di non condivisione di determinate linee di pensiero si manifesta
nell’opera di Wolf non tanto come aspetto limitante alla comprensione
della propria identità o come alienazione dal Sé, quanto piuttosto come
metodo privilegiato di comprensione di una società divenuta ormai ‘altra’
e del ruolo che si ricopre al suo interno. In un simile contesto l’estraneità
assume una connotazione positiva poiché è proprio a partire dalla percezione di una propria alterità al sistema che i personaggi di Wolf, quasi
sempre donne, malati o ebrei, riescono ad agire produttivamente al suo
interno. Medea si decide per la fuga verso un occidente apparentemente
seducente, chimera che ben presto si rivela essere un esilio da se stessa e
dalla propria gente. L’allontanamento, per quanto straniante e fonte di
dolore, consente però a Medea, e di riflesso a Wolf, di analizzare con nuova e distaccata freddezza la realtà oggettiva sia della propria identità sia
dell’estraneità del nuovo mondo che la circonda. Lo scopo primario di
questo esilio volontario sembrerebbe dunque quello di voler ritrovare e
descrivere la propria identità attraverso gli occhi di un’alterità, o meglio
ancora di voler dimostrare come l’alterità altro non sia che una realtà interiorizzata aprioristicamente in quella individuale: si comprende meglio
se stessi grazie all’altro e, reciprocamente, si comprende più a fondo l’altro grazie a se stessi.
39
Christa Wolf, Kassandra (1983), trad it. di Anita Raja, Cassandra, Roma: e/o, 1984.
Per un saggio interamente dedicato a questo tema si veda: Mi-Keyeung Jung, Fremde
und Ambivalenz. Die Fremdheit als literarischer Topos im Werk Christa Wolfs. Im Vergleich
mit Thomas Bernhard, Frankfurt am Main: Peter Lang, 2003.
40
168 /
VALENTINA LOCATELLI
La critica americana, non offuscata da quei pregiudizi e quei sensi di
colpa che invece investivano il modo di pensare tedesco, non possedeva i
presupposti per poter leggere la figura di Wolf secondo il primo modello,
quello della Fremdheit in der Heimat. Se in Germania Wolf risultava fastidiosa era innanzitutto perché la sua denuncia di outsider era rimasta tutta
interna a un sistema che non solo non voleva accettarne le posizioni, ma
che addirittura se ne vedeva minacciato. Negli Stati Uniti, al contrario,
Wolf era, come Medea in Colchide, una straniera perduta in un sistema
al quale sapeva di non appartenere e sul quale conseguentemente non poteva nulla, se non offrire uno sguardo altro sul mondo. Gli americani,
certo meglio dei tedeschi, sembravano disposti ad ascoltare cosa Christa
Wolf avesse da raccontare.
Il grido di Medea era un canto liberatorio, un’affermazione di indipendenza rivolta a tutti coloro che intendevano condannare l’autrice al silenzio. Attraverso questo grido, Christa Wolf si riaffermava come scrittrice del proprio tempo e della propria terra, malgrado la ferita dell’esilio.
I collaboratori
di questo numero
ANDREA BELLAVITA ([email protected]), dottore di ricerca in Storia e
Forma della Comunicazione e del Consumo Mediale, è docente a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e l’Università degli Studi di
Trento. È autore di Schermi perturbanti. Per un’applicazione del concetto di
‘Unheimliche’ all’enunciazione filmica (Milano: Vita & Pensiero, 2005) e di una
monografia su Kim Ki-duk (Milano: il Castoro, 2006), oltre che di vari saggi sul
rapporto tra cinema e psicoanalisi. Collabora con le riviste Segnocinema, Comunicazioni sociali, La Valle dell’Eden, La Psicoanalisi e Agalma.
CLAUDIO CATTANEO ([email protected]) si è laureato all’Università di Bergamo. Attualmente è dottorando in Letterature di Lingua Inglese presso l’Università “La Sapienza” di Roma, con un progetto di ricerca sul poliziesco
‘etnico’ negli Stati Uniti.
VALENTINA LOCATELLI ([email protected]) è dottoranda in Teoria e
Analisi del Testo presso l’Università di Bergamo. Si interessa di letteratura tedesca moderna e contemporanea, in modo particolare delle vicende letterarie della
ex Rdt. Ha collaborato con le case d’aste Christie’s (Londra) e Dorotheum
(Vienna), ed è attualmente impegnata in un progetto di ricerca sulla figura del
conoscitore d’arte Giovanni Morelli.
ENRICO LODI ([email protected]) è dottorando in Letterature Euroamericane
presso l’Università di Bergamo. Svolge ricerca in chiave retorica e semiotica nell’area di letteratura spagnola, interessandosi principalmente di costruzione identitaria e ideologica in contesti di violenza e potere.
ANDREA MICONI ([email protected]) è docente a contratto di Comunicazione dei Prodotti Artistici all’Università IULM di Milano e Teorie delle Comunicazioni di Massa all’Università di Padova. Si occupa di sociologia dei media
e di sociologia del romanzo, con particolare interesse per i modelli di storiografia. Ha curato l’edizione italiana dell’opera di Harold Innis, Impero e Comunica-
170 /
I COLLABORATORI
zioni (Roma: Meltemi, 2001), e scritto diversi saggi di teoria dei media e di teoria letteraria. Il suo ultimo lavoro è Una scienza normale. Proposte di metodo per la
ricerca sui media (Meltemi, 2005).
FRANCESCA PAGANI ([email protected]) si è laureata in Lingue e Letterature Straniere alla Ca’ Foscari. Si occupa di letteratura francese del XIX e XX secolo, con particolare riferimento ai temi dell’immaginario. Attualmente è dottoranda in Teoria e Analisi del Testo presso l’Università di Bergamo con una tesi sugli
oggetti e il loro immaginario.
LUCIA QUAQUARELLI ([email protected]), dottore di ricerca in Letterature
Comparate (Paris III), ha insegnato Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia, ed è attualmente docente a contratto presso
l’Università di Rouen. Si occupa di romanzo contemporaneo italiano e francese,
di letteratura dell’immigrazione e dei rapporti tra immagine e testo. Dirige una
collana di romanzi francofoni per l’editore milanese Morellini.
SILVIA ULRICH ([email protected]), dottore di ricerca in Linguistica e Letteratura Tedesca, è docente a contratto di Lingua e Traduzione Tedesca presso l’Università di Torino. È autrice di La noia. Storia e opinioni intorno al ‘male del secolo’
(Torino: Trauben, 2006), e di diversi saggi. Collabora alle riviste L’indice dei libri
del mese e Crocevia.
MASSIMO VERZELLA ([email protected]), dottore di ricerca in Anglistica, è titolare di un assegno di ricerca in Letteratura Inglese presso l’Università “Gabriele d’Annunzio” di Pescara. Ha pubblicato saggi e articoli sulla produzione shakespeariana, sulla drammaturgia del Novecento (John Osborne,
Edward Bond, Christopher Hampton) e sulla letteratura vittoriana ed edoardiana (Samuel Butler, H. G. Wells). È segretario di redazione della rivista Traduttologia.
Numeri arretrati
PARAGRAFO
I (2006)
§1. STEFANIA CONSONNI, Disegni e realtà. Le finzioni di Don DeLillo §2. LUCA
BERTA, Il neon di David Foster Wallace e il punto di vista dell’aldilà §3. LAURA
OREGGIONI, La punta dell’iceberg. Sten Nadolny e il senso della possibilità §4. NICCOLÒ SCAFFAI, Altri canzonieri. Sulle antologie della poesia italiana (1903-2005)
§5. GABRIELE BUGADA, Lo specchio del sogno. Lo statuto della rappresentazione in
Mulholland Drive di David Lynch §6. GIOVANNI SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell’immagine e concezione mitica in André Breton – Una proposta d’analisi §7.
ANDREA GIARDINA, Il viaggio interrotto. Il tema del cane fedele nella letteratura italiana del Novecento §8. MICHELA GARDINI, Derive urbane fin de siècle §9. GRETA
PERLETTI, Dal mal sottile al mal gentile. La malattia polmonare e il morboso ‘interessante’ nella cultura dell’Ottocento
Il numero può essere acquistato online presso il sito web dell’editore Sestante:
http://www.sestanteedizioni.it/schedalibroBUP2.asp?idlibro=70
I saggi, le norme redazionali e altre informazioni sono disponibili sul sito web di
PARAGRAFO: www.unibg.it/paragrafo
Finito di stampare
nel mese di gennaio 2007