razionalità limitata e tecniche normative nella gestione

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razionalità limitata e tecniche normative nella gestione
RAZIONALITÀ LIMITATA E TECNICHE NORMATIVE NELLA GESTIONE DEL
RISCHIO CONTRATTUALE : NUOVE PROSPETTIVE PER LA CORREZIONE
DELLO SQUILIBRIO
Sommario: 1. Premessa storica e metodologica – 2. Rapporti di durata e a lungo termine nell’elaborazione teorica e
nell’attuale disciplina dei contratti. I rimedi manutentivi. – 3. Principio di adeguamento e principio di proporzionalità. – 4.
Conservazione e rinegoziazione del contratto all’esame della giurisprudenza in materia di contratti a lungo termine. – 5.
L’obbligo di rinegoziare introdotto nei Principi Unidroit e nei Principi del diritto europeo dei contratti. - 6. La rinegoziazione
al vaglio della dottrina civilistisca - 7. (segue) e nell’analisi economica del diritto. – 8. L’incompletezza del contratto. – 9.
Considerazioni di sintesi.
1. PREMESSA STORICA E METODOLOGICA
Il concetto di “rischio” è per i giuristi, quasi istintivamente, connesso alla dinamica contrattuale 1. La
ragione appare piuttosto evidente: in quanto destinato ad assistere e assai spesso a programmare l’attività
economica, il contratto è di per sé strumento – si sarebbe tentati di dire, è lo strumento par excellence – di
allocazione di rischi, i quali si sganciano dal piano del mero fatto e acquistano rilevanza nei rapporti (giuridici) fra
i soggetti proprio in virtù dell’instaurazione di una determinata relazione (giuridicamente significativa), di norma
originata da un accordo di natura patrimoniale.
Elementari constatazioni di carattere economico inducono a poi ritenere che: (a) il contratto ‘perfetto’
eliminerebbe il problema del rischio (o dei rischi), allocandone le conseguenze esplicitamente sulle parti del
contratto, ma (b) tale allocazione esplicita e tendenzialmente ‘neutralizzante’ il rischio (uno degli scopi dei
contraenti) è estremamente costosa in termini di trattative, (c) al punto da imporre costi di negoziazione (detti
anche “costi transattivi”, in gergo più propriamente economico) superiori ai benefici, tanto più che (d)
certamente vi è un limite oltre il quale la prevedibilità (umana) non può spingersi, dovendo i soggetti economici
attenersi a criteri di razionalità nel loro operato, sicché (d) i contratti (efficienti) non potranno che risultare
lacunosi o “imperfetti”, almeno con riguardo ai rischi remoti2.
Di qui il carattere non eludibile del problema della disciplina (di natura convenzionale e legale) del
rischio, nelle sue diverse accezioni che può assumere in materia di rapporti obbligatori e contrattuali 3. Un
problema che – anche in questo caso si tratta di nozioni ben note – la tradizione giuridica romana non affidava
ad impostazioni teoriche unitarie, manifestandosi piuttosto un ventaglio di ipotesi e soluzioni specifiche, distinte
secondo i tipi di contratti e la concretezza della situazione 4, e che invece nel diritto intermedio si presentava alla
stregua di “materia sfaccettata ed estremamente dibattuta”, sino a quando – insegna lo storico del diritto - con le
architetture concettuali di matrice pandettistica “l’esperienza storica precedente fu allora per così dire sublimata
in un distillato che è quel che si usa chiamare la teorica moderna del rischio contrattuale” 5.
Imperante il dogma della volontà, con le rarefatte eppur eleganti categorie giuridiche di supporto alla
figura del negozio giuridico, la suddetta teorica del rischio non poteva che trovare sistemazione nella “volontà
presunta” dei contraenti ossia in una ricostruzione di quanto, pur presupposto ed assunto a fondamento della
negoziazione (quindi, effettivamente ‘voluto’), non aveva poi ottenuto adeguata esplicitazione nelle condizioni o
clausole contrattuali: la Voraussetzung, introdotta (rectius, importata) nel nostro ordinamento con la traduzione
letterale di “presupposizione”.
La riprova immediata è nella presenza di ben tre voci, nella più celebrata opera enciclopedica della nostra letteratura giuridica,
specificamente dedicate al tema, nell’ottica rispettivamente: del diritto romano, Sargenti, Rischio contrattuale (diritto romano), voce dell’Enc.
dir., LX, Milano, 1989, p. 1126; intermedio, Birocchi, Rischio contrattuale (diritto intermedio), ibid., 1133; vigente, Alpa, Rischio contrattuale
(diritto vigente), ibid., p. 1144.
2 In termini generali, Cooter, Mattei, Monateri, Pardolesi e Ulen, Il mercato delle regole. Analisi economica del diritto civile, Bologna, 1999, 274.
3 Da ultimo, sui rapporti fra (il concetto generale di) “alea” e (tipi e correlative discipline, fra loro diversificate in funzione e degli interessi
in gioco, del) “contratto aleatorio”, si segnala l’attento studio di Capaldo, Contratto aleatorio e alea, Milano, 2004.
4 Si può rinviare al contributo, in questa Rivista, n. 3, marzo 2005, di Annamaria Manzo, Il rischio contrattuale in diritto romano, in particolare il
periculum nelle obligationes consensu contractae.
5 Così Birocchi, cit., p. 1133, il quale chiarisce come l’esperienza del diritto intermedio, ancorché alla base delle successive sistemazioni,
fosse “ben lungi dal poter essere piegata agli assiomi, di volta in volta in auge, res perit domino o res perit creditori o ancora res perit debitori: un
mito – continua l’a. -, questo della ricerca di un unico principio regolatore, che, alimentato dalla previsione di disposizioni generali come
quelle – per tra loro assai diverse – contenute sia nei codici giusnaturalistici sia nel BGB, ha spesso orientato la dottrina verso illusioni
metafisiche”.
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Se da tempo ci si è resi conto che il problema del rischio contrattuale e della disciplina di gestione delle
sopravvenienze (non previste ossia non esplicitamente considerate dai contraenti) non è riducibile alla
ricostruzione della volontà presunta, non v’è dubbio che la teorica appena ricordata abbia svolto un ruolo
decisivo nella storia del pensiero giuridico, soprattutto in considerazione della naturale (peraltro del tutto
comprensibile) ritrosia del legislatore a esprimere in termini generali la disciplina delle sopravvenienze mediante
la codificazione delle relative regole (introdotte, tanto per esemplificare, nell’ordinamento italiano soltanto con il
codice civile del 1942, agli artt. 1467-1469 c.c., e nell’ordinamento tedesco con la recentissima riforma della
disciplina codicistica delle obbligazioni e dei contratti, nota come Modernisierung des Schuldrechts del 2002). Non
potendo il giurista fare affidamento sic et simpliciter sulla teoria economica dell’efficiente sopportazione del rischio,
secondo la quale il rischio rimane a carico di chi può sopportarlo con minor costo6, si rivelava necessaria l’opera,
per un verso, della dottrina nel costruire la figura artificiale della presupposizione, per altro verso della
giurisprudenza pratica nel conferirle effettività nell’ordinamento, affinché potesse compiersi una sapiente
elaborazione, graduale ma incessante, della questione del “rischio contrattuale”. Una questione giuridica
certamente presente in tutti i contratti a prestazioni corrispettive ma, in particolare, caratterizzante i rapporti
destinati a svolgersi in un certo lasso di tempo: si è detto in apertura, i contratti di programmazione dell’attività
economica7.
Non v’è dubbio che le radici della volontà presunta fossero concettualmente molto solide. Non a caso,
oltre un secolo fa, Bernhard Windscheid, cui si ascrive l’elaborazione originaria della teorica in esame, in un noto
saggio apparso sulla più prestigiosa rivista giuridica tedesca di studi civilistici, esprimeva la sua ferma convinzione
che, per quante obiezioni possano muoversi contro la (teoria della) presupposizione, questa si sarebbe sempre
fatta valere: cacciata dalla porta – la proverbiale espressione ricalca quella utilizzata dall’illustre giurista tedesco,
emblema della pandettistica -, essa finirebbe con il rientrare comunque dalla finestra8. Ed è noto che una varietà
di prospettazioni davvero sorprendente è fiorita da quell’epoca, quasi che ciascuno fra i numerosissimi studiosi,
fatalmente catturati dal problema teorico-generale della divergenza fra quanto espressamente pattuito dai
contraenti e quanto implicitamente assunto come contenuto del regolamento contrattuale, si sentisse in dovere di
aggiungere un chiarimento o anche una semplice limatura alla sempre più imponente stratificazione di teorie
accumulatesi nella letteratura giuridica, soprattutto in area germanica e italiana 9.
Nella nostra cultura giuridica, è soprattutto agli albori degli anni settanta che inizia a svilupparsi una
tendenza dottrinale volta a prospettare in termini nuovi il rapporto fra il contratto come atto di volontà dei
contraenti e come regolamento d’interessi nella sua dimensione esecutiva ed effettuale, con la conseguente
valorizzazione – da un lato, volutamente a scapito della ‘mistica della volontà’, dall’altro, in aperta critica alla
teoria della funzione economico-sociale nel quadro della tradizionale contrapposizione fra i concetti di “causa” e
“motivi” - del ruolo della clausola generale di buona fede (soprattutto nella dimensione esecutiva) quale
Cooter, Mattei, Monateri, Pardolesi e Ulen, cit., p. 275, ove è così sintetizzata la prospettiva di analisi economica del diritto: “[s]e le regole
sull’impossibilità sopravvenuta fossero efficienti, attribuirebbero la responsabilità alla parte che può sopportare il rischio di impossibilità della prestazione
con il minor costo [corsivo nel testo]”; ciò in quanto l’interpretazione “che attribuisce la responsabilità a colui che può sopportare il rischio
con il minor costo minimizza il costo dei rischi remoti e, di conseguenza, massimizza il surplus contrattuale che le parti possono dividersi”
(ibid.).
7 Con estrema chiarezza già Nicolò, Alea, voce dell’Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 1026: “bisogna esaminare se il tipo di contratto posto in
essere, per il suo contenuto e per la sua funzione, non implichi di per sé che al momento del suo perfezionamento vi sia o vi debba essere
la consapevolezza delle parti di affrontare un certo margine di rischio, collegato appunto all’eventuale verificarsi di situazioni di fatto e di
vicende, economiche o di altra natura, che normalmente, o per lo meno non eccezionalmente, incidono sullo svolgimento di quel singolo
tipo di rapporto e influiscono sul risultato economico che le parti vogliono conseguire”.
8 Windscheid, Die Voraussetzung, in AcP, 78 (1892), pp. 161-197: “Es ist meine feste Überzeugung, dass die stillschweigend erklärte
Vorausssetzung, was man auch gegen sie einwenden mag, sich immer wieder geltend machen wird. Zur Thüre hinausgeworfen, kommt sie
zum Fenster wieder herein”, nell’ambito di una ripresa del tema oggetto dello storico contributo monografico di oltre quaranta anni
addietro.
9 Nell’approfondire la storia dell’evoluzione del concetto di Geschäftsgrundlage, coniato da Oertmann, Die Geschäftsgrundlage. Ein neuer
Rechtsbegriff, Leipzig, 1921, ma già dello stesso a. Doppelseitiger Irrtum beim Vertragsabschlusse, in AcP, 117 [1919)], p. 275, il quale,
indirettamente confermando peraltro l’esattezza della convinzione espressa da Windscheid, aveva prospettato una ricostruzione della
medesima situazione giuridica in termini, certamente più oggettivi, ossia tendenzialmente rispettosi anche dell’affidamento meritevole della
controparte, se confrontati con l’idea originaria di stampo prettamente volontaristico della presupposizione (nel frattempo sottoposta a
vivace critica da diversi studiosi, fra i quali una posizione particolare aveva acquisito lo studio di Lenel, Die Lehre von der Voraussetzung [in
Himblick auf dem Entwurf eines bürgerlichen Gesetzbuches], in AcP 74 [1889], p. 213) di “venir meno del fondamento negoziale” (più noto nella
versione originaria di Wegfall der Geschäftsgrundlage), non è mancato chi, sempre in Germania, è riuscito a individuare oltre cinquanta
ricostruzioni in materia di Lehre der Geschäftsgrundlage (Chiotellis, Rechtsfolgebestimmungen bei Geschäftsgrundlagestörungen in Schuldverträgen,
München, 1981). Nella nostra dottrina civilistica, com’è noto, il primo autorevole approfondimento del tema si fa normalmente risalire agli
studi di Osti, La così detta clausola “rebus sic stantibus” nel suo sviluppo storico, in Riv. dir. civ., 1912, p. 1, con la prosecuzione del discorso in
Appunti per una teoria della “sopravvenienza”. La così detta clausola “rebus sic stantibus” nel diritto contrattuale odierno, id., 1913, pp. 471 e 647.
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strumento giuridico per razionalizzare, s’intende a posteriori, la distribuzione del rischio contrattuale 10. La nuova
prospettiva, dichiaratamente giusrealista, tendeva a impostare il giudizio sull’esigibilità della prestazione attraverso
il controllo della compatibilità fra circostanze (sopravvenute) e adempimento, filtrato dalla menzionata clausola
generale di correttezza nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) e nell’adempimento delle obbligazioni (art.
1175 c.c.)11.
Se a tutt’oggi, pertanto, il concetto di presupposizione può sembrare ancora il referente nobile, per così
dire, di ogni discorso in materia di rischio contrattuale 12, svolgendo in questo modo il prezioso ed anzi
fondamentale compito d’ordine metodologico di saldare l’esame dei problemi attuali ad una tradizione di
pensiero in questo campo quanto mai feconda e variegata ma sempre impostata sul rispetto dell’approccio
sistematico (taluni potrebbero persino preferire, forse, l’utilizzazione del termine non più molto in voga di
“dogmatico”), è quasi scontato rilevare come sia particolarmente avvertita l’esigenza di definire l’ambito
oggettivo dell’indagine attuale in materia di rischio contrattuale e di tecniche giuridiche per la sua gestione. Più in
concreto, appare superflua ed anzi persino fuorviante, comunque produttiva di elucubrazioni prive di qualsiasi
rilevanza pratica, al prospettiva che, nella materia in esame, assume ad oggetto “il contratto in generale” e,
conseguentemente, non consente di individuare la specificità delle tecniche di tutela ossia - si direbbe con
terminologia più moderna - dell’apparato rimediale riferibile alla vicenda contrattuale legata all’esistenza di
rapporti di durata, destinati a protrarsi nel tempo per consentire la realizzazione di un dato risultato, all’esito di
una determinata attività economica.
La delimitazione che si propone in questa sede adotta, di conseguenza, una duplice opzione di fondo,
che si risolve: (a ) innanzitutto, nella definizione della specifica realtà contrattuale di riferimento, intesa come
tipologia negoziale, quanto mai diversificata ed estesa ben al di là dell’articolata griglia di tipi e sottotipi di matrice
codicistica, ma pur sempre avente quale minimo denominatore comune il protrarsi del vincolo obbligatorio nel
tempo; (b) in secondo luogo, nell’esame dei rimedi ‘manutentivi’ del vincolo obbligatorio, siano essi d’origine
legale o convenzionale, quale alternativa di tutela preferibile rispetto ai tradizionali rimedi risolutori 13.
Si tratta di una scelta metodologica volta ad individuare innanzitutto i fenomeni giuridicamente rilevanti
da esaminare ossia i problemi da risolvere, alla luce di un diritto dei contratti che va assumendo una sempre più
marcata fisionomia nuova e distante dal passato, al fine di poter poi verificare se le prospettive che si schiudono
siano concretamente praticabili o anche soltanto consigliabili all’interprete. In questo senso, qualsiasi tentativo di
condurre il discorso condizionati dalla contrapposizione di principio – per altro verso innegabile e insopprimibile
nella sua riferibilità alla dinamica concreta delle relazioni contrattuali - fra autonomia privata e poteri di
intervento del giudice, rischia di oscurare, proprio a causa della sintesi concettuale del tutto generica espressa
dall’alternativa appena indicata, la complessità dei problemi che si addensano sul tema in esame inquadrato
nell’ambito del diritto dei contratti alla cui evoluzione stiamo assistendo.
I richiami potrebbero essere davvero sconfinati. Ci si limita, pertanto, a ricordare il contributo monografico che, nella nostra letteratura,
è correttamente assunto quale punto di partenza per lo sviluppo dell’indagine, Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1970, spec.
pp. 343 ss., mentre in area tedesca, quasi contemporaneamente, a discorrere di rischio contrattuale era in particolare Fikentscher, Die
Geschäftsgrundlage als Frage des Vertragsrisikos, dargestellt unter besonderer Berücksichtigung des Bauvertrages, München, 1971, spec. Pp. 14 ss., pp. 104
ss..
11 Sulla scia degli studi di Bessone (e della scuola civilistica genovese), si segnala poi la raccolta di contributi sul tema generale del rischio
contrattuale a cura di Alpa, Bessone e Roppo, Rischio contrattuale e autonomia privata, Napoli, 1982, a parte le successive voci enciclopediche
di Alpa, Rischio, voce dell’Enc. dir., cit., p. 1044 e Bessone e D’Angelo, Presupposizione, voce dell’Enc. dir, XXV, Milano, 1986, p. 326. Dal
punto di vista del diritto comparato, l’opera più articolata nella nostra letteratura è senz’altro quella di Gallo, Sopravvenienza contrattuale e
problemi di gestione del contratto, Milano, 1992; v. altresì, per la ricchezza di riferimenti, Phillippe, Changement de circostances et bouleversment de
l’économie contractuelle, Bruxelles, 1986; nonché Abas, Rebus sic stantibus. Eine Untersuchung zur Anwendung der clausula rebus sic stantibus in der
Rechtssprechung einiger europäischer Länder, Köln, 1993 (integrato dai succcessivi contributi apparsi su EuRPL 1998, con le considerazioni
conclusive dell’a., p. 333). Più di recente, il tema è stato attentamente esaminato, nella duplice prospettiva delle sopravvenienze
determinanti l’impossibilità e/o la maggiore onerosità della prestazione, da Delfini, Autonomia privata e rischio contrattuale, Milano, 1999.
12 Può essere sufficiente richiamare la più recente opera trattatistica sulla disciplina generale del contratto, Roppo, Il contratto, in Trattato di
diritto privato, a cura di Iudica e Zatti, Milano, 2001, p. 1037. Per il valore che possono avere le classificazioni, necessarie a dare un ordine
espositivo alla materia, è noto peraltro che, nelle impostazioni più classiche, le riflessioni in tema di presupposizione sono collegate alla
trattazione degli elementi accidentali del contratto (in particolare, della condizione: cfr. Messineo, Il contratto in genere, 1, in Trattato di diritto
civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1968, pp. 204 ss.) ovvero ai vizi del consenso (in particolare, all’errore: cfr. Sacco [e
De Nova], Il contratto, I, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 1993, pp. 443 ss.).
13 Non a caso, Roppo, Il contratto, cit., p. 1037, intitola “Presupposizione, e rimedi manutentivi (di adeguamento del contratto)” il capitolo
del suo volume dedicato a questo tema, mentre nel paragrafo intitolato “I contratti di (lunga) durata e l’esigenza di stabilità del rapporto”
(p. 1041), viene preliminarmente messa in luce la “inadeguatezza dei rimedi ablativi”, per lasciare spazio alla trattazione dei rimedi
manutentivi (di adeguamento) di natura legale e convenzionale. La scelta di esaminare la materia in questo modo, ponendo a fuoco subito
realtà contrattuale e carattere della disciplina rimediale è ben esplicitata, del resto, nel lavoro monografico di chi scrive, Adeguamento e
rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, cui si farà talvolta riferimento per lo svolgimento più compiuto di passaggi che, in
questa sede, non potranno che essere soltanto accennati.
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Ci si trova, peraltro, al cospetto di un diritto dei contratti che può dirsi davvero “nuovo”14, non soltanto
in considerazione dell’ovvia prospettiva diacronica, ma anche perché mai, probabilmente, in passato i giuristi – si
badi, ciò vale tanto per l’operatore pratico che, a fortiori, per lo studioso - sono stati travolti dall’intrecciarsi di
componenti della realtà giuridicamente rilevante così varie ed eterogenee. I fattori sono noti: normativa, interna e
comunitaria, giurisprudenza anch’essa di diversa provenienza, prassi contrattuale, manifestata in un’inesauribile
pluralità di forme e talvolta emergente da raccolte di regole e principi che non nascondo l’ambizione dei loro
autori di fornire il modello di un’ideale ‘ricodificazione’ del diritto dei contratti a livello europeo e internazionale.
Si tratta di un insieme di elementi che rende alquanto rischiosa la semplificazione, frutto alternativamente di
ignoranza dei problemi reali ovvero di precise scelte ideologiche, delle questioni secondo i termini della
prospettata classica alternativa fra la libertà dei privati e l’intervento giudiziale nel contratto.
Se è evidente che l’autonomia dei privati non può essere seriamente posta in discussione, almeno
nell’attuale assetto normativo e soprattutto ove il discorso sia riferibile a tipologie contrattuali che implicano la
necessità, sul piano del fatto s’intende, per i contraenti di negoziare accuratamente le condizioni del contratto e di
gestire il rapporto per il tempo (più o meno lungo) dell’esecuzione, altrettanto chiaro dovrebbe risultare che
dall’intervento del giudice non può prescindersi sic et simpliciter, nel momento in cui le parti non siano in grado
convenzionalmente, né ex ante con apposito patto né ex post mediante la trattativa per la modificazione o
scioglimento del rapporto, di risolvere l’impasse determinatasi in sede di esecuzione del contratto: è in gioco
l’affidamento sulla serietà del vincolo contrattuale, non soltanto strumento principale dell’autonomia privata ma
anche – si potrebbe dire, inevitabilmente in determinati contesti imprenditoriali - mezzo idoneo alla
programmazione e alla realizzazione dell’attività economica dei contraenti15.
Un ordinamento giuridico che aspiri a definirsi veramente evoluto non può, perciò, rifiutarsi di offrire ai
contraenti la tutela giurisdizionale adeguata al regolamento d’interessi concretamente pattuito, trincerandosi
dietro il rispetto formale dei ruoli tradizionalmente rivestiti dalle parti e dal giudice e rendendo assoluta, per così
dire, l’apparente antinomia fra libertà contrattuale dei privati e intervento giudiziale nel contratto, senza neanche
tentare di confrontarsi con la particolarità dei contratti di durata (ovvero a esecuzione continuata o periodica, per
riprendere l’espressione del codice civiel nell’art. 1467).
E’ questa, del resto, una realtà non soltanto da tempo e con attenzione indagata dalla dottrina più
sensibile e consapevole delle connessioni fra diritto privato e sviluppo economico16, ma anche ritenuta, in altri
ordinamenti strutturalmente contigui al nostro, meritevole di una riflessione teorico-sistematica finalizzata alla
valutazione di opportunità di una riforma del diritto delle obbligazioni e dei contratti contenuto nel codice civile,
la quale, fra le numerose ipotesi di novellazione del codice, tenesse conto anche della “durata del contratto”17.
Senza dire, infine, di chi ha addirittura sostenuto l’utilità di una “dogmatica” dei contratti a lungo
termine, spingendosi così ancora più in là rispetto all’idea di conferire autonomia, nel tessuto della codificazione
civile, al tema dei contratti e/o obbligazioni di durata, ormai divenuto un classico negli studi teorici, forse proprio
per non incorrere nei rischi di un mistificante concettualismo (che un tempo si identificava con la cosiddetta
“Begriffsjurisprudenz”) e così riconoscere agli svariati tipi di rapporti contrattuali di lungo periodo (Long-term contracts
ovvero Langzeitverträge) una certa indipendenza, sul piano della disciplina giuridica, rispetto non soltanto alle altre
figure contrattuali ma anche ai rapporti di durata in genere, in considerazione della fondamentale distinzione,
d’ordine teleologico se si vuole, fra la ripetitività delle prestazioni (nei rapporti obbligatori definiti
Si veda, in maniera esemplificativa ma anche emblematica, il titolo dell’incontro di studi di Crotone 24-26 maggio 2001, i cui atti sono
pubblicati nell’omonimo volume, AA. VV., Il nuovo diritto dei contratti. Problemi e prospettive, a cura di Di Marzio, Milano, 2004.
15 Si deve ad un economista, meritatamente insignito del premio Nobel, la teoria secondo la quale l’attività (e la stessa nozione ovvero, per
riprendere l’espressione dell’a, la “natura”) di “impresa” non è di fatto scindibile dalla conclusione di contratti a lungo termine; il che
comporta in termini economici, quale conseguenza dei costi di negoziazione e dell’atteggiamento dei contraenti verso il rischio, che “più
lungo è il periodo contrattuale di fornitura della merce o del servizio, meno possibile e in verità meno desiderabile è per l’acquirente
specificare cosa ci si aspetta dall’altra parte contrattuale”: Coase, La natura dell’impresa, in Impresa, mercato e diritto (versione italiana
dell’originale, The nature of the firm, in The Firm, the Market and the Law), Bologna, 1995, pp. 79 ss. Si noti come, anche da parte della nostra
dottrina più autorevole, sia avvertito il tema di contratti d’impresa come “categoria, o almeno come nozione meritevole di distinta
valutazione”: Oppo, Note sulla contrattazione d’impresa, in Riv. dir. civ., 1995, I, p. 629, dove si scorge, fra l’altro, il nesso con studi compiuti in
epoca precedente dall’a. in tema di rapporti caratterizzati da uno strettissimo collegamento con l’organizzazione dell’attività economica
imprenditoriale, I contratti di durata, in Riv. dir. comm., 1943, I, 146 e 277, nonché, 1944, I, p. 17.
16 Esemplificativamente, possono ricordarsi: Oppo, I contratti di durata, cit.; e ancor prima, G. Ferri, Vendita con esclusiva, in Dir. pratica comm.,
1933, I, 270, pp.380-481; Ravà, Sulla distinzione fra vendita a consegne ripartite e vendita ad esecuzione continuata, nota in Foro it., 1937, I, p. 386;
sino a risalire al pionieristico e affascinante studio di Mossa, La somministrazione, Sassari, 1914, che fornisce il più autorevole supporto
teorico alla successiva codificazione del nuovo tipo contrattuale. In area tedesca, il precursore dei numerosissimi studi poi succedutisi in
materia è stato von Gierke, Dauernde Schuldverhältnisse, in Jehring Jahrbücher, 64 (1914), p. 355.
17 Horn, Vertragsdauer. Die Vertragsdauer als Schuldrechtliches Regeungsproblem. Empfiehlt sich eine zusammenfassende Regelung der Sonderprobleme von
Dauerschuldverhältnissen und langfristigen Verträgen?, in Gutachten und Vorschläge zur Überarbeitung des Schuldrechts, I, Köln, 1981, p. 551.
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significativamente in area tedesca come “klassische Dauerschuldverhältnisse”) e la programmazione di un risultato da
raggiungere con l’esecuzione protratta nel tempo in contratti di lungo periodo18.
Il problema s’incentra allora, come conferma l’analisi comparativa degli ordinamenti maggiormente
rappresentativi delle diverse tendenze giuridiche in materia di disciplina del contratto 19, nella ricerca della
praticabilità di determinate soluzioni alla luce di un dato sistema di regole e principi (rilevanti nella disciplina di
natura sia sostanziale che processuale dettata a tutela dei diritti dei contraenti), al fine di preservare l’assetto
sistematico fondamentalmente consegnato alla coerenza logica del codice civile, senza rinunciare alle prospettive
oggi offerte dalla complessità delle già ricordate molteplici e concorrenti componenti della realtà giuridica che
circonda la materia del contratto.
2. RAPPORTI DI DURATA E A LUNGO TERMINE NELL’ELABORAZIONE
NELL’ATTUALE DISCIPLINA DEI CONTRATTI. I RIMEDI MANUTENTIVI
TEORICA E
Ma è tempo che si individuino innanzitutto i contratti di cui si discorre. Pressoché ignorati dalla dottrina
civilistica italiana successiva al codice civile, i problemi giuridici dei contratti di lungo periodo trovavano una certa
eco negli studi di carattere lato sensu internazionalistico (soprattutto di provenienza statunitense, tedesca, francese
e inglese).
Non pochi, fra i contributi apparsi nel corso degli anni ottanta in questa materia, soffrivano, tuttavia, il
condizionamento derivante dalle esigenze espositive, realizzate in forma quasi didascalica, sostanzialmente priva
o comunque assai povera di approfondimenti teorici e ricca, invece, di dati in larga parte fattuali. Essi avrebbero
potuto suscitare, peraltro, un certo interesse dal punto di vista giuridico, in quanto prevalentemente derivanti
dall’osservazione delle più diffuse prassi negoziali impiegate nei diversi settori del commercio internazionale (in
modo particolare, nel mercato delle materie prime), oltre che dall’esame di episodiche decisioni arbitrali 20.
In via autonoma e, si sarebbe tentati di dire, parallelamente andava svolgendosi, questa volta quasi
esclusivamente in ambito statunitense, un’analisi della realtà contrattuale in esame dal punto di vista
giuseconomico21, senza peraltro che venissero abbandonati i risvolti di natura più marcatamente sociologica dei
“relational contracts”, maturati nella medesima area giuridica e valorizzati da una altrettanto ampia nonché
autorevole produzione dottrinale a partire già dagli anni sessanta 22.
Non mancavano i tentativi di razionalizzare dal punto di vista più propriamente gius-civilistico il
fenomeno contrattuale, muovendo dai dati normativi già presenti nell’ordinamento e valutando così, alla luce del
sistema complessivamente inteso, la compatibilità di soluzioni giuridiche che, sul piano della tutela e quindi dei
rimedi, rispondessero alla logica del contratto (non puramente di scambio, realizzato attraverso prestazioni
sostanzialmente istantanee, bensì) di durata ad esecuzione protratta per un tempo più o meno lungo, in vista della
realizzazione di un certo risultato. Tecniche convenzionali e regole legali per mantenere in vita il contratto
cercando di favorirne l’adeguamento, anche mediante la rinegoziazione delle sue condizioni, venivano così
sottoposte ad analisi giuridica, secondo la metodologia tradizionalmente adottata dalla dottrina civilistica di
ciascun ordinamento23. L’esistenza e la continuità di quest’ultima produzione dottrinale non poteva che
Nicklish, Vorteile einer Dogmatik für komplexe Langzeitverträge, in AA. VV., Der komplexe Langzeitvertgrag/The Complex Long-Term Contract,
Strukturen und Internationale Schiedsgerichtsbarkeit, a cura dello stesso a., Heidelberg, 1987, p. 15.
19 Cfr. per tutti Gallo, Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, cit.
20 Per semplificare, si può ricordare proprio il volume appena richiamato Der komplexe Langzeitvertgrag/The Complex Long-Term Contract,
Strukturen und Internationale Schiedsgerichtsbarkeit, cit., paradigmaticamente rappresentativo di questo genere di letteratura giuridica.
21 Nell’attribuire una particolare enfasi, nello studio dei contratti a lungo termine, alle implicazioni e alle ricadute di carattere economico, in
termini alternativamente di micro- e macroeconomia, di tali rapporti, questi venivano costantemente esaminati nell’ambito dello specifico
settore di mercato (produzione e approvvigionamento di carbone, gas e così via) di volta in volta interessato (anche in questo caso, solo
esemplificativamente possono ricordarsi: Joskow, Vertigal Integration and Long Term Contracts: The Case of Coal Burning Electric Generating Plants,
in J.L.& Econ., 1985, p. 33; Pierce, Reconsidering the Roles of Regulation and Competition in the Natural Gas Industry, in Harvard L. R. 97 (1983), p.
345; Muhlerin, Complexity in Long-Term Contracts: Analysis of Natural Gas Contractual Provision, in J.L.& Econ., 1986, p. 105. Per una visione di
sintesi, in area europea, Kern, Ökonomische Theorie der Langezeitverträge, in JuS, 1992, p. 13.
22 Ancora una volta soltanto in via riduttivamente esemplificativa, sia va da Macauley, Non-contractual Relations in Business: A Preliminary
Study, in Am. Soc. R. 28 (1963), p. 55, a Macneil, The New Social Contract, New Haven, 1980, sino a Goetz e Scott, Principles of Relational
Contracts, in Va. L.R. 67 (1981), p. 1089, nonché Goldberg, Relational Exchange: Economics and Complex Contracts, in Am. Behavioral Sc. 23
(1980), p. 337; di recente, nella letteratura giuseconomica di casa nostra, Renda, Esito di contrattazione e abuso di dipendenza economica: un
orizzonte più sereno o la consueta “pie in the sky”?, in Riv. dir. impresa, 2000, p. 243, per una ricostruzione storica del concetto di “relational
contracting” e un’applicazione, in chiave di economic analysis of law, al rapporto di subfornitura.
23 Emblematica la sintesi, in prospettiva comparativa, dei contributi di Horn, Fontaine, Maskow e Schmitthoff, resi in occasione di un
convegno tenutosi a Bonn nel 1983, raccolti nel volume Die Anpassung langfristiger Verträge. Vertragsklauseln und Schiedspraxis, a cura di Kötz e
Marschall v. Bieberstein, Frankfurt a.M., 1984, che segue, a breve istanza di tempo, il ponderoso studio di Horn, Neuverhandlungspflicht, in
AcP 181 (1981), p. 255, cui va ascritto il merito se non altro, e al di là di qualsiasi valutazione contenutistica, di aver suscitato, soprattutto
nella dottrina tedesca, un vivace e piuttosto diffuso dibattito sui diversi risvolti giuridici degli obblighi di rinegoziare e sulla disciplina
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confermare la rilevanza del tema dal punto di vista del diritto civile, per i suoi molteplici risvolti di carattere
sistematico, non esauribili in semplici o, sia consentito, semplicistiche opzioni ideologiche.
Con riferimento al nostro ordinamento, non è stato arduo dimostrare che i dati normativi esistenti già
soltanto nel codice civile mostrano l’interesse dell’ordinamento per la manutenzione del contratto, quale
soluzione preferibile rispetto alla vanificazione del vincolo, espressione quest’ultima certamente poco tecnica,
intesa a raggruppare fenomeni che vanno dall’annullamento alla rescissione o alla risoluzione e che vorrebbe far
eco a quella utilizzata per indicare come “rimedi ablativi” le azioni tendenti alla cancellazione degli effetti del
contratto 24. Tale interesse è ravvisabile in termini generali e non si esprime soltanto con riferimento a quei
contratti tipici caratterizzati dalla protrazione del rapporto per un tempo più o meno lungo, in cui la difficile (e
talvolta impossibile) reversibilità degli effetti prodotti (che induce, emblematicamente, il legislatore a disporre
l’irretroattività del rimedio risolutorio rispetto alla prestazioni già eseguite, ex art. 1458 c.c.) determina la presenza
di regole sufficientemente circostanziate in funzione della conservazione del vincolo contrattuale a condizioni
diverse (rectius, modificate) da quelle originariamente pattuite. E’ sufficiente ricordare l’ipotesi di mantenimento
del contratto annullabile per errore e poi “rettificato” (art. 1432 c.c.), ove il legislatore generalizza, rimettendo
peraltro la scelta di offrire la rettifica alla parte contro cui è domandato l’annullamento, il rimedio disposto,
questa volta senza possibilità di scelta, per il caso specifico dell’errore di calcolo (art. 1430 c.c.), al punto da far
prospettare, sia pure con cautela ma a parere di chi scrive con ragionevole fondamento, l’applicazione analogica
della disposizione dettata dall’art. 1432 ad ogni contratto affetto da vizio della volontà 25. Sempre in termini
generali operano l’art. 1450 c.c., prevedendo la riconduzione ad equità del contratto rescindibile, a seguito
dell’offerta di modificazione delle condizioni squilibrate (sempre per iniziativa del contraente contro il quale è
domandata la rescissione), nonché l’art. 1464 c.c., che sancisce il diritto di ridurre la prestazione in termini
corrispondenti alla prestazione della controparte divenuta parzialmente impossibile26.
Secondo una ratio certamente diversa, proprio in funzione del contesto tipologico contrattuale di
riferimento 27, ma anche con un’innegabile continuità logico-giuridica rispetto alle disposizioni appena ricordate,
la modifica delle condizioni idonea a ricondurre ad equità il rapporto contrattuale nel caso di eccessiva onerosità
presuppone, in entrambe le ipotesi previste (per i contratti a prestazioni corrispettive e con obbligazioni di una
sola parte rispettivamente dagli artt. 1467, 3° comma e 1468 c.c.) la presenza di un contratto “a esecuzione
continuata o periodica ovvero a esecuzione differita”, venendo così sancita, già a livello di disciplina generale del
contratto e sia pure nei termini limitati che l’eccezionalità del rimedio impone, l’autonomia ed anche la
particolarità, in un certo senso, del trattamento giuridico dei contratti in questione28.
Se poi si scorre la disciplina dei contratti tipici, è agevole rinvenire una molteplicità di disposizioni che,
sebbene operanti nei più vari contesti giuridici, paiono accomunate tuttavia da una sorta di “macro-ratio”29,
dell’adeguamento dei contratti a lungo termine in genere (talvolta esaminati nell’ambito di un dato settore economico: Baur, Vertragliche
Anpassungsregelungen dargestellt am Beispiel langfristiner Energielieferungsverträge, 1983; Harms, Zur Anwendung von Revisionklauseln in langfristigen
Energielieferungsverträgen, in DB 1983, 322; Fecht, Neuverhandlungspflichten zur Vertragsänderung unter besonderer Berücksichtigung des bundesdeutschen
Rechts und der UN-Kodizes über Technologietransfer und das Verhalten transnationaler Unternehmen, 1988; altre volte in una prospettiva più generale:
Steindorff, Vorvertrag zur Vertragsänderung, in BB 1983, 1127; ID., Vertragliche Pflichten zur Vertragsanpassung, in ZHR p. 148 (1984), p. 271;
Karsten Schmidt, Die Rechtsfolgen der Kündigung nach § 247 Abs. 1 BGB, in BB 1982, 2075, che ha ripreso il tema in Geldrecht (Sonderausgabe
Staudunger Komm. §§ 244-248), ed. 1983, Vorbemerkungen § 244 D 182 e 252, e nella successiva ed. 1997, Staudinger/Karsten Schmidt,
Vorbemerkungen §244, D 184 e 259; Nelle, Neuverhandlungspflichten – Neuvrhanlungen zur Vertragsanpassung und Vertragsergänzung als Gegenstand
von Pflichten und Obligenheiten, 1993, recensito dallo stesso Horn, in ZHR 158 (1994), 425; Eidenmüller, Neuverhandlungspflichten bei Wegfall der
Geschäftsgrundlage, in ZIP 1995, 1063; ); un dibattito protrattosi sino al più recente, voluminoso saggio, apertamente critico nei confronti
delle tesi sostenute da Horn e, in generale, della configurabilità di un diritto alla rinegoziazione del contratto, di Martinek, Die Lehre von den
Neuverhandlungspflichten – Bestandsaufnahme, Kritik …und Ablehnung, in AcP 198 (1998), 329. Sul tema si tornerà più diffusamente, infra, n. 9.
24 Roppo, Il contratto, cit., 1041.
25 Roppo, Il contratto, cit., 1043.
26 Da ultimo, nell’ambito di una più ampia riflessione sul principio di adeguamento, De Mauro, Principio di adeguamento nei rapporti giuridici
privati, Milano, 2000. Si noti poi che, nel contesto di un’attenta indagine sui rimedi disposti dal legislatore in tema di invalidità e di
risoluzione affinché il contratto perda la sua efficacia soltanto per la parte inficiata, Gentili, La risoluzione parziale, Napoli, 1990, p. 221,
spec. p. 227, ha correttamente sostenuto l’applicabilità, in via analogica, dell’art. 1464 anche all’ipotesi di inadempimento parziale, in linea
con uno degli assunti di fondo dello studio, secondo cui l’intitolazione del Capo XIV del codice civile alla “risoluzione” del contratto non
esclude affatto che la tutela dei contraenti si realizzi anche attraverso l’adeguamento, inteso a mantenere l’equilibrio quando non opera la
risoluzione con pienezza di effetti.
27 Ci si permette di rinviare alle più articolate considerazioni esposte, a giustificazione della separazione degli ambiti, in Adeguamento e
rinegoziazione , cit., cap. II e spec. pp. 139 ss..
28 Non è casuale che, all’incirca un ventennio addietro, in sede di riflessioni sull’opportunità di riformare il diritto delle obbligazioni e dei
contratti presente nel BGB (e risalente, salva qualche sporadica novellazione, all’inizio del secolo), l’art. 1467 c.c. veniva indicato quale
esempio da imitare, ove si fosse optato per l’inserimento di nuove disposizioni normative in tema di “durata del contratto”: cfr.
ampiamente HORN, Vertragsdauer, cit., pp. 551 ss..
29 L’espressione è di Roppo, Il contratto, cit., p. 1044.
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rispondente all’esigenza dell’ordinamento di adeguare/modificare il regolamento contrattuale al fine di consentire
che si producano gli effetti dell’atto di autonomia privata da cui il regolamento stesso promana.
Le norme cui si allude potrebbero collocarsi idealmente in due gruppi: (a) quelle espresse nelle
disposizioni che predispongono un’alternativa giuridica alla vanificazione degli effetti del contratto, vuoi
incidendo positivamente sull’aspetto che potrebbe definirsi strutturale (ad esempio, mediante la disciplina della
determinazione del prezzo nella vendita e nell’appalto ex artt. 1474 e 1657 c.c. ovvero dell’entità della
somministrazione ex art. 1460 c.c., disposizioni che dovrebbero precludere qualsiasi utilizzazione più o meno
strumentale della sanzione di nullità del contratto per indeterminatezza e indeterminabilità dell’oggetto 30), vuoi
operando in una prospettiva funzionale (ad esempio, grazie alla scelta attribuita al compratore di chiedere la
riduzione del prezzo invece della risoluzione del contratto di vendita ex art. 1492); (b) quelle che fissano, invece,
presupposti e modalità della modificazione delle condizioni contrattuali prestabilite al fine di consentire una
corretta (prosecuzione della) esecuzione del rapporto contrattuale, talvolta con indicazioni di natura quantitativa
più o meno precise (si pensi, ad esempio, alla disciplina delle variazioni del progetto nell’appalto e, in particolare,
alle variazioni ordinate dal committente ex art. 1661 c.c., così come all’onerosità o difficoltà dell’esecuzione
dell’opera appaltata ex art. 1664 c.c. 31), altre volte con l’inevitabile rinvio a criteri generali di giustizia sostanziale,
quali la proporzionalità e/o l’equità della determinazione, quest’ultima affidata evidentemente al giudice in
mancanza di accordo fra le parti (può tornare ancora utile il rinvio alla disciplina dell’appalto e, più
specificamente, agli artt. 1660 c.c. e 1664, 2° comma c.c., ma possono anche ricordarsi, sempre in via meramente
esemplificativa, l’art. 1623 c.c. in materia di affitto, l’art. 1710, 2° comma in materia di mandato, nonché l’art. 3,
5° comma l. 18 giugno 1998, n. 192, in materia di subfornitura, disposizione quest’ultima particolarmente
interessante per la novità della formulazione adottata dal legislatore32). E’ necessario procedere per sommarie
esemplificazioni.
3. PRINCIPIO DI ADEGUAMENTO E PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ
Dall’insieme delle regole, alcune delle quali appena ricordate, è quasi naturale il tentativo – se si
preferisce, la tentazione - di individuare i principi, assecondando una tendenza astraente e ordinante per concetti,
cui il giurista, soprattutto se formatosi nella tradizione di civil law, difficilmente rinuncia. Se non è affatto semplice
fissare punti fermi in tema di principi generali, tanto più se, almeno apparentemente, questi siano di nuovo conio,
in tema di autonomia privata, benché la loro funzione e, quindi, la loro utilità debba ritenersi fuori discussione 33,
le disposizioni appena enunciate possono nondimeno offrire argomenti validi per ravvisare l’esistenza di un
principio di adeguamento operante nella disciplina dei contratti e, secondo alcune recenti prospettazioni, non
limitabile a questo settore dell’ordinamento34.
Nel solco di un percorso metodologicamente affine ossia muovendo da precisi dati legislativi, è stata poi,
di recente, affermata la vigenza, nell’ambito dei rapporti fra privati, del “principio di proporzionalità”, ispirato ai
valori costituzionali dell’eguaglianza, della solidarietà e della ragionevolezza, da un lato (quello del versante
pubblicistico) che sembra immediatamente riconducibile all’ordine pubblico costituzionale, dall’altro (più
propriamente privatistico) tendenzialmente preclusivo dell’approfittamento del contraente avvantaggiato dalla
situazione di squilibrio contrattuale 35. La sua manifestazione assumerebbe una portata più generale rispetto ai
Da tempo opportunamente stigmatizzata dalla più attenta dottrina: Roppo, Sugli usi giudiziali della categoria
“indeterminatezza/indeterminabilità dell’oggetto del contratto” e su una sua recente applicazione a tutela di “contraenti deboli”, in Giur. it., 1979, I, 2, p. 146
(in nt. critica a Pret. Genova 27 settembre 1978, viziata da un eccessivo formalismo nell’interpretazione dell’art. 1346 c.c., funzionale
peraltro, nella specie, alla tutela di un contraente asseritamente “debole”), anche in Alpa, Bessone e Roppo, Rischio contrattuale, cit., p. 125;
già in questo senso ID., Nullità parziale del contratto e giudizio di buona fede, in Riv. dir. civ., 1971, I, p. 287; v. altresì, nella medesima direzione,
Alpa, Accordo delle parti e intervento del giudice nella determinazione dell’oggetto del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1973, p. 728 e soprattutto ID.,
Indeterminabilità dell’oggetto del contratto, giudizio di nullità e principio di buona fede, in Giur. it., 1977, I, 1, p. 698.
31 Per un’analisi più approfondita, mi permetto di rinviare a quanto già esposto in La rinegoziazione delle condizioni nell’appalto, in Appalto
pubblico e privato, a cura di Iudica, Padova, 1997, p. 299.
32 Cfr. più ampiamente Putti, Commento all’art. 3, l.192/1998, Commentario a cura di Lipari, in Nuove leggi civ. comm., 2000, pp. 388 ss.;
nonché il contributo di chi scrive, L’adeguamento del prezzo, in La subfornitura nelle attività produttive, a cura di Cuffaro, Napoli, 1998, p. 151.
33 Emblematicamente, Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna, 1982, pp. 90 ss., secondo il quale il principio “deve essere osservato non
perché provochi o mantenga una situazione (economica, politica o sociale) desiderata, ma in quanto è un’esigenza di giustizia, o di
correttezza, o di qualche altra dimensione della morale”.
34 Cfr. De Mauro, Il principio di adeguamento, cit., pp. 95 ss. (con riferimento alle ipotesi di modificazione del rapporto giuridico fra il
proprietario e il titolare di diritti reali) e pp. 121 ss. (in tema di famiglia, successioni e donazioni).
35 Con riferimento alla previsione dell’art. 1455 c.c., richiamava il principio già GalganO, Il negozio giuridico, in Trattato Cicu e Messineo, cont.
Mengoni, Milano, 1988, pp. 467 ss.; più di recente, in termini generali, Perlingieri, Nuovi profili del contratto, in Rass. dir. civ., 2000, p. 545,
riferendosi ad una molteplicità di referenti legislativi, fra cui certamente spicca, anche per la particolare attualità della materia e degli
sviluppi giurisprudenziali, la disciplina civile dell’usura; dello stesso a. si segnalano poi le considerazioni svolte nella relazione presentata al
convegno tenutosi a San Marino, 17-18 novembre 2000, dal titolo Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Equilibrio delle
30
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termini in cui può ipotizzarsi, almeno nella prospettazione qui avanzata, la vigenza del principio di adeguamento,
sopravanzando l’utilizzazione, nella disciplina del contratto, della stessa clausola generale di buona fede36, per
fornire al giudice un parametro di controllo sugli atti di autonomia maggiormente vincolante (e perciò meno
arbitrario) rispetto a quello della correttezza.
E’ certamente comprensibile che l’enunciazione di questo principio, pur presente e consolidato in altri
settori dell’ordinamento 37, nell’ambito dei rapporti fra privati possa suscitare in più d’uno il timore di un effetto
di allargamento ‘a macchia d’olio’ di tendenze giurisprudenziali avvertite come oltremodo invasive della sfera di
autonomia dei privati contraenti, in quanto originate dall’interpretazione di disposizioni legislative comunemente
ritenute di natura eccezionale (qual è, ad esempio, l’art. 1384 c.c. in materia di riduzione della penale eccessiva 38).
Una reazione negativa tranchante sul punto, tuttavia, non sembra corretta, non soltanto perché è sin troppo ovvio
che ogni principio può trovare nella Costituzione, ‘a leggerla bene’ – ammoniva, com’è noto, il celebre ‘leguleio’
della nostra letteratura ottocentesca, di manzoniana memoria - il suo esatto contrario, tanto più se si tratta del
principio di autonomia privata la cui rilevanza costituzionale è tutt’altro che scontata, ma anche per la necessità di
considerare l’ordinamento nel suo complesso.
In questo senso, si può osservare come, da un altro punto di vista, segnatamente in materia di
responsabilità patrimoniale e concessione di garanzie, il ricorso al suddetto principio sia ritenuto funzionale a
soluzioni e rimedi intesi, per un verso a riequilibrare il rapporto fra debitore e creditore, quante volte uno dei due
soggetti si trovi in una posizione non più corrispondente a quella di partenza39, con il rischio, in via alternativa,
del vanificarsi della garanzia concessa ovvero del suo aggravamento eccessivo e irragionevole40, per altro verso ad
offrire valide alternative alle preclusioni che, direttamente o in via mediata, derivano dall’applicazione rigida di
disposizioni quali ad esempio l’art. 2744 c.c., in materia di divieto del patto commissorio, difficilmente
compatibili con visione realmente moderna della disciplina relativa alle transazioni in materia finanziaria e
creditizia 41. Ne consegue che appare certamente legittimo almeno l’interrogativo se possa ravvisarsi l’esistenza di
un principio di proporzionalità nel diritto privato 42, nel presupposto, s’intende, che siano chiari sin dall’inizio gli
posizioni contrattuali ed autonomia privata, cit., pp. 49 ss.; edita più di recente, cfr. la relazione presentata nel già ricordato convegno di Crotone
da Criscuolo, Adeguamento del contratto e poteri del giudice, in AA. VV., Il nuovo diritto dei contratti. problemi e prospettive, cit., pp. 191 ss..
36 Da ultimo, si segnala il saggio di Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 537.
37 Il riferimento più immediato, anche per la contiguità della materia, è al rapporto di lavoro subordinato, che può contare su indici
costituzionali, come l’art. 36 Cost , in tema di congruità della retribuzione, e su disposizioni codicistiche, quali ad esempio l’art. 2106, che
richiede la proporzionalità fra infrazioni disciplinari e retribuzione. Altro eloquente dato costituzionale è costituito dall’art. 53 Cost., che
fissa la capacità contributiva quale criterio aggiuntivo, di natura quantitativa, rispetto al limite costituito dalla ragionevolezza
dell’imposizione tributaria. Espansione massima ha avuto poi il principio in questione nella materia comunitaria, assumendo il valore di
“principio generale del diritto” (così Cass. 28 novembre 1996, n. 10585, in Giust. civ., 1997, I, 2515) in un duplice significato (riportando
sempre la giurisprudenza): (1) con riferimento alla sanzione degli obblighi rispettivamente ‘principali’ (per il raggiungimento di un
determinato risultato) e ‘secondari’ (aventi natura essenzialmente amministrativa), che non può essere la medesima senza violare il
principio di proporzionalità; (2) riguardo all’incidenza degli atti normativi degli Stati membri su posizioni giuridiche garantite dal diritto
comunitario, imponendo, per la legittimità di tale incidenza e della normativa nazionale che la prevede: (a) che lo scopo perseguito non sia
incompatibile con il diritto comunitario; (b) che la normativa statale sia idonea a perseguirlo; (c) che essa non provochi una limitazione
della posizione garantita dal diritto comunitario sproporzionata rispetto allo scopo perseguito. A parte il suo occasionale ricorso nella
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il principio viene altresì enunciato dal Consiglio di Stato in relazione all’esercizio
della discrezionalità amministrativa, potendo rinvenire l’affermazione un qualche fondamento, benché non esplicito, nell’art. 97 Cost..
38 Si ricordi, in proposito, Cass. 24 settembre 1999, n. 10511, in Foro it., 2000, I, 1929, la quale, decidendo per la riducibilità d’ufficio della
penale di ammontare manifestamente eccessivo, chiama in causa il principio costituzionale di solidarietà ex art. 2 Cost., individuando una
sinergia fra il suddetto principio e le regole di buona fede e correttezza espresse nel codice civile.
39 Un’espressione di ‘proporzionalità legale’ è data, in questo senso, dalla disciplina della riduzione delle ipoteche, ricordandosi, in
particolare: l’art. 2873, 2° comma c.c., in tema di ipoteca volontaria, che consente al concedente di ottenere la proporzionale riduzione
dell’ipoteca ove siano stati eseguiti pagamenti parziali in misura tale da estinguere almeno un quinto del debito originario e l’art. 2875 c.c.,
che stabilisce il parametro di valutazione della proporzionalità, tanto alla data dell’iscrizione dell’ipoteca quanto posteriormente,
nell’eccedenza del valore dei beni di un terzo rispetto al valore dei crediti iscritti, accresciuto degli accessori a norma dell’art. 2855 c.c. Sul
terreno delle garanzie personali, si fa poi riferimento all’art. 1941 c.c., che fissa i “limiti alla fideiussione” prestata in eccesso rispetto a
quanto dovuto dal debitore ovvero a condizioni più onerose, ammettendone la validità soltanto entro i limiti dell’obbligazione principale,
con il placet della Cassazione, che ha ritenuto di estendere la tutela del garante, con riferimento al limite della prestazione effettivamente
inadempiuta e degli accessori, al caso del contratto autonomo di garanzia (Cass. 6 ottobre 1989, n. 4006, in Banca, borsa ecc., con nt. di
Portale). In argomento, significativi spunti di riflessione sono stati prospettati da Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità
nei contratti, cit., pp. 49 ss..
40 Da ultimo, in un’attenta indagine su un tema poco frequentato dalla nostra dottrina, ma di estrema e quanto mai attuale rilevanza nel
settore delle garanzie del credito, Piepoli, Le “garanzie negative”, in Banca, borsa ecc., 2001, I, p. 405, il quale individua il principio di
proporzionalità come chiave di lettura dell’art. 1379 c.c. in modo che la norma possa legittimare la validità delle convenzioni costitutive di
“garanzie negative”.
41 Da ultimo, N. Cipriani, Patto commissorio e patto marciano. Proporzionalità e legittimità delle garanzie, Napoli, 2000, pp. 173 ss., spec. p. 184.
42 Non è senza significato, d’altra parte, che in Francia, il “Centre de droit des affaires et de gestion de la Faculté de droit de Paris V”,
abbia organizzato un convegno (20.3.1998) sul tema “Existe-t-il un principe de proportionalité en droit privé?”, i cui atti si leggono nel numero
speciale di Petites Affiches. La Loi, 1998, n. 117, da cui si evincono, all’esito delle diverse riflessioni, che spaziano dalla disciplina generale
dei contratti alle regole dei settori più spiccatamente commerciali (come il diritto della concorrenza, delle procedure concorsuali, delle
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ambiti conflittuali in cui si ritiene che il principio possa efficacemente operare e, soprattutto, le tecniche di tutela
mediante le quali sia possibile dare un contenuto concreto all’enunciazione di carattere generale.
Parallelamente, si direbbe, alla tendenza appena evidenziata, si registra poi un’inusuale enfasi sul
principio di conservazione del contratto, al quale viene riconosciuta una capacità espansiva che va ben oltre i
tradizionali confini dell’interpretazione, indicati dal codice civile nell’art. 1367 e che, in fondo, rappresenta, con la
formulazione ormai piuttosto in voga del favor contractus, uno dei presupposti (se non il presupposto decisivo)
anche per l’individuazione dei principi appena ricordati43.
4. CONSERVAZIONE
E RINEGOZIAZIONE DEL CONTRATTO
GIURISPRUDENZA IN MATERIA DEI CONTRATTI A LUNGO TERMINE
ALL ’ESAME
DELLA
Proprio da quest’ultima constatazione sembra più breve il passo per valutare le prospettive che l’attuale
diritto dei contratti indica in termini di rimedi manutentivi della relazione contrattuale ossia in chiave di (nuove)
tecniche di tutela giurisdizionale aventi natura conservativa del rapporto in corso di esecuzione, fra le quali merita
un approfondimento specifico la rinegoziazione, quale effetto di obblighi nascenti, alternativamente, dall’accordo
delle parti o dalla legge44.
Si comprende, d’altronde, come la figura giuridica dell’obbligo di rinegoziare abbia suscitato, più d’ogni
altra fra quelle astrattamente individuabili nell’ampio ventaglio di possibilità per conseguire l’adeguamento delle
condizioni del contratto in modo da consentirne la prosecuzione nel rispetto dell’equilibrio economico
convenuto, non lievi difficoltà d’ordine sistematico nell’impatto con le regole e i principi espressi da ordinamenti
caratterizzati da una tradizione di studi civilistici molto ben sedimentata, quali sono senz’altro quello italiano,
francese e tedesco.
Nondimeno, proprio dalla terra della pandettistica e grazie alla rivista ufficialmente rappresentativa del
dibattito civilistico tedesco di alto profilo, giungeva il primo contributo dottrinale sull’obbligo di rinegoziare,
esaminato in tutti i suoi connotati giuridici, in modo che si potesse dire concretamente aperta la via al dibattito
poi effettivamente seguito 45. Si era agli inizi degli anni ottanta e non poteva dirsi certo casuale che il saggio
intitolato alla Neuverhandlungspflicht recasse la firma dello stesso giurista cui il Bundesjustizministerium aveva conferito
l’incarico di valutare l’opportunità di novellare la disciplina delle obbligazioni e dei contratti con l’inserimento di
disposizioni sui contratti di durata46.
Il tentativo di rispettare il metodo classico, con l’approccio puro, in un certo senso, della teoria generale
del contratto ad un tema che lo stesso autore riconosceva porsi, prima facie, in termini di stridente antinomia, fra
concetti astrattamente incompatibili (quali la libertà dei privati di negoziare e l’obbligo di adempiere proprio
mediante la libera trattativa) 47, non riusciva a mascherare la riferibilità della riflessione alla vicenda dei contratti di
durata, con particolare riferimento a quei rapporti programmati per un lungo arco temporale. Per altro verso, lo
studio poteva contare sulle blasonate radici della tradizione giudiziale applicativa del § 242 BGB, in tema di
esecuzione della prestazione contrattuale secondo buona fede, che aveva portato a compimento la teoria della
presupposizione (così come rielaborata in termini di Wegfall der Geschäftsgrundlage), con un’attività creativa di diritto
vivente che può senz’altro definirsi senza precedenti e assai difficilmente paragonabile ad altre esperienze
giurisprudenziali in materia civilistica, avente quale punto d’arrivo l’adeguamento giudiziale del contratto
(Vertragsanpassung) alle mutate circostanze 48. Di qui la connessione, quasi naturale, delle riflessioni sulla
rinegoziazione alla più ampia tematica classica della Vertragsanpassung ottenibile (non soltanto convenzionalmente,
mediante il deferimento al terzo o alla parte stessa del compito di rideterminare la prestazione oggetto del
contratto, ma anche) con una sentenza costitutiva dei nuovi obblighi contrattuali (Gestaltungsurteil).
Del resto, chiunque in quell’epoca avesse distolto per un momento l’attenzione dalle congetture della
civilistica di stampo continentale, per lanciare lo sguardo dall’altra parte dell’Atlantico, avrebbe immediatamente
avvertito il fermento di opinioni creatosi intorno al caso “ALCOA”, originato dall’impennata del costo della
società), tutte le ragionevoli perplessità non tanto sull’esistenza del principio in se stesso, quanto sulla sua concreta utilizzazione in
giurisprudenza.
43 A proposito della disciplina dell’impossibilità iniziale, prevista dall’art. 3.3 dei Principi Unidroit, ma in una prospettiva di più ampio
respiro, Bonell, Un Codice Internazionale del Diritto dei Contratti, Milano, 1995, pp. 91 ss. ed ivi ulteriori richiami. Da ultimo, cfr. De Nova,
Contratto per una voce, in Riv. dir. priv., 2000, p. 639.
44 Da ultimo in argomento, F. Gambino, Problemi del rinegoziare, Milano, 2004.
45 Horn, Neuverhandlungspflicht, cit., 255.
46 Cfr. supra nt. 17. Si noti che la pubblicazione del saggio appena ricordato e quella del volume con la raccolta dei diversi pareri resi al
Ministero della giustizia avvennero quasi contemporaneamente nell’anno 1981.
47 Horn, Neuverhandlungspflicht, cit., p. 256, il quale si chiede: “wie kann es eine Pflicht geben, sich freiwillig zu einigen, sozusagen einen
Zwang zur Freiwilligkeit?”
48 Horn, Neuverhandlungspflicht, cit., pp. 267 ss..
9
prestazione di un contraente legato da un contratto di trasformazione e fornitura di alluminio a lungo termine
(sedici anni) a causa della crisi petrolifera mediorientale 49. Con una sentenza densa di passaggi argomentativi
meditati, nella piena consapevolezza della rilevanza assunta dalla specifica realtà contrattuale in esame, il giudice
statunitense riusciva ad obbligare a rinegoziare le parti contendenti, le quali raggiunsero effettivamente l’accordo
modificativo che riequilibrava il rapporto fra le prestazioni, impedendo così che si realizzasse l’incombente
adeguamento giudiziale del contratto, minacciato come ultima ratio per il caso di fallimento delle trattative. La
sentenza non poteva non suscitare reazioni discordanti in dottrina, fra chi inneggiava al “new spirit of contract” 50
e quanti, invece, paventavano gli sviluppi eversivi di un’eventuale tendenza all’intervento giudiziale nel contratto
(naturalmente, ove mai la ricostruzione giuridica offerta dalla decisione “ALCOA” fosse stata accolta da altre
corti)51. Il dibattito, già da tempo in corso in ambito statunitense sui problemi giuridici dei long-term contracts52,
traeva così nuova linfa e i problemi drammaticamente attuali della gestione di sopravvenienze m
i previste e
imprevedibili determinavano delicati interrogativi a livello anche di teoria generale53.
La ricaduta degli effetti economici della crisi mediorientale sui contratti in corso si registrava anche nella
giurisprudenza italiana del medesimo periodo, segnatamente in un’articolata sentenza della Suprema Corte, la
quale ammetteva la risoluzione per eccessiva onerosità di un contratto a lungo termine (quindicennale) di
fornitura di materia prima per un prezzo regolato secondo una clausola di indicizzazione operante
semestralmente 54. Secondo la Cassazione, la presenza della clausola di adeguamento non valeva ad impedire
l’operatività della regola legale prevista dall’art. 1467 c.c., in quanto la gestione convenzionale preventiva dell’alea
del contratto non può escludere la rilevanza giuridica di sproporzioni nel rapporto fra le prestazioni sopravvenute
in misura esorbitante rispetto alla clausola perequativa predisposta dai contraenti. Quanto dire che, nella logica
del contratto commutativo a esecuzione protratta nel tempo, l’alea non governata (mediante apposita clausola) e
non governabile (secondo il criterio della ragionevolezza) dai contraenti incontra comunque la barriera dell’art.
1467, che si rivela quindi rimedio sempre fruibile per i contraenti, a meno che il contratto esprima la preventiva
ed esplicita rinuncia delle parti in tal senso.
In Francia, infine, la corte escogitava la soluzione della nomina di un “observateur” che avrebbe dovuto
sorvegliare le parti nel corso della rinegoziazione, imposta giudizialmente prima che il giudice stesso si
pronunciasse sulla clausola (al solito, di indicizzazione) entrata in crisi nell’esecuzione del contratto per fatti
estranei ai contraenti55.
5. L’OBBLIGO
DI RINEGOZIARE INTRODOTTO NEI
DEL DIRITTO EUROPEO DEI CONTRATTI
PRINCIPI UNIDROIT E NEI PRINCIPI
Il panorama sin qui delineato consente di inquadrare la genesi, in un certo senso, e comunque di
avvicinarsi alla comprensione del contenuto sostanziale delle regole espresse, in termini visibilmente omogenei,
nei “Principi Unidroit” intesi a dettare le regole generali (impropriamente, nel nostro lessico giuridico, definiti
“principi”) in materia di contratti commerciali internazionali e nei Principles of European Contract Law redatti dalla
Commissione Lando, in materia di “hardship”, per il verificarsi di “eventi che alterano sostanzialmente l’equilibrio
del contratto, o per l’accrescimento dei costi della prestazione di una delle parti, o per la diminuzione del valore
della controprestazione” 56. La regola relativa agli effetti dell’hardship (art. 6.2.3) presente nei Principi Unidroit
attribuisce alla parte svantaggiata il “diritto di chiedere la rinegoziazione del contratto”, specificando subito che la
Aluminium Co. of America v. Essex Group, in 499 Fed. Suppl. 53 (W.D.Pa. 1980) e in traduzione italiana in Foro it., 1981, IV, p. 363.
E’ il significativo titolo del contributo di Speidel, The New Spirit of Contract, in J.L.&Com. 2 (1982), p. 193, il quale aveva espresso la sua
idea in Court-Imposed Adjustments Under Long-Term Supply Contracts, in NW. U.L.R. 76 (1981), p. 369.
51 Ad es.: Dawson, Judicial Revision of Frustrated Contracts: The United States, in B.U.L.R. 64 (1984), 1, 26; Sirianni, The Developing Law of
Contractual Impracticability and Impossibility: Part I, in U.C.C.L.J. 14 (1981), p. 55.
52 Supra, nt. 21.
53 Cfr. Fried, Contract as a Promise: A theory of Contractual Obligation, Cambridge Ma., 1981, p. 63, p. 69. Per un’analisi ben più approfondita
dell’intera vicenda, con i necessari riferimenti alla consistente giurisprudenza nordamericana prodottasi in argomento, così come alle
opinioni espresse dagli studiosi, ci si permette di rinviare alla trattazione svolta in Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine , cit.,
pp. 243 ss..
54 Cass. 29 giugno 1981, n. 4249, in Foro it. 1981, I, 2132, con nota di Pardolesi, Indicizzazione contrattuale e risoluzione per eccessiva onerosità.
55 La controversia fra Electricité de France e Shell era così decisa dalla Corte d’appello di Parigi, con sentenza 28 settembre 1976, in J.C.P.
1978, II.18810 con nt. di Robert.
56 Articolo 6.2.2 (Definizione di hardship) dei Principi Unidroit, ove sono aggiunge, alla frase riportata nel testo e quali ulteriori condizioni
perché possa dirsi ricorrente un’ipotesi di hardship: “(a) gli eventi si verificano, o divengono noti alla parte svantaggiata, successivamente
alla conclusione del contratto; (b) gli eventi non potevano essere ragionevolmente presi in considerazione dalla parte svantaggiata al
momento della conclusione del contratto; (c) gli eventi sono estranei alla sfera di controllo della parte svantaggiata; e (d) il rischio di tali
eventi non era stato assunto dalla parte svantaggiata. In termini leggermente più sintetici, ma con assoluta identità contenutistica si
esprime l’articolo 6:111 elaborato dalla Commissione Lando.
49
50
10
richiesta “deve essere fatta senza ingiustificato ritardo e deve indicare i motivi sui quali è basata”; i Principi Lando
stabiliscono che le parti hanno l’obbligo di avviare trattative allo scopo di modificare il contratto ovvero di porvi
termine (art. 6:111, n. 2). Si aggiunge la precisazione – invero, da parte soltanto dei Principi Unidroit (art. 6.2.3, n.
2) – che la richiesta di rinegoziazione “non dà, di per sé, alla parte svantaggiata il diritto di sospendere
l’esecuzione”, si disciplinano così le conseguenze del mancato accordo “entro un tempo ragionevole” (in
entrambi i testi esaminati), attribuendo al giudice la facoltà, in via alternativa, di: “(a) risolvere il contratto in
tempi e modi di volta in volta da stabilire, oppure (b) modificare il contratto al fine di ripristinarne l’originario
equilibrio” (il testo è quello dei Principi Unidroit, art. 6.2.3, n. 4, ma rispecchia quasi letteralmente quello dei
Principi Lando, ove peraltro si precisa che l’eventuale modificazione giudiziale del contratto deve essere realizzata
in modo che le perdite e i profitti derivanti dal mutamento di circostanze vengano distribuiti equamente tra le
parti, art. 6:111, n. 3, lett. b). Va infine segnalato che i Principi Lando prevedono un comma di chiusura della
regola, in cui si consente al giudice (“può”) di condannare al risarcimento dei danni cagionati dal rifiuto di una
parte di avviare le trattative o dalla loro rottura in maniera contraria alla buona fede e alla correttezza.
Alla luce del clima culturale maturato in un ambiente giuridico sufficientemente esteso da poter
legittimare sia il carattere realmente internazionale dei Principi Unidroit, sia la natura sovranazionale europea dei
Principi Lando, le regole ricordate risultano soltanto apparentemente eversive rispetto agli ordinamenti giuridici
cui ci si è riferiti. Esse costituiscono, piuttosto, il condensato di un’attenta e corretta elaborazione in sede teorica
dei rimedi più appropriati per la soluzione dei problemi di gestione del rapporto contrattuale che si protrae nel
tempo, al punto che nella riformulazione del Libro VI del codice civile olandese, entrato in vigore il 1° gennaio
1992, sono state introdotte precise disposizioni che sanciscono positivamente la facoltà del giudice, su istanza
della parte interessata, di modificare gli effetti del contratto ovvero di pronunciare la risoluzione, in entrambi i
casi anche con effetto retroattivo, in conseguenza di circostanze impreviste che rendono inesigibile, per un
contraente buona fede, la prestazione nei termini pattuiti 57.
Allo stesso modo, la già ricordata novella del 2002 relativa allo Schuldrecht elaborato dalla pandettistica
tedesca e trasfuso nel 1900 nel BGB – il dato riveste un particolare interesse per l’attualità della vicenda - esplicita
nella forma necessariamente sintetica della disposizione codicistica il distillato di un secolo di giurisprudenza e
dottrina in materia di Wegfall der Geschäftsgrundlage, con una formulazione che riprende i fondamentali concetti di
imprevedibilità (della modificazione) e di inesigibilità (della prestazione esattamente così come pattuita),
quest’ultima da valutare tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e, in particolare, dell’allocazione
convenzionale o legale del rischio 58. Il rimedio è dato dalla pretesa all’adeguamento giudiziale (Anpassung), mentre
la cessazione del vincolo contrattuale (Beendigung) è subordinata all’impossibilità dell’adeguamento o
all’inesigibilità per la controparte.
Probabilmente di minore rilevanza, almeno rispetto ai referenti normativi appena menzionati, ma certo
non priva d’interesse ai fini di un’ampia ricognizione di campo è l’attenzione per il problema della revisione del
contratto in corso di esecuzione riscontrabile in sedi non legislative, diverse da quelle di carattere prettamente
scientifico facenti capo all’Istituto Unidroit e alla Commissione Lando. Non è un caso che il Consiglio della
Camera di Commercio Internazionale (C.C.I.) già dal 1978 avesse istituito, presso la stessa C.C.I., un Comitato
permanente per la regolarizzazione delle relazioni contrattuali con il compito di nominare, su richiesta delle parti,
una persona (o tre persone) cui affidare la revisione del contratto 59. Più di recente, il testo proposto per il
progetto di un “codice di condotta” delle società transnazionali, presentato in sede di “sviluppo e cooperazione
economica transnazionale” dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite nel 1990, prevede – riportando
dalla versione in lingua francese – al punto 12 (Réexamen et renégotiation des contrats et accords): «(a) Les
contrats ou accords entre gouvernements et sociétés transnationales devraient être négociés et appliqués de
bonne foi. Ces contrats ou accords, et particuliarément ceux qui sontt à long terme, devraient normalment
comporter des clauses de réexamen ou de renégociation. (b) En l’absence de telles caluses et lorsque les
Libro VI, art. 258 BW. Per ulteriori considerazioni e riferimenti alla dottrina e alla giurisprudenza anteriore, in linea con la novella, cfr.
Hartkamp, Judicial Discretion under the New Civil Code of the Netherlands, Quaderni dell’Istituto di diritto comparato, Roma, 1992; ID.,
Einführung in das neue Niederländische Schuldrecht, Teil I: Rechtsgeschäfte und Verträge, in AcP 191 (1991), 396, spec. 405, ove si chiarisce che la
disposizione intende andare oltre, grazie all’operatività della clausola di buona fede, il mero recepimento della teoria della Geschäftsgrundlage.
58 Il § 313 BGB, intitolato “Störung der Geschäftsgrundlage” e inserito nel nuovo “Untertitel 3” (sottotitolo o sezione) “Anpassung und Beendigung
von Verträgen” (adeguamento e cessazione dei contratti) prevede: “(1) Haben sich Umstände, die zur Grundlage des Vertrags geworden
sind, nach Vertragsschluss shwerwiegend verändert und hätten die Parteien den Vertrag nicht oder mit anderem Inhalt geschlossen, wenn
sie diese Veränderung vorausgesehen hätten, so kann Anpassung des Vertrags verlangt werden , soweit einem Teil unter Berücksichtigung
aller Umständen des Einzelfalles, insbesondere der vertraglichen oder gesetzlichen Risikoverteilung, das Festhalten am unveränderten
Vertrag nicht zugemutet werden kann”. (2) Einer Veränderung der Umstände steht es gleich, wenn wesentliche Vorstellungen, die zur
Grundlage des Vertrags geworden sind, sich als falsch herausstellen. (3) Ist eine Anpassung des Vertrags nicht möglich oder einem Teil
nicht zumutbar, so kann der benachteiligte Teil vom Vertrag zurücktreten. An die Stelle des Rücktrittsrecht tritt für
Dauerschuldverhältnisse das Recht zur Kündigung”.
59 Regolamento Consiglio C.C.I. 20.6.1978, in Brochure n. 326, 10/1978.
57
11
circonstances sur lesquelles était fondé le contrat ou l’accord ont subi un changement fondamental, les sociétés
transnationales, agissant de bonne foi, devraient coopérer avec les gouvernments pour réexaminer ou renégocier
ledit contrat ou accord»60.
6. LA RINEGOZIAZIONE AL VAGLIO DELLA DOTTRIN A CIVILISTICA
Ci si dovrebbe a questo punto domandare in che modo la dottrina civilistica italiana si sia confrontata
con la varietà di dati appena enunciati e, più in generale, con i problemi giuridici relativi alla gestione del rischio
contrattuale nella prospettiva della revisione del contratto mediante rinegoziazione delle sue condizioni. Anche in
questo caso, non si può che procedere in via estremamente sintetica, rinviando peraltro all’approfondimento del
tema già compiuto altrove61.
Premesso che l’ampio tema della “revisione del contratto” non era sfuggito nell’individuazione delle voci
enciclopediche62, paiono in un certo senso allineate sulla valutazione positiva del riconoscimento dell’obbligo di
rinegoziare anche nel nostro ordinamento le due più recenti ed autorevoli opere trattatistiche in tema di contratto
in generale. Una plastica raffigurazione, nello stile meritoriamente privo di ambiguità tipico dell’autore, evidenzia
che “[l]a risoluzione uccide il rapporto contrattuale. La rinegoziazione dovrebbe servire a curarlo”63. Le regole
giuridiche sulle quali fondare la ricostruzione teorica dell’istituto e consentirne la concreta operatività, in punto di
tutela giurisdizionale, non mancano ed anzi, secondo l’opinione di chi con maggiore autorevolezza rappresenta
oggi la comparazione giuridica nel nostro Paese, “gli italiani partono favoriti in virtù degli artt. 1366, 1375, e,
soprattutto, in virtù dell’art. 1374”, di modo che un sistema, quale il nostro, “che conosce la clausola generale di
buona fede e la figura del contratto imposto può trovare in essi la figura rimediale che stiamo cercando”64. Sulla
scorta anche di studi specifici in argomento intervenuti medio tempore65, il ruolo della buona fede in funzione
integrativa è stato così, più di recente, ribadito per i casi in cui la rinegoziazione non sia stata espressamente
pattuita 66, con l’adesione, anche da parte di voci autorevoli, alla tesi dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo
di contrarre67, quale rimedio al rifiuto di rinegoziare o alla contrarietà a buona fede del comportamento del
contraente, al fine di poter commisurare sull’eventuale inadempimento al contratto coattivamente modificato (in
assenza della rinegoziazione spontanea) il risarcimento del danno da mancata esecuzione 68.
Nations Unies, Conseil économique et social, E/1990/94, 12 juin 1990, Texte propose pour le projet de code de conduite des societes
transnationales.
61 Macario, Adeguamento e rinegoziazione, cit., spec. cap. V.
62 Tommasini, Revisione del rapporto, voce dell’Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 104, p. 110, che, affermata l’unitarietà del ruolo della revisione
quale che sia la fonte dei diritti e degli obblighi, ritiene “non contestabile la legittimità del principio giuridico della revisione del rapporto,
desunto da inequivoche disposizioni del nostro diritto positivo. Né è da credere che ad esso sia da negare un’ampiezza che trascende
l’ambito delle singole figure legislativamente disciplinate. Deve convincere in questo senso – continua l’a. – l’impiego, seppure talora
inconsapevole, che del principio fa la giurisprudenza e soprattutto l’utilizzazione che di esso con sempre maggiore frequenza fa il
legislatore nei rapporti di durata o ad esecuzione periodica, per garantirne la stabilità e prosecuzione e trovare soluzioni di
contemperamento degli opposti interessi: indice certo della prospettiva che il principio ha assunto nel diritto e che non può essere
ignorato dalla scienza giuridica”. Successivamente, Gallo, Revisione del contratto, voce del Digesto, disc. priv., civile, XVII, Torino, 1998, 431,
che affronta il tema confrontando le risposte date da diversi ordinamenti (in particolare, statunitense, tedesco, francese e italiano), nonché
alla luce di alcune considerazioni di analisi economica del diritto (più ampiamente, dello stesso a., Sopravvenienza contrattuale, cit.)
63 Sacco [e De Nova], Il contratto, cit., p. 686.
64 Sacco [e De Nova], Il contratto, loc. cit.
65 Alla ricostruzione della fattispecie costitutiva dell’obbligo e dei suoi effetti, sia sul piano sostanziale che in punto di tutela giurisdizionale,
presentata nel già ricordato volume Adeguamento e rinegoziazione, cit., cap. V, ed arricchita dalle considerazioni svolte da Timoteo, Contratto e
tempo. Note a margine di un libro sulla rinegoziazione contrattuale, in Contr. impr., 1998, p. 619, si sono aggiunti: il contributo monografico di V.M.
Cesaro, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Napoli, 2000, con una puntuale trattazione, incentrata sull’esame della
vastissima tipologia delle clausole destinate alla conservazione dell’equilibrio contrattuale; lo studio di De MauRO, Il principio di adeguamento
nei rapporti giuridici privati, cit., condotto da un più generale punto di osservazione; la nota (critica nei confronti della sentenza commentata,
ma in linea con la ricordata dottrina) ad una pronuncia arbitrale, a firma di Criscuolo, Equità e buona fede come fonti di integrazione del contratto.
Potere di adeguamento delle prestazioni contrattuali da parte dell’arbitro (o del giudice) di equità, in Riv. arbitrato, 1999, p. 71; le considerazioni di
Grande Stevens, Obbligo di rinegoziare nei contratti di durata, in AA. VV., Diritto privato europeo e categorie civilistiche , a cura di Lipari, Napoli, 1998,
p. 193.
66 Da ultimo, FranzonI, Gli effetti del contratto, Artt. 1372-1375, in Commentario Schlesinger, Milano, 1999, pp. 196 ss..
67 Sulla quale non ci si sofferma in questa sede, rinviando alle considerazioni più ampiamente esposte in Adeguamento e rinegoziazione, cit.,
spec., pp. 420 ss..
68 Roppo, Il contratto, cit., p. 1047, il quale opportunamente chiarisce (a beneficio degli scettici, fra i quali a ben vedere sembrano
decisamente prevalere generici pregiudizi sulle argomentazioni logicamente costruite): “La soluzione può sembrare molto audace. Ma,
prima di tutto, il risultato di essa non è così eversivo: equivale a dare alla parte gravata dalla sopravvenienza quello stesso potere di
invocare la riduzione a equità del contratto squilibrato, che già le spetta in relazione ai contratti gratuiti, e che nei contratti onerosi spetta a
controparte (sicché, più che un rimedio nuovo, si configurerebbe un semplice allargamento della legittimazione a un rimedio già previsto).
E poi, comunque, un po’ di audacia non fa male, quando si affrontano problemi di giustizia che sfuggono agli schemi troppo rigidi e stretti
delle tipizzazioni legali”.
60
12
Non v’è dubbio che lo spazio riconosciuto all’operatività del principio di buona fede avvicini
significativamente la riflessione sulla revisione giudiziale del contratto all’impostazione socio-economica del
discorso relativo ai contratti a lungo termine, intesi nella prospettiva ‘relazionale’ 69. La valorizzazione del precetto
di buona fede quale regola di comportamento nell’esecuzione del contratto può dirsi, infatti, il più immediato
risultato della ricaduta sul terreno giuscivilistico della già ricordata dottrina (di matrice sociologica, prima che
giuridica in senso stretto) dei “relational contracts”, ove la logica cooperativa tendente alla realizzazione del risultato
dedotto in contratto dovrebbe sostituire quella egoistica, finalizzata al mero advantage-taking (evidentemente
antitetica a quella di sharing and cooperation), tipica dello scambio isolato (indicato, in area anglosassone, in
contrapposizione al modello del long-term contract, come “discrete transaction”), normalmente ad efficacia istantanea.
Non per nulla gli studiosi che, soprattutto nell’ambiente di common law nordamericano (dove la teoria dei contratti
relazionali è stata originariamente elaborata e comunque maggiormente sviluppata), hanno accolto questa
configurazione dei rapporti contrattuali – senza dubbio meno digeribile, in termini generali, per il civil lawyer
continentale tradizionale – si sono prontamente schierati a favore dell’intervento giudiziale nel contratto in
presenza di sopravvenienze incidenti sull’originario equilibrio fra le prestazioni, soprattutto nel momento in cui la
giurisprudenza si trovò a fronteggiare gli effetti giuridici della crisi petrolifera mediorientale70.
7. (SEGUE) E NELL’ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO
Se poi si osserva il problema dal punto di vista dell’analisi economica del diritto, non è difficile constatare
– lo si ricordava già in apertura -, per un verso, l’insufficienza della prospettiva del consenso ipotetico (della
volontà presunta, della condizione inespressa e così via), da sempre connessa alla questione delle sopravvenienze
e intesa ad allocare del rischio sul contraente che appare maggiormente in grado di sostenerlo 71, per altro verso la
complessità dell’indagine sugli incentivi derivanti dalla scelta in favore della revisione giudiziale del contratto, nel
momento in cui si considerino i costi della rinegoziazione 72, adottando il punto di vista che tende al
riconoscimento non soltanto della vincolatività dell’obbligo di rinegoziare ma anche della sua coercibilità in
forma specifica, un modello di tutela quest’ultimo che pone, già in termini di principio, notevoli difficoltà al
giurista di common law 73. Fondamentalmente, chi attribuisce un qualche significato giuridico alla teoria
nordamericana dei relational contracts tende a sostenere la legittimità dell’intervento giudiziale, in quanto finalizzato
a dare attuazione concreta al programma contrattuale espressione di obblighi di cooperazione e solidarietà a
carico dei contraenti 74. La difficoltà di rinvenire, tuttavia, regole operative che possano dirsi realmente affidabili e
di cui il giudice possa far uso nella sostituzione del mancato accordo delle parti induce più d’un esponente
autorevole in materia di law & economics a contrastare vigorosamente l’ipotesi 75, peraltro mai esitata – se si osserva
almeno la situazione in area statunitense ove s’è maggiormente sviluppato il dibattito – in una vera e propria
tendenza della giurisprudenza, per parte sua poco propensa ad abbandonare il modello classico 76, incentrato
sull’illusione ottica della gestione (meglio si direbbe, della gestibilità) ex ante del rischio da impracticability del
contratto, attraverso la ricostruzione della volontà ipotetica delle parti77.
L’eco dell’articolato – davvero troppo multiforme per essere ripercorso in questa sede – dibattito in
materia di sopravvenienze, contratti di durata e intervento giudiziale svoltosi nella letteratura nordamericana è
Per i riferimenti, v. supra, nt. 22.
Cfr. supra nt. 50.
71 La nota tesi, già ricordata inizialmente, supra nt. 6, è legata all’autorevolezza in materia di Posner, Economic Analysis of Law, Boston, 1973,
pp. 49 ss. (il classico volume è ormai in quinta edizione, New York, 1998, 105 ss., mentre il saggio in cui la materia è stata esaustivamente
trattata è a firma congiunta, Posner e Rosenfield, Impossibility and Related Doctrines in Contract Law: An Economic Analysis, in J. Legal Studies 6
(1977), pp. 90 ss..
72 Nell’ambito di un attento studio sui risvolti giuseconomici dei “contratti incompleti”, cfr. da ultimo Bellantuono, I contratti incompleti fra
economia e diritto, Padova, 2000, pp. 140 ss., spec. pp. 148 ss..
73 Cfr. Pardolesi, Tutela specifica e tutela per equivalente nella prospettiva dell’analisi economica del diritto, in Quadrimestre, 1988, p. 76; da ultimo, ID., in
Cooter, Mattei, Monateri Pardolesi e Ulen, cit., pp. 227 ss..
74 Può essere sufficiente, in questa sede, ricordare Speidel, Court-Imposed Price Adjustments Under Long-Term Supply Contracts, cit., p. 369;
nonché Hillman, Court Adjustments of Long-Term Contracts: An Analysis Under Modern Contract Law, in Duke L.J., 1987, p. 1.
75 Anche in questo caso, solo esemplificativamente: Schwartz, Relational Contracts in the Courts: An Analysis of Incomplete Agreements and Judicial
Strategies, in J. Legal Studies 21 (1992), pp. 271 ss.; nonché dello stesso a., Law and Economics: l’approccio alla teoria del contratto, in Riv. crit. dir.
priv., 1996, p. 427, p. 446; Dawson, Judicial Revision of Frustrated Contracts, cit., pp. 36 ss.; Goldberg, Relational Contract, in The New Palgrave
Dictionary of Economics and the Law, vol. 3, London-New York, 1998, 290; Eisenberg, Relational Contracts, in Good Faith and Fault in
Contract Law, a cura di Beatson e Fiedman, Oxford, 1995, p. 291, p. 300; dal punto di vista del diritto inglese: McKendrick, ibid., p. 305, p.
333.
76 Anche dopo la nota decisione ALCOA, cit., supra, nt. 49. Per più puntuali informazioni sugli sviluppi del dibattito post-ALCOA in
ambiente di common law nordaricano, ci si permette di rinviare a Adeguamento e rinegoziazione, cit., pp. 251 ss..
77 Più ampiamente Bellantuono, I contratti incompleti, cit., pp. 115 ss.; una puntuale revisione della teoria ‘classica’ si legge già in Trimarchi,
Commercial Impracticability in Contract Law: An Economic Analysis, Int. Rev. L.&Econ. 11 (1991), pp. 63 ss..
69
70
13
rimbalzata, evidentemente, anche da noi e ha trovato sensibile al problema la dottrina, la quale ha prospettato
ricostruzioni e soluzioni fra loro diverse, di maggiore o minore apertura verso la soluzione dell’adeguamento
coattivo, da intendersi pur sempre quale ultima ratio, dopo il fallimento della negoziazione libera o magari ‘indotta’
dal giudice78 – sull’ideale scia del caso “ALCOA”, per intendersi - e di scetticismo verso l’intervento giudiziale 79.
La chiave o almeno una delle chiavi per comprendere le diverse sollecitazioni che, nella materia in esame,
giungono allo studioso dal nuovo diritto dei contratti - le appena cennate considerazioni di analisi economica del
diritto in tema di relational contracts e di incompletezza contrattuale non possono che confermarlo – è nella
consapevolezza che la disciplina del contratto non può essere compressa in un sistema incentrato sullo scambio
istantaneo, dovendo necessariamente puntare alla valorizzazione, se si preferisce alla rivalutazione, del contratto
ad effetti obbligatori, troppo spesso sacrificato, forse anche inconsapevolmente, nelle analisi di carattere generale
in favore del modello del contratto traslativo.
Non è, pertanto, solo la distinzione e l’ormai acquisita specialità della disciplina dei contratti con i
consumatori, ma sono anche le numerose regole introdotte nei Principi Unidroit e nei Principi del diritto
europeo dei contratti, richiamate altresì nel già ricordato progetto di Codice di condotta delle società
multinazionali, a porre fortemente in discussione l’unitarietà del sistema codificato. Non meraviglia allora che la
norma, apparentemente residuale all’interno della disciplina della risoluzione del contratto per eccessiva
onerosità, di cui all’art. 1467, 3° comma c.c., che pure consente di individuare un diritto e un correlativo obbligo
di rinegoziare (secondo una ricostruzione che non è possibile ripercorrere in questa sede, intesa, essenzialmente,
a preservare l’effettività del diritto di “evitare la risoluzione” espressamente sancito 80, e che aveva incontrato un
diffuso consenso, al punto di essere indicata a modello di razionalità giuridica in sede di ricodificazione del diritto
dei contratti 81) risulti ‘rovesciata’ nelle regole in tema di hardship contenute nelle raccolte cui s’è fatto appena
riferimento.
Il tentativo di predisporre le regole di un’ideale unitaria disciplina del contratto implica, innanzitutto, la
dovuta enfasi sulla vincolatività del rapporto, che si traduce, per quel che in questa sede maggiormente interessa,
da un lato nella valorizzazione dei rimedi ‘manutentivi’82, con l’attribuzione alla parte pregiudicata dall’hardship del
diritto di chiedere la rinegoziazione (senza dover domandare la risoluzione e subirla effettivamente, nel caso in
cui, secondo la disciplina della risoluzione per eccessiva onerosità ex art. 1467, la controparte non attivi il
meccanismo per conseguire l’equa modificazione delle condizioni del contratto) e di ottenere, in ultima istanza,
una sentenza sostitutiva del mancato accordo modificativo, dall’altro nella limitazione delle cause d’invalidità
tradizionalmente ricollegabili all’incompletezza strutturale della fattispecie (si pensi, ad esempio, alle regole
relative: alla conclusione del contratto con clausole intenzionalmente lasciate in bianco ossia “a future
negoziazioni o alla determinazione di un terzo”, art. 2.14 Principi Unidroit; alla determinazione della qualità della
prestazione o del prezzo, rispettivamente artt. 5.6. e 5.7 Principi Unidroit).
8. L’INCOMPLETEZZA DEL CONTRATTO
Se si volesse sintetizzare una riflessione non poco complessa, decisiva tuttavia per il corretto approccio al
tema della gestione del rischio nei contratti di durata, si dovrebbe ammettere che le ricordate regole lasciano
trasparire l’idea della “incompletezza” del contratto, connotato insopprimibile, dal punto di vista giuseconomico,
dei rapporti che esprimono il modo con cui l’impresa organizza la sua attività 83.
All’opinione dichiaratamente favorevole all’adeguamento giudiziale, già argomentata da chi scrive in Adeguamento e ringoziazione, cit., spec.
pp. 308 ss., con particolare riferimento alla fattispecie normativa di cui all’art. 1467, 3° comma c.c. (e a pp. 420 ss., più in generale)
sembrerebbe offrire autorevole supporto Pardolesi, Regole di “default” e razionalità limitata: per un (diverso) approccio di analisi economica al diritto
dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 1996, p. 462, il quale, pur dichiarando di non essere pronto “a sposare la tesi secondo la quale le corti
dovrebbero imporre le condizioni che ritengono negli interessi di lungo periodo delle parti”, suggerisce – in decisa critica all’atteggiamento
di chiusura espresso da Schwartz nel saggio contestualmente pubblicato nella Rivista critica di diritto privato, cit. supra nt. 75 - “un attivismo
giudiziale nella forma di giustificazioni liberamente accordate alla parte colpita dall’evento, come il primo passo verso una equilibrata
ricontrattazione (che, incidentalmente, potrebbe essere assistita dalla stessa corte …)”.
79 Bellantuono, cit., pp. 150 ss., ragionando sul paradigma legislativo dell’art. 1467, 3° comma, sostiene che sia l’ampliamento delle cause di
esonero che l’ampliamento dei poteri del giudice “trasmettano alle parti segnali contrastanti: (…) l’uno favorirebbe e l’altro
comprometterebbe la revisione volontaria del contratto”.
80 Rinvio a quanto esposto in Adeguamento e rinegoziazione, cit., spec. pp. 290 ss..
81 Sia in Germania, supra nt. 58 che in Olanda, supra nt. 57.
82 Non si può trascurare, in questo contesto, la disposizione sulla sanabilità o correzione dell’inadempimento da parte dell’inadempiente
(art. 7.1.4, Principi Unidroit), salutata con favore da una parte della dottrina (cfr. Di Majo, I principî dei contratti commerciali internazionali
dell’UNIDROIT, in Contr. impr. Europa, 1996, p. 287, p. 296, che ha ravvisato nella regola “una lezione di sano realismo, con la quale si
tende a salvare il contratto”).
83 Lo sviluppo del pensiero giuseconomico in materia, maturato sulla scorta dei fondamentali studi di Coase, cit., supra nt.15, viene
analiticamente riferito da Bellantuono, I contratti incompleti, cit., spec. pp. 66 ss..
78
14
Non soltanto gli economisti, ma anche i giuristi si trovano così a fronteggiare il problema
dell’incompletezza contrattuale e dovranno perciò abituarsi a ragionare in termini positivi e propositivi sulle
tecniche di tutela compatibili con l’ordinamento in evoluzione. Si tratta di vincere la duplice tentazione – a parere
di chi scrive priva di senso e rappresentativa di una battaglia, come suol dirsi, di retroguardia - per un verso di
ricorrere agli strali dell’invalidità, per altro verso di pretendere, anche in questo caso ragionando – sia consentito
– piuttosto semplicisticamente, che l’esecuzione del contratto nel tempo sia governata da regole, convenzionali o
legali, idonee a precludere ex ante qualsiasi spazio al successivo intervento del giudice, garantendo una sorta di
impenetrabilità del contratto dall’esterno anche nel caso in cui le circostanze siano mutate al punto da rendere
inattuabile il risultato pattuito.
L’invalidità del contratto “incompleto” potrebbe soltanto essere il risultato di interpretazioni
esasperatamente formalistiche di talune disposizioni del codice civile (in primo luogo, l’art. 1346 in combinazione
con l’art. 1418), funzionali forse alla soluzione di conflitti riconducibili alla realtà dello scambio istantaneo e del
contratto traslativo ma di certo non immediatamente armonizzabili con la logica del contratto ad esecuzione
protratta nel tempo84, la quale richiede senza dubbio un’analisi più attenta e specifica dell’assetto contrattuale.
Quanto poi all’intervento del giudice ex post, se è vero che lo stesso non potrebbe che avvenire sulla base di
parametri giuridici aperti, non impropriamente definiti, proprio per la loro operatività in relazione alle circostanze
del caso concreto, in termini di “regole di opinione” 85, è altresì innegabile che l’effettività di meccanismi giuridici
più che collaudati e, in molti casi, irrinunciabili nella prassi contrattuale, quali le variegate clausole di
rinegoziazione, potrebbe finire per dipendere proprio dal tipo di approccio adottato 86.
La constatazione secondo la quale vi sarebbe “qualcosa di paradossale nella pretesa di collassare un
futuro indomabile in un progetto ex ante completamente esaustivo”87, manifestata in termini piuttosto espliciti e,
al contempo, riassuntivi delle ragioni per le quali non ci si può accontentare di affrontare oggi il tema del rischio
contrattuale secondo le impostazioni tramandate, potrebbe sembrare prima facie dissonante e, per qualcuno, forse
addirittura dissacrante rispetto alla normativa vigente in materia di contratto e soprattutto all’esigenza che le
regole dei rapporti fra privati siano precisamente stabilite ex ante per effetto di accordo ovvero, in via suppletiva,
per opera del legislatore. A ben vedere, tuttavia, non mancano certo esempi di casi in cui il legislatore stesso ha
correttamente ragionato in questi termini, dettando regole di rapporti contrattuali specifici, le quali assumono
come loro presupposto proprio l’ipotesi che il progetto ex ante non trovi un’assoluta rispondenza nello
svolgimento dell’opera (o del servizio) nel futuro (può essere sufficiente ricordare, in tempi e contesti normativi
completamente diversi, la già menzionata disciplina delle variazioni nell’appalto, art. 1659-1661 c.c. e nel rapporto
di subfornitura, art. 5, 3° comma l. 192/98).
Il riconoscimento della figura giuridica dell’obbligo di rinegoziare appare, nelle menzionate disposizioni,
agevolmente desumibile dalla ratio legis, ancorché quest’ultima non trovi esplicita emersione nel dettato
normativo88. La conseguenza del mancato accordo delle parti, sul piano della tutela giurisdizionale, è costituita
dalla determinazione giudiziale attuata con sentenza, che non potrà non essere intesa al rispetto sostanziale della
proporzionalità, dell’equità, dell’adeguatezza – le formule verbali, tutte evidentemente interscambiabili, almeno a
questo fine, sono varie nel linguaggio legislativo – del rapporto fra le prestazioni (quale che sia l’espressione
specificamente adoperata dal legislatore).
9. CONSIDERAZIONI DI SINTESI
Un esame più approfondito dei molteplici aspetti relativi agli obblighi di rinegoziare, dalla stessa
fattispecie costitutiva che porrebbe, innanzitutto, il problema della validità e dei contenuti delle clausole di
adeguamento mediante rinegoziazione, sino alle modalità di svolgimento e all’efficacia di quest’ultima89, non è
Può essere sufficiente ricordare la disciplina della nullità per indeterminatezza/indeterminabilità dell’oggetto del contratto, di cui all’art.
1346 c.c., non soltanto ignorata dalle raccolte di regole cui s’è or ora accennato ma a, ben vedere, in contrasto con il testo delle regole
specifiche su menzionate, intese a mantenere in vita il rapporto quando può sorgere il dubbio sulla sua ‘completezza’ contenutistica.
85 Sacco [e De Nova], Il contratto, cit., pp. 413 ss..
86 Del resto, di recente è stata prospettata l’utilità della figura giuridica dell’obbligo di rinegoziare nel caso del contratto di mutuo,
validamente stipulato e divenuto usurario soltanto in conseguenza dell’introduzione del “tasso-soglia”, secondo i criteri dettati dalla l.
108/96: cfr. Scoditti, in nota a Cass. 17 novembre 2000, n. 14899, in Foro it., 2001, I, p. 927, proprio nella prospettiva della valorizzazione
dell’aspetto dinamico-funzionale del contratto e dei rimedi connessi all’esecuzione.
87 Così Pardolesi, Regole di “default” e razionalità limitata, cit., pp. 460 ss..
88 Per quanto riguarda la disciplina dell’appalto, ci si permette di rinviare alle considerazioni svolte in La rinegoziazione delle condizioni
dell’appalto, cit., 167 ss.; in tema di subfornitura, cfr. Caso, Subfornitura industrale: analisi giuseconomica delle situazioni di disparità di potere
contrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 1998, p. 243, p. 284; nonché, successivamente, Macario, L’adeguamento del prezzo, cit., 163; Putti, Commento
all’art. 3 l. 192/98, cit., p. 388.
89 Cfr. la già ricordata analisi di V.M. Cesaro, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, cit..
84
15
evidentemente possibile in questa sede90, mentre può essere opportuno cercare di accennare a qualche
considerazione di sintesi.
In primo luogo, quale che sia il rapporto che s’intenda stabilire fra le regole (tendenzialmente specifiche)
e i principi (comunque generali) e, soprattutto, qualunque sia il grado di propensione verso l’operatività di questi
ultimi in termini genericamente solidaristici, con le molteplici varianti terminologiche (proporzionalità,
adeguatezza, equilibrio contrattuale), non si può impedire che, ad un certo punto, si renda necessario l’intervento
del giudice all’interno del rapporto contrattuale e che quella che viene talvolta paventata come una ‘intrusione’
avvenga proprio per ristabilire la proporzionalità, l’adeguatezza, l’equilibrio delle prestazioni (grazie
all’utilizzazione del parametro giuridico valutativo dell’equità, ma anche mediante la valorizzazione della diversa
clausola generale, fondamentale canone di valutazione dei comportamenti, che fa capo alla correttezza e alla
buona fede).
Si dirà che ciò potrà accadere soltanto in casi eccezionali. Così come l’affermazione che precede, la
replica appare scontata: è appunto dei casi eccezionali che ci si deve occupare, quando si considerano gli effetti
giuridicamente rilevanti delle sopravvenienze contrattuali (è sufficiente ricordare le barriere poste dall’art. 1467
c.c. all’operatività della risoluzione per eccessiva onerosità, non smentite dalla disciplina dell’hardship dettata in
altre sedi regolamentari cui s’è fatto cenno, né dalla ricorrente formulazione delle clausole di adeguamento).
In secondo luogo, quale che sia la formula espressiva con la quale si avverte talvolta l’esigenza di ribadire
la distinzione dei ruoli fra le parti di un contratto e il giudice o l’arbitro chiamato a risolvere una controversia,
affermando che questi ultimi “non fanno i contratti, in sostituzione delle parti”, alle quali soltanto compete la
prerogativa di negoziare – anche qui le varianti terminologiche ed espressive non mancano certo e, con un gergo
meno curiale, si potrebbe dire che sono i contraenti che giocano la partita mentre al giudice competono i compiti
arbitrali limitati a controllare e sanzionare - è evidente che, nei casi in cui il giudice interviene sul regolamento
contrattuale decidendo secondo equità (nelle ipotesi più classiche della disciplina generale, previste dagli art. 1374,
1384, 1450, 1467, 3° comma c.c.), egli finisce per mimare, facendo ricorso alle cognizioni di cui dispone
s’intende, quel che avrebbero fatto le parti se avessero agito correttamente nell’ambito dell’autonomia loro
concessa dall’ordinamento (gli ulteriori esempi che potrebbero trarsi dalla disciplina dei singoli tipi contrattuali,
cui s’è anche fatto riferimento nel corso della trattazione, non potrebbero che confermare l’assunto). Per chi
propenda verso una più ampia visione sistematica, non sarà difficile poi scorgere nella disciplina dei diritti reali –
ci si potrebbe riferire, in particolare, alle norme in tema di immissioni e di servitù coattive - analoghe espressioni
della facoltà del giudice di sostituire (con la sentenza determinativa dell’indennità a favore del proprietario il cui
diritto risulti sacrificato) l’accordo economico che proprietari/contraenti di buona fede avrebbero potuto (e
dovuto) raggiungere consensualmente 91.
Come considerazione generale, può la prospettata impostazione del problema del rischio e delle
sopravvenienze nei contratti ad esecuzione prolungata nel tempo rivelarsi il frutto di una concezione
eccessivamente paternalistica della funzione del diritto dei contratti? Il discorso che si schiuderebbe su
quest’ultimo problema è oltremodo complesso e merita tutta ’lattenzione che, recentemente, la dottrina sta
dedicando allo studio di questo tema92. Una notazione semplice, tuttavia, suscitata proprio dall’esame della
disciplina delle sopravvenienze, attiene alla distinzione, ormai da tempo e da più parti sottolineata, del diritto dei
contratti nelle due versioni, rispettivamente a beneficio dei consumatori e a presidio delle relazioni commerciali
fra imprese, spesso enunciate con le sigle in voga, mutuate dal linguaggio universale degli affari “B2B” (Business to
Business) e “B2C” (Business to Consumers), senza che implichi necessariamente l’adozione del modello che, all’esito
di quello che è stato definito “schizzofrenico sviluppo del diritto dei contratti europeo”, tende a riproporre la
Per quanti siano interessati ad approfondire i risvolti teorico-dogmatici degli obblighi di rinegoziare, è certamente da suggerire la lettura
dell’approfodito saggio di Martinek, Die Lehre von den Neuverhandlungspflichten , cit., nt. 23, che già dal titolo (che ricorre all’inequivoca
espressione: “Bestandsaufnahme, Kritik … und Ablehnung”) rende chiara la sua opzione critica e di fermo rifiuto della teoria tendente
all’individuazione di veri e propri obblighi giuridici in tal senso, muovendo l’a. dalla differenza – a suo dire non colta dai fautori della
nuova teoria – fra “Pflicht” e “Obligenheit” (pp. 335 ss.), per poi evidenziare il problema dell’effettività dell’eventuale obbligo (nel senso
di “Sanktionen und Durchsetzbarkeit”) (pp. 341 ss.) e, attraverso l’analisi dei problemi posti dalle clausole di rinegoziazione e dalla
disciplina delle sopravvenienze, giunge alla conclusione secondo la quale, una volta dato ingresso alla figura giuridica in questione, questa
si risolverebbe in un pregiudizio per l’avente diritto e in un vantaggio (in forma di chance) per l’obbligato (con riferimento all’obbligo di
rinegoziare: “sie macht das Recht zur Last und die Pflicht zur Gunst”, p. 399).
91 Si è cercato di ragionare più diffusamente sull’ipotesi in. Adeguamento e rinegoziazione, cit., 267.
92 Si può segnalare la monografia di Grisi, Autonomia privata. Diritto dei contratti e disciplina costituzionale dell’economia, Milano, 1999. Da ultimo,
in margine al citato studio, Somma, Il diritto privato liberista. A proposito di un recente contributo in tema di autonomia contrattuale, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 2001, p. 263. All’argomento ha dedicato pagine dense di spunti di riflessione Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in Giur.
it., 1999, p. 229, affermando che “il giudice ‘non può mettere i piedi nel piatto’ e modificare d’imperio le condizioni dello scambio,
neppure quando la faccia allo scopo di assicurare la ‘giustizia’ sostanziale della transazione” (p. 230).
90
16
distinzione fra codice civile e codice di commercio (o almeno la sua logica di fondo, definitivamente superata con
la codificazione unica non soltanto nel nostro ordinamento)93.
Se ha certamente ragione di porsi, infatti, un problema di valutazione del nuovo diritto dei contratti in
termini di politica legislativa nel settore dei rapporti con i consumatori, essendo ciascuno libero di esprimere la
propria opinione circa le scelte del legislatore (a tutti i livelli, evidentemente, quello nazionale e quello unitario
europeo) così come incidenti sul sistema complessivo ed essendo la giurisprudenza altrettanto libera, per parte
sua, di assecondare le opzioni di fondo di tutela del consumatore, nei casi in cui al giudice sia richiesto o anche
soltanto consentito di applicare clausole generali o individuare principi94, non sembra altrettanto semplice
procedere ad un’analisi di questo tipo con riferimento al comparto dell’attività contrattuale identificata dalla sigla
“Business to Business” (nell’acronimo in voga, B2B).
Gli interventi legislativi direttamente incidenti sulla disciplina dei rapporti contrattuali fra privati sono,
com’è noto, occasionali e dettati da esigenze di fondo diversissime. Basti pensare a due, fra le più significative
discipline ‘integrative’ o ‘complementari’ della normativa codicistica in materia di contratti fra imprese, che
toccano istituti cardine del diritto generale delle obbligazioni e dei contratti: quella relativa alla cessione dei crediti
d’impresa, di cui alla l. 21 febbraio 1991 n. 52, finalizzata alla razionalizzazione dell’incidenza di una rilevante
attività finanziaria sui diritti del ceto creditorio e quella, più recente e già ricordata nelle pagine precedenti,
concernente la subfornitura industriale, di cui alla l. 192/98, volta invece alla tutela dell’imprenditore per
definizione più debole in un rapporto rivelatosi, alla prova dei fatti, particolarmente esposto al rischio di
comportamenti abusivi non sanzionabili se non a seguito dell’intervento ad hoc del legislatore.
Quest’ultima normativa, a ben vedere, può rappresentare – la sua lunga gestazione e il non poco
tormentato iter di maturazione a livello politico possono esserne indiretta conferma – un’eccezionale forma di
regolamentazione legislativa di settore nei rapporti fra imprese private e la logica protettiva appena indicata
rappresenta la ragione che consente, in qualche modo, l’avvicinamento della l. 192/98 alla sempre più variegata
legislazione di protezione del contraente debole (anche in considerazione di talune scelte operative, emergenti dal
contenuto e dalla stessa formulazione delle disposizioni ossia, in un’espressione, dalla tecnica legislativa adottata).
Se così è, anche il paventato pericolo dell’indebita mescolanza dei ruoli sembra decisamente ridotto, se non
annullato, posto che, in ogni caso, l’intervento giudiziale rimarrebbe affidato ad un sistema che ne delinea i
contorni con cautela e lo ammette soltanto in ipotesi di natura eccezionale, rispettandone in tal modo la logica di
ultima ratio connessa ad un ordinamento impostato sull’autonomia dei privati. Altro e diverso – è appena il caso di
dirlo – è il discorso relativo alla portata generale, ormai da più parti riconosciuta, di regole sostanziali (definibili
appunto come disposizioni di principio) quali ad esempio quelle espresse dall’art. 9, l. 192/98, volte alla
moralizzazione, per così dire, della contrattazione fra imprese allorché lo squilibrio (o asimmetria) di potere
contrattuale si presti alla degenerazione in abusivo sfruttamento della dipendenza economica, ricaduta sul piano
squisitamente contrattuale del comportamento scorretto dell’impresa sanzionato, in termini di attività economica,
dalla disciplina antitrust come abuso di posizione dominante sul mercato ritenuto rilevante nel caso specifico 95.
Non è superfluo ribadire, in chiusura, che la fondamentale distinzione, nella tipologia contrattuale, fra
rapporti di durata (in cui l’interesse allo scambio non esclude una sorta di intrinseca natura cooperativa
dell’attività necessaria alla prosecuzione del rapporto nel tempo, naturale contrappeso al rischio del
comportamento opportunistico inevitabilmente connesso all’incompletezza contrattuale) e contratti ad efficacia
istantanea (in cui il rapporto fra le parti si consuma nell’esatto adempimento delle prestazioni così come dedotte
in contratto, che pertanto esige la completezza), dovrebbe condurre al deciso ridimensionamento del formalismo
interpretativo di talune disposizioni normative ove applicate alla realtà contrattuale in esame. E’ il caso, ad
esempio, dell’art. 1346 c.c., cui si faceva cenno in precedenza a proposito del riprovevole uso strumentale della
sanzione di nullità del contratto per indeterminatezza/indeterminabilità dell’oggetto, che soltanto a seguito di
un’interpretazione superficiale potrebbe essere impiegato per decretare la nullità di una clausola di rinegoziazione,
costruita come riserva di determinazione bilaterale a contenuto appunto indeterminabile96.
L’espressione è di Mattei, Il nuovo diritto europeo dei contratti, tra efficienza ed eguaglianza. Regole dispositive, inderogabili e coercitive , in Riv. crit. dir.
priv., 1999, p. 612, il quale auspica il recupero dell’unità, a livello di diritto dei contratti, mediante l’adozione di un codice unico “minimo”
di disposizioni aventi carattere imperativo per tutti, consumatori e non.
94 Emblematica la decisione di Cass. 20 marzo 1996, n. 2369, in I contratti, 1997, 7, la quale, grazie alle più larghe maglie del giudizio di
equità (del conciliatore), consentiva l’operatività della direttiva (nella specie, in materia di contratti negoziati fuori dai locali commerciali)
non recepita tempestivamente, collocandola in ogni caso fra le fonti del diritto rilevanti per l’ordinamento interno, con la conseguenza che
“l’individuazione dei principi regolatori di una determinata materia contrattuale, entro la cui cornice il giudizio di equità del conciliatore
deve svolgersi, non può essere operata soltanto avendo riguardo al modello generale del codice, ma deve altresì tener conto delle
specificità del modello contrattuale di volta in volta considerato”.
95 Per tutti, autorevolmente, Oppo, I principi, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Buonocore, Torino, 2001, p. 72, che parla di un
“principio di ordine generale e di grande momento, capace di moralizzare i rapporti tra imprenditori”.
96 L’opinione si trova già espressa, con maggiore spazio argomentativo, in Adeguamento e rinegoziazione , cit., pp. 338 ss.. In argomento, si
segnala il contributo di Barenghi, Determinazione e determinabilità dell’oggetto del contratto, ed.. provv. (Roma, 2000), nell’ambito di
93
17
Altre volte, la denunciata tendenza ultraformalistica non riesce neanche a sostenere le sue tesi con
l’appoggio di una precisa disposizione di legge e perciò si prospettano confusi timori di esiti interpretativi – per lo
più il timore è dettato dalla sfiducia di principio nell’intervento giudiziale sul regolamento contrattuale genericamente eversivi rispetto al sistema, al fine di contrastare eventuali interpretazioni evolutive della disciplina,
che peraltro dovrebbero costituire la naturale conseguenza di una concezione dell’autonomia privata aperta e
scevra da pregiudizi. E’ il caso, ancora una volta in tema di determinazione dell’oggetto del contratto, della riserva
unilaterale, non prevista ma neanche vietata dal codice civile, diversamente da quanto accade altrove, ad esempio
in Germania, in virtù del § 315 BGB che disciplina la determinazione unilaterale della prestazione con la riserva
del controllo di equità97. Il rischio dell’arbitrarietà (accertabile nel singolo caso concreto) della determinazione
della prestazione effettuata dal contraente non sembra tale da dover necessariamente suscitare la riprovazione
dell'ordinamento nei confronti della clausola in se stessa. Ciò per almeno due ragioni, l’una esprimibile in
negativo, per così dire, l’altra in positivo: in primo luogo, un siffatto divieto non soltanto non è desumibile da
alcuna disposizione generale in materia di obbligazioni e contratti ma il legislatore, quando ha inteso proteggere la
controparte dalla determinazione unilaterale del contraente ha reso esplicito il divieto (sintomatica la disposizione
dell’art. 6, 1° comma l. 192/98, soprattutto per la cautela con cui è stata disposta la nullità, con la salvaguardia
degli accordi di “precisazione” nell’interesse del committente); secondariamente, possono rinvenirsi indici nella
disciplina generale delle obbligazioni (viene talvolta, ad esempio, ricordato l’art. 1285 c.c.) e in quella di numerosi
contatti tipici dai quali desumere l’ammissibilità della determinazione successiva del contraente, disponendo, in
ogni caso, l’ordinamento di un sufficiente armamentario di regole generali, o se si preferisce dei principi, per il
controllo sul comportamento corretto dell’avente diritto 98.
Quest’ultima considerazione conduce, indubbiamente, al nuovo approccio con il quale è necessario
affrontare i problemi attuali del diritto dei contratti - chi vuole, potrà anche definirlo di tipo tendenzialmente
giusrealistico – facendo precedere l’attento esame della realtà economico-sociale che il fenomeno giuridico
presuppone al suo inquadramento concettuale, pur necessario alla coesione sistematica, tanto più in un momento
(quale è quello attuale) in cui il sistema si rivela in costante movimento, con una rapidità e soprattutto una
vivacità certamente sconosciuta alle generazioni di giuristi del passato. E’ possibile che si avverta, in questo
modo, la sensazione di operare senza un apparato di regole legislative integralmente precostituito ex ante, e quindi
la difficoltà di dover fare i conti con una complessità normativa e, lato sensu, regolamentare, che impone di
ragionare spesso per principi, rivalutando di conseguenza anche il ruolo delle clausole generali all’interno dei
un’approfondita ricerca, anche di carattere comparativo, che permette di mettere in chiaro le notevoli incongruenze di taluni pregiudizi
dal carattere piuttosto tralatizio in materia di oggetto del contratto. La giurisprudenza (richiamata puntualmente anche dall’a. cit.),
addirittura a ridosso dell’entrata in vigore del codice civile, aveva con estrema chiarezza rigettato la domanda di nullità di un patto di
determinazione successiva del corrispettivo mediante accordo fra le parti, riconoscendo l’esistenza di un “obbligo a cooperare” fra le parti,
le quali “possono sempre validamente obbligarsi, con immediata efficacia, su uno o più punti di un contratto complesso, rinviando ad un
momento successivo l’accordo su altri punti, purché questi, anche se connessi con i primi, non ne rappresentino elementi essenziali, né
tali siano stati considerati dai contraenti”; sull’operatività concreta della pattuizione, il ricorso all’art. 1349 c.c. forniva il necessario
referente normativo, ritenendo la Corte indubbio che “dalla norma particolare possa trarsi in via analogica il principio che, come nel caso
di determinazione rimessa ad un terzo, quando le parti si siano riservate di stabilire di accordo, in un momento successivo, uno degli
elementi del contratto, sia implicito l’equo apprezzamento” (Cass. 11 agosto 1947, n. 1492, in Foro it., 1948, I, 958, 962). Per una più
recente applicazione, particolarmente significativa nell’ambito della riflessione sui contratti di durata (trattandosi di un rapporto di catering),
dell’art. 1349, cfr. Trib. Roma, 6 luglio 1995, in Foro it., 1996, I, p. 708, che ha inteso la norma come espressiva di un principio generale,
tale da legittimare, quindi, anche in assenza del rinvio convenzionale alla determinazione del terzo, la sostituzione giudiziale (nella specie,
in via cautelare e urgente ex art. 700 c.p.c.) della pattuizione contrattuale di riferimento per la determinazione del prezzo, venuta meno a
causa della riscontrata mancanza del parametro di indicizzazione pattuito.
97 In argomento, diffusamente Barenghi, Note sull’arbitramento della parte, in Studi in onore di Pietro Rescigno, III. Diritto privato, 2. Obbligazioni
e contratti, Milano, 1998, pp. 65 ss., con particolare attenzione proprio al diritto tedesco.
98 Riferendosi al potere di scelta nell’obbligazione alternativa, ex art. 1285 c.c., Bianca, Diritto civile, Il contratto, Milano, 1987, p. 335;
imposta invece il ragionamento che conduce all’ammissibilità della determinazione sull’analogia della fattispecie con quella della
devoluzione al terzo, Criscuolo, Arbitraggio e determinazione dell’oggetto del contratto, Napoli, 1995, pp. 345 ss.; cautamente favorevole appare
anche CARRESI, Il contratto, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 1987, 235.
Specialmente in considerazione dell’indagine incentrata sui contratti di durata, la questione si pone come limitrofa a quella, ai nostri giorni
particolarmente dibattuta, dell’ammissibilità della facoltà riservata al contraente di modificare il contenuto delle prestazioni. In argomento,
la più convincente dimostrazione, in termini sistematici, dell’apertura dell’ordinamento nei confronti dello ius variandi, è indubbiamente in
Schlesinger, Poteri unilaterali di modificazione (“jus variandi”) del rapporto contrattuale, in Giur. comm., 1992, I, p. 18 (e in Il contratto. Silloge in onore di
Giorgio Oppo, I Padova, 1992, p. 413), all’esito di una ricca rassegna di ipotesi legislative che inducono a ritenere “opportuno un
atteggiamento più aperto a considerare il rapporto contrattuale come suscettibile di subire modificazioni di varia natura e fonte”. Da
ultimo, pone in luce la complessità del quadro di riferimento Roppo, Il contratto, cit., p. 356 e pp. 557 ss., prospettando le due soluzioni
alternative in caso di ius variandi non previamente delimitato e quindi ad alto grado di discrezionalità, nel senso della nullità della clausola
e, con valutazione evidentemente a posteriori, del controllo sulla correttezza dell’esercizio del potere di rideterminazione o adeguamento
della prestazione. In un ampio e documentato panorama di diritto comparato, Barenghi, Determinazione e determinabilità dell’oggetto del
contratto, cit., supra, nt. 96.
18
rapporti fra privati99. Ciò non può comportare, tuttavia, necessariamente il timore che l’intervento del giudice a
fini di giustizia sostanziale sia visto come lesivo dell’autonomia privata e, pertanto, assuma una colorazione e un
senso destabilizzante rispetto al sistema delle regole formali100.
Il messaggio che viene dal nuovo diritto dei contratti appare chiaro, per chi sia disposto ad intenderlo
ovviamente, e impegna significativamente in primo luogo la dottrina civilistica, che non può più limitarsi a
registrare i nuovi dati legislativi compiendone, nel migliore dei casi, una diligente esegesi, ma deve anche
contribuire alla formazione di una diversa mentalità a beneficio, sia di un legislatore che si trova ad operare in un
ambiente giuridico assai più vasto rispetto al passato e, soprattutto, molto più articolato, sia di una giurisprudenza
chiamata a dare attuazione ai diritti dei privati in funzione di elementi e criteri di valutazione che potrebbero
esigere uno sforzo di creatività della regola del caso anche notevole, ma comunque necessario, proprio per dare
adeguatamente ragione della complessità dell’ordinamento in cui operiamo e dell’esigenza di giustizia sostanziale
che dovrebbe essere alla base di qualsiasi approccio al fenomeno giuridico.
Francesco Macario
Ordinario di Istituzioni di diritto privato
Università di Foggia
La considerazione, va da sé, non può essere limitata alla disciplina dei contratti dei consumatori, in cui il comportamento corretto del
“professionista” è più o meno puntualmente ‘regolamentato’ con riferimento ai diversi momenti della sua attività economica (piuttosto
che nel rapporto contrattuale sticto sensu inteso), ma investe anche il nuovo assetto che va assumendo il cosiddetto settore “B2B” (cfr.
Pardolesi, Diritto dei consumatori ed eliminazione degli squilibri: verso una riscrittura giudiziale del contenuto dei contratti, in Disciplina comm., 1999, p. 9,
p. 17; nonché gli atti pubblicati dell’incontro di studio, Les clauses abusives entre professionels, a cura di Jamin e Mazeaud, tenutosi a Parigi, 23
maggio 1997), almeno per chi sia disposto ad attribuire un significato, se non certamente in chiave di effettività normativa almeno in una
prospettiva di analisi della cultura giuridica espressa da una determinata epoca, ai fenomeni regolamentari cui s’è fatto riferimento (Principi
Unidroit, PECL etc.). Per una più articolata riflessione sul tema, ci si permette di rinviare al saggio I diritti oltre la legge. Principi e regole del
nuovo diritto dei contratti, in Studi in onore di Pietro Rescigno, III. Diritto privato, 2. Obbligazioni e contratti, Milano, 1998, p. 483, spec. pp. 508
ss., pp. 517 ss..
100 L’ampio dibattito che si sta svolgendo sulla “giustizia contrattuale”, e che ha suscitato un particolare interesse anche in Francia (v. supra,
nt. 42), non consente di aderire ad opzioni radicali, ma impone di considerare attentamente i motivi e le implicazioni della questione,
sostanzialmente connaturale alla stessa disciplina dell’autonomia privata. Se è vero che, almeno nei contratti fra imprese, quella
dell’equilibrio contrattuale costituisce “una pagina che deve essere ancora scritta (se pure lo sarà)” (così De Nova, Contratto: per una voce,
cit., p. 655), gli elementi per alimentare il dibattito non mancano, soprattutto se ci si pone nell’ottica dei rimedi contrattuali.
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