GliannidellacocainadeldottorFreud

Transcript

GliannidellacocainadeldottorFreud
Corriere del Ticino
CULTURA&SPETTACOLI
MARTEDÌ 16 AGOSTO 2011
29
Gli anni della cocaina del dottor Freud
Uno studio ripercorre il ruolo delle droghe nella fondazione della psicoanalisi
zxy «Sto raccogliendo informazioni circa
la cocaina, il principio attivo contenuto
nelle foglie di coca che alcune tribù di
Indiani americani usano per resistere
alla fatica e alle privazioni». Questa lettera, scritta il 21 aprile del 1884 dal giovane Sigmund Freud alla sua futura moglie Martha Bernays, può essere considerata la testimonianza dell’inizio della cosiddetta «storia d’amore» tra Freud
e la cocaina, una storia durata dodici anni. Esiste una relazione tra l’uso della cocaina che fece in quegli anni il giovane
dottor Freud, neurologo presso l’Ospedale Generale di Vienna, e la teoria della psicoanalisi che elaborò negli anni
successivi? Quale il motivo all’origine
dell’allontanamento dalla cocaina da
parte del «padre» della psicoanalisi? Su
questi argomenti – peraltro già affrontati da storici della psicoanalisi come Peter Swales – ritorna uno studio scritto da
Howard Markel, professore di Storia della medicina presso l’Università del Michigan, intitolato An anatomy of addiction , avanzando nuove ipotesi. Prima
però di discutere circa il rapporto tra cocaina e psicoanalisi, è utile ricordare
l’ambiente sociale e culturale di quel periodo. Nella seconda metà dell’800 e fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’uso di sostanze attive sul sistema
nervoso era molto diffuso, sia per cercare di curare malanni di vario genere sia
per provare piacevoli sensazioni: quanto al modo, non c’era che l’imbarazzo
della scelta, portafoglio permettendo.
Nel secondo Ottocento l’impiego di sostanze psicotrope
era largamente diffuso
L’alcol era il mezzo più economico ma
senza spender troppo c’era il laudano,
l’assenzio, la morfina e anche ritrovati
singolari, come i primi anestetici. C’era,
per esempio, il cloroformio ma di gran
moda era il «laughing gas», il «gas esilarante» o protossido d’azoto, usato come
anestetico soprattutto dai dentisti e che,
a basse dosi, procurava un’euforia tale
da sganasciarsi dalle risate: ci si trovava
in compagnia, uno (solitamente un dentista o un suo amico) portava una boccetta di gas e il party ridanciano aveva
inizio. E poi c’era lei, la cocaina, allora
liberamente in vendita. Andavano molto gli sciroppi alla cocaina e gli infusi alcolici preparati con la macerazione di
foglie di coca nel vino, come il famosissimo «Vin Mariani» del chimico francese Angelo Mariani, un Bordeaux alla cocaina: i giornali e i muri delle città erano pieni di pubblicità di questo vino speciale, raccomandato per ogni sorta di
malanno. Lo bevevano anche gli Zar di
Russia, scrittori famosi come Dumas,
Verne, Zola, attori e attrici come la Du-
PSICHE E SCIENZA Sigmund Freud si è interessato dell’uso di sostanze che agiscono sul sistema nervoso per portare
avanti i suoi studi. Tra le molte in commercio il famoso «Vin Mariani», a base di foglie di coca.
se e la Bernhardt: perfino due Papi, Leone XIII e Pio X ne apprezzavano le «virtù terapeutiche». E poi la Coca-Cola, che
dal 1886 divenne la concorrente del Vin
Mariani: per chi la preferiva, c’era la cocaina in polvere. Nessuno, allora, nemmeno i medici, riteneva che l’uso «popolare» della cocaina e di altre droghe
potesse creare dipendenza: i fatti, in seguito, dimostrarono drammaticamente
che non era così.
Come molti, Freud incominciò ad assumere cocaina per superare brevi episodi di depressione e di ansietà ma anche per essere più brillante in società:
«La cocaina – scriveva – è capace di far
diventare buoni i giorni cattivi e ottimi
quelli buoni. Inoltre, rende sopportabile il dolore di essere Sigmund». Il suo interesse per la storia, l’uso, la farmacologia della cocaina è tale che decide di
«raccogliere ogni notizia circa questa
magica sostanza allo scopo di scrivere
un poema in sua gloria»: il «poema» sarà il saggio «Uber Coca» pubblicato nel
luglio del 1884. Nel suo libro, Markel nota come quest’opera costituisca una
svolta nelle ricerche di Freud: «La caratteristica più evidente in “Uber Coca”
– osserva Markel – è che Sigmund inclu-
de le proprie sensazioni ed esperienze
psichiche nelle osservazioni scientifiche, introducendo un carattere letterario che diventerà la caratteristica del suo
futuro lavoro psicoanalitico: se stesso».
D’ora in poi, applicherà se stesso e, in
seguito, i suoi pazienti per creare una
teoria universale della mente e della natura umana. Anche uno dei più autorevoli studiosi di Freud, Peter Swales, suggerisce che la libido di Freud sia solamente una maschera e un simbolo della cocaina.
Il fantasma invisibile della
droga è costantemente presente negli scritti freudiani
La droga, o piuttosto il suo fantasma invisibile, è costantemente presente in tutti gli scritti freudiani. Lo stesso Freud ripetutamente ricordava che «le nevrosi
hanno una chiara rassomiglianza con le
condizioni causate da sostanze psicoattive».
Il crescente interesse di Freud per gli ef-
fetti psichici della cocaina non gli permette di applicare nella pratica medica
un effetto della droga che pure aveva
notato, quello di anestetico locale per
la cute e le mucose. Di questo si accorge invece un oftalmologo dello stesso
Ospedale Generale di Vienna, Karl Koller, che utilizza la cocaina come anestetico locale nel corso degli interventi di
rimozione della cataratta. Koller finisce
in prima pagina dei giornali di tutto il
mondo e Freud non la prende bene: invidioso, cerca in modo maldestro di attribuirsi il merito di aver suggerito lui a
Koller questa tecnica, ma non gli credono. Inviando una copia del suo «Uber
Coca» a Koller, Freud scrisse la dedica:
«Al mio amico Coca Koller, da parte di
S. Freud». Ma gli anni della cocaina, furono anche segnati da un tragico episodio che colpì fortemente Freud, la morte del suo amico e collega Ernst von
Fleisch-Marxov, morfinomane: Freud,
come altri medici, pensava che la cocaina avrebbe liberato Ernst dalla dipendenza, ma gli provocò la morte.
Come riuscì Freud, nel 1896, a interrompere per sempre l’abitudine di assumere cocaina? Intanto non sappiamo davvero se fosse veramente dipendente,
d’altronde egli stesso negava che la cocaina potesse fare questo effetto: oggi,
invece, sappiamo bene che la cocaina
può dare spesso forte dipendenza, inferiore solo a quella da eroina. Sia come sia, nelle opere di Freud da quell’anno non ci sono più riferimenti alla cocaina. Markel ritiene che uno dei motivi sia stata la conseguenza del famoso
sogno di Irma, la cui interpretazione sarà uno dei fondamenti della prima opera psicoanalitica, «L’interpretazione dei
sogni» pubblicata nel 1899-1900. La sera del sogno, Freud assunse cocaina e
nel sogno vide una sua amica e paziente, Irma, alla quale il medico di famiglia
somministrava una iniezione che ne
metteva in pericolo la vita: questo sogno è stato considerato come la manifestazione del senso di colpa dopo l’assunzione della cocaina. Markel aggiunge però un altro dato interessante. Una
trentina d’anni dopo la pubblicazione
di «Uber Coca», Freud scriveva che «lo
studio sulla cocaina mi aveva distratto
da serie responsabilità e avevo il desiderio di concludere quell’esperienza».
Verso il 1896, osserva Markel, Freud organizza la sua vita in modo meticoloso
e rigoroso: si sveglia prima delle sette e
organizza la giornata fino a tarda sera
in modo da soddisfare le richieste delle sempre più numerose persone che gli
chiedono aiuto, arrivando a ricevere anche più di dodici pazienti ogni giorno.
Inoltre c’è lo studio, gli incontri con i colleghi, la stesura degli scritti, le conferenze. Freud non ha più alcuna curiosità per la cocaina che definì «un interesse collaterale, anche se profondo».
Ormai, per sondare il mistero della psiche, ha altri strumenti.
SERGIO SCIANCALEPORE
HOWARD MARKEL
AN ANATOMY OF ADDICTION
PANTHEON, pagg.317, $ 28.95.
Les Diablerets: un messaggio inquietante dal Piccolo Tibet
Il Filmfestival montagna ha premiato un documentario di denuncia sul riscaldamento globale del pianeta
ERHARD LORETAN La 42. edizione del Filmfestival ha voluto rendere omaggio all’alpinista svizzero recentemente scomparso.
zxy Nel Ladakh (denominato anche Piccolo Tibet) una piccola comunità, che
vive di agricoltura e pastorizia in una
delle sue valle più discoste, è confrontata con un fenomeno naturale che le
generazioni precedenti non avevano
mai visto: manca l’erba per il pascolo,
i corsi d’acqua sono ridotti a rigagnoli,
i giovani si interrogano sul loro futuro
e sulla necessità di trasferirsi nella capitale (Leh) per poter sostenere le loro
famiglie. Il riscaldamento globale del
pianeta ha sovverito ritmi ancestrali: lo
percepisce anche l’anziano protagonista, che tuttavia cerca di convincere il
figlio a non abbandonare la terra degli
avi. Anzi, si offre come «emigrante», per
non gravare sul bilancio della famiglia.
Ma probabilmente sono soprattutto le
espressioni, la mimica, i volti (più che
lo scambio di frasi brevi, comunque
dense di preoccupazioni) che hanno
convinto la giuria del Filmfestival montagna di Les Diablerets ad assegnare il
premio più alto, il Grand Prix du Festival, a The broken moo dei brasiliani
Marcos Negrao e André Rangel.
La 42.ma edizione della rassegna nella località turistica della Romandia si è
svolta all’insegna dell’omaggio alla memoria di Erhard Loretan, che proprio
un paio d’anni or sono aveva presieduto la giuria. E che al festival, come romando, aveva sempre riservato le migliori attenzioni.
Il numero contenuto di film in competizione ha avuto il pregio di una selezione accurata e addirittura di una
«prima mondiale». Si tratta di Sherkan,
l’aquila del Monte Bianco del francese
Jacques-Olivier Travers, che ha ottenuto il «premio del pubblico», accorso numeroso nella settimana della rassegna. Nata in cattività, l’aquila dodicenne non solo impara a dispiegare le
ali ad alta quota, ma diventa «portatrice» di una telecamera che assicura riprese mozzafiato e atterraggi sul brac-
cio del falconiere-regista, a sua volta
libratosi in volo con il deltaplano. L’artificio delle riprese con microcamere
montate su animali non è una novità,
anche nel contesto del «cinema alto»,
che si esprime nelle rassegne da Locarno a Cannes: ma nel caso dell’aquila si trattava, per Jacques-Olivier Travers, di andare oltre lo scetticismo di
falconieri ed esperti di scienze animali, per documentare una formidabile
avventura umana e scientifica. Anche
Ueli Steck, in un certo senso «si alza in
volo» con la formidabile progressione
sulla parete nord dell’Eiger, scalata
dapprima in meno di tre ore e poi in
meno di due ore e mezzo: L’uomo più
veloce sulla montagna (una riedizione
più accurata rispetto a quella presentata in altri festival, premiata a Les Diablerets con il Diavolo d’oro sport estremi) presenta non solo le straordinarie
immagini della salita, ma anche le riflessioni del protagonista sul senso ul-
timo dell’incontro-confronto con la
verticalità. Uno stile, quello basato sulla progressione veloce, che raccoglie
più critiche che consensi: ma indubbiamente uno spostamento dei parametri alpinistici, che merita attenzione e rispetto.
Da Russia selvaggia, Kamchatka (Premio per la miglior fotografia) a Sulle
tracce di Tintin, Tintin nel Tibet (Premio speciale della giuria) e agli altri film
che hanno ottenuto uno dei dieci riconoscimenti: ancora una volta l’équipe
guidata dal direttore Jean-Philippe
Rapp ha trasmesso un’immagine convincente di questo festival ormai radicato nel contesto alpino, che avrà un
puntuale riflesso, con la proiezione di
una pellicola premiata a Les Diablerets
(unitamente a quelle di altre analoghe
rassegne), anche al Festival dei Festival di Lugano, in cartellone all’inizio di
settembre.
PIERGIORGIO BARONI