il prelievo di sangue in vena costituisce un intervento invasivo della

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il prelievo di sangue in vena costituisce un intervento invasivo della
§ - il prelievo di sangue in vena costituisce un intervento invasivo della sfera corporale della persona che, pur se
appartenente alla ordinaria amministrazione nella pratica medica (cfr. C. cost., sentenze n. 54 del 1986, 194 del 1996
e 238 del 1996), ove non eseguito da soggetti professionalmente preparati e secondo precise tecniche e
metodologie, è idoneo a ledere l'integrità fisica o addirittura la salute della persona su cui detta attività si compie.
Esso dunque è estraneo alla specificità dei compiti del biologo, pur se tra questi rientra l'analisi di campioni
ematici. L'analisi del sangue presuppone certamente una attività di prelievo, ma non consiste affatto in essa,
estrinsecandosi solo nell'esame, secondo determinate metodologie, di campioni di sangue precedentemente
acquisiti (www.dirittosanitario.net)
Sez. penale - Sentenza n. 32553 del 25-08-2005
Depositato in Cancelleria il 25 agosto 2005
Svolgimento del processo
omissis
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Catania confermava la sentenza in data 23 ottobre 2002 del Tribunale di
Siracusa, appellata da P.P., limitatamente alle imputazioni di cui ai capi A e B, unificate dalla continuazione, e determinava
la pena in euro 300 di multa, ferma restando la condanna al risarcimento in favore della parte civile Ordine dei medici della
Provincia di Siracusa.
Ad avviso della Corte di appello, doveva ritenersi provato, sulla base di varie deposizioni testimoniali, che l'imputato, biologo
e direttore del laboratorio di analisi cliniche privato "Bioline", con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso,
aveva esercitato abusivamente la professione medica effettuando prelievi ematici senza essere in possesso della laurea in
medicina e senza avvalersi nel proprio laboratorio della collaborazione di un laureato in medicina (capi A e B; in Siracusa
dall'aprile 1998 al 19 maggio 1999).
Ricorre per Cassazione l'imputato di persona, deducendo:
1. Inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 500 c.p.p. e vizio di motivazione in punto di valutazione delle prove
dichiarative: - non si è considerato l'interesse delle due coimputate infermiere professionali D. Giusi e B. Marcella ad
alleggerire la loro posizione processuale e l'interesse di altri collaboratori del laboratorio a non essere coinvolti nel processo;
- non si è tenuto conto del contrasto tra dichiarazioni investigative e dibattimentali che caratterizzava le deposizioni della R.,
della R. e della M..
2. Erronea applicazione dell'art. 348 c.p. in relazione all'art. 3 della l. 24 maggio 1967, n. 396:
- dopo la sentenza della Sesta sezione penale della Cassazione cui si è rifatta la Corte di appello (n. 1632 del 6 dicembre
1996), la competenza dei biologi a effettuare prelievi ematici è stata affermata dal Consiglio Superiore della Sanità con
parere del 3 ottobre 2001 e dalla conseguente nota del Ministero della Sanità prot. DIRP/3/BIQU/OU 10014/02 dell'8 luglio
2002, a condizione che i biologi abbiano seguito (come nel caso del dott. P.) unadeguato percorso professionale postlaurea, nonchè dal TAR Lazio con la sentenza n. 912 del 22 gennaio 2004; e mentre nel caso allora esaminato dalla
Cassazione il provvedimento autorizzativo conteneva l'esplicita prescrizione che per i prelievi di sangue dovesse essere
impiegato un medico o un infermiere professionale, nel caso di specie nel provvedimento riguardante il dott. P. non era
espressa detta limitazione.
3. Inosservanza dell'art. 5 c.p., come risultante dalla sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale, per omesso
riconoscimento dell'errore scusabile, dato che il P. si era comunque basato sul provvedimento autorizzatorio che non gli
poneva limitazioni quanto ai prelievi ematici e considerato che mentre la giurisprudenza di merito era tutta orientata nel
senso della liceità per i biologidi effettuare prelievi ematici finalizzati alla analisi, la sentenza della Cassazione sopra citata
era divenuta praticamente conoscibile attraverso le riviste giuridiche solo nel corso del 1998. 4. Inosservanza dell'art. 491
c.p.p., dato che doveva ritenersi inesistente la costituzione di parte civile dell'Ordine dei Medici, che dopo la declaratoria di
nullità del primo decreto di citazione a giudizio non aveva provveduto a reiterare la costituzione; vizio, questo, certamente
rilevabile in ogni stato e grado del procedimento.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.
1. Con un primo motivo, il ricorrente contesta l'attendibilità delle dichiarazioni rese dalle infermiere D. e B. - che avrebbero
avuto un preciso interesse a scaricare sul P. ogniresponsabilità - e sottolinea le contraddizioni tra le deposizioni delle testi
R., La R. e M..
Tali rilievi sono inammissibili, perchè tendenti a sottoporre alla Corte di legittimità una diversa interpretazione della portata e
del significato delle fonti di prova, su cui la Corte di appello ha reso una motivazione completa e priva di vizi logici. Non è
chiarito del resto quale interesse le infermiere professionali D. e B., che erano abilitate a effettuare prelievi ematici,
potevano avere a rappresentare falsamente che anche l'imputato vi provvedesse. E, quanto alle deposizioni delle testi R.,
La R. e M., queste, contrariamente a quanto dedotto, non sono cadute in alcuna contraddizione, avendo concordemente
riferito circa l'effettuazione di detti prelievi da parte del P.
2. Quanto alla dedotta violazione di legge, il Collegio esprimeadesione ai principi affermati dalla sentenza emessa da questa
stessa Sezione alla udienza del 6 dicembre 1996, ricorrente Manzi, i quali vanno pertanto qui ripercorsi. L'art. 3 della legge
24 maggio 1967, n. 396 definisce l'oggetto della professione di biologo. In particolare, per quel che qui interessa, il primo
comma del citato articolo, alla lettera g), prevede che formano oggetto della riferita professione le "analisi biologiche (urine,
essudati, escrementi, sangue); sierologiche, immunologiche, istologiche, di gravidanza, metaboliche". Inoltre, il secondo
comma dispone che l'elencazione delle varie attività previste dal comma precedente "non limita l'esercizio di ogni altra
attività professionale consentita ai biologi iscritti nell'albo, nè pregiudica quanto può formare oggetto dell'attività di altre
categorie di professionisti, a norma di leggi e regolamenti".
L'assunto del ricorrente è che l'attività di prelievo ematico venoso, da un lato, non è di competenza esclusiva degli iscritti
all'albo dei medici-chirurghi, come dimostra il fatto che essa rientra anche nelle competenze degli infermieri professionali e
delle ostetriche, dall'altro deve ritenersi rientrare nelle competenze proprie dei biologici, in quanto prodromica all'esecuzione
di ricerche o di analisi biologiche sul campione di sangue prelevato. Va in proposito osservato che in realtà il prelievo di
sangue in vena costituisce un intervento invasivo della sfera corporale della persona che, pur se appartenente alla ordinaria
amministrazione nella pratica medica (cfr. C. cost., sentenze n. 54 del 1986, 194 del 1996 e 238 del 1996), ove non
eseguito da soggetti professionalmente preparati e secondo precise tecniche e metodologie, è idoneo a ledere l'integrità
fisica o addirittura la salute della persona sucui detta attività si compie. Esso dunque è estraneo alla specificità dei compiti
del biologo, pur se tra questi rientra l'analisi di campioni ematici. L'analisi del sangue presuppone certamente una attività di
prelievo, ma non consiste affatto in essa, estrinsecandosi solo nell'esame, secondo determinate metodologie, di campioni di
sangue precedentemente acquisiti.
D'altro canto, se vero che il secondo comma dell'art. 3 della citata legge professionale consente ai biologi iscritti nell'albo
attività ulteriori rispetto a quelle tipicamente elencate nel primo comma, tale disposizione prevede espressamente anche
che simili ulteriori attività siano attribuite alla competenza dei biologi da leggi o regolamenti. E nessuna fonte normativa,
primaria o regolamentare, abilita i biologi ad effettuare prelievi di sangue finalizzati all'analisi.
Non assume rilievo il fatto che l'attività di prelievo di sangue venoso non sia attribuita alla esclusiva competenza dei medici,
potendo essa essere effettuata anche da ausiliari della professione medica (infermieri professionali o ostetriche: v. d.P.R. 14
marzo 1974, n. 225 e d.P.R. 7 marzo 1973, n. 163). Ciò conferma anzi che solo una fonte normativa può consentire a
soggetti diversi da quelli esercitanti la professione di medico interventi invasivi della sfera corporale, sulla base di un
ragionevole riconoscimento di competenze tecniche e professionali. Sicchè ben potrebbe il legislatore attribuire
espressamente simili competenze anche ai biologi, in connessione con le attività di analisi ad essi proprie,
subordinatamente al possesso di particolari requisiti abilitanti (specifico corso di studi, esami integrativi, o altro).
Rimane per fermo allo stato attuale della normativa, che i biologi, sia pure preposti a laboratori di analisi, non sono abilitati a
effettuare prelievi di sangue in vena (cfr. anche C. cost., sentenza n. 29 del 1990), sicchè ove si verifichi una simile attività
da parte di un biologo, il fatto integra esercizio abusivo della professione medica (o paramedica) a norma dell'art. 348 c.p.,
in relazione all'art. 100 t.u.l.s. di cui al r.d. 27 luglio 1934, n. 1265. 3. A sostegno della fondatezza del suo assunto, il
ricorrente richiama la sentenza del T.A.R. del Lazio, sez. 3^-ter, in data 22 gennaio 1994, che, ha rigettato il ricorso
proposto dall'Ordine dei Medici della Provincia di Napoli avverso una deliberazione della Giunta regionale della Campania
(n. 2125 del 20 giugno 2003) con laquale si autorizzavano i biologi all'esercizio dell'attività di prelievo ematico finalizzato agli
esami di laboratorio.
Per il vero, detta sentenza esprime adesione ai principi enunciati nella ricordata decisione di questa Corte in data 6
dicembre 1996, pur ritenendo che l'attività di prelievo ematico può essere esercitata anche da biologi alle condizioni e nei
limiti indicati nel parere del Consiglio Superiore di Sanità in data 3 ottobre 2001 e nella direttiva del Ministro della salute n.
10014/02 dell'8 luglio 2002.
In detti atti - che, è bene sottolineare, sono successivi ai fatti oggetto del presente procedimento - si ritiene consentita
l'attività di prelievo da parte dei biologi solo in presenza di determinate condizioni. Più dettagliatamente, nella direttiva
ministeriale si distingue tra biologi in servizio presso strutture del Servizio sanitario nazionale e biologi operanti in strutture
sanitarie private. E mentre ai primi l'attività di prelievo ematico finalizzato all'analisi di laboratorio è consentita quando
abbiano acquisito uno specifico diploma post-laurea e al contempo possiedano competenze tecnico- pratiche certificate
dalla direzione sanitaria della struttura pubblica di appartenenza, per i secondi lo svolgimento di detta attività è subordinato
non solo all'espletamento del medesimo corso formativo post-laurea ma anche alla presenza medica durante i prelievi, i
quali debbono poi essere necessariamente eseguiti presso apposite sale delle strutture di laboratorio per finalità
diagnostiche.
Il Collegio ritiene che tali aperture alla attività di prelievo ematico da parte dei biologi non siano condivisibili, dovendosi
confermare che solo una norma di legge o di regolamento possa abilitare queste figure professionali ad attività ulteriori
rispetto a quelle tipicamente elencate nel primo comma dell'art. 3 dellacitata legge n. 396 del 1967. Il tutto considerando che
la tutela della salute ha rango costituzionale ( art. 32 Cost.) e che essa rientra nell'ambito della legislazione concorrente tra
Stato e Regioni ( art. 117 terzo comma Cost.).
Ma, anche ammettendo che gli accennati provvedimenti amministrativi possano costituire una base giuridica per lo
svolgimento di attività di prelievo ematico da parte dei biologi - nonchè, ex post, per quella concretamente svolta dal P. - il
fatto è che il ricorrente ha solo affermato, e solo in sede di ricorso per Cassazione, senza fornirne al riguardo alcuna
dimostrazione, di averesvolto un adeguato percorso formativo post-laurea". Per di più, proprio stando alla direttiva
ministeriale, il Pitruzzello, operando in una struttura privata, non avrebbe potuto comunque effettuare prelievi ematici se non
con la presenza in laboratorio di un medico; circostanza che non ricorre nel caso di specie, come è stato puntualmente
accertato dai giudici di merito.
4. Il ricorrente, con il terzo motivo, ha denunciato la violazione dell'art. 5 c.p., per mancato riconoscimento dell'errore
scusabile, come definito dalla sentenza n. 364 del 1998 della Corte costituzionale. Ma nella fattispecie in esame non può
dirsi che l'imputato sia caduto in errore scusabile sulla norma integrativa del precetto penale (in particolare, circa la
pertinenza dell'attività di prelievo di sangue alla professione di biologo). E infatti, alla stregua della citata sentenza, l'errore
sul precetto è inevitabile nei casi di impossibilità di conoscenza della legge penale da parte di ogni consociato. Tali casi
attengono, per lo più, alla oggettiva mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa (ad es., assoluta oscurità del
testo legislativo) oppure a un gravemente caotico atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari.
Ma anche quando ci si avvale di questi e altri criteri (c.d. criteri "misti"), occorre tenere conto della "generalizzazione"
dell'errore, nel senso che qualunque consociato potrebbe cadere nell'errore sul divieto ove si trovasse nelle stesse
particolari condizioni dell'agente; e in ogni caso la spersonalizzazione del giudizio operata secondo tali criteri va
compensata dall'esame di eventuali particolari conoscenze e "abilità" possedute dal singolo agente. Sviluppando tale ultimo
aspetto, le Sezioni unite di questaCorte (sent. 10 giugno 1994, Calzetta) hanno avuto modo di affermare che mentre per il
comune cittadino l'inevitabilità dell'ignoranza della legge penale va riconosciuta ogniqualvolta l'agente abbia assolto, con il
criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto "dovere di informazione" attraverso l'espletamento di qualsiasi utile
accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia, tale dovere è particolarmente rigoroso per
tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali pertanto rispondono dell'illecito anche in virtù di
una culpa levis nello svolgimento dell'indagine giuridica; in questa seconda situazione, occorre cioè, ai fini dell'affermazione
della scusabilità dell'ignoranza, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico
orientamento giurisprudenziale l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e,
conseguentemente, dellaliceità del comportamento tenuto.
Le accennate condizioni non ricorrono nel caso in esame, avendo l'imputato addotto a propria scusa l'esistenza di alcune
pronunce di giudici di merito favorevoli alla sua tesi, di per sè non decisive ai fini del riconoscimento dell'errore scusabile, e
il tenore della autorizzazione all'esercizio di un laboratorio di analisi, che non conteneva alcuna preclusione alla attività di
prelievo ematico;
argomento, quest'ultimo, all'evidenza insignificante, perchè da un'autorizzazione a tenere in esercizio un laboratorio di
analisi, senza indicazione di particolari divieti, non poteva derivare, neppure sotto il profilo dell'errore, l'impressione che essa
consentisse all'esercente lo svolgimento di attività riservate ai medici o specifiche figure professionali paramediche. 5. Il
quarto motivo è manifestamente infondato, posto che una voltaintervenuta la costituzione di parte civile, questa produce i
suoi effetti in ogni stato e grado del processo ( art. 76 comma 2 c.p.p.) il ricorso va conseguentemente rigettato, con
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 27 giugno 2005.