L`inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la

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L`inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la
Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli
L’INQUIETUDINE DELLA RICERCA, IL
PUNGOLO DEL DUBBIO, LA VOLONTÀ DEL
DIALOGO
Danilo Zolo
1. Ho riletto Politica e cultura di Norberto Bobbio. L'impressione che ne
ho ricevuto, dopo oltre vent'anni dalla prima lettura, è che si tratti di un
classico della cultura politica italiana. In particolare la famosa replica a
Roderigo di Castiglia (in realtà Palmiro Togliatti), apparsa su Nuovi
Argomenti nel 1955, mi è sembrata un documento che va molto al di là
della sua occasione storica. Ciò che mi è sembrato importante e attuale
non è tanto la critica del liberale Bobbio nei confronti del carismatico e
potente leader comunista. Certo, le ragioni di Bobbio, dopo la
rivoluzione democratica dell'89 e l'ingloriosa fine del socialismo reale,
brillano oggi in tutta la loro vittoriosa lungimiranza. Ma è inevitabile che
ci appaiano anche un po' scontate, coinvolte nella rapida obsolescenza
dell'utopia marxista e nel discredito delle sue prove storiche. E piuttosto
datato può apparire anche il frequente richiamo che Bobbio fa alla
'veridicità della scienza' come antidoto contro gli inganni della
propaganda ideologica. L'influenza diretta del neopositivismo logico
viennese è qui evidente.
Molto più importante mi sembra la lezione che viene dallo 'stile di
pensiero' di Bobbio, dalla sua disposizione al dialogo con l'avversario,
dalla sua dignitosa sobrietà di linguaggio e dal suo atteggiamento di fiera
indipendenza intellettuale. È uno stile che non sembra dettato dalle
circostanze, né dipendente da doti di temperamento. C'è in Bobbio
un'idea molto precisa di cultura - un'idea che egli esprime con la solita
chiarezza - e un'altrettanto lucida consapevolezza del suo ruolo di uomo
di cultura. È il ruolo del 'mediatore' in nome della ragione e della libertà,
impegnato a ponderare gli argomenti di tutte le parti in causa con misura,
cautela e modestia. Scrive Bobbio nella sua replica a Togliatti:
poche cose abbiamo imparato dalla storia all'infuori di questa: che [...] le
idee si condensano in un sistema di ortodossia, i poteri in una forma
gerarchica e che ciò che può ridar vita al corpo sociale irrigidito è
soltanto l'alito della libertà, con la quale intendo quella irrequietezza dello
spirito, quell'insofferenza dell'ordine stabilito, quell'aborrimento di ogni
conformismo che richiede spregiudicatezza mentale ed energia di
carattere (1).
E poco più avanti:
Io sono convinto che se non avessimo imparato dal marxismo a vedere
la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova
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immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O
avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorità o ci saremmo
messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono salvati,
solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove, prima di
buttarsi in mare, avevano deposto, per custodirli, i frutti più sani della
tradizione intellettuale europea: l'inquietudine della ricerca, il pungolo del
dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo
scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose (2).
Personalmente ritengo che, per alcuni decenni, Bobbio abbia interpretato
in modo esemplare questa idea di cultura e questa austera concezione del
ruolo dell'uomo di cultura: un intellettuale attento come pochi altri alle
emergenze della politica e da essa, nello stesso tempo, rigorosamente
separato. Per questo l'impegno civile di Bobbio è stato in questi anni, per
molti di noi, un esempio da imitare. E persino il mondo politico lo ha
alla fine onorato, nominandolo senatore a vita.
Ma oggi lo scenario dei rapporti fra cultura e politica sta rapidamente
cambiando sotto i nostri occhi ed è già profondamente mutato rispetto a
quello che ha fatto da contesto alla militanza intellettuale di Bobbio. Ci
troviamo, ancora una volta, di fronte a cambiamenti rapidi e turbolenti
che non solo oscurano il senso di una possibile funzione pubblica
dell'uomo di cultura, ma ne minacciano la stessa integrità intellettuale.
Dobbiamo nuovamente, come nella metafora di Bobbio, abbandonare
l'isola e buttarci in mare. E dunque mi chiedo se, dopo aver posto nel
nostro piccolo bagaglio, prima di tuffarci, Politica e cultura di Bobbio come
uno dei frutti più sani della tradizione intellettuale europea, riusciremo
con questo a salvarci dall'evasione nel privatismo o dall'osseqio ai 'vecchi
padroni'.
2. Che cos'è cambiato e che cosa sta cambiando nei rapporti fra politica e
cultura rispetto ai decenni del dopoguerra?
La mia impressione è che la natura del rapporto fra politica e cultura stia
cambiando perché sono in corso profonde mutazioni funzionali
all'interno di entrambi i sottosistemi della cultura e della politica, e
soprattutto entro il secondo. Nel giro di un decennio, o poco più, siamo
passati in Occidente, per dirlo con estrema concisione, dal dogmatismo
manicheo dei fronti ideologici contrapposti alla scomparsa del conflitto
ideologico e all'eclissi di qualsiasi dibattito intorno a grandi principi o a
radicali alternative. Dal compatto universo cognitivo e assiologico della
modernità - anche la 'grande narrazione' socialista è uno sviluppo della
filosofia razionalista, progressista e industrialista che caratterizza la
modernità europea - stiamo scivolando verso la dissoluzione
postmoderna di ogni concezione unitaria del sapere e della morale.
Dalla società dell'industria e del lavoro siamo passati alla società
postindustriale dominata dalla rivoluzione tecnologico-informatica,
mentre il fallimento del socialismo non ha soltanto trascinato con se
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anche le forme più moderate del Welfare State ma sembra coinvolgere
l'intera esperienza delle istituzioni liberaldemocratiche e i loro paradigmi
classici e neoclassici. La democrazia parlamentare cede il passo alla
'teledemocrazia', la logica della rappresentanza è surrogata dalla logica
mercantile della pubblicità politica e della 'sondocrazia', il codice politico
è sempre più contaminato dal codice multimediale della spettacolarità.
Nel frattempo i processi di globalizzazione stanno lanciando sfide inedite
ai poteri degli Stati nazionali, promuovono imponenti fenomeni
migratori e tendono a scomporre gli equilibri geopolitici e geoeconomici
stabilizzatisi nel secondo dopoguerra.
3. Il dopoguerra è stato caratterizzato dalla contrapposizione fra la
tradizione liberale e l'alternativa rivoluzionaria del socialismo. Questo
spiega perché negli anni cinquanta Bobbio proponesse, come compito
essenziale dell'uomo di cultura, quello del 'mediatore'. Occorreva
mediare fra i due dogmatismi contrapposti e i fronti partitici
corrispondenti, anziché schierarsi a favore dell'uno o dell'altro come l'etos
della politique d'abord imponeva nei termini di un assoluto dovere eticopolitico. Occorreva mediare non solo perché secondo Bobbio - e
secondo Benedetto Croce - l'autentico uomo di cultura si pone al di
sopra delle dispute partigiane e tradisce la sua vocazione quando da
testimone di valori universali si trasforma in militante e propagandista
politico. Un atteggiamento di dialogo era suggerito soprattutto dalla
convinzione che entrambe le posizioni contenessero 'elementi di verità'
che le rendevano sostanzialmente compatibili fra loro: il socialismo
poteva - ed anzi doveva - essere visto, anziché come una negazione delle
libertà borghesi e delle istituzioni dello Stato di diritto, come un
'inveramento' evolutivo della tradizione liberale entro l'orizzonte di una
democrazia egualitaria.
La convinzione circa la sostanziale ortodossia 'europea' del socialismo
forniva la base di una filosofia del dialogo che includeva entrambi gli
interlocutori entro i frames culturali della modernità illuministica. Non
solo i socialdemocratici e i liberalsocialisti - dal socialismo fabiano ai
fratelli Rosselli, a Capitini - ma anche un comunista ortodosso come
Galvano Della Volpe condivideva questa prospettiva (3). Entro la koiné
illuministica la discussione attorno ai 'grandi principi' doveva perdere
ogni passionalità e virulenza e divenire confronto razionale fra punti di
vista diversi. Il criticismo doveva prendere il posto della metafisica, la
probabilità sostituirsi alla certezza, la spiegazione sfumare
nell'interpretazione, il dubbio metodico divenire il contrappunto
riflessivo di ogni ricerca rigorosa.
Tutto ciò supponeva comunque - desidero sottolinearlo con forza - l'idea
di una sostanziale unità della cultura europea, ancorata agli assiomi della
fisica galileiano-newtoniana e corrobarata dai successi delle sue
applicazioni tecnologiche. E rinviava ad una tavola di valori etico-politici
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sostanzialmente omogenea: un'etica cristiano-borghese universalmente
legislatrice, un ordinamento politico e giuridico impegnato a
promuovere, assieme alle aspirazioni delle classi subalterne, le libertà
fondamentali dei cittadini, un'economia che, per quanto 'mista',
rispettasse la proprietà privata, un'arte indipendente dalla politica e dalla
religione. Il tutto si saldava nell'aspettativa che il progresso delle arti e
delle scienze occidentali avrebbe promosso non soltanto un'accresciuta
capacità di controllo del mondo naturale, ma anche, assieme al progresso
morale e all'affermazione della giustizia, la felicità del genere umano.
Questo universo culturale unitario è oggi in frantumi. L'esaurimento del
socialismo e la vittoria planetaria dell'economia di mercato non hanno
avuto l'effetto di riunificare la tradizione culturale europea. Tutt'altro.
Essi sono intervenuti in un contesto di discontinuità e di
frammentazione 'post-moderna' dei saperi e degli orizzonti di valore che
sta segnando, per dirla con Marshall McLuhan, il passaggio dall''uomo
tipografico' all''uomo cibernetico'. Ed hanno persino accelerato questo
processo.
La fine del secondo millennio è l'era del trionfo della tecnologia,
dell'egemonia dei mezzi di comunicazione elettronici e della
contemporanea dissoluzione di ogni legame sociale di carattere organico,
di ogni universalismo razionalistico e di ogni progetto che riguardi il
destino comune degli uomini. Nella prospettiva decostruzionistica del
postmoderno - da Jacques Derrida a Jean Baudrillard, a Jean François
Lyotard, a Richard Rorty, a Gianni Vattimo, allo stesso Niklas Luhmann il rifiuto di ogni possibile filosofia della storia che abbia al centro i temi
della verità, della giustizia o, peggio, dell''emancipazione dell'uomo' si
accompagna all'abbandono della razionalità classica e al recupero
edonistico della sog gettività quotidiana e del desiderio di
autoaffermazione individuale.
Dopo quasi tre secoli di storia, con buona pace di John Rawls e dei suoi
imitatori italiani, le idee di verità e di giustizia che erano al centro della
'meta-narrazione' illuministica oggi sono sotto accusa. E altrettanto lo è
la scienza galileiano-newtoniana e i suoi sviluppi tecnologici e militari. La
prospettiva stessa di un progresso razionale e morale dell'umanità viene
guardata con grande scetticismo. Anche la cultura liberal-democratica,
dopo l'eclissi di quella marxista, è in crisi a causa del politeismo morale e
del 'nuovo cinismo' che si vanno affermando nelle società occidentali.
Anche i liberali ed anche i democratici si trovano in difficoltà nel
produrre sintesi culturali capaci, non dico di motivare un impegno
politico a favore di obiettivi generali e di lungo periodo, ma persino di
dare senso all'esperienza personale e alla storia.
Il percorso della secolarizzazione e del disincanto sembra concludersi in
una antropologia del rischio e dell'insicurezza. La cultura postmoderna
interpreta la frammentazione dei saperi e l'instabilità dei criteri di
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razionalità come un dato irreversibile, da accettare senza alcuna nostalgia
per l'unità perduta. Con il suo sincretismo pervasivo questa cultura
'debole' si propone di rispecchiare la pluralità dei giochi linguistici e dei
'mondi vitali' di società sempre più differenziate e complesse. E rifiuta
come totalitario ogni tentativo di riaggregare o, peggio, di gerarchizzare i
canoni di un sapere che consente soltanto percorsi trasversali, ibridazioni
e contaminazioni.
Secondo alcuni autori, Serge Latouche e Paul Virilio ad esempio, anche
l'Occidente è ormai un planète des naufragés: siamo creature senza radici,
senza un patrimonio e un'identità culturale, emigranti e stranieri a noi
stessi, 'creolizzati' dal rullo compressore della cultura tecnologica,
inghiottiti dai vortici della 'dromocrazia' (4). Di fronte a questo
panorama lunare il ripiegamento narcisistico del soggetto occidentale
sembra una via di fuga senza alternative. E in questo contesto rischia di
non avere più senso né alcuna utilità pubblica la figura dell'uomo di
cultura come testimone di valori universali e come mediatore razionale
fra diverse Weltanschauungen.
4. A tutto questo bisogna aggiungere, in termini politico-istituzionali,
l'insieme delle trasformazioni che in questi anni hanno investito i sistemi
politici occidentali e che oggi minacciano la democrazia liberale. Mi
riferisco a quelli che ho proposto di chiamare i 'rischi evolutivi' della
democrazia nelle società complesse e che in buona parte corrispondono,
sia pure entro un contesto teorico diverso, alle 'promesse non mantenute'
della democrazia liberale di cui ha parlato Bobbio (5). Riguardano la
burocratizzazione tecnocratica e corporativa della vita politica e in
particolare del sistema dei partiti, il deficit del potere 'costruttivo' in
presenza di una moltiplicazione dei poteri di veto, l'indebolimento e la
volatilità del consenso politico, il proliferare del 'potere invisibile' e lo
svuotamento delle funzioni rappresentative come effetto della crescente
esposizione dei cittadini all'influenza persuasiva dei media.
Per esprimere questa situazione di rischio della democrazia qualche anno
fa mi ero riferito, nelle pagine conclusive di un mio libro, al 'modello
Singapore' come ad una sorta di incubo teorico del pensiero politico
occidentale. Recentemente anche Ralf Dahrendorf, nel fortunato
volumetto Quadrare il cerchio, si è riferito a Singapore come al modello di
un 'autoritarismo asiatico' che i processi di globalizzazione rischiano di
diffondere in Occidente (6). Ed anche Norberto Bobbio, richiamandosi a
quelle mie pagine, ha recentemente adombrato una tesi analoga (7).
A Singapore, grazie all'altissima efficienza tecnologica e al largo uso di
strumenti informatici, il benessere è oggi diffuso e in crescita costante, i
servizi pubblici sono eccellenti, la disoccupazione è praticamente assente,
quasi tutti posseggono una casa, il livello di scolarizzazione è
elevatissimo. A tutto ciò si deve soltanto aggiungere, o meglio sottrarre,
la completa assenza di ideologie politiche e di discussione pubblica.
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Singapore è una 'Città del Sole' ove, sotto la vigilanza di un occhiuto
regime paternalistico-poliziesco, l'antica massima prudenziale de rege
paucum, de Deo nihil è divenuta una consuetudine che è sempre meno
necessario rinforzare con pressioni amministrative. Il consenso politico
è, in ogni senso, fuori discussione.
L'immagine di Singapore genera disagio in Occidente perché il suo
modello di efficientismo autoritario sembra rappresentare non solo la
condizione di sviluppo delle 'tigri' del sudest asiatico, ma anche la forma
del possibile esaurimento dei regimi che continuamo a chiamare
democratici. Nonostante le molte 'promesse non mantenute' la
democrazia rappresentativa è formalmente sopravvissuta in Occidente in
questi decenni grazie alla sua metamorfosi welfarista. La coesione sociale
e la lealtà politica dei ceti produttivi sono state ottenute attraverso una
sistematica interpolazione dei meccanismi dell'economia di mercato e
della rappresentanza parlamentare con la logica compensativa e
assistenziale del Welfare State. L'erogazione di servizi sociali è stata la
fonte surrogatoria del consenso politico e del sentimento di
appartenenza allo Stato nazionale da parte di tutte le classi sociali, anche
delle meno favorite (8).
Oggi questo equilibrio è sottoposto a crescenti sollecitazioni, anche a
causa dei processi di globalizzazione in atto nei settori dell'economia,
della finanza e delle comunicazioni. Lo Stato sociale è in piena crisi e non
c'è più alcuna forza politica che lo difenda, anche nell'ambito della
sinistra, se non con sostanziali riserve. È un fatto che il Welfare State non
è riuscito, nonostante gli ingenti investimenti di risorse pubbliche e la
pressione burocratica sulle libertà individuali, a realizzare una migliore
distribuzione della ricchezza.
Ciò che le politiche welfariste hanno prodotto in tutti i paesi
industrializzati sono nuove forme di stratificazione e frammentazione
sociale. Accanto ad un ampio ceto medio, hanno dato vita da una parte
ad una minoranza opulenta - arricchita dal mercato, beneficata dallo
Stato e spesso corrotta - e dall'altra ad una vera e propria underclass: uno
strato di soggetti stabilmente emarginati in termini non solo economici e
di consumo privato, ma anche sociali, etnici e culturali e quindi esclusi
dall'esercizio dei diritti di cittadinanza (9). Il lavoro, soprattutto, sta
diventando un bene sempre più scarso, precario, segmentato,
insufficientemente retribuito, anche a causa della concorrenza 'globale' di
paesi caratterizzati da un eccesso di forza-lavoro e da una scarsa
protezione dei diritti dei lavoratori. La frammentazione del tessuto
sociale che ne deriva sembra minacciare la coesione della società civile,
indebolire il senso di appartenenza, indurre apatia politica, alimentare la
criminalità e la corruzione, fomentare fondamentalismi e secessionismi di
vario tipo. Da qui la tentazione di una replica autoritaria ai rischi
dell'anomia e del disordine.
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E da qui l'attualità 'distopica', in Occidente e non solo in Oriente, del
'modello Singapore'. La open society teorizzata da autori come Friedrich
von Hayek e Karl Popper tende a chiudersi e irrigidirsi entro processi di
omologazione consumistico-multimediale dei cittadini e questi processi
minacciano la libertà individuale al suo livello più profondo, poiché
incidono sui processi cognitivi ed affettivi di formazione delle preferenze
e della volontà politica. L'integrazione sociale viene così realizzata non
ricorrendo all'imposizione di ideologie totalitarie o alla coercizione
diretta, ma attraverso la destrutturazione della sfera pubblica e la
privatizzazione-dispersione dei soggetti politici.
Tutto ciò sembra avere puntuali conferme entro l'orizzonte politico
italiano. Si pensi a fenomeni come il discredito che ha colpito i partiti,
travolti dalla corruzione e dagli scandali giudiziari; l'assenza di alternative
politiche significative fra gli schieramenti dei progressisti e dei
conservatori, come provano le ricorrenti prospettive di 'grandi coalizioni'
e di 'larghe intese' su temi delicatissimi e tutt'altro che neutrali come la
riforma costituzionale e i sistemi elettorali; l'impazienza di larghi settori
dell'opinione pubblica nei confronti di una classe politica concentrata su
questioni procedurali e di schieramento e il conseguente diffondersi di
aspettative carismatiche dell''uomo forte', che risolva gordianamente le
questioni che il proceduralismo democratico non riesce ad affrontare. E
si consideri la situazione dei mezzi di comunicazione di massa, dominati
da logiche aziendalistiche e da interessi corporativi.
Alla luce di tutto questo tanto più incerta e problematica può apparire
oggi la rilevanza politica di una professione intellettuale esercitata
secondo lo stile esemplato da Bobbio. La cultura, compresa la cultura
filosofica, sembra sempre più lontana dai temi della politica, sempre
meno in grado di proporre modelli e ideali generalizzabili, di suscitare un
immaginario collettivo che trascenda l'orizzonte dell'avidità e dalla
frustrazione consumistica. E la politica, a sua volta, è sempre meno
interessata a elaborare programmi di lungo periodo e ad animare dibattiti
pubblici attorno a impegnative scelte culturali. Il conformismo e il
silenzio politico, come a Singapore, si rivelano più produttivi di consenso
che non la discussione pubblica e la partecipazione attiva dei cittadini. I
vertici dei partiti - le organizzazioni di base non esistono più - si
procurano il sostegno elettorale di cui hanno bisogno adottando tattiche
opportunistiche che prescindono dalla persuasione razionale dei cittadini
e si affidano, per catturare il consenso dell'opinione pubblica, assai più
alle tecniche della pubblicità commerciale che non alla diffusione di
un'autentica cultura politica.
5. Un ruolo decisivo in questa trasformazione della politica e dei suoi
rapporti con la cultura è svolto dai grandi mezzi di comunicazione di
massa, in modo tutto particolare dalla televisione. Oggi più nessuno
dubita che televisione e informatica siano fenomeni centrali
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nell'evoluzione della società contemporanea, nella sua dimensione
pubblica come in quella familiare e professionale. E questo è vero non
solo per l'Occidente, ma anche per le vaste aree del pianeta che oggi
sono esposte alla pressione della cultura occidentale e dei suoi mezzi di
comunicazione. Si tratta di un fenomeno che sembra destinato a
produrre un'autentica mutazione antropologica poiché incide sui
parametri cognitivi, sulle disposizioni emotive, sul senso, i ritmi e i
contenuti dell'esistenza quotidiana.
Come è noto, i più recenti sviluppi della tecnologia informatica vengono
esaltati nel mondo del business multimediale come l'avvento della
comunicazione interattiva. È ormai alle porte, si sostiene, la seconda
rivoluzione informatica che porterà nelle case di tutti efficientissime
'stazioni multimediali domestiche' (Smd) e avvolgerà il pianeta in una rete
di interconnessioni globale e capillarmente diffusa. Una delle
conseguenze positive, si assicura, sarà l'accrescimento della cultura e della
competenza politica e, soprattutto, l'affermarsi di nuove forme di
partecipazione. Grazie all'uso di sofisticate apparecchiature elettroniche teleconferencing, opinion-polling systems, automated feedback programms, two-way
cable television, etc. - i cittadini saranno finalmente in grado di impegnarsi
in un quotidiano bricolage politico. L'agorà elettronica uscirà dal mito e si
incarnerà nelle forme di una instant referendum democracy.
Si tratta a mio parere di un ottimismo senza molti fondamenti. Il
carattere asimmetrico, selettivo e non-interattivo della comunicazione
elettronica non potrà subire alcuna attenuazione. Né crescerà il potere di
controllo degli utenti sulle procedure della selezione comunicativa, né la
loro capacità critica nei confronti dei contenuti della comunicazione. Al
contrario, la loro autonomia sarà probabilmente esposta a rischi più
gravi. Aumenterà la tendenza dei destinatari della comunicazione di
massa, assuefatti ad una percezione prevalentemente simbolica
dell'ambiente sociale, ad economizzare l'esperienza diretta. E ne
deriveranno atteggiamenti di torpore sociale e di inerzia operativa, in
particolare nei confronti delle forme tradizionali della partecipazione alla
vita pubblica.
La comunicazione politica, dominata dal codice televisivo del successo,
della spettacolarità e della personalizzazione, tenderà a svuotarsi ancora
di più dei suoi contenuti argomentativi e razionali e ad alimentare nuove
forme di delega plebiscitaria. Secondo alcuni analisti questa potrebbe
essere una delle ragioni del declino della partecipazione politica e del
senso si appartenenza che già oggi caratterizza società intensamente
informatizzate come quella nordamericana.
Ovviamente, sarebbe miope non riconoscere che grazie alla televisione e
agli altri strumenti di comunicazione elettronica il nostro orizzonte
culturale e il ventaglio delle nostre possibili esperienze si sono
grandemente dilatati. Non c'e dubbio che per molti in Occidente, anche
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grazie alla televisione, l'esperienza culturale è divenuta in questi anni più
ricca e più complessa. E tuttavia l'eccessiva pressione simbolica cui siamo
sottoposti rende difficile per tutti noi selezionare razionalmente i
contenuti della comunicazione. Per nessuno, neppure per lo specialista
più esperto, è facile controllare i significati e l'attendibilità dei messaggi
che riceve, né stabilire una relazione interattiva con la fonte emittente.
Per molti è troppo più semplice lasciarsi docilmente avvolgere dal flusso
ininterrotto dell'informazione, della pubblicità e dell'intrattenimento.
D'altra parte sembra che la nostra capacità di attenzione, anziché
accrescersi, tenendo il passo con l'aumento della complessità sociale,
tenda a ridursi sempre di più. Si riduce proprio perché cresce la quantità,
la varietà e l'intensità degli stimoli che ci investono e che riescono a
catturare, anche solo per un attimo, la nostra attenzione. Probabilmente
per queste ragioni, come aveva già intuito Joseph Schumpeter
cinquant'anni fa (10), le strategie della comunicazione multimediale
puntano sempre più consapevolmente su forme di persuasione
'subliminale', a cominciare dalla pubblicità commerciale, dai sondaggi di
opinione e dalla propaganda politica. Anziché fare appello alla nostra
attenzione consapevole, queste tecniche comunicative tendono ad
aggirarla, puntando su stimolazioni cognitive ed emotive segretamente
associate ai contenuti o ai modi della comunicazione. Ne derivano
delicati problemi di costituzione delle identità personali, di autonomia dei
soggetti, di formazione dell'opinione pubblica e, in definitiva, di
funzionamento dei meccanismi decisionali di uno Stato democratico.
Cambiano il senso e i contenuti della libertà politica e cambia, in
profondità, il rapporto fra l'opinione pubblica, la cultura politica diffusa e
i vertici del sistema politico.
Come emblema di questa nuova temperie politico-culturale può essere
assunto lo 'stile di pensiero' e la funzione pubblica di un personaggio di
indubbio successo multimediale come Vittorio Sgarbi. Sgarbi rappresenta
in Italia, da ogni punto di vista, una sorta di antimateria culturale rispetto
al profilo dell''intellettuale impegnato' proposto da Bobbio cinquant'anni
fa. Bobbio pensava ad un uomo di cultura di grande levatura intellettuale
e morale, aperto al dialogo, attento alla politica ma non impegnato
direttamente in politica, che non si abbandonasse a soluzioni affrettate,
che prediligesse la modestia, lo scrupolo filologico, il dubbio e la misura.
5. Anche i processi di globalizzazione, in atto su scala mondiale in settori
vitali della politica, dell'economia, della finanza e delle comunicazioni,
sono un importante vettore di trasformazione del rapporto fra la politica
e la cultura. Essi incidono su questo rapporto non solo perché dilatano a
livello planetario la scala delle esperienze, delle comunicazioni e delle
interazioni culturali, ma soprattutto perché espongono l'arena politica
nazionale all'influenza di forze spesso soverchianti e difficilmente
controllabili. A causa dei crescenti vincoli di interdipendenza, la qualità
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dei rapporti politici ed economici interni ad un paese sono sempre più
condizionati dalla qualità dei rapporti internazionali. I temi della
democrazia, della protezione dei diritti dell'uomo, dello sviluppo
economico e della tutela ambientale sono ormai intrattabili al di fuori di
un quadro di riferimento che tenga conto delle politiche economiche,
monetarie, demografiche e militari delle grandi potenze e degli organismi
internazionali da esse controllati o influenzati, a cominciare dalle Nazioni
Unite, dalle istituzioni di Bretton Wood, dalla Nato, dall'Unione Europea.
Penso ad esempio a un tema carico di futuro come la crescente
incompatibilità fra i diritti di cittadinanza e i cosiddetti 'diritti
cosmopolitici'. Si tratta di un'antinomia che riguarda anzitutto la tensione
fra il particolarismo delle cittadinanze nazionali e la crescente pressione
di normative e di giurisdizioni sovranazionali che limitano la sovranità
degli Stati nazionali che non si trovino al vertice della gerarchia politica
ed economica internazionale. Secondo numerosi autori - David Held,
Richard Falk, Antonio Cassese e forse lo stesso Bobbio - questa tensione
potrebbe rivelarsi 'espansiva' e 'inclusiva', nel senso che l'interferenza
delle normative internazionali con gli ordinamenti giuridici degli Stati
potrebbe dilatare e rendere più concreta la capacità dei cittadini di
ottenere il rispetto dei propri diritti attraverso il ricorso ad autorità
giudiziarie sovranazionali.
Altri autori, ed io mi colloco fra questi, oppongono a questo ottimismo
cosmopolitico - ottimismo circa la realizzabilità di uno 'Stato di diritto'
planetario e di una 'cittadinanza cosmopolitica' - la sempre più netta
divisione del mondo in un ristretto numero di paesi ricchi e potenti e in
un gran numero di paesi poveri e deboli (11). In questa situazione non
sembra possibile dar vita a un ordinamento giuridico internazionale che
non sia rigidamente gerarchico e che non neghi il principio stesso della
eguaglianza formale dei soggetti di diritto, come fa del resto la Carta
delle Nazioni Unite. E non sembra possibile attribuire carattere
obbligatorio ad una giurisdizione incaricata di interpretare e applicare il
diritto internazionale senza affidarne l'esecuzione alla forza militare delle
grandi potenze, sottraendole quindi, di fatto o di diritto, alla competenza
di tale giurisdizione. Ma appare soprattutto poco ragionevole affidare la
tutela internazionale dei diritti di libertà a strutture di potere
essenzialmente illiberali come sono oggi, senza eccezioni, le istituzioni
internazionali contemporanee, a cominciare dalle Nazioni Unite (12).
Ma c'è un secondo antagonismo fra cittadinanza e 'diritti cosmopolitici',
probabilmente ancora più drammatico e carico di conseguenze, che viene
espresso dalla lotta per l'acquisto delle cittadinanze pregiate
dell'Occidente da parte di masse sterminate di soggetti appartenenti ad
aree continentali senza sviluppo e con un elevato tasso demografico.
Questa lotta assume la forma della migrazione di massa di soggetti molto
deboli ma che esercitano, grazie alla loro infiltrazione capillare negli
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interstizi delle cittadinanze occidentali, un'irresistibile pressione per
l'eguaglianza. La replica da parte delle cittadinanze minacciate da questa
pressione 'cosmopolitica' - in termini sia di rigetto o di espulsione
violenta degli immigrati, sia di negazione pratica della loro qualità di
soggetti civili - sta scrivendo e sembra destinata a scrivere nei prossimi
decenni le pagine più luttuose della storia civile e politica dei paesi
occidentali.
È la stessa nozione marshalliana di cittadinanza che viene sfidata in
radice dalla richiesta di un numero crescente di soggetti non appartenenti
alle maggioranze autoctone occidentali di diventare cittadini pleno iure dei
paesi dove vivono e lavorano. Si tratta di una sfida radicale perché la
stessa dialettica di 'cittadino' e 'straniero' viene alterata dall'imponenza dei
fenomeni migratori e dalla loro oggettiva incontrollabilità e irreversibilità
(13). Ed è una sfida dirompente perché tende a far esplodere sia gli
elementi della costituzione 'prepolitica' della cittadinanza, sia i processi
sociologici di formazione delle identità collettive, sia infine le stesse
strutture dello Stato di diritto. A queste strutture viene rivolta la
pressante richiesta di un riconoscimento 'multietnico' non solo dei diritti
individuali dei cittadini immigrati, ma delle stesse identità etniche di
minoranze caratterizzate da una notevole distanza culturale rispetto alle
cittadinanze ospitanti.
Questo scenario di crescente instabilità e turbolenza delle relazioni
politiche interne e internazionali è allarmante soprattutto perché mostra
quella 'insufficenza della polis' cui si è riferito Daniel Bell, intendendo
l'assenza di un'opinione pubblica internazionale indipendente dai grandi
interessi costituiti e di una cultura politica adeguata al livello di ampiezza,
complessità e interdipendenza dei problemi da affrontare.
7. Concludo. Il bilancio che ho presentato è sicuramente negativo. Ed
anche la prognosi che è possibile ricavarne circa i rapporti fra cultura e
politica non è molto incoraggiante. E tuttavia la mia conclusione non
sarà pessimistica. Non ritengo che oggi sia inevitabile per un intellettuale
- per riprendere la metafora di Bobbio - la fuga nell'isola nell'interiorità,
né la resa incondizionata ai 'vecchi padroni', e cioè ai 'poteri forti' nelle
loro tradizionali espressioni politiche, economiche e religiose.
Anche nelle condizioni attuali, così diverse e difficili, la lezione di Bobbio
conserva una sua importante attualità. La conserva, secondo me, non per
l'idea dell'intellettuale 'mediatore' in nome della libertà e della ragione.
Oggi, in Europa, in particolare nel nostro paese, c'è ben poco da mediare
culturalmente. E in tempi di trionfante scientismo tecnologico anche
l'appello alla ragione rischia di essere fuorviante. E persino il richiamo
alla libertà, pur essenziale e irrinunciabile, può risultare vano se non è
specificato ed arricchito. La libertà non può più essere intesa, oggi, come
semplice libertà negativa - come privacy e come limite del potere statale -,
secondo la nozione che cinquant'anni fa Bobbio contrapponeva
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giustamente all'ambigua concezione della libertà come 'incremento delle
opportunità' sostenuta dai marxisti italiani e in particolare da Togliatti
(14).
Dal mio punto di vista ciò che è importante nella proposta di Bobbio è
l'idea dell'intellettuale come un cittadino spiritualmente inquieto,
insofferente verso l'ordine costituito, spregiudicato e anticonformista. Ed
altrettanto rilevante mi sembra l'insistenza su qualità intellettuali come lo
spirito critico, lo scrupolo filologico, la misura nel giudicare, il senso della
complessità delle cose. È insomma l'immagine di un uomo di cultura
intellettualmente e moralmente integro, che non si appaga delle risposte
che la società cui appartiene dà per scontate. È un intellettuale che
accetta il rischio di apparire paradossale, eccentrico o astruso, e di restare
isolato, perché continua a dubitare anche quando tutti gli altri esibiscono
certezze; perché continua ad essere curioso ed esplorativo anche quando
'la sua parte' ha vinto e da lui aspetta comportamenti adattivi e ripetitivi.
Quale impegno civile è possibile immaginare oggi per un intellettuale di
questo tipo? La domanda è delicata ed imbarazzante, ma non intendo
sottrarmi del tutto al dovere di tentare una risposta, per quanto
sommaria.
Penso ad esempio ad un impegno di denuncia, all'interno di paesi come il
nostro, delle promesse non mantenute della democrazia e delle continue
frustrazioni delle aspettative più elementari di un governo corretto ed
efficiente della cosa pubblica: la denuncia, per riprendere ancora una
volta parole di Bobbio, della
degradazione della vita pubblica, dello spettacolo vergognoso di
corruzione, di insipienza, di arrivismo, di cinismo che ci offre
giornalmente gran parte della classe politica italiana (15).
Dovrebbe essere una critica spietata e realistica nello stesso tempo, che
non tenti di disegnare nuovi orizzonti utopici né si illuda di ottenere
larghi consensi popolari, ma anzi metta in conto l'ostilità dei partiti
politici e dei mezzi di comunicazione di massa e, quindi, di gran parte
dell'opinione pubblica che da essi dipende. Un professione culturale di
questo tipo comporterebbe, assieme ad uno stile di sobrietà e di misura,
anche un dignitoso distacco dal mondo dei grandi mezzi di
comunicazione di massa, in modo tutto particolare dalla televisione,
pubblica e privata, almeno finché non venga ideato e realizzato un
'servizio pubblico' degno del nome.
In secondo luogo penso che la mediazione e il dialogo di cui parlava
Bobbio oggi meriterebbero di essere esercitati non all'interno dei paesi
occidentali, ma entro un orizzonte transnazionale. Parlo di mediazione e
di dialogo fra la tradizione culturale della tolleranza, dello Stato di diritto
e della democrazia - che è sicuramente il più alto lascito della 'vecchia
Europa' - e le culture che la 'mega-macchina' occidentale della
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industrializzazione, della tecnicizzazione e della burocratizzazione tende
a schiacciare o emarginare.
Non si tratta ovviamente di ripetere le ingenuità dell'ideologia
terzomondista. Il Terzo mondo non esiste più, come non esiste più,
almeno nei suoi termini tradizionali, la contrapposizione geopolitica fra il
Sud ricco e il Nord povero: anche nel sud del mondo estrema povertà e
straordinaria ricchezza convivono una accanto all'altra, così come
convivono all'interno dei singoli paesi, basti pensare all'India, al Brasile e
persino agli Stati Uniti (16). Si tratta piuttosto di contrastare i fenomeni
di deculturazione, di deterritorializzazione e di sradicamento che
l'egemonia culturale e comunicativa del mondo industriale oggi impone
alle masse emarginate dei paesi ricchi, alle minoranze indigene e ai paesi
deboli e poveri. Si tratta di resistere alla omologazione culturale in nome
della complessità del mondo, della sua varietà, della sua bellezza e della
sua potenzialità evolutiva.
E penso infine ad una battaglia civile condotta da uomini di cultura (non
da uomini di partito o da intrattenitori televisivi) per l'affermazione sul
piano interno e su quello internazionale dei diritti di cittadinanza. Una
'lotta per il diritto', per usare l'espressione di Rudolph von Jhering,
dovrebbe includere, accanto ai tradizionali diritti civili, politici e sociali, i
'nuovi diritti': i diritti delle donne, i diritti degli stranieri, il diritto
all'ambiente, il diritto a non essere uccisi, torturati e degradati dalla
'giustizia' degli Stati (17), il diritto all'autonomia cognitiva. Quest'ultimo
mi sembra il punto più importante.
Per autonomia cognitiva intendo l'essenza stessa della libertà individuale:
intendo cioè la capacità del soggetto di controllare, filtrare e interpretare
razionalmente le comunicazioni che riceve, a cominciare dalle
comunicazioni elettroniche quotidiane. È una nozione che dovrebbe
essere tenuta distinta da quella di 'libertà politica' - almeno se
quest'ultima viene intesa nell'accezione liberale che la identifica con la
'libertà negativa' - se non addirittura contrapposta ad essa. Entro società
informatizzate la garanzia giuridica dei diritti di libertà e dei diritti politici
rischia di essere un guscio vuoto se non include l'autonomia cognitiva: se
questa manca, è impensabile che si formi un'opinione pubblica
indipendente rispetto ai processi di autolegittimazione promossi dalle
élites politiche al potere. In presenza di una crescente efficacia persuasiva
dei mezzi di comunicazione di massa il destino della democrazia in
Occidente sembra dipendere dall'esito della battaglia a favore di questo
nuovo, fondamentale 'diritto dell'uomo': l'habeas mentem. L'alternativa,
anche nell'ipotesi che le procedure elettorali sopravvivano come rituali di
designazione dei poteri pubblici, è, in Oriente come in Occidente, il
silenzio politico di Singapore.
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Note
1. Cfr. N. Bobbio, Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1995, p. 280.
2. Ivi, p. 281.
3. Cfr. G. Della Volpe, Rousseau e Marx, Roma, Editori Riuniti, 1964, in
cui prosegue il dialogo con Bobbio.
4. Cfr. S. Latouche, L'occidentalisation du monde, Paris, Editions La
Découverte, 1989; S. Latouche, La planéte des naufragés, Paris, Editions La
Découverte, 1991; P. Virilio, Vitesse et politique, Paris, Galilée, 1976.
5. Cfr. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984, pp.
3-28; D. Zolo, Democracy and Complexity, Cambridge, Polity Press, 1992,
ed. it. Il principato democratico, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 121-70.
6. Cfr. R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp.
45-56; D. Zolo, Democracy and Complexity, ed. it. cit., p. 212.
7. Bobbio ha fatto riferimento al 'modello Singapore' a conclusione del
suo intervento sulle prospettive della democrazia in Europa, in occasione
della commemorazione di Giovanni Spadolini che si è tenuta a Firenze,
in Palazzo Vecchio, alla fine di ottobre 1995.
8. Cfr. l'ampia discussione sui 'diritti sociali' nella raccolta di saggi, a mia
cura, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza,
1994, particolarmente alle pp. 29-35, 107-21, 186-201, 277-83, 301-13.
9. Cfr. M. Roche, Rethinking Citizenship, Cambridge, Polity Press, 1992,
pp. 57-62.
10. Cfr. J.A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, London,
Allen and Unwin, 1954, pp. 257-8, 263, trad. it. Milano, Etas Libri, 1977,
pp. 246, 251.
11. Mi sono occupato di questi temi in Cosmopolis. La prospettiva del governo
mondiale, Milano, Feltrinelli, 1995.
12. Cfr. le lucide pagine di P.P. Portinaro in La rondine, il topo e il castoro,
Venezia, Marsilio, 1993.
13. Sulla nozione di cittadinanza in T.H. Marshall rinvio al volume
collettivo, a mia cura, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti., cit.,
passim. Sul tema dello 'straniero' si veda il saggio di R. Escobar, "Rivalità
e mimesi. Lo straniero interno", Filosofia politica, 6 (1992), 1, pp. 79-106.
14. Sulla distinzione fra 'libertà negativa' e 'libertà positiva' si veda I.
Berlin, Four Essays on Liberty, Oxford, Oxford University Press, 1969,
trad. it. Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 185-241.
15. Cfr. B. Bobbio, Il futuro della democrazia, cit., p. 64.
16. Si veda R. Gilpin, The Political Economy of International Relations,
Princeton, Princeton University Press, 1987.
17. Sulla pratica della tortura e sulla sistematica violazione dei diritti
fondamentali dei cittadini indagati o reclusi - fenomeno diffuso in tutti i
paesi europei, inclusa l'Italia - si vedano, oltre ai rapporti di Amnesty
International e della Commissione degli ispettori del Consiglio d'Europa
14
Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli
(CPT), le illuminanti pagine di A. Cassese, Umano-Disumano. Commissariati
e prigioni nell'Europa di oggi, Roma-Bari, Laterza, 1994.
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