La Teologia, discorso su Dio e annuncio del mistero

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La Teologia, discorso su Dio e annuncio del mistero
LA TEOLOGIA, DISCORSO SU DIO E ANNUNCIO DEL MISTERO
G. Tanzella-Nitti
Pontificio Ateneo della Santa Croce
Facoltà di Teologia
Introduzione
Un dibattito su “Il linguaggio della trascendenza” non può non coinvolgere la
teologia, una disciplina che, nel suo stesso nome, manifesta la pretesa di essere un
λόγος του Θεου, un linguaggio su Dio. In tale dibattito, però, la teologia vuole
entrare con la sua specificità, quella che le deriva dal contenuto della rivelazione
giudeo-cristiana e dalle categorie che questa è capace di generare, anche come
sorgente di riflessione filosofica. E’ bene chiarire fin dall’inizio che il tema della
trascendenza comporta, nel terreno della teologia, una ulteriore problematica. Non si
tratta solo di vedere — analogamente a quanto accade per la filosofia o la
letteratura — se e come un discorso su Dio sia possibile, ma si tratta anche di
assicurarne la comunicabilità con un linguaggio che sia veicolo di un annuncio
rivolto ad ogni essere umano, senza limiti di razza, lingua o cultura. E tutto ciò, ben
sapendo che il cuore di tale annuncio costituisce un mistero, quello del Verbo di Dio
incarnato, morto e risorto per noi; un mistero la cui ragione ultima non appartiene né
alla storia né all’uomo, ma unicamente alla gratuita volontà salvifica di colui che è
Altro-da-noi.
Lo scenario filosofico entro il quale la teologia deve svolgere il suo compito è di
tale complessità da potersi emblematicamente riassumere accostando, a mo’ di
provocazione, due note riflessioni: una di Tommaso d’Aquino, l’altra di Martin
Heidegger. Il primo, chiedendosi nel Commento alle Sentenze se Dio fosse
nominabile, affermava che “tutto ciò che è conosciuto può essere espresso anche in
parole; e poiché, in qualche modo, conosciamo Dio sia per mezzo della fede, sia per
mezzo della nostra conoscenza naturale, allora Dio possiamo nominarlo”1. Il
secondo, invece, all’interno della sua nota critica al sapere concettuale, affermava
nella Lettera sull’umanismo che “se l’uomo deve ancora una volta ritrovare la
vicinanza dell’essere, deve prima imparare ad esistere in assenza di nomi (...); prima
di parlare l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere col pericolo che,
sotto questo reclamo, abbia poco o raramente qualcosa da dire”2. Un Dio-divino, per
il filosofo tedesco, è un Dio non detto.
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Come ambito del mio intervento sceglierò essenzialmente quello della teologia
della Rivelazione, concentrandomi in modo particolare su quali sia il fondamento
biblico di un discorso su Dio comprensibile anche alla ragione. Successivamente mi
rivolgerò al pensiero dell’Angelico, sia per metterne in luce la compatibilità con
quanto affermato dalla Rivelazione, sia per mostrarne alcune virtualità che possono
ancor oggi fornire utili spunti al problema del linguaggio su Dio.
La teologia, sapienza di Dio nel mistero
La Scrittura ci offre un prezioso e succinto trattato di gnoseologia teologica nel
capitolo II della I Lettera ai Corinzi. Questa pagina, che merita qui di essere citata
interamente, si può chiamare a ragione la Magna charta del linguaggio della
trascendenza, così come deve farne uso la teologia. Rileggiamone alcuni passi
salienti: “Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad
annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni
infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. (...)
La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza,
ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non
fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio. Tra i perfetti parliamo,
sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di
questo mondo che vengono ridotti al nulla; parliamo di una sapienza divina,
misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la
nostra gloria. (...) Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio
udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo
amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta
ogni cosa, anche le profondità di Dio. (...) Di queste cose noi parliamo, non con un
linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo
cose spirituali in termini spirituali. L’uomo naturale però non comprende le cose
dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se
ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito”3.
Paolo annuncia una sapienza di Dio nel mistero. Il suo contenuto è interamente
racchiuso nel mistero del Cristo, predestinato, crocifisso e risorto. La trasmissione
del mistero non si basa su argomenti che la ragione possa riconoscere come
persuasivi, mediante cioè una deduzione razionale a partire da concetti o categorie
che prescindano da quanto Dio stesso voglia rivelare; si basa invece su una logica
donata dallo Spirito e compresa con l’aiuto dello Spirito. Eppure, di questo lovgo"
ne esiste il linguaggio, di questa sapienza l’Apostolo afferma che si può parlare. E’
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un linguaggio capace di fare appello a ciò che l’uomo attende perché rivela un
mistero concepito in favore nostro, “per la nostra gloria”, e normativo per la nostra
esistenza, perché ciascuno vi è stato chiamato fin dall’eternità. Si tratta di una logica
donata che dà origine ad una vera e propria sapienza, purché si costruisca e si
interpreti a partire dal mistero pasquale del Cristo, che di quella logica è il suo
originario e definitivo principio ermeneutico. Dunque, riepilogando, la sapienza di
un Dio che ci trascende può essere annunciata perché la trascendenza ha un
linguaggio; tuttavia, tale linguaggio è insegnato dallo Spirito e l’uomo può accedervi
solo se si lascia informare dallo Spirito.
A questo punto, però, nasce un problema. Su quali strumenti la ragione
teologica può contare, se la comprensione e l’intelligibilità del mistero che essa
vuole comunicare dipendono interamente dall’azione dello Spirito? Se ci
fermassimo qui, il tema del linguaggio della trascendenza sarebbe forse risolto come
problema di gnoseologia teologica, ma la teologia si riconoscerebbe come un sapere
chiuso, le cui chiavi possiede solo lo Spirito e lo Spirito le dà a chi vuole; in
definitiva, ci troveremmo di fronte ad una gnosi bellissima, sublime, ma che
richiederebbe un linguaggio da perfetti. La domanda da formularsi è allora la
seguente: l’atto con cui l’uomo si lascia informare dallo Spirito e ne accoglie la
logica salvifica, è un mero atto di affidamento o vi si può scorgere, se non qualcosa
che la ragione riconosca come persuasivo, almeno qualcosa che essa riconosca come
sensato? Con altre parole, si può dire Dio soltanto come si pronuncia una parola
interamente donata, come si grida un’invocazione di cui la ragione non conoscerà
mai la risposta? oppure si può dire Dio anche quando la ragione si interroga sul
senso ultimo di tutte le cose?
Prima di esplorare quali sono i suggerimenti che, a mio avviso, la Rivelazione
stessa contiene in ordine alla soluzione del nostro problema, può essere istruttivo
menzionare brevemente alcuni itinerari che la teologia contemporanea ha cercato di
percorrere; il loro valore emblematico sta nel fatto che, nonostante un certo
apparente antagonismo, nessuno di essi abbia fornito una risposta convincente. Mi
riferisco a tre autori di tradizione riformata che hanno però avuto una grande
influenza nella teologia cattolica: Karl Barth, Dietrich Bonhöffer e Paul Tillich.
Nel caso di Barth4 vi è la rinuncia esplicita e formale ad ogni linguaggio su Dio
che parta dall’analisi della ragione naturale; ogni analogia dell’essere risulta esclusa
ed ogni ponte fra mistero di Dio e condizione creaturale radicalmente tagliato.
L’unico luogo del linguaggio su Dio è il Cristo, le cui parole restano uno scandalo
costante per la ragione e sono comprensibili solo alla luce della grazia. In definitiva,
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nella prospettiva barthiana è solo Dio a poter parlare di Dio, mentre l’uomo, di
fronte al “Totalmente Altro” (Der ganz Andere), può soltanto tacere.
Bonhöffer e Tillich5, per assegnare significatività al linguaggio su Dio
preferiscono invece partire da un discorso sull’uomo, seguendo però dei percorsi fra
loro divergenti, i quali — è interessante notarlo — confluiranno poi nel medesimo
sbocco. Nel caso di Bonhöffer la drammatica esperienza dell’invocazione di Dio di
fronte al mistero del dolore, all’ignoto della morte, all’incomprensibilità di ciò che la
ragione non può accettare, lo spingerà a non cercare più Dio nel “limite” (Die
Grenze), sulla frontiera di ciò che ci è precluso, come si trattasse di un tappabuchi,
bensì a collocarne la trascendenza nel cuore di ciò che già conosciamo, nel centro
delle realtà di cui possiamo parlare. Tillich, dal canto suo, preoccupato della
crescente estraneità di una nozione di Dio che all’uomo contemporaneo non dice
ormai più nulla, colloca la trascendenza proprio in ciò che ci manca, invitando a
parlarne esclusivamente all’interno di correlazioni fra le domande dell’uomo e le
risposte della Rivelazione; il linguaggio di ciò che mi trascende diviene significativo
soltanto se ho fatto la previa esperienza di una necessità esistenziale alla quale la
Rivelazione offre una corrispondente risposta. Ambedue le proposte, sebbene mosse
da validi intenti, terminano tuttavia nel confinare il linguaggio su Dio all’interno di
un medesimo orizzonte antropologico, ermeneutico oppure esistenziale; nel caso di
Bonhöffer limitato da ciò che posso conoscere e di cui posso parlare, nel caso di
Tillich, limitato da ciò che esperisco come rispondente ai miei bisogni, e perciò
attendo come salvifico. Questa volta, a differenza della prospettiva di Barth, è Dio a
dover tacere se non è l’uomo a poterne parlare.
La teologia, dovendo rendere universalmente comunicabile una sapienza
nascosta nel mistero, nel formulare la domanda sul linguaggio della trascendenza si
trova pertanto di fronte a questa duplice articolazione:
a) come posso parlare di Dio?
b) chi mi assicura di poterlo fare uscendo dal circolo ermeneutico costituito dal mio
orizzonte antropologico?
E’ nostra intenzione rivolgere ora queste due domande alla Rivelazione, non al
pensiero filosofico; a quest’ultimo, invece, ci rivolgeremo poi, in un momento
successivo.
Rivelazione giudeo-cristiana e linguaggio su Dio
Un primo elemento fornitoci in modo inequivoco dalla Rivelazione giudeocristiana è rappresentato da ciò che potremmo chiamare la stretta corrispondenza fra
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parola creatrice e parola profetica: la parola che ha creato tutte le cose è la
medesima parola che interpreta il significato della storia e ne guida il corso degli
eventi verso il suo compimento salvifico. Tale corrispondenza non dipende solo dal
fatto, a tutti ben noto, che la creazione stessa venga presentata come l’effetto di ciò
che Dio dice, come realtà carica di senso, il cui preciso contenuto dialogico, noetico
ed estetico è capace di sorprendere ed interpellare6. C’è qualcosa di più: creazione
ed alleanza fanno parte di un unico progetto divino. Esiste un linguaggio comune
capace di annunciare le meraviglie di Dio nella creazione e le opere di Dio nella
storia della salvezza; esiste una musicalità capace di ritmare, come avviene nel
salmo 136, una lode a Dio “perché ha creato i cieli con sapienza” ed una lode a Dio
“perché nella nostra umiliazione si è ricordato di noi”, una lode per “aver fatto la
luna e le stelle” ed una “per aver dato la terra promessa in eredità a Israele suo
servo”, intercalando ciascuna di queste lodi con una sola incessante giustificazione:
“perché è eterna la sua misericordia”.
Nel salmo 19, che lega la lode a Dio per la creazione dell’universo con quella
per la sublimità della legge morale e salvifica consegnata ad Israele, il riferimento al
valore universale ed oggettivo di questo messaggio è esplicito: “I cieli narrano la
gloria di Dio, e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento. Il giorno al giorno ne
affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. Non è linguaggio e non
sono parole di cui non si oda il suono, per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai
confini del mondo la loro parola”7. Risulta di grande interesse il fatto che la liturgia
della Chiesa abbia da lungo tempo applicato queste medesime parole al ministero
degli apostoli. Nella liturgia delle ore, così come nel salmo responsoriale della
Messa dedicata agli apostoli, “il linguaggio di cui non può non udirsi il suono”, e
che “si diffonde fino ai confini della terra” è proprio il loro annuncio evangelico,
l’annuncio cioè di quella sapienza nascosta nel mistero, la cui capacità di
interpellare e di essere compresa da ogni uomo viene ora paragonata all’universalità
con cui il firmamento stellato, il sole e la luna possono stare sotto gli occhi di tutti.
La tematica in questione va al di là della discussione classica circa la possibilità
di una teodicea. Qui si afferma, dalla prospettiva della Rivelazione, che una strada
per parlare di Dio che faccia riferimento, senza strappi, al cosmo sotto gli occhi di
tutti e alla storia della salvezza sotto gli occhi di Israele, esiste. Ed esiste tanto una
corrispondenza fra creazione del mondo e profezia sulla storia, quanto una
corrispondenza fra creazione dell’uomo e profezia sul senso della sua vita morale,
aperta ad una dimensione salvifica. Il fiat che crea i cieli e l’effeta che dà dignità
spirituale alla persona umana sono parole pronunciate da un medesimo soggetto. Di
Dio, dunque, si può parlare perché le cose parlano di Lui; di Dio l’uomo può parlare
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perché ne è l’immagine che più gli assomiglia. L’assunzione di un’ottica
cristologica, nella quale la Rivelazione trova la sua pienezza ed il suo compimento,
non farebbe che rafforzare le precedenti corrispondenze, perché esse risulterebbero
ancorate attorno al mistero del Cristo, centro del progetto divino sul cosmo e
rivelatore definitivo della verità sull’uomo8.
Un secondo elemento distintivo della Rivelazione e del suo linguaggio è il
carattere di assoluta novità del suo contenuto. Esso si presenta come un’offerta
inaudita, eccedente e sovrabbondante rispetto a quanto l’uomo possa immaginare o
desiderare. La parola di Dio si manifesta con i caratteri dell’invito ed insieme del
paradosso, del dono ed insieme dell’esigenza: l’uomo vi trova proprio ciò che cerca,
ma allo stesso tempo gli si chiede ciò che lo sorpassa e che spesso non riesce a
comprendere. All’aspirazione umana di una vita che non termini con la morte e a
quella di un amore che resti fedele in eterno, la Rivelazione risponde che ambedue le
cose sono possibili, ci sono donate da Dio, ma per trovare la vita bisogna perderla,
mentre per sperimentare la fedeltà che non tradisce bisogna passare attraverso
l’abbandono e lo scandalo della croce. La parola di Dio si presenta con una
eccedenza che attrae e sconcerta: è la predicazione di un regno dove regnare è
servire, dove ai piccoli si rivelano i tesori nascosti ai sapienti, dove a chi si riconosce
indegno di essere chiamato figlio si mettono l’anello al dito e il vestito più bello,
dove il padrone della vigna cui spettava riscuotere il giusto tributo permette la morte
del proprio figlio per salvare i vignaioli insolventi, dove Chi ha creato il cielo e la
terra può chiamarsi Padre e prendere dimora nel cuore di chi lo ama.
Al superamento operato dalla Rivelazione se confrontata con l’orizzonte
salvifico-esistenziale delle aspirazioni umane, corrisponde un’ulteriore eccedenza,
questa volta sotto l’aspetto ermeneutico-concettuale. Problemi che il pensiero
filosofico vorrebbe risolvere, ma non è riuscito a comporre, se non in modo spesso
dialettico e comunque riduttivo, trovano nel linguaggio della Rivelazione una nuova,
inaspettata apertura di orizzonti. Nozioni come quelle di trascendenza ed
immanenza ci vengono presentate non più come opposte, ma come correlative; ci si
parla di una autonomia che non trae la sua forza dall’indipendenza da Dio, ma trova
l’origine della sua consistenza proprio nel legame stabile inaugurato dalla creazione;
ci si rivela che l’intelligenza che regge il mondo ha il volto della misericordia, che
l’onnipotenza appartiene solo al bene e non al male; ci viene rivelato che libertà ed
amore non si oppongono, e che la libertà, una volta donata, non si perde, perché
siamo immagine di un Dio dove la sussistenza della Persona si realizza in una
reciproca, vitale relazione. Apprendiamo infine la sorprendente lezione che nel
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mistero dell’essere vi è la comunione, che l’unità che nasce dall’amore è più forte
dell’unità dell’Uno che resta indiviso9.
Ora, è proprio questa eccedenza della Rivelazione sulle nostre aspettative
esistenziali e salvifiche, ed anche su non pochi aspetti della nostra riflessione
filosofica, a garantire che la parola di Dio trascende il nostro orizzonte
antropologico e non la si può giustificare né interpretare — come avrebbe voluto
Feuerbach — come un eco o una proiezione dei nostri interrogativi. Il linguaggio
della Rivelazione trasporta un contenuto che non nasce nell’orizzonte chiuso della
creaturalità umana, né può essere raggiunto dall’uomo come frutto di una riflessione
razionale che cerchi nel perimetro del proprio essere i motivi ultimi di persuasione
che giustifichino le sue scelte esistenziali. Il linguaggio della Rivelazione si serve
delle parole della creazione, ma è capace di utilizzarle in modo inaspettato, in un
annunzio di cose veramente nuove per l’uomo, che continuamente lo interpellano e
non cessano mai di sorprenderlo.
Si comprende allora perché una prospettiva che cercasse la significatività del
linguaggio su Dio solo nella sua corrispondenza con ciò che l’uomo si attende —
come suggerito da Tillich — o solo nell’ambito di ciò che non ci è precluso
esistenzialmente o gnoseologicamente, perché di tale ambito ne possediamo le
chiavi ermeneutiche — come voluto da Bonhöffer —, finirebbe col ricacciare il
discorso su Dio all’interno di un confine antropologico che ridurrebbe la teologia a
semplice antropologia camuffata. La centralità dell’uomo nel linguaggio della
Rivelazione non è centralità ermeneutica, ma soteriologica10. Analogamente,
ritenere con Barth che i concetti umani siano del tutto inadatti ad accostarci al
mistero di Dio perché il loro contenuto veritativo deriva unicamente dall’uso che ne
fa la Rivelazione, non risolve affatto il problema del linuaggio del mistero. La nostra
comprensione della parola di Dio, anche quando illuminata dalla grazia
soprannaturale della Rivelazione, continuerebbe ad esprimersi con parole umane e,
pertanto, a presupporre un loro contenuto veritativo naturale, significativo e non
ambiguo11.
Come coniugare queste riflessioni tratte dall’esame della Rivelazione con
quell’altra pagina della Scrittura dalla quale siamo partiti, dove san Paolo ci parlava
di una sapienza nascosta nel mistero, il cui linguaggio è insegnato dallo Spirito e vi
si può accedere solo se informati dallo Spirito? Se il carattere di eccedenza, di novità
inaudita che il contenuto della Rivelazione ci dischiude ben si accorda con il dono di
uno Spirito capace di rivelare quello che mai occhio vide né orecchio udì, l’idea di
una stretta corrispondenza fra la parola creatrice e la parola storico-profetica
parrebbe invece a prima vista ridurre, se non la portata di tale novità, per lo meno il
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divario tra logica umana e sapienza divina, divario che di quella stessa novità ne
esprimeva l’irriducibilità linguistica.
Una via per superare questo apparente contrasto è ricordare che lo Spirito,
sebbene scruti le profondità di Dio, non ha una parola propria da annunciare. Non è
lo Spirito a generare il Verbo, ma il Verbo a spirarne l’eterna persona insieme al
Padre. “Egli vi guiderà alla verità tutta intera perché non parlerà da sé, ma dirà tutto
ciò che avrà udito (...) perché prenderà del mio e ve l’annuncerà”12. Lo Spirito non
ha altra parola che quella di Gesù, non ha altra novità che quella del Verbo fatto
carne, quella della centralità di Cristo nel mistero della creazione, della redenzione e
della nuova creazione, mistero arcano di Dio-Padre, che nel chiamare il mondo
all’essere lo ha fatto per mezzo di Cristo e lo ha voluto in vista di Cristo. Il
linguaggio della croce, l’inaudita sapienza del mistero pasquale superano certamente
ogni linguaggio umano, ma contengono allo stesso tempo il senso ultimo di un
mondo e di una condizione esistenziale, segnata dal peccato e dalla morte, la cui
universalità e verità sono sotto gli occhi di tutti. Di questo senso e di questa sapienza
si può parlare; e ciascuno, ascoltandone il messaggio, può aprirsi ad una
trascendenza che è insieme fondamento delle cose, libertà e salvezza.
Il contributo di Tommaso d’Aquino
Ci resta ora da compiere un ultimo passo. I suggerimenti offertici dalla
Rivelazione giudeo-cristiana circa la possibilità di un discorso su Dio, e circa la
garanzia che esso non resti confinato all’interno del nostro orizzonte antropologico,
dipendono da una razionalità puramente donata oppure possono essere espressi
mediante un linguaggio filosofico coerente, significativo anche per una razionalità
che non nasca dalla fede? Un simile linguaggio, se esiste, saprebbe mantenersi
sufficientemente rispettoso del mistero, senza vanificarlo? E’ nel contesto di queste
domande che vorrei riferirmi, in questa ultima parte del mio intervento, al pensiero
del Dottore Angelico.
Tommaso d’Aquino risponderebbe che questo linguaggio esiste ed è quello
dell’analogia dell’essere, opportunamente affiancato dall’uso della triplice via
affirmationis, negationis, ed eminentiae. Sebbene presente in molte sue opere
teologiche, si tratta — come è noto — di un itinerario che l’Aquinate costruisce e
sviluppa in sede filosofica. Ascoltiamone le parole ben conosciute della quaestio 13
della I Parte della Summa: “Noi possiamo nominare una cosa a seconda della
conoscenza intellettuale che ne abbiamo (...). Dio non può essere veduto da noi in
questa vita nella sua essenza, ma è da noi conosciuto mediante le creature per via di
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causalità, di eminenza e di rimozione. Conseguentemente, può essere da noi
nominato con termini desunti dalle creature; non però in maniera tale che il nome,
da cui è indicato, esprima l’essenza di Dio quale essa è, (...) perché la sua essenza è
al di sopra di tutto ciò che noi possiamo concepire o esprimere a parole”13. Continua
Tommaso: “Nessun nome si attribuisce in senso univoco a Dio e alle creature. Ma
neanche in senso del tutto equivoco, come alcuni hanno affermato. Perché in tal
modo niente si potrebbe conoscere o dimostrare intorno a Dio partendo dalle
creature (...). E ciò sarebbe in contrasto sia con i filosofi, i quali dimostrano molte
cose su Dio, sia con l’Apostolo, il quale dice ‘le perfezioni invisibili di Dio si
rendono visibili perché comprese attraverso le cose create’ (Rm 1,20). Si deve
dunque concludere che tali termini si affermano di Dio e delle creature secondo
analogia, cioè proporzione”14.
Per tutto il nostro discorso riveste un certo interesse il fatto che Tommaso
comprenda l’analogia in modo indissociabile dalla causalità trascendentale
dell’essere, poiché ogni rapporto di somiglianza fra Dio e le creature, alla luce della
sua dottrina sulla partecipazione, è inquadrato dall’Angelico nella cornice delle
relazioni fra la causa ed i suoi effetti. Dovremmo dire che l’analogia tomista è una
nozione assai più ontologica che gnoseologica. “Se diciamo, per esempio, che in
Dio è vita — commenta Gilson — diciamo qualcosa che è vero di Dio, poiché se
non ci fosse vita in Dio, causa prima, non vi sarebbe vita in nessuno dei suoi effetti.
Come, sotto che forma, e in che senso, si può dire che in Dio vi sia vita, è un altro e
diverso problema; il punto attualmente in discussione è che esiste almeno un senso
in cui è vero che Dio è vita”15. Orbene, è proprio questo ancoraggio dell’analogia
alla causalità ed alla partecipazione a fare del linguaggio dell’analogia una
razionalità pienamente coerente con quel collegamento fra parola creatrice e parola
storico-profetica che la teologia aveva indicato come fondazione, interna alla fede,
del suo poter parlare di Dio.
Ritengo che l’analogia dell’essere costituisca ancora un raccordo necessario al
discorso su Dio svolto all’interno della fede. Essa fornisce le precomprensioni a
partire dalle quali l’analogia della fede possa divenire un sapere sensato16.
L’importanza dell’analogia come espressione della corrispondenza fra parola
creatrice e parola storico-profetica va al di là del dibattito sulla insufficienza di un
sapere concettuale, così come sollevato ad esempio da Heidegger, o sulla necessità
di un sapere metaforico, come opportunamente sottolineato da Ricoeur e, prima di
lui, da molti altri pensatori17. Anche se la nostra conoscenza ed il nostro linguaggio
su Dio fossero trasmissibili mediante la comunicazione di un’esperienza personale,
la riproduzione di simboli o di immagini, o con la comunicazione di una qualche
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intuizione aconcettuale, la universalità e la comunicabilità di queste forme di sapere,
se proviene dal reale e vuole orientare altri verso il reale, poggerà sempre, in ultima
analisi, su una analogia entis.
Tommaso è cosciente che l’analogia può fornire solo una conoscenza limitata ed
imperfetta, un sapere che non dissolve il mistero; e questo non soltanto per
l’indicibilità dell’essenza divina, ma anche per la particolare dialettica che il
rapporto somiglianza/dissomiglianza, insita in ogni discorso analogico, assume
quando si vuole parlare di Dio18. Eppure, nonostante tutto, siamo di fronte ad una
conoscenza vera, ad un linguaggio che la ragione può riconoscere sensato. In un
significativo testo della Contra Gentiles, Tommaso dimostra un così grande
equilibrio e profondità, da chiamare anch’egli Dio — come farà Barth sette secoli
dopo — il Totalmente Altro; ma non per questo tralascia di affermare che il
riconoscimento di questa radicale alterità non è per la ragione naturale una sconfitta,
ma, paradossalmente, rappresenta la sua vetta più alta: “Per mezzo degli effetti noi
sappiamo che Dio esiste e che Egli, in quanto causa di tutti gli enti, è del tutto
trascendente ad essi e del tutto diverso (supereminens et ab omnibus remotus).
Questo è l’estremo e il più perfetto esito della nostra conoscenza nella vita
presente”19.
Nell’esposizione della triplice via dell’affermazione, della negazione e
dell’eminenza, ritroviamo il medesimo realismo e, al tempo stesso, il medesimo
rispetto per l’incomprensibilità del mistero; lezione, quest’ultima, che Tommaso ha
appreso e fatta propria alla scuola dello Pseudodionigi20. Il realismo della triplice via
del linguaggio su Dio si manifesta in primo luogo nella priorità della via
affirmationis, priorità di ordine logico, assai prima che cronologica. La negazione di
ciò che al linguaggio su Dio non conviene, non solo si realizza grazie al suo
riferimento verso ciò che già si è riconosciuto conveniente, e perciò sensatamente
affermato, ma contiene anche al suo interno, proprio come ratio negandi, l’intento di
una affermazione, anzi di una super-affermazione21. In secondo luogo, la via
eminentiae — ed è questo un punto della massima importanza — non rappresenta il
semplice prolungamento geometrico o spaziale, per dirlo in qualche modo, della via
affirmationis. La proporzione fra creatura e Creatore non è geometrica, ma, ancora
una volta, rimanda al contesto della causalità e della partecipazione trascendentale:
la via dell’eminenza è la stessa via della trascendenza. E’ su questa strada dove la
ragione incontra inevitabilmente la necessità di dover tacere. Ma proprio perché
causalità, e causa di qualcosa di cui si partecipa realmente, la trascendenza non è
vista sotto il segno della separazione, ma coinvolge anche la sua immanenza negli
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effetti, quale fondamento della dipendenza dell’ente finito dalla causa del suo
essere22.
Se il linguaggio dell’analogia si accorda con quel primo aspetto della
Rivelazione che abbiamo chiamato “corrispondenza fra parola creatrice e parola
storico-profetica”, nella triplice via dell’affermazione, rimozione ed eminenza ci
troviamo di fronte ad un itinerario razionale di approccio all’Assoluto che ben si
coniuga con quel secondo aspetto della Rivelazione discusso in precedenza; cioè la
sua conformità ed insieme la sua eccedenza salvifica rispetto alle aspettative umane,
come garanzia di un parlare significativo di Dio che uscisse da un orizzonte
antropologico chiuso. La triplice via tomista dischiude la dinamica di tre momenti
della ragione naturale: il primo è quello in cui, nella domanda sull’Assoluto, la
ragione vi riconosce un appello significativo; il secondo è l’osservare che
quell’appello rimanda ad un contenuto non pienamente formalizzabile dalla ragione,
né concettualizzabile in termini soddisfacenti; il terzo momento rappresenta
l’apertura della ragione a riconoscere tale contenuto secondo termini e categorie
diverse da quelle che essa si attenderebbe, come qualcosa che soddisfa ciò che si
desidera, ma supera in modo eccedente ciò che si stava cercando. Il momento
dell’eminenza è in realtà il momento del silenzio, il momento della ragione che tace
e che si apre alla rivelazione dell’Altro, l’Unico che può dare la misura di quanto
valesse quella eminenza. Sulla via dell’eminenza, gli attributi divini giungono allora
fino ad identificarsi con l’essenza divina, ed una analogia legata al linguaggio della
creazione diviene pertanto insufficiente. Sebbene la proporzione fra la creatura e
Dio sia come fra chi è causato e chi causa, fra chi conosce e chi è conosciuto — dirà
l’Angelico nel commento al De Trinitate di Boezio — “a causa dell’eccesso infinito
con cui il Creatore supera la creatura, non vi è proporzione nella creatura per poter
ricevere da Dio tutto l’influsso della sua virtù, né per conoscerlo così come lui stesso
perfettamente si conosce”23. L’unica conoscenza capace di partecipare di
quell’essenza è generata dalla vita della grazia, dove sarà una nuova analogia, quella
di una somiglianza soprannaturale e di una più alta proporzionalità, a legare la
creatura con Dio. Ciò che si partecipa è ora una filiazione, ed al Creatore ci si può
rivolgere con il nome di Padre, perché siamo resi somiglianti al suo Figlio e
chiamati a compartecipare del suo medesimo Spirito.
Non si può negare che la prospettiva di Tommaso, se confrontata con le
esigenze del pensiero contemporaneo e con le vicende che hanno accompagnato il
linguaggio su Dio nel pensiero critico e post-critico, debba essere certamente
integrata con ulteriori strumenti concettuali, oggi indispensabili per l’analisi del
linguaggio religioso e della stessa Rivelazione. Eppure, la sua analisi rappresenta un
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fondamento irrinunciabile, spesso nascosto o implicito in molte formulazioni
contemporanee, sul quale può ancor oggi costruirsi quell’armonia fra la ragione e la
fede di cui non solo la teologia, ma anche quel pensiero filosofico che continua a
porre al centro della sua riflessione il problema dell’Assoluto, sentono
quotidianamente l’esigenza. Tommaso d’Aquino ci ha forse insegnato che un
Totalmente Altro di cui la ragione non potesse dire nulla sarebbe anche un
totalmente estraneo e, per la creatura, un totalmente assente. Il silenzio cui giunge
Tommaso sull’itinerario della via eminentiae è il silenzio della venerazione, non
come incapacità di parlare di Dio, ma come silenzio adorante di chi ha già utilizzato,
in un incessante crescendo, tutte le parole possibili. Sono le parole, diremmo oggi,
che la ragione ha speso di fronte al paradosso dell’universo giungendo a
riconoscerlo come mistero, le parole dell’uomo che di fronte all’enigma della
propria esistenza ha gridato al cielo e ha invocato tutto quanto poteva, fino ad
accettare di unirsi al silenzio di Cristo sulla croce, perché nel suo mistero pasquale la
parola suprema è stata già detta, e l’uomo, illuminato dallo Spirito, ne ha compreso
quale fosse il significato.
Se le parole spese di fronte al mistero del mondo e dell’uomo sono parole capaci
di condurre al silenzio adorante, allora la teologia ha la garanzia che un tale
linguaggio della trascendenza, indipendentemente dal cammino seguito, è quello
adeguato, perché le ha consentito di assolvere il suo fine: annunciare la sapienza di
Dio nascosta nel mistero.
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«Omne quod cognoscitur, potest etiam voce significari. Sed nos aliquo modo cognoscimus Deum vel
per fidem vel per naturalem cognitionem. Ergo possumus eum nominare» In I Sent., d. 22, q. 1, a. 1.
2
Brief über den Humanismus, in «Gesamtausgabe», Klostermann, Frankfurt 1976, Bd. 9: Wegmarken,
p. 319 [trad. it.: Segnavia, Adephi, Milano 1987, p. 273].
3
1 Cor 2,1-2.4-7.9-10.13-14.
4
Cfr. K. BARTH, Die Kirchliche Dogmatik, Evangelischer Verlag, Zurich 1957-1964. Per
un’esposizione critica del pensiero di Barth si possono vedere le note opere di H. BOUILLARD, Karl Barth,
Aubier, Paris 1957 e H.U.VON BALTHASAR, La teologia di Karl Barth, Jaca Book, Milano 1985.
5
Cfr. D. BONHÖFFER, Widerstand und Ergebung, Munich 1951; P. TILLICH, Systematic Theology,
Univ. of Chicago press, Chicago 1967. Per una introduzione critica del pensiero di questi autori, si veda J.L.
ILLANES, Hablar de Dios, Rialp, Madrid 1969 e La teología sistemática de Paul Tillich, in «Scripta
Theologica» 6 (1974), pp. 711-754.
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Cfr. Gen 1,1.3.6.9; Sal 33,6; Sir 42,15; Is 40,26; Gv 1,1-3.
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Sal 19, 1-5.
8
Cfr. Ef 1,3-10; Col 1,13-20; Eb 1,1-3.
9
Sul tema dell’eccedenza salvifica del contenuto della Rivelazione rispetto alle categorie del pensiero
filosofico, si veda ad esempio l’analisi svolta in J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, Queriniana,
Brescia 1972; cfr. anche R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, Cittadella, Assisi 1986, pp. 508-511.
10
Cfr. J.L. ILLANES, Incidenza antropologica della teologia, in «Divus Thomas» 84 (1981), pp. 303-
11
Cfr. R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, o.c., pp. 422-425.
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Gv 16,13-14.
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«Secundum igitur quod aliquid a nobis intellectu cognosci potest, sic a nobis potest nominari (...)
329.
Deus in hac vita non potest a nobis videri per sua essentiam; sed cognoscitur a nobis ex creaturis, secundum
habitudinem principii, et per modum excellentiae, et remotionis. Sic igitur potest nominari a nobis ex
creaturis: non tamen ita quod nomen significans ipsum, exprimat divinam essentiam secundum quod est...»
«quia essentia eius est supra id quod de Deo intellegimus et voce significamus» (Summa Theologiae, I, q. 13,
a. 1, resp. e ad 1um)
14
«Unde nullum nomen univoce de Deo et creaturis praedicatur. Sed nec etiam pure aequivoce, ut aliqui
dixerunt. Quia secundum hoc, ex creaturis nihil posset cognosci de Deo, nec demonstrari; sed semper
incideret fallacia Aequivocationis. Et hoc est tam contra philosophos, qui multa demonstrative de Deo
probant, quam etiam contra Apostolum dicentem invisibilia Dei per ea quae facta sunt, intellecta
conspiciuntur. Dicendum est igitur quod huiusmodi nomina dicuntur de Deo et creaturis secundum
analogiam, idest proportionem» (ibid., a. 5, resp.).
15
E. GILSON, Elementi di filosofia cristiana, Morcelliana, Brescia 1964, p. 199.
1
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16
Cfr. Y. CONGAR, La foi et la théologie, Desclée, Paris 1962, pp. 32-40. T. CITRINI, La Rivelazione,
centro della Teologia Fondamentale, in «Gesù Rivelatore», a cura di R. Fisichella, Piemme, Casale
Monferrato 1988, p. 92.
Non paiono dunque superate, nella teologia contemporanea, le parole di Tommaso: “L’esistenza di Dio
ed altre verità che riguardo a Dio si possono conoscere con la ragione naturale non sono articoli di fede, ma
preliminari agli articoli di fede: di fatti la fede presuppone la cognizione naturale, come la grazia presuppone
la natura” (Summa Theologiae, I, q. 2, a. 2, ad 1um)
17
Non è superfluo ricordare che anche in san Tommaso troviamo un riferimento alla necessità di
utilizzare similitudini nel discorso su Dio: «Est autem naturale homini ut per sensibilia ad intelligibilia veniat:
quia omnis nostra cognitio a sensu initium habet. (...) Magis enim manifestatur nobis de ipso quid non est,
quam quid est; et ideo similitudines illarum rerum quae magis elongantur a Deo, veriorem nobis faciunt
aestimationem quod sit supra illud quod de Deo dicimus vel cogitamus» (Summa Theologiae, I, q. 1, a. 9,
resp. e ad 3um).
18
Cfr. De Potentia, q. 7, a. 7, ad 6um e ibid., q. 9, a. 7; In I Sent., d. 3, q. 1, a. 3, ad 5um.
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«Ad quam etiam cognitionem de Deo nos utcumque pertingere possumus: per effectus enim de Deo
cognoscimus quia est et quod causa aliorum est, aliis supereminens, et ab omnibus remotus. Et hoc est
ultimum et perfectissimum nostrae cognitionis in hac vita» (Contra Gentiles, lib. III, cap. 49, n. 2270).
20
«Quanto più noi ci eleviamo verso l’alto, tanto più gli occhi si contraggono alla vista delle cose
spirituali. Così ora, penetrando nella tenebra che sta sopra la mente, noi troveremo non la brevità delle parole,
ma la mancanza assoluta d’ogni parola e d’ogni concetto. Là dove il discorso discendeva dalla sommità verso
il basso, man mano che si allontanava dalla vetta, il suo volume cresceva di misura. Ora che risaliamo
dall’inferiore verso il Trascendente, man mano che ci avviciniamo alla vetta, il discorso si abbrevia, finché
compiuta tutta l’ascesa, si fa completamente muto. allora ci uniremo totalmente a colui che è inesprimibile».
PSEUDODIONIGI, De Mystica Theologia, cap. 3 (PG 3,1034).
21
Cfr. Summa theologiae, I-II, q. 72, a. 6; II-II, q. 122, a. 2, ad 1um; De Pot., q. 7, a. 5.
22
Su questo aspetto del pensiero di san Tommaso, si veda L. BOGLIOLO, Essere e Conoscere, LEV,
Città del Vaticano 1982, pp. 311-331.
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«Sed secundum infinitum excessum Creatoris super creaturam, non est proportio creaturae ad
Creatorem, ut recipiat influentiam eius secundum totam virtutem eius, neque ut ipsum perfecte cognoscat,
sicut ipse seipsum perfecte cognoscit» (Prooemium, q. 1, a. 2, ad 3um).