qui - Alessia Muliere

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LO SPECCHIO E IL SIMULACRO , Paolo Bertetto.
Capitolo 1, L’immagine simulacro.
Questa proliferazione di cyborg, doppi, di simulacri che no cancellano l’umano ma lo rielaborano in forme e
meccanismi nuovi, integrati alle tecnologie e al digitale, descrive e produce al tempo stesso una crisi della
realtà materiale della tradizione idealistica e positivistica, a favore di una frammentazione dei soggetti e di
una polimorfità del visibile. Il mondo esterno appare sempre di più nei modi dell’illusione e del potenziale,
come un orizzonte allucinatorio che potrebbe essere sostituito da altri orizzonti non meno allucinatori,
perturbanti e illusivi. Questa radicalizzazione dell’immaginario visivo-diamico della science-fiction
contemporanea, tuttavia, sviluppa in una prospettiva diversa una dimensione della ricerca filmica e aurorale
del cinema di fine millennio. Film come Arancia Meccania o come Passion creano un mondo immaginario
alternativo, formato attraverso una stilizzazione artificiale e differenziale del visibile e caratterizzato da una
iper-semiotizzazione. Sono film in cui i segni sono segni e gli oggetti della messa in scena sono il risultato di
un raddoppiamento differenziale del mondo. Il doppio, il simulacro sono componenti costitutive dell’immagine
filmica, riguardano il cinema in quanto tale, che va considerato quindi nei suoi caratteri strutturali, secondo
un’ottica diversa da quella frequentata da un’autorevole e largamente accettata tradizione critica. La pretesa
di un rapporto forte fra immagine e originale attesta in ogni modo un fondamento metafisico: l’idea che esista
un originale e che possa essere materializzato nell’immagine implica un presupposto idealistico e una
concezione dell’essere conforme alla tradizione della metafisica occidentale, che la filosofia contemporanea
da Nietsche a Heidegger , hanno contribuito variamente a superare. L’immagine filmica non è segnata dal
rapporto con la realtà, ma da un’ambiguità strutturale, da una plurivocità di componenti e di strati, da un
insieme di peculiarità visive, immaginarie, simboliche, che è necessario analizzare. Nel mondo tardomoderno, l’apparenza e i fenomeni si intrecciano profondamente e la realtà finisce per scomparire davanti
all’apparenza. Per Nietsche infatti l’esistenza e la realtà presunta sono illusione, inganno, prospetticità
artificiale, produzione del fittizio, simulacro, maschera, apparenza insuperabile. Per Nietsche apparenza non
è un termine opposto che si contrappone a una realtà fatta di una sostanza in sé, ma è tutto quello che
“realizza e vive”, è tutto l’orizzonte dei fenomeni come unico orizzonte effettivo. Nietsche ribadisce il rifiuto
dell’idea di un mondo vero, Heidegger d’altronde parla della contemporaneità come dell’epoca dell’immagine
del mondo e vede nell’auto rappresentazione una delle caratteristiche fondamentali del mondo del
Novecento. Nel porre sé stesso, l’uomo non può che rappresentarsi, cioè essere immagine.
L’immagine filmica
L’immagine filmica presenta una serie di caratteri estremamente particolari e anomali ce la differenziano
dalla presunta realtà, ma , ad esempio, anche l’immagine fotografica e dagli altri tipi di immagine (pittorica,
televisiva..) Si tratta di riflettere su quello che significano certi aspetti strutturali anche sul piano del
simbolico, per interpretare effettivamente quello che è davanti a noi. Nell’immagine filmica sono presenti
strati invisibili e sovrapposti di significanti e ne costituiscono la ricchezza sotto il profilo della forma e del
senso, del simbolico e della intensità. L’immagine filmica è innanzi tutto un’immagine simulacro; secondo il
dizionario, simulacro è parvenza, immagine lontana dal vero, ed è connesso al simulare, che è fingere, far
parere qualcosa che in realtà non c’è. La nozione di simulacro copre un’area semantica che va da Nietsche
a Deleuze, Epicureo e Focault. L’immagine dei media e l’immagine filmica hanno rapporti strettissimi con
l’orizzonte del simulacro e l’immagine filmica più di quella televisiva assomma in sé le determinazioni
essenziali del simulacro, come è stato teorizzato e interpretato dalla nuova filosofia post-esistenzialista degli
anni ’60 e ’70. L’immagine filmica è quindi un’immagine illusiva e ingannevole a più livelli, sia come struttura
specifica di immagine, sia nelle differenti configurazioni visive prodotte:
• è un’immagine virtuale, illusiva, legata alla proiezione
• è un’immagine che produce un’impressione di falsa presenza del mondo fenomenico
• è un’immagine che produce un effetto visivo del movimento
• è un’immagine impalpabile
• è un’immagine bidimensionale.
Il profilmico e la messa in scena.
La messa in scena implica un lavoro di composizione artificiale del profilmico. La realizzazione del film si
avvale naturalmente di un profilmico variamente elaborato, che presenta ora una maggiore manipolazione,
ora un grado più o meno forte di stanziamento dai fenomeni e una intenzionale alterazione dei contorni del
mondo esterno. La predisposizione del profilmico è attuata secondo modalità, gusti e orientamenti diversi,
con un rapporto variabile con l’orientamento del visibile. Naturalmente ci sono molti modi di predisporre il
profilmico. Nel cinema narrativo-rappresentativo- industriale, il profilmico si presenta con alcuni caratteri
molto precisi: ha una prevalente composizione antropomorfica e anche quando ridefinisce le stesse modalità
di opposizione dell’umano, mantiene alcuni caratteri costitutivi del mondo visibile. Il montaggio poi ha la
possibilità di alterare e mutare la temporalità, che in ogni modo può essere configurata nell’ordine della
verosimiglianza o nella prospettiva della trasformazione non lineare del tempo, correlata diversamente con
l’orizzonte della coscienza della memoria o dell’inconscio. Tutti questi elementi contribuiscono alla
produzione dell’immagine filmica fondata sulla verosimiglianza e sulla cosiddetta impressione di realtà.
Anche quando il visibile aderisce più nettamente al fenomenico, ai luoghi,agli spazi, non si presenta mai
come una porzione di reale, o come un fenomeno determinato, ma sempre come un insieme simile e
differente che non è mera copia, come uno spazio oggettuale che ripete l’esteriorità introducendo alcune
varianti essenziali. Anche nel cinema più attento al verosimile visivo, il profilmico si caratterizza
prevalentemente come un insieme che imita i fenomeni, introducendo tuttavia alcuni elementi di scarto.
L’immagine e il profilmico sono quindi segnati insieme dalla somiglianza più o meno forte e dalla differenza:
l’immagine filmica è somigliante, ma non è vera, è una copia differenziale, poiché non è uguale al presunto
modello fenomenico. È una ripetizione del visibile con alcuni aggiustamenti, alcune modificazioni
differenzianti, più o meno profonde e significative. Altri profilmici invece vanno esplicitamente in una
direzione opposta. Sono insiemi spaziali e antropomorfici segnati da una forte reinvenzione del visivo e
spesso da un’esplicita artificialità. Film come Passion, Arancia Meccanica o singing in the rain costituiscono
modelli ed esperienze di radicale ricreazione del visibile, che non eliminano la possibilità di riconoscere gli
oggetti e gli individui del mondo e del profilmico, ma li sottopongono a una profonda trasformazione. Il
mondo visivo di Arancia Meccanica non è formato da oggetti, ma da oggetti trasformati in segni direttamente
nel profilmico, che la messa in scena fa diventare segni di segni, immagini semiotizzate che propongono altri
enti semiotizzati. L’enigmiticità degli universi paralleli di Mulholland Drive e a livello più popolare di Ritorno
al futuro e di Matrix costituiscono nell’orizzonre filmico esempi significativi di costruzioni di mondi possibili,
che sembrano quasi alludere all’universo del cinema. Questo allontanamento dal cosiddetto reale implica
non solo una rottura radicale con l’originale possibile, ma anche un potenziale superamento dell’idea stessa
di originale: il mondo prodotto è fittizio, non ha un effettivo modello riconoscibile nell’oggettività, non altera
qualcosa di esistente, ma costituisce come immaginario qualcosa di radicalmente diverso, che implica in
ogni caso una rifigurazione del visibile stesso. L’immagine del neorealismo e l’immagine
dell’espressionismo, come immagine della sophisticated comedy e l’immagine del film noir sono ovviamente
segnate da una radicale differenza formale e da una profonda modificazione del rapporto con il profilmico.
L’immagine filmica, come è noto, riprende, registra, riproduce il profilmico, ma insieme lo mette in quadro, lo
trasforma in qualcosa di simile e di diverso. Il lavoro dei codici filmici modifica il profilmico, lo rielabora, ma al
tempo stesso lo trasforma e lo raddoppia in modo fortemente differenziante. Tra il
fenomeno/profilmico/immagine filmica c’è una omogeneità di temi visivi e una differenza di configurazione,
una continuità presentativi e no iato trasformativi a ogni passaggio. Tra il profilmico e il fenomeno di
riferimento c’è, nei casi più rappresentativi, un rapporto di copia differente, cioè di ente che riprende un altro
ente in maniera diversa, senza riprodurlo come tale, ma piuttosto rifacendolo e magari realizzando una
contraffazione. Il profilmico differenziale e il fenomeno di riferimento non è certamente un originale, anche
perché a rigore non esiste, in quanto non fa parte del mondo esterno, ma semmai costituisce una
configurazione ipotetica ememoriale di riferimenti per una produzione di immaginario. L’immagine filmica
rinvia ad un profilmico che è una copia differenziale del fenomeno. L’azione nel profilmico e la produzione di
un’immagine filmica particolare sono il risultato di un’operazione compositiva che a un tempo si correla a
un’immagine mentale e contribuisce essa stessa a delinearla. La composizione filmica è insomma qualcosa
che presuppone un’immagine mentale, ma che insieme la oltrepassa, la modifica, qualcosa che si correla a
qualcos’altro per concretarlo, arricchirlo, trasformarlo ulteriormente. Il rapporto tra profilmico e immagine
filmica, dunque, è sempre un rapporto di duplicazione e di modificazione, di ripresa e di differenza.
L’immagine filmica è insieme una copia differenziale, è una differenza relativamente somigliante del
profilmico non è un originale, sia perché esso stesso rinvia ad altro, sia perché l’immagine lo modifica
sensibilmente. L’immagine filmica è un simulacro, anzi è un simulacro alla potenza, in quanto è copia
differenziale di una copia differenziale senza originale. Secondo Deleuze, il simulacro è un’immagine
demoniaca che ha posto la somiglianza all’esterno e vive di differenza. Il simulacro non è né icona, né
visione:esso non ha un rapporto di identità con l’originale, col prototipo, né implica la lacerazione di tutte e
apparenze e la rivelazione di una pur verità sostanziale. L’’immagine filmica lavora necessariamente
sull’apparenza, sulla cosiddetta impressio/illusione di realtà, sul mostrare qualcosa che non è il mondo.
L’immagine filmica appare dunque come impressione di realtà e si rivela invece come simulacro. Il film
maschera la propria struttura proponendosi come immagine della realtà; questa duplicità da un lato propone
uno spettatore diviso, sdoppiato, che percepisce insieme il film come mondo reale e come finzione, come
illusione e come verità: nessuna epoca ha conosciuto un rapporto forte ed essenziale con l’illusione e con la
finzione come il Novecento. L’immagine simulacro non è una superficie senza profondità, una mera
apparenza senza significato, ma, anzi proprio per la sua natura di superficie contraffatta, di immagine che
cerca di nascondere la propria natura e la propria processualità,è un’immagine che scatena dinamiche
speculari del senso,giochi di rifrazione semantica, meccanismi di significazione complessa. Il cinema è un
meccanismo di realizzazione di una copia differenziale destinata prevalentemente a produrre attrazioni e a
coinvolgere lo spettatore in una relazione di piacere. La sua operazione implica una
produzione/trasformazione del visibile in succedaneo di un fantasma di piacere, capace di delineare una
fantasmagoria visiva.
The woman in the window. L’immagine simulacro.
Sono i film stessi ad oggettivare a volte il carattere simulacrale dell’immagine filmica, copia differenziale,
somiglianza. Prendiamo due film di due grandi autori: Fritz Lang e Alfred Hitchcock: the woman in the
window w Vertigo. Nel primo film, Lang ci presenta il protagonista che guarda in una vetrina il ritratto di una
donna e poi trova la stessa donna viva accanto a sé. Lang articola la visualizzazione del rapporto complesso
tra le diverse configurazioni della donna del ritratto, elaborando immagini a valenza multipla che giocano sul
raddoppiamento della figura femminile e sulle potenzialità di rifrazione della vetrina. Nel film la
moltiplicazione dell’immagine della donna in tre figure diverse, il corpo concreto, il ritratto e la rifrazione nella
vetrina, crea un effetto di ambiguità radicale e di sovrapposizione di percezione e allucinazione di reale e di
immaginario. Le inquadrature successive sono costituite prevalentemente da campi e controcampi dell’uomo
e della donna, realizzati in modi diversi, tranne l’inquadratura 9, che mostra insieme Alcie, il ritratto e Wanley
di profilo. Il professor Wanley sta guardando un ritratto in una vetrina, l’immagine del ritratto è anche riflessa
nel vetro. La donna del dipinto, è la stessa donna che Wanley vede riflesso nel vetro. La rifrazione del vetro
mostra la donna che sta guardando il proprio ritratto. Quello che si realizza, attraverso le immagini
moltiplicate della donna, è un duplice riconoscimento in cui il sé e l’altro, sono variamente implicati. Da un
lato l’uomo vede nell’immagine riflessa della donna un inveramento dell’immagine della donna vista nel
ritratto. L’uomo vede il ritratto e l’immagine riflessa nella vetrina e l’immagine della donna viva sempre
riflessa nella vetrina. È insomma un effetto di duplicazione che rifigura e visualizza la donna del ritratto nel
vetro e la donna ancora nel vetro. Il vetro si pone come spazio impalpabile, in cui ombre fantasmatiche
appaiono in rapporto con il soggetto, il suo ritratto e le loro rispettive duplicazioni. Nella visualizzazione dei
doppi, Lang opera un meccanismo che riguarda l’orizzonte dell’immaginario. La donna scopre sé stessa in
un duplice movimento di identificazione con il sé doppiato del ritratto e con la percezione dello sguardo
ammirato dell’uomo. È il ritratto dipinto che produce sia l’immagine riflessa sul vetro che la donna-modellofittizio: quindi, il semiotizzato è delineato prima del presunto reale, anzi il presunto reale non ha consistenza.
Il ritratto dipinto è vero e gli eventi legati al ritratto e alla donna del ritratto sono non veri, non fenomenici,
inesistenti, onirici.
Vertigo, la donna che visse due volte.
Analizziamo due movimenti simbolici in cui emerge la struttura di simulacro come copia differenziale di una
copia differenziale. James Stewart (Scottie) nella seconda parte del film trasforma la personalità e
l’immagine di Judy per rimettere in scena, attraverso una simulazione dell’aspetto,del trucco e del
comportamento del personaggio e la figura di Madeleine,che crede ormai morta. La sua operazione è la
manipolazione di un personaggio per farlo diventare in grado di giocare il ruolo di un altro personaggio.
Scottie cerca di rendere Judy in grado di interpretare Madeleine. La scena che Scottie vuole riattivare è a
sua volta il risultato di una messa in scena nascosta e contraffatta come evento esistenziale puro. Scottie
cerca di ri-mettere in escena un insieme di azioni, di comportamenti che erano già una messa in scena
mascherata, programmata e realizzati da un altro personaggio (Ester) per ingannare Scottie stesso. La
manipolazione di Judy riprende un’altra manipolazione realizzata da Ester ed è quindi una manipolazione
che riprende un’altra manipolazione senza saperlo. Grazie alla trasformazione di Scottie, Judy diventa una
copia differenziale della falsa Madeleine (che è la stessa Judy), cioè di un soggetto che è una copia
differenziale di un altro soggetto che è invisibile, sfugge e scompare, cioè muore. In Vertigo, l’immagine
simulacro, che è il cinema, si oggettiva attraverso forme succedanee e ulteriori di simulacro: il simulacro
della messa in scena e il simulacro del soggetto. Davanti all’immagine simulacro, lo spettatore non ha un
atteggiamento neutro, ma risponde con una particolare partecipazione. Il fruitore subisce un meccanismo di
doppia credenza, che pone lo spettatore nella condizione di credere e di non credere alla veridicità
dell’immagine schermica. Lo spettatore è sdoppiato e si trova a partecipare alle emozioni che il film gli
propone in una condizione schizoide. Lo spettatore si trova i punti di riferimento incerti e non può che
abbandonarsi alla forza delle immagini che lo investono dallo schermo. Lang e Hitchcock realizzano nello
spettatore percorsi emozionali legati a strategie completamente diverse. Lang opera sulla scoperta e sulla
sorpresa, Hitchcock allarga il sapere dello spettatore, lo fa partecipe dell’accadere e del possibile minaccioso
che incombe,per poter lavorare sulla suspense.
Capitolo II, la messa in scena e la simulazione.
Prendiamo in esempio il film di Oliver Stone, JFK. Le immagini amatoriali dell’assasinio di John F. Kennedy,
girate in 8 mm da un testimone oculare, Zapruder, appaiono più volte nel film, ora in bianco e nero, ora a
colori: quasi all’inzio, poi durante una conversazione in aereo del protagonista Garrison con un senatore,
ancora quando Garrison sogna, poi più variamente durante la verifica di alcune testimonianze, direttamente
sul luogo del delitto, ancora durante le prove di sparo dal deposito di libri dov’era Oswald. Nel segmento più
lungo legato alla descrizione di Garrison, in tribunale, le immagini di Zapruder e quelle di Stone si mescolano
e si intrecciano insieme in una perfetta integrazione dentro una specifica opzione per l’immagine-documento.
A primo sguardo le immagini di Zapruder sono a colori, mentre quelle di Stone sono in bianco e nero. La
differenza tra bianco e nero e colore quindi non garantisce allo spettatore la chiarezza necessaria e diventa
una maschera ingannevole,che finisce per dfare indicazioni quanto mai ricche , ma anche ambigue, perché
mescola le inquadrature di diverso tipo e di diversa origine. Questo raddoppiamento della realtà mondoan,
costituisce di fatto un’operazione di costituzione di un mondo fittizio più vero del vero, che ha il carattere di
una simulazione e può essere effettuato solo grazie alla messa inscena cinematografica. La messa in scena
di Stone è un raddoppiamento che riconfigura il visibile in modi del tutto simili al mondo oggettivo fissat nelle
immagini del film di Zapruder. Da un lato Stone afferma indirettamente il carattere strutturalmente simulativi
del cinema, e dall’altro sembra anche definire la struttura di simulazione della messa in scena e il suo essere
ri-figurazione del visibile. Questa rifigurazione simulativa punta a riconfigurare il visibile, dandogli aspetti, le
forme, i tempi e i movimenti necessari. La rifigurazione compiuta naturalmente la simulazione è la forma
stessa della messa in scena che è funzionale ed efficace perché simula e rifigura tutto nella maniera più
esatta. Tutte queste immagini si presentano come immagini più vere del vero, poiché non solo cercano di
ripetere gli eventi nel loro configurarsi oggettivo sotto il profilo visivo e dinamico,ma , al tempo stesso,
puntano a mostrarne il lato nascosto, la verità celata. Questa opzione filmica, per una simulazione, per una
configurazione visiva più vera del vero attesta una convergenza formale ed estetico progettuale, con la
pittura dell’iperrealismo. Il film di Oliver Stone produce un’immagine che sembra riprendere e riattivare la
poetica e la logica compositivi della pittura iperrealistica. Il punto di riferimento di questo tipo di pittura non è
infatti il reale, ma la sua ricostruzione e standard.
King Kong
La centralità della simulazione è mostrata chiaramente in una sequenza della prima parte di un film cult
come King Kong, di Cooper, che si colloca nei primi anni del cinema sonoro. Davanti alla macchina da
presa, esattamente diretta dal regista, l’attrice fa quello che le viene detto e simula quindi i gesti, gli
atteggiamenti psichici, le emozioni che le vengono suggeriti. Il segmento essenziale è costituito dalle inq 12
e 13, dedicate rispettivamente al regista dietro la mdp e all’attrice. La recitazione dell’attrice è una mera
esecuzione delle istruzioni del regista e si configura come una ripetizione gestuale, mimica ed espressiva, di
carattere simulativi,di quanto le viene indicato. È evidente che l’attrice no prova nessun sentimento, nessuna
emozione e non si trova neanche nelle condizioni di immedesimarsi nel personaggio. La sua interpretazione
è ricondotta a grado zero, alla sua condizione essenziale. Ann fa quello che il regista le suggerisce di fare e
quindi simula situazioni e stati psichici particolare, che ovviamente non prova. Il suo lavoro è pura
simulazione, pura tecnica. Nella simulazione davanti alla macchina, l’attore delinea un tratto visibile,
generalmente in movimento, che si stacca dall’attore e si fissa nella pellicola. La simulazione deve essere
negata come tale e diventare qualcos’altro da sé, se vuole svolgere positivamente il compito e le finalità per
cui è stata pensata e prevista. Nel cinema di finzione, quello che viene posto davanti alla macchina da presa
e viene ripreso non è mai realtà, ma sempre una simulazione del visibile, o più esattamente un evento
simulato agito nel momento della ripresa stessa. Quello che lo spettatore vede sullo schermo è un evento
simulato, cioè predisposto e attivato come se foss un fenomeno del mondo: è un come se, non è mai il
mondo come tale.
Le performances nei film di Warhol.
Il cinema di Warhol, in questa prospettiva, costituisce uno straordinario reagente chimico,che, per via
indiretta e a volte paradossale, può rivelare meglio alcuni aspetti nascosti della struttura del cinema. I primi
film di Andy sono muti, mentre i film successivi al dicembre 1964, hanno in genere un sonoro in presa
diretta, non rielaborato in post-produzione. Scegliamo due film particolarmente rilevanti di Warhol, uno
sonoro e uno muto, Vinyl e Sleep, per riflettere ancora sul problema della simulazione attoriale. In Vinyl gli
attori dislocati su due differenti livelli di profondità, simulano azioni che si svolgono in tempi e spazi differenti,
con un significativo ripensamento del concetto stesso di profondità di campo e di piano sequenza, che
anticipa le esperienze di Anghelopoulus. Sulla destra dell’inquadratura si muove Edie Sedgwick, una delle
star della Factory di Warhol. Il suo comportamento è staccato dal resto dell’azione, in cui la donna non
partecipa direttamente mai, ma è in qualche modo correlato, in quanto la donna mette dischi sul piatto di un
fonografo in campo, e a volte danza vicino agli altri performers.
All’interno di una palese festa omosessuale dai contenuti sado-maso, il giovane viene torturato con una
candela accesa da uno dei droogs, che fa scendere la cera bollente sul petto e sulla pancia del giovane, o
avvicina direttamente la candela alla pelle. La tortura con la candela, seppure realizzata con indubbia
prudenza, si configura in ogni modo come un micro-evento apparente e fittizio in cui, tuttavia, qualcosa può
sfuggire al controllo e alla finzione e produrre un dolore effettivo. Forse ci troviamo di fronte ad una
recitazione improvvisata, in cui l’attore integra la traccia prevista dalla sceneggiatura, con una propria
reattività personale e corporale spontanea. Forse gli attori sono chiamati ad eseguire una performance,
inventata o reattiva. La prestazione di Edie costituisce una variante che rafforza il carattere di simulazione
della messa in scena; o meglio come una simulazione di una messa in scena. La simulazione di Vinyl è
allora in questo caso concepita come una messa in scena che impiega l’altro , il non controllabile come
vettore di rafforzamento dello spettacolare nella forma del dolore del performer e dell’angoscia identificativa.
C’è tuttavia un altro film di Warhol che pone un problema ulteriore alla teoria della simulazione
cinematografica. E’ un film muto, girato nell’estate del 1963 e proiettato dalla filmmakers cooperative. È
sleep, un film di sei ore, dedicato al sonno di un giovane poeta, John Giorno. In questo film, realizzato con
una macchina presa Bolex, muta, con caricatori di pellicola da 2’ 45’’. La sua collocazione si colloca quindi al
di qua dell’orizzonte della coscienza, non implica una deliberata volontà recitativa e neanche una
recitazione. I gesto attoriale è cosciente ma precedente al film stesso e durante la messa in scena il suo
gesto attoriale è invece del tutto incosciente, disegnato dall’andamento del sonno stesso.
I margini della simulazione. Il documentario tra Vertov, Flahery e Rouch.
Anche l’orizzonte del cinema documentario si situa variamente in rapporto alla simulazione. Negli anni Venti
nell’ambito delle cosiddette tendenze di sinistra del cinema sovietico, l’alternativa al cinema recitato/cinema
non recitato era particolarmente forte e investiva ad esempio lo stesso dibattito Ejzenstejn- Vertov e le
riflessioni di formalisti come Sklovskij e Brik. Il progetto di Vertov di escludere dal nuovo cinema il narrativo,
lo spettacolare e il recitato era ad esempio respinto da Ejzenstejn, che sosteneva l’opportunità di usare gli
strumenti e i vettori del cinema a soggetto in una nuova prospettiva patetico- intellettuale e direttamente
ideologica. L’idea di cinema di Vertov non era il progetto di un cinema che non simulava situazioni, ma
costruiva con il montaggio contrapposizioni intellettuali e ideologiche, realizzando un ipotetico punto di vista
rivoluzionario del proletariato. Anche le esperienze più famose di Flaherty, ad esempio Nanook l’eschimese,
non potevano implicare una prevalenza di sequenze di cinema recitato, in quanto tutte le riprese della vita
degli eschimesi dovevano ovviamente essere ripetute a uso di Flaherty e della macchina da presa con un
naturale elemento di ripetizione simulativa. Queste esperienze sono in ogni modo una evidente eccezione
anche nel cinema sperimentale e nel cinema documentario, che per il resto giocano variamente con
un’attitudine simulativi. Questi margini si collocano intenzionalmente al di fuori del cinema narrativospettacolare e d’autore,cui ci riferiamo. Dentro il cinema narrativo la smulazione è in ogni modo un elemento
semiosico fondamentale una struttura compositiva centrale, che semmai si caratterizza per un aspetto di
imperfezione, relativa sia l’azione simulativi sia all’insieme del lavoro di messa in scena.
L’apparenza e la somiglianza.
Ma che cos’è quello che appare e che noi vediamo nell’immagine filmica? È il prodotto di una simulazione,
certo. Ma è un falso , una contraffazione, un doppio, uno pseudo doppio, un facsimile. L’immagine filmica,
anche l’immagine documentaria non può essere confusa con il suo presunto modello fenomenico. Si tratta
infatti di un’immagine di un oggetto, o di un evento, impressa su pellicola e quindi non solo trasposta in un
orizzonte diverso. L’immagine filmica non può quindi essere considerata un doppio di un fenomeno:al
massimo è un doppio differenziale, in cui l’accento va posto sulla differenzialità più che sul doppio. C’è una
differenzialità nel passaggio dall’oggetto-evento alla sua registrazione su pellicola, c’è una differenzialità
nella sua proiezione schermica, che generalmente altera le dimensioni dell’oggetto evento. Quindi
l’immagine filmica non è un doppio e non riproduce l’oggetto. Produce qualcosa di differente su un supporto
differente, con una materia, o un’immaterialità differente. Tuttavia la differenza dell’immagine prodotta no
esclude, ma anzi include elementi di somiglianza, a volte meno forti, ma altre volte particolarmente forti.
L’immagine filmica è quindi il prodotto di una seriosi e riflette modi, logiche e tecniche di quella seriosi
specifica che è la messa in scena. L’immagine filmica è segnata da una iperdifferenzialità rispetto al
fenomenico. L’immagine del film è quindi in genere fondata sulla intenzione di garantire allo spettatore una
immediata riconoscibilità del visibile. La costruzione dell’immagine è realizzata in funzione della percezione
dello spettatore una immediata riconoscibilità del visibile. La costruzione dell’immagine è realizzata in
funzione della percezione dello spettatore. Il cinema narrativo parte sempre dall’esigenza di predisporre una
riconoscibilità del visibile filmico, che è legata a tre logiche, correlate tutte allo spettatore: la logica della
percezione del visibile, la logica della percezione del visibile, la logica dell’organizzazione narrativa delle
immagini e la logica dell’identificazione spettatoriale.
L’immagine somigliante nel cinema assume poi articolazioni particolari che sono legate non alla presunta
capacità riproduttiva del mezzo, ma ai modi specifici, tecnico-linguistici, di organizzazione delle immagine
filmiche stesse.
Capitolo III, la configurazione della luce.
Proviamo a guardare le immagini filmiche, per contemplarle con il tempo necessario. Prendiamo tre
microsegmenti di immagine filmiche di indubbia intensità visiva. Uno capostipite del muto giapponese:
Kurutta Ippeiji; un altro di un noir americano, interno alla grande stagione hollywoodiano, come T-men di
Antony Mann; un di un film recente come Muhlloland Drive di Lynch. In A page of madness l’inzio del film
presenta un susseguirsi di immagini in cui domina l’oscurità e si scorgono appena spazi e microeventi
immersi nel buio. In T-men, il progetto compositivi di Antony Mann e la straordinaria fotografia di Alcon
creano un mondo diegetico immerso nell’oscurità. In particolare alcune sequenze nella parte centrale del film
potenziano il buio e delineano gli spazi e i personaggi in un orizzonte dominato dal nero o dall’oscuro.
In Mulholland Drive,nel segmento del passaggio dalla vita di Betty jelms e Rita a quella di Diane Selwin e
Camilla Rhodes, il film presenta tre immagini di nero e tre immagini di uno spazio immerso nell’oscurità in cui
è visibile solo la fioca luce di una finestra. La prima è legata all’apparente penetrazione della mdp nella
misteriosa scatola blu, aperta da Rita e sembra delineare una sorta di zoom nel nero. La seconda è un breve
nero tra il cowboy che dice “Hey pretty girl..” La terza è un nero più lungo che sancisce la chiusura di un
universo, quello del sogno, e l’apertura piena di un altro. Sono tre segmenti caratterizzati da immagini in cui
l’oscurità prevale sulla luce e i contorni del visibile appaiono difficile decifrazione. L’immagine che lo
spettatore vede è certamente inscritta in uno sviluppo narrativo ed è legata ad altre immagini,successive o
precedenti, che mostrano lo spazio con una luce diversa, rendendolo quindi generalmente più riconoscibile.
Nelle immagini evocate, quello che noi vediamo è un’oscurità prevalente in cui fatichiamo a riconoscere
spazi, figure e oggetti. Queste immagini nere o bianche inscritte nel tessuto filmico si caratterizzano su vari
piani:
• sono forme totali che potrebbero rammentare le esperienze di arte monocroma di Malevic, di
Rodcenko.
• Nel cinema sperimentale il monocromo costituisce un azzeramento del segno, una eliminazione di
ogni rapporto possibile con un referente.
• Nel cinema narrativo invece il monocromo funziona su una duplice banda di significazione. Da un
lato acquista un senso nel contesto narrativo, in relazione allo sviluppo degli eventi narrati; dall’altro
costituisce l’inserimento di una differenza visiva, di un momento di astrazione totale all’interno del
testo filmico.
• Se il nero può diventare immagine anche nel film narrativo-rappresentativo-industriale, questo vuol
dire che la gamma di significanza e di pertinenza dell’immagine filmica è, in qualche misura,
autonoma dal visibile fenomenico.
Il nero o il bianco sono in primo luogo immagini costituite dal rapporto con la luce che è insieme l’oggetto e la
materia costituente dell’immagine filmica. L’immagine può essere nera o bianca perché è qualificata e
determinata dalla luce e solo in seconda istanza dall’oggetto ripreso. Non è l’oggetto concreto a
caratterizzare l’immagine filmica, è la luce. Qualsiasi orizzonte visibile cambia la sua figurazione a seconda
della luce. È la luce che trasforma gli oggetti del proflmico e costituisce l’immagine filmica stessa. Il
passaggio del profilmico dal visibile al testo-film si effettua attraverso la mediazione della luce e grazie alla
luce. Nel film Il Mistero di Oberwald, Antonioni, avvalendosi dell’elettronica, modifica i colori dello spazio e
dei personaggi in relazione alla tonalità affettiva, alla qualità delle relazioni intersoggettive; la dominante
verde diventa significante per la crisi dei personaggi e dell’atmosfera degli eventi narrati. In Salomè di
Carmelo Bene, la costruzione della scenografia e dello spazio filmico attraverso l’uso intensivo di un
cromatismo forte, l’impiego di colori acrilici che sembrano quasi sostituirsi agli oggetti, come se avessero una
consistenza particolare e un’autonomia visiva ulteriore,ridisegnano l’immagine filmica come uno spazio
profondamente artificiale che pare allontanare indefinitivamente i riferimenti al mondo. È il cromatismo della
luce che essere il visibile filmico, è il cromatismo della luce che compone le strutture formali e dinamiche del
testo filmico. Il cinema dunque si pone non come un universo di immagini che rinviano a una presunta realtà,
modificando l’universo dell’immagine stessa. Queste immagini sono insieme correlate al mondo e distinte
autonome da questo. Nell’immagine e nell’immagine filmica non si vede la cosa, ma la visibilità della cosa
stessa, l’illuminazione visibile che mostra la cosa. Da un lato la rappresentazione sottolinea il carattere di
riproduzione del visibile e tende ad accentuar l’aspetto mimetico-descrittivo e a ridurre la rilevanza del lavoro
della composizione. La rappresentazione secondo Lyotard e derida è un universo di oggetti organizzati,
sincronizzati e gerarchizzati da un riferimento ultimo. La rappresentazione implica un mondo ordinato e
centripeto, in cui esiste una razionalità nelle cose e tra le cose e il linguaggio. L’immagine filmica non è in sé
rappresentativa, perché è estranea al sistema concettuale e alla struttura della rappresentazione. È semmai
un’immagine simulativi e differenziale che acquista una forma configurativa inscrivendosi nel visibile diffuso.
In Vertigo di Hitchcock, alla fine della prima parte, Madeleine è sfuggita a Scottie e sale rapidamente verso il
campanile. Scottie la insegue sulla scala ripida, ma l’acrofobia improvvisamente lo blocca. Scottie non riesce
a proseguire la salita ed è costretto alla sua stessa paura a guardre la tromba delle scale e il vuoto sotto di
lui. L’elemento essenziale dell’immagine è il lavoro di rielaborazione formale, l’effetto visivo artificiale
prodotto grazie ai trucchi, alle tecniche del cinema In Le Petit soldat , Godard realizza una seduta
fotografica in cui Bruno Fostier scatta una serie di istantanee a Veronica Dreyer e insieme avvia con la
donna un dialogo che affronta nodi esistenziali e psicologici. È una sequenza che valorizza la bellezza di
Anna Karina e delinea uno stile particolare di ripresa, caratterizzato dalla semplificazione estrema degli
elementi scenografici, ridotti spesso a una mera parete bianca. La critica dell’idea di arte come mimesis non
è soltanto sviluppata nell’ambito dell’avanguardia e della sperimentazione, ma ha avuto anche particolari
articolazioni concettuali nell’estetica contemporanea. Goodman si chiede come sia possibile realizzare una
copia del mondo. È impossibile ipotizzare uno sguardo neutro che riflette il mondo com’è, perché lo sguardo
neutro non esiste: ogni sguardo è segnato dalla storicità, dal gender, dalla razza, dalla cultura e dal
simbolico. L’idea di realismo nell’arte, nella letteratura e nell’immagine filmica in particolare resta ancora
diffusa. I caratteri di un’immagine filmica non sono legati alla realtà e all’oggetto ripreso, ma agli standard
diffusi di configurazione del visibile. Bazin ha lungamente affermato la capacità dell’immagine filmica e
fotografica di rappresentare il reale. Il realismo è uno stile possibile dei film, è anche un modello formale che
può essere rifiutato a favore di altre prospettive: la storia del cinema conosce benissimo la molteciplità delle
differenze formali che si sono via via affermate attraverso le scuole, i movimenti e gli autori. Il riferimento al
reale non solo è poco rilevante in un testo, ma rischia di diventare un elemento discorsivo, un
appannamento del meccanismo significante. (p 105, Manritte)
La forza dell’immagine e la realtà dello spettatore, Mulholland drive.
La relazione con lo spettatore e la sua seduzione giocano un ruolo essenziale nell’economia della messa in
scena e dell’immagine filmica. Prendiamo il segmento del Club Silenzio in Mulholland Drive. Svegliata da
Betty, Rita le chiede di andare insieme in un locale, il Club Silenzio, che le due giovani raggiungono in auto
nella notte. Nel Club un presentatore che introduce uno spettacolo, riprende esattamente le parole
pronunciate da Rita nel sonno. La sequenza e in particolare l’intervento del presentatore attivano nel film
un’esplicita enunciazione del tema e dell’orizzonte del falso e dell’artificiale, ma insieme mostrano con
grande precisione il rapporto tra spettacolo e spettatore in una luce particolare. Il canto della donna è solo
un’illusione, l’evento è radicato nella finzione spettacolare. La lacrima che la cantante ha sul volto è
designata, è finta, mentre vere sono soltanto le lacrime e le emozioni delle spettatrici, Betty e Rita. Questa
sequenza assume un’esplicita valenza meta-cinematografica e si costituisce come un’evocazione metaforica
del dispositivo cinematografico e del rapporto spettatoriale. L’unica realtà dell’immagine è la forza esercitata
sullo spettatore.
Capitolo IV, La Monument Valley e l’immagine mediatica.
Su questo terreno si levano imponenti montagne di roccia, squadrate, colli di arenaria e iriti pinnacoli
rocciosi. I suoi 12.000 ettari di monoliti ,guglie, canyons e di dune delineano un paesaggio primordiale, non
alterato dall’uomo, in cui le rocce erse dall’azione dell’acqua e del vento disegnano uno spazio di
straordinaria intensità visiva. La Monument valley è lo spazio visibile dedicato al West e come tale si è
impost come icona immaginaria in tutto il mondo. La Monument Valley non ha subito nessuna alterazione,
non è stata soggetto di nessuna valorizzazine turistica che potesse modificarne l’aspetto ma è diventato
un’icona del Novecento. Il suo essere inteso come presenza, concretezza visiva, insieme geologico e
paesaggistico determinato, il suo essere un ente è rimasto inalterato, ma il suo essere inteso come unità di
simbolicità, di immagine e di significazione è diventato qualcosa di radicalmente diverso. Questa
divaricazione tra la non modificazione dell’ente e la modificazione radicale dell’essere, come sintesi di
immagine, di simbolo e di senso, è qualcosa su cui vale la pena di riflettere, è evidente che l’ente che
prendiamo in considerazione, è costituito da un’oggettualità determinata e da un sistema di relazioni uniti in
un essere determinato inscindibile. Ford ritorna sistematicamente nella Monument Valley per ambientarvi
alcuni dei suoi western più significativi. Ancora più suggestivo è l’impiego della Monument Valley in She
wore a yellow Ribon, che si avvale anche della suggestione del colore. La fotografia di Hoch lavora in modo
particolarmente intenso sul cromatismo della valle, potenziando al massimo il rosso delle rocce, le distese di
sabbia chiara, il verde della vegetazione e il blu del cielo. Ford rende più sistematico quel processo di
trasformazione della geografia della valle in uno spazio puramente filmico e profondamente immaginario.
Ford ritorna ancora nella Monument valley per girare un altro grande western, forse il film che raccoglie in
sé, al più alto grado, i valori simbolici del west e del mondo western. La valorizzazione cromatica dei
paesaggi, la composizione visiva sempre più attenta all’invenzione di una nuova bellezza dell’immagine
filmica, si accompagnano ad una ricerca di punti di vista che tagliano e ricompongono la visione con grande
capacità di suggestione. Nel film di Sergio Leone, C’era una volta il west, si presenta evidentemente come
un intenzionale e sistematio meccanismo di rievocazione e di citazione del mondo del western. Qui la
Monument Valle sembra diventare un puro segno che rimanda a un altro segno in un gioco intertestuale in
cui diventa rilevante l’eventuale rinvio a un referente. In Back to the future, part III, l’impiego della Monument
Valley come spazio in cui irrompe di colpo il protagonista del film. Qui la M.V. assume il carattere di un’icona
pop, cioè di un’icona immersa nell’immaginario popolare, che non solo si presta ai giochi, ai rimandi e alle
invenzioni dell’universo mediatico. Nel caso della Monument Valley, l’aspetto più rilevante nella produzione
di diversi livelli di significazione dell’immagine è dato dalla ripetizione omogenea delle immagini implicate e
quindi dalla sostanziale non dipendenza dei livelli diversi della significazione dell’immagine. L’invisibile
nell’immagine filmica è quindi innanzitutto un carattere essenziale del senso: è un invisibile strutturale.
L’invisibile è qualcosa che è legato a componenti del sapere sociale o all’universo del cinema nel suo
sviluppo storico e mediatico: è un invisibile relazionale. Poi c’è l’invisibile relazionale che è segnato da un
aspetto particolare, da una qualità interna forte. L’invisibile relazionale nell’immagine filmica è sempre legato
al visibile. Il non visibile nell’immagine filmica è qualcosa che la visione rende attivo. L’immagine è infatti una
certa visualizzazione della coscienza, un’attitudine intenzionale della coscienza tesa a confrontarsi con una
cosa in quanto immagine.
Lo specchio e l’immagine riflessiva.
L’immagine iper-mediatizzata della Monument valley costituisce in maniera esemplare uno dei poli centrali
dell’immagine filmca, caratterizzata dell’immersione nello scambio comunicativo generalizzato. L’immagine
filmica ha questa duplice valenza di inserire il visibile nella molteplicità delle reti comunicative e di mostrare il
soggetto che fa parte del mondo e si vede far parte del mondo. L’immagine del soggetto nello specchio è
insieme immagine immagine del corpo nello spazio, oggettivazione della corporeità dell’immagine, segno del
legame con il mondo, oggettivazione della duplicità del sentire e del vede che caratterizza il soggetto.
Nell’orizzonte dei film, le immagini allo specchio sono molto numerose e giocano funzioni simboliche diverse.
Dunque nei film le immagini allo specchi si presentano secondo le seguenti tipologie spaziali e visive:
*immagini speculari che occupano tutto il campo visivo
* immagini di uno o più personaggi riflessi in uno spacchio, che in ogni modo non esaurisce il campo
visive.
*immagine moltiplicate da un insieme di spicchi, variamente dislocati
*immagini riprodotte non nitidamente in uno specchio.
Anche in film di minore importanza l’immagine speculare può occupare tutto lo schermo e ingannare
momentaneamente lo spettatore. La sostituzione dell’immagine inquadrata direttamente con l’immagine
ripresa attraverso lo specchio sottolinea evidentemente il carattere artificiale, fittizio dell’immagine filmica, il
suo essere u prodotto illusivo che finge di sostituirsi al mondo. Le immagini riflesse nello specchio sono
innanzitutto percepite dal personaggio come immagini naturali e abituali: in esso il personaggio si vede con il
proprio corpo nel contesto specifico in cui sta operando. In alcune sequenze di vertigo si riflettono
ripetutamente in uno specchio. Le immagini speculari rispecchiano la mobilità dei personaggi nella stanza,
ma sono anche una sorta di leit motiv. Le immagini allo specchio di Vertigo nno presentano tutte lea
medesima tipologia. Nel Tableu iniziale di Vivre sa vie il grande specchio al fondo del bar riflette
parzialmente i personaggi al bancone, che la mdp coglie di schiena, senza rivelarne chiaramente il volto. Il
terzo tipo di immagine allo specchio è costituito allo specchio è costituito dall’inquadratura di uno o due
personaggi che si guardano esplicitamente allo specchio. È un’immagine che produce una più complessa
dinamica riflessiva in cui direttamente il corpo e il soggetto sono implicati. In M di Lang, una delle sequenze
alla vetrina articola una serie di inquadrature riflesse di grande rilevanza simbolica. Le inquadrature alla
vetrina dei coltelli sono dieci e sono dedicate non solo a Peter Lorre ma anche ad una bambina, una vittima
potenziale e alla merce esposta nella vetrina stessa. Lo specchio è il luogo in cui l’identità del soggetto è
confermata o smentita, è la superficie che sancisce l’appartenenza del personaggio a un orizzonte di
riconoscimento o la sua deiezione nell’inatteso e nel misterioso. Altre volte l’immagine speculare è
potenziata da una moltiplicazione intenzionale dell’immagine in altri specchi che produce effetti artificiali di
indubbia suggestione. In The Circuì, Charlot inseguito dalla polizia e d a un gangster scappa al luna park in
n labirinto di specchi, dove la sua immagine e quelle degli inseguitori sono moltiplicate in una serie di effetti
illusivi ed esilaranti. Lo specchio contribuisce all’oggettivazione del raddoppiamento del profilmico e
sottolinea il carattere enunciativo dell’immagine filmica.
L’oltrepassamento dell’immagine speculare
Un altro insieme di immagine speculari presentano poi una minore nitidezza e appaiono meno definite nei
contorni e nel profilo, o addirittura deformare. In questi casi l’immagine è spesso riflessa non in uno
specchio, ma su un’altra superficie, che può essere un vetro o l’acqua o lenti di un paio di occhiali. In The
Woman in the window, il raddoppiamento dell’immagine del personaggio si somme al raddoppiamento
dell’immagine del quadro nella vetrina e dà vita a un meccanismo complesso che abbiamo già analizzato nel
capitolo sull’immagine simulacro. In Fury, ancora di Lang, la vetrina è anche più chiaramente uno specchio
significativo della psiche del protagonista. John Doe, dapprima quando visualizza il desiderio di sposare la
donna amata e poi, verso la fine del film, quando nella vetrina vede i fantasmi delle persone che vuole far
condannare. Lo specchio può apparire non soltanto come superficie riflettente, che doppia il visibile, ma
anche come soglia di separazione e di divisione fra due mondi. Le immagini speculari negate. Di grande
rilevanza simbolica sono poi le immagine di specchi in cui i personaggi vicini non appaiono riflessi. Nella
seconda versione di Der Student von Prag, Baldwin, il protagonista che ha venduto la propria ombra al
demoniaco mago Scapinelli, si guarda allo specchio per verificare la propria identità mutevole nel non
vedersi riflesso scopre la perdita dell’ombra e quindi dell’anima. L’assenza dell’immagine speculare la
possiamo ritrovare in due film : Per favore non mordermi sul collo e L’age d’or di Bunuel. Il ricorso allo
specchio come elemento compositivi forte, sottratto alla funzione riflettente , e trasformato in una
configurazione enigmatica, segna anche Mesches of the Afternoon, di Maya Deren e Alexander Hammid. In
alcune immagini non vediamo lo specchio, ma lo specchio e la sua funzione riflettente giocano un ruolo
essenziale nello sviluppo narrativo della sequenza. In Vertigo, Scottie vede nello specchio non inquadrato la
collana di Judy, già indossata da Madeleine. Nella sequenza del monologo di Travis in Taxi Driver di
Scorsese, lo specchio è inizialmente mostrato, ma poi viene cancellato dall’orizzonte del visibile, anche se
Travis, nella sua lunga performance si rivolge allo specchio invisibile, creando interlocutori e nemici
immaginari o oggettivando una sorta di dialogo aggressivo e paradossale con la propria immagine
speculare che lo spettatore continua a non vedere. Lo sguardo allo specchio può portare ad una simultanea
e complementare oggettivazione dell’identità. È un oggettivazione, perché la persona che si guarda vede sé
stessa duplicata e quindi oggettivata nello specchio e si coglie quindi come un essente immerso tra gli altri
enti e dunque come una presenza nel mondo. È una soggettivazione perché l’immagine speculare del sé
mostra un aspetto visivo che è percepito dal soggetto che sta guardando e implica quindi uno sguardo
soggettivo sul soggetto stesso: il soggetto guarda se stesso e si percepisce secondo le strutture percettive
che lo costituiscono. Vede sé stesso come vuole vedersi, ma insieme si vede come appare nel mondo
grazie alla reduplicazione della macchina-specchio. Questo meccanismo di doppia riflessività finisce quindi
per registrare un doppio percorso simultaneo di oggettivazione del soggetto stesso. La forza dell’immagine
speculare nel cinema è quindi legata alla sua riflessività simbolica che riguarda al tempo stesso il
personaggio soggetto nel suo rapporto con la propria immagine e con il mondo e il personaggio-soggetto nel
suo rapporto con se stesso e con la propria identità.
Capitolo VI: immagini e forme eidetiche
La capacità dell’immagine filmica di superare la cosiddetta realtà e di delineare scene differenziali e
somiglianti apre al cinema due territori antitetici come quelli delle idee e dell’inconscio, dell’intelletto e del
fantasmatico. La volontà di produrre un’immagine-idea, un’immagine che avesse la pregnanza significante di
un’idea ha attraversato esperienza particolari di messa in scena, impegnate ad allargare le forme e gli
orizzonti del linguaggio filmico. Un particolare tipo di immagini può distaccarsi dalla realtà e diventare il
luogo di incontro tra il visibile e l’idea: sono le nuove immagini eidetiche che la messa in scena può creare.
In un saggio del 1933 intitolato Nell’interesse della forma, Ejzensteijn sottolinea l’assoluta inerenza dall’idea
alla visione, rilevandone il radicamento nella stessa etimologia dei lemmi. Anche il lemma eidos oggettiva
esplicitamente questa connessione generica e unifica i campi semantici differenziati, come forma, visione,
idea, anche se la nozione di forma, inteso come modello, diventa prevalente: eidos. La teoria di Ejzensteijn
degli anni Venti si interroga sui modi di produzione delle idee attraverso il cinema e configura apertamente i
meccanismi intellettuali inscritti nel testo come strumenti per suscitare idee nello spettatore. La teoria di
Deleuze, che parte dal parallelo suggerito da Bergson sul funzionamento della mente e del cinema, e rileva
come il cinema attui la produzione di “uno choc sul pensiero”. Egli rileva poi modi diversi di produzione del
pensiero e individua tre possibili rapporti fra cinema e pensiero: il rapporto con un tutto pensabile soltanto
raffigurabile nello svolgimento subconscio delle immagini, il rapporto senso-motorio tra il mondo e l’uomo, la
natura e il pensiero. L’immagine eidetica è un’immagine che realizza una fusione di configurazione visiva e
di idea, di forma, di visione e di concetto. È un’immagine-ide, una struttura visiva, impregnata di un
contenuto intellettuale particolare. Nell’immagine eidetica l’idea non è inserita nel visibile, non è qualcosa di
aggiunto, un contenuto separato, ma è un tutt’uno con il visivo. La tipologia più immediata di oggettivazione
di una idea nell’immagine filmica è costituita dall’inscrizione nell’immagine di segni, cifre e oggetti di
carattere simbolico. Dai simboli palesi e nascosti, inscritti nelle immagini di Metropolis e che indicano
apertamente lo scontro tra il cristianesimo e la scienza magico-alchemica-neo tecnologica e che alludono a
Metropolis come città della magia, all’imagine ricorrente dell’aquila come simbolo del genio superiore e
solitario nel Napoleon. In alcuni film il simbolo è anche una cifra, cioè un segno, una traccia che si dà e si
nasconde , che è percepibile, ma rinvia a un senso che solo il sapere solciale permette di cogliere. Le
scenografie di Metropolis, ad esempio, giocano un ruolo simbolico particolare portano inscritta, l’insieme
visibile e nascosta, anche un’altra forma di significazione, eidetica, e più segnatamente esoterica. Un’altra
forma significativa di immagine eidetica è sicuramente costituita dalle configurazioni visive del cinema
espressionista e in particolare del cosiddetto caligarisme. In Caligari, in particolare, i decors dipinti, le quinte
stilizzate, i supporti scenici disegnati sul modello della pittura espressionista, e in particolare di Kirchner e di
Heckel, costituiscono un segno visivo di grande forza e di indubbia coerenza stilistica. Gli elementi pittorici
dell’immagine sono usati in funzione di un effetto di disarmonia e di tensione non risolta. Una forma diversa
di immagine eidetica è invece realizzata dal cinema di Lang del periodo tedesco, in particolare in film come
Die Nibelungen, Metropolis, La stanca morte. La messa in scena di Lang costituisce delle strutture visive
fortemente geometrizzate, in cui ogni elemento del visibile è controllato da una logica compositiva rigorosa e
trasformato insieme in segno di una precisa composizione formale e in traccia di una configurazione
concettuale. L’idea forma di Ejzenstejn è nell’organizzazione del movimento-cntrasto programmato degli
elementi, trasformati in vettori concettuali e spesso ideologici. La produzione dell’idea è quindi legata a una
processualità intellettuale complessa. Le immagini eidetiche di Ejzenstejn si presentano quindi con una
intrinseca qualificazione simbolica, che viene attivata e trasformata dal montaggio conflittuale e intellettuale
per creare un’altra idea, legata a una processualità e quindi dinamica, che è l’idea che Ejzenstejn vuole
comunicare. La produttività eidetica è il punto centrale della sua ricerca. Il cinema sonoro rielabora in forme
differenti i modi di produzione delle idee, operando attraverso un più complesso meccanismo eidetico, che si
allontana dalla dipendenza dal visibile e tende ad articolarsi in forme processuali più sofisticate, legate certo
al visibile, ma ancora più all’invisibile. Nel finale di La dolce Vita, poi, la contrapposizione sulla spiaggia tra lo
sguardo innocente di una fanciulla e un grosso pesce arenato sulla spiaggia e ormai morto costituisce una
contrapposizione metaforica tra due modni, il mondo mostruoso della corruzione, della perdita della moralità
e della vitalità e il mondo naturale della purezza, rappresentato dalla figura della ragazza. Godard procede
attraverso l’elaborazione di un’immagine intenzionalmente intellettuale, eidetica, capace di diventare ora il
veicolo di una riflessione filosofico-esistenziale, ora il luogo di un discorso concettuale che inventa nuove
forme e nuovi percorsi. Nei film Nouvelle Vague, Godard sviluppa un’idea di cine adella riflessione
esistenziale, che trova le su e prime espressioni in Fino all’ultimo respiro e in Le petit Soldat e in Vivre sa vie.
Sono film che portano in sé la filosofia, che si pongono il problema di comunicare il pensiero e cercano di
mostrarlo direttamente. In Vivre sa vie, Godard dive esplicitamente di aver voluto filmare un pensiero in
cammino. Il cinema del primo Godard è il cinema della disponibilità esistenziale, del mondo inteso come
soggetto nella loro variegata molteplicità, dell’esserci considerato come sintesi della libertà e del nulla. Nel
cinema più recente di alcuni autori come Kubrik e Lynch, la scrittura filmica diventa ricerca filosofica,
interrogazione sulla nuova scrittura dell’esistente nella metropoli contemporanea caratterizzata
dall’ipermediatizzazione. In Arancia Meccanica la messa in scena di un mondo costituito di segni di segni
che rinviano ad altri segni in un processo continuo, attesta la fine della naturalità del mondo e l’avvento
dell’orizzonte infinito del segno. Le cose sono soppiantate dalla proliferazione intensiva, dell’immagine,
rielaborata soprattutto in relazione ai modelli iconici della pop art e dell’optical design. In Mulholland drive la
produzione di mondi possibili, insieme alternativi e paralleli, attua un’affermazione del potenziale come modo
dell’essere e dunque effettua un rovesciamento radicale della tradizionale concezione dell’essere come
presenza. L’essere appare qui, non più legato alla presenza, alla cosiddetta realtà, alle configurazioni
oggettive, ma è connesso alle potenzialità, al venire alla luce e allo sparire. Il potenziale è affermato come
orizzonte dell’essere, come modo del possibile che inerisce alla struttura dell’esistenza e ne costituisce una
variante ulteriore, che non è una variante del virtuale. La ricerca di Godard non va soltanto nella direzione
dell’analitica esistenziale. Già negli anni 60 e poi più apertamente, Godard cerca anche di elaborare un
cinema pensiero capace di svilupparsi nelle forme del discorso saggistico, ancora filosofico. Godard elabora
modi di comunicazione apertamente intellettuale e saggistica già nel tableu di Vivre sa vie dedicato al
mestiere di prostituta, che ha il tono di una ricerca sociologica e la scrittura di un saggio. Nelle avanguardie
l’eidetico diventa un ambito di idee che riguardano il cinema, l’orizzonte di un meccanismo autoriflessivo
portato all’ennesima potenza e trasformato nell’orizzonte del cinema stesso.
Capitolo VII: l’immagine filmica e il figurale.
Lyoterd individua tre tipi di figura nella produzione artistica:
*figura-immagine : quella che si vede nel segno
*figura forma: è presenta nel visibile ma non è vista
*figura matrice: è invisibile per principio.
In Discorso figura di Lyotard non dà una definizione netta di figurale. La mancata definizione di figurale
riflette un modo specifico di Lyotard di affrontare l’analisi, la scelta per una interpretazione processuale,
dinamica, non chiusa su significazioni univoche. Lyotard oppone l’occhio al logos, l’arte al discorso e
sviluppa una ricerca sull’inconscio. L’arte vuole la figura, la bellezza è figurale, non legata alla ritmica. Il vero
simbolo dà a pensare, ma innanzitutto si dà alla visione. Il figurale è segnato dall’estraneità alla
rappresentazione, attiva un rapporto diretto con l’inconscio, che prevale sulla razionalità del simbolico e
sull’ordine della rappresentazione. Le modalità di produzione del figurale nella letteratura, nelle altre arti e
nel cinema sono in ogni caso differenti,legate alle particolarità strutturali di ogni sistema di ogni sistema di
segni. Nel cinema il meccanismo è più complesso e implica una triplice istanza di produzione:
*irruzione dell’immagine e delle immagini inconsce, come oggetto o come processo;
*rielaborazione secondaria
*inscrizione del figurale nel film.
Il figurale non va considerato come parola ma come evento, lavoro, proprio come Freud considera non la
parola o la testualità ipotetica del sogno, ma il suo lavoro, i suoi contenuti latenti e manifesti. Il figurale è una
forza produttiva, è un modo di intervento, è un evento che opera diversamente nel film, come nel quadro o
nella letteratura.
APPROFONDIMENTI/RECENSIONI
-Tra i non molti esempi di riflessione filosofica sul cinema, l'ultimo libro di Paolo Bertetto (professore di
Teoria del film alla Sapienza) è uno dei più penetranti, degno di collocarsi accanto al lavoro di Deleuze.
Anche e soprattutto per la chiarezza e precisione con cui mette insieme la competenza specifica sul terreno
del film, e la scelta di riferimenti filosofici decisivi per il pensiero di oggi. Bertetto muove dalla frase di
Nietzsche secondo cui il mondo vero è diventato favola ('Crepuscolo degli idoli'), e procede utilizzando per le
proprie considerazioni sia su Nietzsche stesso ("Non ci sono fatti, solo interpretazioni"), sia i filosofi che lo
hanno ripreso, anzitutto Heidegger, e più di recente Derrida, Baudrillard, Eco, Perniola. Se c'è un terreno in
cui la tesi di Nietzsche, si rivela - paradossalmente - vera, è proprio quello del cinema e della sua presenza
massiccia nell'esperienza contemporanea. Bertetto insiste sul fatto che la finzione filmica non solo non è uno
specchio della realtà data 'là fuori', ma è una libera creazione di simulacri che non hanno un originale, ma
solo una verità interna, identificabile come coerenza e persuasività del loro lavoro sui segni. Uno dei capitoli
conclusivi del libro è dedicato a una lettura affascinante di 'F for fake', un film di Orson Welles (in felice
contrappunto con il 'Ceci n'est pas une pipe' di Magritte), dove tutta la complessità del rapporto tra finzione
filmica e falsificazione si dispiega in una densità capace di ispirare una vera e propria trattazione filosofica
della 'essenza' del vero nella società contemporanea. Il fenomeno dell'interpretazione per ogni possibile
esperienza di verità è forse diventato centrale in filosofia anche e soprattutto perché la filosofia, più o meno
esplicitamente, ha incontrato il cinema e il mondo delle immagini.
-Specchio, simulacro, cinema, mondo, favola. Perfetta rete di corrispondenze associative e di binomi
interpretativi: il cinema è un mondo "nuovo", diverso che interpreta il mondo vero potenziandolo e allo stesso
tempo dichiarandone la fine. Specchio, simulacro, cinema, mondo, favola. Perfetta rete di corrispondenze
associative e di binomi interpretativi: il cinema è, dunque, un mondo "nuovo", diverso, che interpreta il
mondo vero potenziandolo e allo stesso tempo dichiarandone la fine, mostrandolo e presentandolo,
reinventandolo attraverso l’immagine cinematografica, essenza della Settima Arte. Ed è grazie a essa che il
mondo appare, divenendo e inverandosi nell’immagine stessa. Un’immagine che è allo stesso tempo
specchio e simulacro del mondo, in cui la realtà stessa tende gradualmente e progressivamente a
scomparire diventando favola. Il volume Lo specchio e il simulacro di Paolo Bertetto giustifica la sua ragion
d’essere da tali premesse/promesse di "reincanto" del mondo grazie alla potenza visiva dell’immagine
filmica. Così come il sottotitolo tende a legittimare la causa e l’importanza del cinema "nel mondo diventato
favola", l’autore riprende l’affermazione nietzchiana a modello di una considerazione e presa di posizione
all’interno del dibattito filosofico del Ventesimo Secolo, allargata nella prospettiva di considerazioni che
hanno visto coinvolti, tra gli altri, Heidegger, nella sua riflessione inerente alla necessità dell’essere umano di
ripensarsi in termini di immagine per "presentarsi e rappresentarsi, cioè essere immagine".
L’autore analizza le caratteristiche fondanti dell’immagine filmica, quella serie di elementi che tendono a
differenziarla dalla mera rappresentazione fenomenica ma anche da altre immagini come ad esempio quella
pittorica e televisiva. Le peculiarità dell’immagine cinematografica le conferiscono, quindi, quelle
caratteristiche che evidenziano la sua natura spettrale e simulacrale, giocando sull’illusione piuttosto che
sull’evidenza, sulla virtualità, sull’impressione di realtà. Nonostante tali elementi dichiarino la sua natura
differenziale rispetto a quella fenomenica, essa è allo stesso tempo legata al profilmico e alla messa in
scena, a quei caratteri che la saldano più propriamente al mondo reale. Bertetto sottolinea, a tal proposito, la
relativa somiglianza che il profilmico stesso intrattiene con il reale, poiché comunque non originale,
definendo, quindi, l’immagine filmica una "copia differenziale", priva di originale. L’autore nel suo peculiare
lavoro affianca la riflessione teorica a una messa in evidenza della stessa, mediante il ricorso a exempla di
opere cinematografiche. Chiamando in causa la natura simulacrale dell’immagine cinematografica, Bertetto
ne fa un’analisi attenta e di messa in evidenza, analizzando due capolavori: The Woman in the Window di
Friz Lang e Vertigo di Alfred Hitchcock. Un volume, Lo specchio e il simulacro, che non solo espone la
ricerca del docente universitario ma la ostenta nella evidenza espositiva di esempi chiave del mondo della
Settima Arte, inducendo il lettore al doppio regime deduttivo ed intellettivo che tale prassi incorpora. La
simulazione viene affrontata all’interno del testo anche in relazione alla messa in scena, analizzata nella
molteplicità di sfaccettature che di volta in volta essa assume, dichiarando la relazione che intrattiene con
l’autonomia del mondo e con la mimesi, nella triplice veste dell’apparenza, della riconoscibilità e della
somiglianza. Un’immagine, dunque, che si fa simulacro, parvenza di qualcosa che non è, dando origine a
meccanismi e divenendo significante. L’assunzione di una forma simulacrale comporta anche una
delimitazione, in termini marginali: a tal proposito, l’autore ricorre con occhio attento e analitico
all’osservazione critica delle performances presenti nei film di Andy Warol e nei documentari di Dziga Vertov,
Robert J. Flaherty e Jean Rouch. Dopo aver sfatato il delirio di onnipotenza del mondo reale, l’immagine
cinematografica rivela la propria essenza fatta di ombre e luci, di quella che Bertetto definisce come
"configurazione della luce", analizzata nella doppia relazione tra luce e oscurità, il suo rapporto con la
visibilità e le forme del visibile; rappresentazione versus configurazione; l’effetto di realtà che essa comporta
nonostante l’assenza dell’oggetto, analizzato in relazione allo spettatore. Proseguendo nell’analisi, lo
studioso postula anche un’analogia concettuale fra immagine filmica e immagine mediatica, evidenziando il
caso della Monument Valley; essa è anche immagine riflessa: l’immagine costituisce lo specchio per/del
soggetto vedente/visibile, che acquisisce per mezzo di essa la consapevolezza di se stesso in quanto
soggetto. Al di là del visibile, l’immagine si dà col pensiero, con l’idea, divenendo immagine eidetica,
coniugando la forma alla visione, la visione al concetto. Oltre all’analisi delle differenti tipologie di immagini
eidetiche, prendendo a modello alcuni film, l’autore esamina le differenti forme che essa può assumere,
anche in rapporto con l’avanguardia. La componente essenziale dell’immagine filmica si determina sia in
quanto figura che in quanto figurale, delineandone nel testo, a grandi linee, le modalità assunte nel cinema e
prendendo ad esempio due casi esemplari quali Vinyl e A Clockwork Orange. Il lavoro di Bertetto interroga
prima e analizza poi le due dimensioni essenziali e controverse che hanno da sempre caratterizzato
l’immagine cinematografica: il suo rapporto con la verità e l’illusione, nella doppia dimensione ossimorica e in
quella similare, tra verità e illusione visiva; tra falso diegetico, le sue strutture e le sue forze simbiotiche.
Dunque, tra vero e falso: da Das Cabinet des Dr. Caligari a Citizen Kane; da F for Fake sino alla loro
presenza nelle varie declinazioni del documentario. Un libro "illuminante", "trasparente" e "riflessivo" che
aiuta il lettore nel difficile lavoro di comprensione del mondo come favola, nella sua costruzione narrativa
degli eventi, e del cinema come favola in quanto strumento e mezzo per narrare e raccontare il mondo.