4. Le pene accessorie - Dike Giuridica Editrice

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4. Le pene accessorie - Dike Giuridica Editrice
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Parte quarta – Le conseguenze del reato
Anche il soggetto sottoposto all’arresto ha l’obbligo del lavoro, pur potendo lo
stesso, però, ai sensi dell’articolo 25, co. 2, c.p., essere addetto a lavori anche diversi da
quelli organizzati nell’istituto, avuto riguardo alle sue attitudini e alle sue precedenti
occupazioni.
I limiti minimo e massimo stabiliti dalla norma in esame, oltre ad integrare le comminatorie edittali indeterminate, sono vincolanti per il giudice nella scelta finale e nel
calcolo intermedio della pena, mentre possono invece essere superati dal legislatore.
Il limite massimo di tre anni può essere superato in caso di concorso di circostanze aggravanti:
in tale ipotesi, ai sensi dell’art. 66, n. 2, c.p., l’arresto può arrivare fino a cinque anni, mentre in caso
di concorso di reati, in base al disposto dell’art. 78, n. 2, c.p., tale pena può essere elevata sino a
sei anni.
L’ammenda, prevista dall’art. 26 c.p., consiste “nel pagamento allo Stato di una
somma non inferiore ad euro 20 né superiore ad euro 10.000”.
I limiti edittali originari (da euro 2 ad euro 1.032) sono stati innalzati dalla l. 15 luglio 2009, n. 94
al fine di rivalutare le pene pecuniarie.
Anche in questo caso deroghe ai limiti edittali contemplati dall’articolo 26 c.p. si hanno in caso di
concorso di circostanze, ove, ai sensi dell’art. 66, n. 3, c.p., la pena può essere elevata sino ad un
massimo di euro 2.065 ed in caso di concorso di reati, ove, in base al disposto dell’art. 78, n. 3,
c.p., la pena può essere elevata sino ad un massimo di euro 3.098.
Come per la multa, anche nel caso dell’ammenda, ai sensi dell’art. 133-bis c.p., il giudice può aumentare o diminuire la pena in concreto da applicare, quando per le condizioni economiche del
reo la misura massima si prospetti inefficace o la misura minima troppo gravosa.Vale quanto esposto
sopra con riferimento alla multa per quanto concerne l’ipotesi di insolvibilità del condannato e
conseguente conversione della pena nella libertà controllata o nel lavoro sostitutivo.
4. Le pene accessorie
Le pene accessorie sono sanzioni penali interdittive, che comportano la limitazione o la perdita di capacità, attività o funzioni del soggetto che le subisce, ovvero
accrescono l’afflittività della pena principale.
Esse sono connotate nella maggior parte dei casi dall’automaticità, conseguendo
come effetti penali alla sentenza di condanna, anche se esistono numerose ipotesi di
pene accessorie per le quali la legge rimette alla discrezionalità del giudice l’an, il
quantum ed il quomodo della concreta applicazione delle stesse.
L’art. 19 c.p. elenca le pene accessorie previste nel nostro ordinamento; esse si
distinguono a seconda che seguano alla condanna per un delitto o per una contravvenzione.
Le pene accessorie per i delitti sono:
1) l’interdizione dai pubblici uffici;
2) l’interdizione da una professione o da un’arte;
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3) l’interdizione legale;
4) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese;
5) l’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione;
5-bis) l’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro (numero inserito dalla l. 27
marzo 2001, n. 97);
6) la decadenza o la sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori.
Le pene accessorie per le contravvenzioni sono:
1) la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte;
2) la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della
sentenza penale di condanna.
L’opinione prevalente ritiene che l’elencazione contenuta nell’articolo 19 c.p. non
sia tassativa, ma soltanto esemplificativa, anche in considerazione delle numerose disposizioni di legislazione speciale che prevedono svariate ipotesi di pene accessorie.
Le pene accessorie possono essere temporanee o perpetue: se la pena è temporanea la durata è fissata dalla legge o ai sensi dell’art. 37 c.p., il quale dispone
che “la pena accessoria ha durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe
scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato.Tuttavia, in nessun caso essa
può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria”; al fine di non svuotare di contenuto affittivo le sanzioni accessorie, l’art. 139
c.p. prevede che “nel computo delle pene accessorie temporanee non si tiene conto del tempo
in cui il condannato sconta la pena detentiva o è sottoposto a misura di sicurezza detentiva,
né del tempo in cui egli si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena o della misura
di sicurezza”.
L’interdizione dai pubblici uffici rappresenta verosimilmente l’ipotesi di pena
interdittiva per eccellenza prevista per i delitti; essa opera sulla capacità dell’individuo
di rivestire incarichi ed assumere uffici che hanno natura pubblicistica. L’art. 28 c.p.,
che ne detta la relativa disciplina, prevede espressamente che essa possa essere perpetua
o temporanea.
In base all’art. 28 c.p., l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, salvo che la legge disponga diversamente, priva il condannato:
1) del diritto di elettorato attivo o passivo e di ogni altro diritto politico;
2) di ogni pubblico ufficio, di ogni incarico non obbligatorio di pubblico servizio e della qualità ad
essi inerente di pubblico ufficiale o d’incaricato di pubblico servizio;
3) dell’ufficio di tutore o di curatore, anche provvisorio, e di ogni altro ufficio attinente alla tutela
o alla cura;
4) dei gradi e delle dignità accademiche, dei titoli, delle decorazioni o di altre pubbliche insegne
onorifiche;
5) degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente
pubblico;
6) di ogni diritto onorifico, inerente a qualunque degli uffici, servizi, gradi o titoli e delle qualità,
dignità e decorazioni indicati nei numeri precedenti;
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7) delle capacità di assumere o di acquistare qualsiasi diritto, ufficio, servizio, qualità, grado, titolo,
dignità, decorazione e insegna onorifica, indicati nei numeri precedenti.
Quanto alle ipotesi sub 5) e sub 6) la Corte costituzionale ha sancito l’incostituzionalità dell’art. 28
c.p. nella parte in cui consente l’interdizione delle pensioni di guerra e degli stipendi che traggono
titolo da un rapporto di lavoro.
L’interdizione perpetua dai pubblici uffici si ha ope legis in caso di condanna all’ergastolo o alla
reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni, ovvero quando vi sia la dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto o di tendenza a delinquere.
L’interdizione perpetua non ha però carattere assoluto, infatti essa si estingue oltre che per la morte
del reo, per effetto della riabilitazione, dell’amnistia, dell’indulto o della grazia qualora la legge lo
preveda.
L’interdizione dai pubblici uffici temporanea, sempre in base all’art. 28 c.p., priva il condannato
della capacità di acquistare, di esercitare o di godere, durante l’interdizione, i diritti, gli uffici, i servizi, le qualità, i gradi e le onorificenze sopra descritte con riguardo all’interdizione perpetua. Essa,
per espressa previsione legislativa, non può avere “durata inferiore a un anno, né superiore a cinque”; ma
nel caso di condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni, l’art. 29 c.p. dispone che
l’interdizione dai pubblici uffici, che opera automaticamente, abbia una durata fissa di cinque
anni.
L’interdizione da una professione o da un’arte è disciplinata dall’art. 30 c.p.;
essa consiste nella privazione del condannato della capacità di esercitare una professione, arte, industria, commercio o mestiere per le quali è richiesto il rilascio di una
specifica abilitazione, autorizzazione, permesso o licenza da parte dell’autorità.
Presupposto per l’applicazione dell’interdizione è una sentenza di condanna per un delitto (non
colposo, a meno che sia inflitta la pena della reclusione non inferiore a tre anni) commesso con
abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti all’esercizio di una professione o arte o industria, commercio o mestiere (art. 31 c.p.). Ai fini della commissione dell’abuso è necessario che il
soggetto sia abilitato alla professione e la eserciti effettivamente.
Si tratta di una pena accessoria che consegue automaticamente alla condanna per uno dei delitti
appartenenti alla tipologia di illeciti descritta dal legislatore.
L’interdizione da una professione o da un’arte è sempre temporanea; la durata, salvo che la legge
non disponga diversamente, non può essere inferiore a ad un mese e superiore a cinque anni.
L’interdizione legale si sostanzia nella privazione della capacità di agire, quindi
nell’impossibilità per il soggetto colpito da interdizione legale di porre in essere atti
giuridici di contenuto negoziale (art. 32 c.p.).
Tale pena consegue ex iure ad una condanna alla pena dell’ergastolo o della reclusione pari o superiore a cinque anni per un delitto non colposo.
Resta salvo l’esercizio dei diritti riconosciuti ai detenuti e agli internati, così come permane la
capacità di deporre in giudizio o di presentare e rimettere querela. Quanto ai rapporti
di famiglia, l’art. 32 c.p. stabilisce che la condanna all’ergastolo importa anche la decadenza dalla
potestà genitoriale, così come la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque
anni importa la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori, salvo che il giudice disponga
altrimenti.
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L’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche
e delle imprese, disciplinata dall’art. 32-bis c.p. (introdotto con la l. 24 novembre
1981, n. 689), si applica di diritto in caso di condanna alla reclusione non inferiore
a sei mesi per delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti
all’ufficio rivestito; il condannato sottoposto a tale misura risulta privato, per tutta la
sua durata, della capacità di esercitare l’ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore,
e direttore generale, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell’imprenditore.
L’incapacità a contrarre con la Pubblica Amministrazione comporta il divieto di stipulare contratti (di diritto privato, di diritto pubblico o ad evidenza pubblica) con la P.A., se non per ottenere prestazioni di pubblico servizio (art. 32-ter c.p.).
I contratti stipulati in violazione del divieto sono affetti da nullità ex 1418, co. 1,
c.p. e comportano per il trasgressore la sanzione penale dell’art. 389 c.p.
Si tratta di una pena accessoria per cui non è richiesto un particolare status, in
quanto è collegata semplicemente alla commissione di uno dei delitti tassativamente
previsti all’articolo 32-quater c.p.
Essa è sempre temporanea, in quanto non può avere durata inferiore ad un
anno, né superiore a cinque anni.
L’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione
pubblica (art. 32-quinques c.p., introdotto dalla l. 27 marzo 2001, n. 97) si applica di
diritto in caso di condanna alla reclusione non inferiore a tre anni per delitti di peculato, concussione, corruzione (per l’esercizio della funzione, per un atto contrario
ai doveri d’ufficio e in atti giudiziari) e induzione indebita a dare o promettere utilità.
La decadenza dalla potestà di genitori importa la perdita dei diritti di natura
personale sui figli, nonché dei diritti spettanti per legge ai genitori sui beni dei figli (ad
es.: amministrazione, usufrutto legale). Si tratta di una misura interdittiva perpetua
(art. 34 c.p.)
La sospensione consiste invece nell’incapacità temporanea di esercitare tali diritti, fermo restando il diritto agli alimenti e i diritti di successione (art. 34 c.p.).
La decadenza dall’esercizio della potestà genitoriale consegue automaticamente alla sentenza di condanna per uno dei reati per i quali è espressamente prevista dalla legge (tra i quali:
l’incesto, la violenza sessuale di gruppo, gli atti sessuali con minorenne, laddove commessi dal
genitore nei confronti del figlio in base al disposto dell’art. 609 nonies c.p.), nonché alla condanna
dell’ergastolo.
La sospensione della potestà genitoriale consegue automaticamente in caso di condanna
per delitti commessi con abuso della potestà di genitore, mentre può essere discrezionalmente
inflitta dal giudice in caso di condanna che importi la reclusione di durata non inferiore a cinque
anni. Se consegue ad una condanna alla reclusione non inferiore a cinque anni ha la stessa durata
della pena principale; se invece consegue ad una condanna per un delitto commesso con abuso della
potestà deve avere durata doppia rispetto alla pena inflitta.
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La sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte priva temporaneamente il condannato della capacità di esercitare una professione o un’arte o gli
preclude la possibilità di ottenere l’abilitazione all’esercizio quando egli non ne sia in
possesso (art. 35 c.p.).
Essa consegue automaticamente alla condanna per una contravvenzione commessa con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla professione o arte,
quando sia stato inflitto l’arresto per un tempo non inferiore ad un anno.
Ai fini della sanzione in esame rilevano esclusivamente le professioni per l’esercizio delle quali sia
richiesta una specifica autorizzazione dell’autorità pubblica. La durata della sospensione non può
essere inferiore a quindici giorni, né superiore a due anni e va determinata ex art. 37 c.p.
La sospensione dall’esercizio degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art. 35-bis c.p.) presenta contenuto e ambito di applicazione
analoghe alla corrispondente pena accessoria prevista dall’art. 32 bis c.p. per i delitti; si
rinvia pertanto alla trattazione sopra riportata.
La pubblicazione della sentenza è una pena accessoria comune sia ai delitti che
alle contravvenzioni. Regolata dall’art. 36 c.p., tale misura è obbligatoria in caso di
condanna all’ergastolo o nella altre ipotesi previste espressamente dalla legge.
In base all’art. 186 c.p., può essere disposta discrezionalmente dal giudice per
ogni reato quando costituisca una forma di risarcimento del danno non patrimoniale.
In caso di condanna all’ergastolo la pubblicazione della sentenza avviene mediante affissione nel
Comune ove è stata pronunciata, in quello ove il fatto è stato commesso e in quello di ultima
residenza del reo. La sentenza viene, inoltre, pubblicata, per una sola volta, in uno o più giornali
designati dal giudice e nel sito internet del Ministero della giustizia (v. l. 18 giugno 2009, n. 69, che
ha modificato sul punto l’art. 36 c.p.).
La pubblicazione – che avviene d’ufficio e a spese del condannato – può essere eseguita per estratto,
salvo che il giudice ritenga opportuna la pubblicazione per intero.
Analoghe sono le modalità negli altri casi in cui è prevista la pubblicazione della sentenza di condanna (artt. 165, 186, 347, 448, 475, 498, ecc.), salva la pubblicazione sui giornali che è fatta unicamente mediante indicazione degli estremi del provvedimento e del sito internet del Ministero della
giustizia (v. l. 23 dicembre 2009, n. 191, che ha modificato sul punto l’art. 36 c.p.).
5. Le sanzioni sostitutive della detenzione
La l. 24 novembre 1981, n. 689 (poi modificata dalla l. 12 giugno 2003, n. 134)
ha innovato l’originario sistema sanzionatorio previsto dal codice penale, introducendo le c.d. sanzioni sostitutive della detenzione.
L’opportunità di sostituire la carcerazione breve con misure di diverso contenuto
deriva sia da ragioni di prevenzione generale, considerata l’inefficacia deterrente della
minaccia di una pena esigua, sia da esigenze di special-prevenzione, atteso che il con-
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tatto con l’ambiente carcerario, seppur breve, può risultare dannoso per il condannato,
soprattutto in termini di c.d. desocializzazione.
Le sanzioni sostitutive sono:
1)la semidetenzione;
2)la libertà controllata;
3)la pena pecuniaria.
Dispone al riguardo l’art. 53 della legge citata che “il giudice, nel pronunciare sentenza
di condanna, quando ritiene di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite
di due anni può sostituire tale pena con la semidetenzione; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di un anno, può sostituirla anche con la libertà controllata; quando ritiene di
doverla determinare entro il limite di sei mesi, può sostituirla altresì con la pena pecuniaria della
specie corrispondente”.
La semidetenzione comporta per il condannato:
a) l’obbligo di trascorrere almeno dieci ore al giorno in un istituto penitenziario, situato presso il
comune di residenza del condannato o in assenza nel comune più vicino;
b) il divieto di detenere a qualsiasi titolo (quindi anche in caso di autorizzazione) armi, munizioni
ed esplosivi;
c) la sospensione della patente di guida;
d) il ritiro del passaporto, e l’invalidità ai fini dell’espatrio di qualsiasi altro documento equipollente;
e) l’obbligo di presentare, ad ogni richiesta della polizia e nel termine da essa fissato, l’ordinanza di
determinazione delle modalità di esecuzione della semidetenzione e l’eventuale provvedimento del
magistrato di sorveglianza che modifica tali modalità esecutive.
La libertà controllata comporta, invece, per il condannato:
a) il divieto di allontanarsi dal comune di residenza, a meno che non vi sia un’autorizzazione in tal
senso dell’autorità giudiziaria concessa per motivi di lavoro, di studio, di famiglia o di salute;
b) l’obbligo di presentarsi, almeno una volta al giorno, in orari compatibili con il lavoro o lo studio
del condannato, presso il locale ufficio di pubblica sicurezza o presso il comando dell’Arma dei
Carabinieri competente;
c) il divieto di detenere a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi;
d) la sospensione della patente di guida;
e) il ritiro del passaporto, nonché l’invalidità ai fini dell’espatrio di qualsiasi altro documento equipollente.
La pena pecuniaria della multa o dell’ammenda sostituisce la pena detentiva rispettivamente della
reclusione e dell’arresto; il ragguaglio viene effettuato secondo i parametri indicati dall’art. 135
c.p. (250 euro, o frazioni di 250 euro, per ogni giorno di pena detentiva: v. l. 15 luglio 2009, n. 94),
tenendo conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare.
Essa può essere rateizzata secondo le modalità di cui all’art. 133-ter c.p.
Presupposti per l’applicazione delle predette misure sostitutive sono:
1) l’entità della pena in concreto inflitta dal giudice che non deve essere superiore a
due anni per la semidetenzione, ad un anno per la libertà controllata e a sei mesi
per la pena pecuniaria;
2) la ricorrenza delle condizioni soggettive indicate dall’art. 59 della citata legge;
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3) la prognosi positiva circa l’adempimento da parte del condannato delle prescrizioni
imposte con l’applicazione di tali misure.
Esse sono comminate con la sentenza di condanna e possono essere
applicate d’ufficio o su richiesta dell’imputato (in caso di patteggiamento); il
giudice dispone al riguardo di un ampio potere discrezionale sia in ordine all’an
(fungendo all’uopo l’art. 133 c.p. quale parametro di riferimento) che al quomodo
(dovendo il giudicante orientarsi nella scelta tra le diverse misure unicamente in
ragione della maggiore idoneità di ciascuna di esse al reinserimento sociale del
reo).
6. Le misure alternative alla detenzione
Introdotte con la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario (l. 26
luglio 1975, n. 354), successivamente più volte modificata, le misure alternative alla
detenzione sono benefici che vengono concessi al condannato che dimostra di aver
percorso “con successo” l’iter rieducativo cui è finalizzata la pena, dimostrando di aver
definitivamente abbandonato lo stile di vita e l’ambiente criminale che lo avevano
portato a delinquere.
Analizziamo allora, seppur per sommi capi, le singole misure alternative alla detenzione previste dal legislatore.
L’affidamento in prova al servizio sociale è regolato dall’art. 47 ord. pen. ed
ha durata pari a quella della pena da scontare. Esso consiste nell’affidamento in prova
del condannato ad un Centro di servizio sociale, esterno quindi all’istituto penitenziario, allo scopo di evitare i danni derivanti dal contatto con l’ambiente carcerario.
Presupposti per l’applicazione sono:
1) una pena detentiva da scontare, anche residua, non superiore a tre anni (oppure quattro quando il
soggetto abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento
tale da consentire di ritenere che l’affidamento in prova contribuisca alla sua rieducazione e assicuri
la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati); al riguardo deve tenersi conto anche di
eventuali causa estintive, come l’indulto;
2) la presunzione, fondata sulla osservazione della personalità e del comportamento del reo successivi alla commissione del reato, che le prescrizioni imposte siano sufficienti alla rieducazione del
condannato e a prevenire il pericolo di altri reati.
Quanto al contenuto della misura, all’atto dell’affidamento in prova sono dettate delle prescrizioni
che il soggetto deve rispettare in ordine al rapporto con il servizio sociale, alla dimora, al lavoro, ecc.
Tali prescrizioni sono modificabili e sul rispetto delle stesse vigila il servizio sociale che, al contempo, esercita una funzione di controllo e di aiuto per il soggetto nel superamento delle difficoltà di
reinserimento. Il servizio sociale riferisce periodicamente l’andamento della prova al Tribunale di
Sorveglianza.
L’affidamento è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova; non basta però una singola
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violazione, ma occorre che queste, nel loro complesso, siano sintomatiche del fatto che il soggetto
non potrà essere rieducato se non tramite il trattamento penitenziario.
L’esito positivo del periodo di prova, che dura per tutto il tempo della pena da scontare, estingue
la pena ed ogni altro effetto penale, fatta eccezione per le pene accessorie e le obbligazioni civili
derivanti da reato.
Analogo istituto è previsto per i tossicodipendenti dall’art. 94 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come
modificato dalla l. 21 febbraio 2006, n. 46. Tale speciale affidamento può essere concesso quando
debba essere espiata una pena detentiva, anche residua e congiunta a pena pecuniaria, non superiore
a sei anni.
Ai sensi dell’art. 58-quater, co. 7-bis, ord. pen., introdotto dalla l. 5 dicembre 2005, n. 25 (c.d. ex
Cirielli), l’affidamento in prova al servizio sociale non può essere concesso più di una volta al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99, co. 4, c.p. (c.d. recidiva reiterata).
L’affidamento è inoltre precluso nell’ipotesi in cui il condannato si sia reso colpevole del reato di
evasione (art. 385 c.p.).
La detenzione domiciliare è disciplinata dall’art. 47-ter ord. pen., come modificato dalla l. n. 251/2005, e consiste nell’espiazione della pena detentiva (per intero o
solo per la parte residua) nella propria abitazione o in luogo di privata dimora, ovvero
in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza.
Presupposto per la concessione è che la pena da scontare, anche se costituente parte residua di
maggior pena, non sia superiore a quattro anni.
Può beneficiare della detenzione domiciliare:
1) la donna incinta o la madre di prole, con lei convivente, di età inferiore a dieci anni;
2) il padre, esercente la patria potestà, di prole di età inferiore a dieci anni con lui convivente, qualora la madre sia deceduta o sia assolutamente impossibilitata a dare assistenza ai minori;
3) la persona che versa in gravi condizioni di salute, tali che siano necessari continui contatti con
presidi sanitari territoriali;
4) la persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente;
5) il soggetto minore degli anni ventuno, per comprovate esigenze di salute, studio, lavoro, famiglia.
La Corte costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 47-ter ord. pen. nella parte in
cui non prevede la possibilità di concedere tale beneficio anche alla madre condannata, e nel caso
di suo decesso o di assoluta impossibilità di assistere la prole, al padre condannato, qualora gli stessi
siano conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante.
La l. n. 251/2005 ha introdotto un’ulteriore ipotesi in cui può essere concesso il beneficio della
detenzione domiciliare: a prescindere dall’entità (quindi non opera il limite dei quattro anni) la
pena della reclusione può essere espiata presso la propria abitazione o altro luogo pubblico di cura,
assistenza ed accoglienza, quando trattasi di persona che, al momento dell’esecuzione della pena, o
dopo il suo inizio, abbia compiuto i settanta anni, purché lo stesso non sia stato condannato per uno
dei delitti contro la libertà individuale (artt. 600-604 c.p.) ovvero per uno dei delitti previsti dagli
artt. 609-bis, 609-quater, 609-octies c.p., 51, co. 3-bis, c.p.p., 4-bis ord. pen., e non sia stato dichiarato
delinquente abituale, professionale o per tendenza, né sia mai stato condannato con l’aggravante
della recidiva.
Al condannato al quale sia stata applicata la recidiva reiterata può essere concessa la detenzione
domiciliare soltanto nell’ipotesi in cui la pena da espiare, anche se residua, non superi i tre anni (art.
47-ter, co. 1.1., ord. pen., introdotto dalla l. n. 251/2005).
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La misura è invece preclusa per il condannato riconosciuto colpevole del reato di evasione (art.
385 c.p.).
Indipendentemente dalle condizioni sopra esposte, la detenzione domiciliare può essere
inoltre concessa per l’espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni,
anche se costituente parte residua di maggior pena, quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale, sempre che tale misura sia idonea ad evitare la commissione di
altri reati e purché il reo non sia stato condannato per uno dei delitti previsti dall’art. 4-bis ord. pen.
ed allo stesso non sia stata applicata la recidiva reiterata.
L’art. 47-quinquies ord. pen., introdotto dalla l. 8 marzo 2001, n. 40, ha affiancato alla detenzione
domiciliare “ordinaria” anche un’ipotesi speciale: quando non ricorrono le condizioni previste
dall’art. 47-ter ord. pen., le condannate che siano madri di prole di età non superiore a dieci anni,
se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di
ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena detentiva presso la
propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora o luogo di cura, assistenza o accoglienza, in
modo da consentire a queste di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, purché sia stata espiato
almeno un terzo della pena o quindici anni nel caso di ergastolo.
La detenzione domiciliare è revocata se il soggetto tiene un comportamento contrario alla legge
o alle prescrizioni imposte, come tale incompatibile con la prosecuzione della misura, ovvero quando vengono meno le condizioni soggettive che ne avevano portato all’applicazione; in tal caso il
periodo trascorso in detenzione domiciliare è considerato come pena espiata detraibile dal residuo
di pena da scontare.
La semilibertà è regolata dagli artt. 48 e ss. ord. pen. e consiste nella concessione al condannato di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto per partecipare
ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al suo reinserimento sociale.
Presupposto per l’applicazione della misura è che il condannato abbia compiuto progressi nel
corso dell’esecuzione della pena, tali che vi siano le condizioni per un suo graduale reinserimento
nella società.
Possono essere ammessi al regime di semilibertà:
1) il condannato alla pena dell’arresto o della reclusione non superiore a sei mesi, qualora non sussistono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale;
2) il condannato che abbia scontato almeno la metà della pena, ovvero i due terzi se si tratta di
condanna per uno dei delitti previsti dall’art. 4-bis ord. pen.;
3) l’internato, in ogni momento;
4) il condannato all’ergastolo, dopo che sono stati espiati almeno venti anni di pena.
L’art. 50-bis ord. pen., introdotto dalla l. n. 251/2005, prevede che la semilibertà possa essere applicata ai recidivi reiterati soltanto dopo l’espiazione di almeno due terzi della pena, soglia che si
alza fino a tre quarti nel caso in cui il reo sia stato condannato per taluno dei delitti previsti dall’art.
4-bis ord. pen..
Ai sensi dell’art. 58-quater, co. 7-bis, ord. pen., anch’esso introdotto dalla l. n. 251/2005, la misura
alternativa in esame non può essere concessa più di una volta nel caso in cui al condannato sia stata
applicata la recidiva reiterata.
La semilibertà può essere revocata in ogni tempo se il soggetto non si dimostri idoneo al trattamento, mentre essa deve essere revocata se il condannato rimanga assente dall’istituto per più di
dodici ore ed in conseguenza di ciò venga condannato per il reato di evasione (art. 385 c.p.).
CAPITOLO I – LA PENA
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La liberazione anticipata è prevista dall’art. 54 ord. pen. e consiste nella concessione al condannato, che ha dato prova di positiva partecipazione all’opera di rieducazione, di una riduzione di pena di 45 giorni per ciascun semestre di pena detentiva
scontata (elevata a 75 giorni dal d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10, limitatamente ad un periodo di due anni dalla
data di entrata in vigore del decreto), valutandosi a tale fine anche il periodo trascorso
in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare.
Si tratta di una misura di natura premiale, volta ad incentivare la “buona condotta”
del reo all’interno dell’istituto penitenziario.
L’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive brevi è previsto
dall’art. 1 l. 26 novembre 2010, n. 199 e succ. modd., che consente al condannato
di eseguire la pena che non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte
residua di una pena maggiore, presso la sua abitazione o presso altro luogo pubblico o
privato di cura, assistenza e accoglienza.
Sono esclusi: a) i soggetti condannati per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis l.
354/1975; b) i delinquenti abituali, professionali o per tendenza; c) i detenuti che sono
sottoposti al regime di sorveglianza particolare di cui all’art. 14-bis l. 354/1975; d)
quando vi è la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga ovvero sussistono specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere
altri delitti ovvero quando non sussista l’idoneità e l’effettività del domicilio anche in
funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato.
7. La non punibilità per speciale tenuità del fatto
Dando esecuzione alla delega ricevuta con l’art. 1, co. 1, lett. m), l. 28 aprile 2014,
n. 67, il Governo, con il d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ha introdotto una nuova causa di
non punibilità per irrilevanza del fatto, secondo un modello già conosciuto nel processo penale minorile (art. 27, d.P.R. 22 settembre 1988, n. 488) e di competenza del
giudice di pace (art. 34, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274).
Il nuovo art. 131-bis c.p., rubricato “esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”, al primo comma, stabilisce che nei reati per i quali è prevista la pena
detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o
congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, co. 1, c.p.,
l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
Ai fini della determinazione della pena detentiva non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie
diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale, delle quali dovrà
tenersi conto anche nel caso in cui i relativi effetti sulla pena vengano elisi dal
giudizio di bilanciamento con concorrenti circostanze attenuanti (art. 131-bis, co.
4, c.p.).