testi catalogo - Accademia Santa Giulia

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testi catalogo - Accademia Santa Giulia
Introduzione
La Fiera di Brescia è felice di poter esporre nei suoi spazi alcuni manufatti del Continente Africano che fanno
parte di una collezione privata bresciana, “restaurate” nei laboratori didattici dell’Accademia di Belle Arti di
Brescia Santagiulia.
Lo spazio dedicato sarà animato dagli studenti e dai professori che hanno svolto il percorso didattico e che
saranno a disposizione dei visitatori, per illustrare le attività da loro svolte nel restauro e fornire quelle
informazioni di approfondimento culturale, volte a ricercare un accostamento delle attività, di questo incantevole
mondo africano, con l’arte europea dei primi del ‘900.
è un’occasione questa che traduce in evento didattico la ormai consolidata partnership tra ISTITUTO
MACHINA, Accademia Santagiulia e FIERA di BRESCIA, legate da un “ACCORDO DI
COLLABORAZIONE” teso a valorizzare un solido legame tra SCUOLA e IMPRESA, per favorire la crescita
dei giovani, con l’obiettivo di unire l’esperienza concreta del mondo del lavoro e delle IMPRESE a quello della
SCUOLA e degli studenti.
Le FIERE, che sono comunque e sempre una “collettiva” di IMPRESE, unite dall’obiettivo di incrementare le
proprie business relations, sono la sede ideale per far incontrare MONDI che, troppo spesso, viaggiano separati.
è con questo spirito che abbiamo favorito l’evento “AfrikArt” che può rappresentare una occasione UNICA per far
vivere in concreto ai giovani una saldatura con il mondo delle IMPRESE.
Presidente dell’Ente Fiera
Carlo Massoletti
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L’arte è una lingua universale!
Machina Lonati Fashion and Design Institute ha sempre inteso la creatività come veicolo espressivo ed elemento
mediatore tra differenti culture, come portavoce di un’esigenza comune a tutti i popoli.
Italia e Africa sono legati da millenni di storia e di incontri, tra espansionismo e scambi di merci, conoscenze,
arti e tecnologie. Con questo speciale allestimento negli spazi dell’ente Fiera di Brescia si intende offrire un
ponte concreto tra punti di vista diversi nello spirito di avvicinamento a culture artistiche differenti.
La globalizzazione porta certamente con sé effetti devastanti rispetto alle identità culturali, seminando anche
concetti poco radicati e spesso scarsamente comprensibili. Essa offre però, grazie all’incontro tra diverse culture,
la possibilità di trovare, nel reciproco rispetto, quei punti di fusione che, attraverso l’arte, aprono ad una filosofia
di nuove relazioni e opportunità.
Il percorso che ha portato a questa esposizione è stato lungo. Il cammino è iniziato quattro anni fa quando
giunsero nella nostra Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia alcuni dei manufatti qui esposti. Non tutti
erano in buono stato di conservazione e si rese necessario un adeguato intervento di restauro conservativo. In un
secondo momento si passò allo studio antropologico delle etnie di riferimento, sino alla fase conclusiva con
l’allestimento concreto, grazie all’apporto degli studenti del corso di Marketing di Machina.
L’esposizione vuole essere un’occasione per leggere forme e comprendere stili che testimoniano altre dinamiche
culturali e che, del resto, hanno finito anche per influenzare in maniera determinante molta arte del Novecento.
Desidero ringraziare tutti i Docenti e gli Studenti di Machina Lonati di Accademia SantaGiulia per l’entusiasmo
e le competenze messe in campo. Sono convinto di aver loro affidato lo studio e la lettura di un tempo passato
che sicuramente li aiuterà a comprendere meglio il nostro mondo di oggi.
Un ringraziamento particolare va a Brixia Expo per l’opportunità data ai nostri giovani ed in particolare ringrazio
il Presidente della Camera di Commercio di Brescia Franco Bettoni, il Presidente dell’Ente Fiera Carlo
Massoletti e il Direttore della Fiera Marco Citterio per aver fermamente creduto in noi.
Infine, un grazie di cuore ad Angelo ed Ivana Torreggiani per aver creduto e per credere che la bellezza possa
avvicinare le persone e per averci dato occasione di scoprirla anche in queste forme che vengono da lontano e
che portano lontano anche la nostra immaginazione.
Prof. Arch. Riccardo Romagnoli
Direttore:
Machina Lonati Fashion and Design Institute
Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia
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Quando la spiritualità influenza l’Arte
L’Africa è il secondo continente più grande del mondo ed è una casa per più di 50 Paesi e migliaia di differenti
gruppi etnici e religiosi, che hanno costituito e plasmato innumerevoli tradizioni artistiche. L’arte prodotta, varia
da regione a regione e dipende dalle diverse religioni. Una varietà tale che studiarla non è sufficiente, deve
essere vissuta per essere capita. Le religioni africane native hanno molta più influenza sugli oggetti di quanta ne
abbia l’architettura. Queste confessioni non richiedono l’uso di edifici religiosi per la preghiera, ma professavano
la loro fede, principalmente attraverso gli oggetti religiosi, come statue, maschere, o altri manufatti, utilizzati nel
corso di riti e cerimonie. Rituali che, secondo la visioni dei credenti, esercitano il controllo sulla precarietà della
vita, legando insieme le forze positive degli antenati, divinità o di altri spiriti e limitando le forze negative.
La maggior parte degli africani nativi utilizzano oggetti d’arte, come figurine in legno o in argilla che, entrando a
contatto con gli spiriti degli antenati, fungono da intermediari tra la comunità umana e Dio, il Creatore. Gli
organi direttivi, nel loro gruppo, utilizzato questi oggetti d’arte, anche per mantenere l’ordine sociale, grazie alla
volontà di instaurare buoni rapporti con gli spiriti dei loro antenati. Le opere dell’arte tradizionale africana
provenienti dalla parte occidentale del continente sono diventate famose a livello internazionale. Ma questi
oggetti, che è più corretto chiamare sculture, per il senso artistico che emanano, siano esse in legno, argilla,
fusione in bronzo, gioielli, o tessuti, sono state utilizzate nelle pratiche religiose. Ma la scultura, non è stata
applicata dagli africani solo negli oggetti, ma direttamente sulla loro pelle. Quest’arte è stata chiamata
scarificazione ed è utilizzata per le pratiche divinatorie. I disegni vengono realizzati tramite tagli sulla pelle e
successivamente rimarginati con irritanti, in modo tale da formare cicatrici e marcature. Questa forma d’arte è
sempre più in disuso, ma le statue scolpite e le immagini espresse sulle opere d’arte, esprimono bene questi
segni.
L’arte tradizionale ha influito anche sul mobilio, come gli sgabelli o i poggiatesta. I seggiolini sono stati
appositamente progettati ed intagliati con funzioni spirituali. I Luba dell’Africa centrale creano seggiole formati
da cariatidi in cui la figura, maschio o femmina, è scavata nel legno stesso dello sgabello e rappresenta un
importante antenato del proprietario.
Il poggiatesta è stato il cuscino di legno intagliato degli africani. Tra i Shona, del Sud Africa, i poggiatesta
intagliati sono stati progettati per comunicare con gli antenati attraverso i loro sogni.
Per alcuni africani, in particolare i Mijikenda del Kenya onorare i loro morti avviene tramite pali di legno
chiamato Vigangu. L’Africa è ricca varietà di arti. Essa comprende non solo le strutture architettoniche, le
statuette scolpite e gli oggetti, ma anche l’arte nel campo della pittura, del ritmo, della danza e della letteratura.
Per questo le implicazioni spirituali di ogni pezzo artistico rendono l’arte africana unica in tutto il mondo.
Gora Mbaye
Gora Mbaye nasce in Senegal nel 1951. è un esperto internazionale d’arte africana. Rappresentante “dell’Association
des Antiquaires D’Art Africain” a Dakar, è consulente d’Arte Africana per Il Museo Nazionale di Abidjan (Costa D’avorio)
e per il “Musee D’Art Africain” di Brazaville (Congo). Ricopre la carica di “Secretaire General Adjoint
Des Antiquaires D’art Africain Senegalais”. Nel corso della sua carriera ha effettuato expertise per oggetti d’arte africana
dei principali Musei del Mondo.
Arte africana
Avvicinarsi all’arte africana è operazione estetica e filosofica. Estetica perché la singolarità delle forme,
l’utilizzo del materiale e del colore, la disposizione delle figure e degli elementi decorativi riescono a produrre
una forte emozione nell’osservatore attento. È d’obbligo ricordare come proprio lo studio delle maschere e delle
sculture africane, pur nella confusa cornice culturale della fine Ottocento che le considerava semplice etnografia,
abbia facilitato quel processo di rottura dei canoni espressivi classici di cui si resero interpreti artisti come
Picasso, Brancusi o Modigliani. Temi come la straordinaria simbolizzazione del volto umano che si ritrova nelle
maschere Fang, Bembe, Songye, oppure la composizione di elementi animali ed umani che si rintracciano ancora
nelle maschere, ma anche la forza espressa nell’uso della materia e nella descrizione della figura umana,
produrranno sugli artisti occidentali, pur prigionieri del pregiudizio evoluzionista sulla “primitività” delle società
non occidentali, una potente trasformazione mentale. Dalla contemplazione attenta di queste opere, dall’analisi
dei significati sottintesi, dalla valorizzazione dell’astrattismo e del simbolismo, deriverà il rinnovamento
dell’arte occidentale che finalmente si affranca dai canoni dell’arte classica e sperimenta nuove formule
espressive.
Ma avvicinarsi all’arte africana è anche, e soprattutto, operazione filosofica. Perché l’opera d’arte della
tradizione africana si concepisce solo dentro la cornice del mondo spirituale e sociale che l’ha prodotta. Di
primitivo, inteso come non intenzionale, ingenuo, approssimativo, non c’è nulla nella produzione artistica
africana qui presentata. Né si può dire che questa bellezza sia pura espressione di vitalità incontrollata: come
ricorda Farris Thompson, citato da Cardona, gli Yoruba conoscono e definiscono categorie di eleganza alle quali
l’artista deve riferirsi, come jíiora, vale a dire il rapporto tra astrazione e imitazione del reale, ìfarahòn, vale a
dire l’evidenza del lavoro di scultura, dídón, la luminosità e il finito dell’opera. C’è, infatti, nella tecnica
dell’artista la consapevolezza di dover esprimere sinteticamente nell’opera o nella maschera tutto il mondo
spirituale di cui egli stesso fa parte. Di fatto l’arte africana è eminentemente simbolica, cosmologica e
antropologica. Ha l’intenzione di raffigurare l’uomo, l’animale, l’antenato, il re, il guerriero, per la sua “verità”
più profonda. Perciò non è un’arte descrittiva, quanto piuttosto concettuale: ricorre a simboli presi dal mondo
naturale e animale per indicare la forza totemica del dignitario, come appare nelle figure del Benin che
rappresentano re e guerrieri. L’arte del mondo africano ha una vocazione antropologica: essa tende a pensare
all’uomo nella sua dimensione relazionale, nel suo rapporto con gli altri. Enfatizza, ad esempio, il riferimento
alla fecondità, presentando il corpo umano come un corpo “per la vita” con statue nelle quali i seni, l’ombelico
evocano la potenza creatrice della donna. L’arte africana non vuole essere, infatti, descrittiva quanto evocativa, e
sottolineando i tratti femminili, vuol rimandare alla forza vitale che produce il mondo.
E’ un’arte araldica, perché in gran parte riferita all’ambito delle corti regali, come ben si vede nelle sculture di
Ife e del Benin, nelle quali i dignitari mostrano gli ornamenti della loro condizione. Ma la rappresentazione del
sovrano deve soprattutto rimandare al suo riferimento al sacro, della cui manifestazione egli si fa interprete,
divenendo, nella tradizione, il garante della fecondità delle donne e della terra, l’interprete della relazione
privilegiata con gli antenati e, per il loro tramite, con l’Essere Supremo. Dunque le figure regali vogliono anche
esprimere una realtà ordinata sotto l’autorità terrena del re e sotto l’autorità spirituale degli antenati, capostipiti
mitici della discendenza umane ed espressione di una umanità compiuta. Colpisce, infatti, nella figura di anziano
Dogon, così come nella figura Baulé (Costa d’Avorio) rappresentante un anziano con la barba, la loro tranquillità
ieratica. La tradizione africana offre una produzione artistica che non si stacca dalla necessità, tutta religiosa, di
“rendere visibile l’invisibile” sia manifestando la saggezza profonda degli antenati, ai quali ci si deve rivolgere
se si vuole essere protetti nella vita terrena, sia ricercando una forma estetica talmente perfetta da poter divenire
il ricettacolo della forza vitale. Lo scopo dell’artista è, infatti, “pedagogico”e sacrale: tocca a lui la
rappresentazione della realtà animata e spirituale, come tocca a lui il compito di produrre un oggetto che sia in
grado di “parlare” del significato. A volte le opere d’arte hanno anche utilità pratica, come accade nelle
maschere, molto presenti nell’arte classica africana. Qui l’oggetto artistico ha una relazione stretta col rito e,
ancora una volta, col mistero dell’esistenza. Infatti la maschera è ambigua: nasconde qualcosa (l’identità sociale
della persona che la indossa) per rivelare qualcosa d’altro, normalmente nascosto a chi non sia nelle condizioni
di poterlo vedere. La maschera unisce elementi che starebbero separati: gli elementi del mondo animale entrano
a far parte della descrizione del viso umano, come nella maschera Dogon che correda il viso umano di corna
animali o nella maschera Yangsleya il cui riferimento al mondo animale è dato dalla lunga protuberanza che
potrebbe ricordare la proboscide. La maschera descrive l’umano ma evoca il mondo ultraterreno, gli spiriti e gli
antenati, come ben si nota nel volto Baulè nel quale la stilizzazione degli elementi rende il viso del tutto privo di
riferimenti individuali e assolutamente “astratto”. Come ben aveva intuito l’antropologo F. Boas nel suo testo
dedicato all’arte “primitiva”, questa esprime non solo la capacità tecnica e il gusto artistico dei popoli, ma anche
e soprattutto, lo sforzo di interpretare il mondo e l’uomo.
Anna Casella Paltrinieri
Docente di Antropologia culturale
presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia
e presso l’Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia
Cfr. G. Cocchiara, L’eterno selvaggio, Sellerio, Palermo, 2000, pp. 244-262.
Cfr. J. L. Amselle, (2005) L’arte africana contemporanea, Bollati Boringhieri, 2007.
Cfr. G. Cardona, Un’attività universale e continua, in F. Boas, Arte primitiva (1927), Bollati Boringhieri, Torino, 1981, p. 14.
Cfr. B. Geoffroy-Schneiter, Primal Arts, Thames & Hudson, New York, 2000, p. 73.
Cfr. M. Lunghi, L’arte dei popoli primitive, Brescia, pro manuscripto.
Cfr. F. Boas, Arte primitiva (1927), Bollati Boringhieri, Torino, 1981.
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Storia di una collezione
Luigi Plebani (1913-1977) nasce a Remedello Sotto, frazione di Remedello (Bs), da una famiglia della media
borghesia bresciana. Il padre Roberto è proprietario di un’impresa di costruzioni. Ultimo di quattro figli, Luigi
sin da piccolo segue spesso il padre nella propria attività e gioca con i dipendenti, tra cui Beppe, un muratore
emigrato in Francia negli anni precedenti il primo conflitto mondiale e rientrato in Italia a seguito della guerra.
Da lui Luigi apprenderà la cultura e la lingua francese. Elementi che saranno alla base per la costituzione di
questa collezione.
In giovinezza decide di non seguire le orme del padre, che lo vuole geometra, e neppure di frequentare la scuola
di ragioneria, come il fratello Licurgo. La sua passione è e rimarrà per tutta la vita la cucina. Invece di studiare,
preferisce alzarsi la mattina presto e aiutare il fornaio del paese, in modo particolare nella realizzazione della
pasticceria, covando il sogno di rilevarne l’attività.
Chiamato per il servizio militare, nel 1931 entra a far parte del Corpo della Sussistenza, nella sezione panetteria.
Grazie alla sua buona conoscenza del francese, viene assegnato alla Sezione Esplorazioni in Africa, che opera
presso colonie Inglesi e Francesi, per rilevarne il potenziale militare ed intrattenere relazioni amichevoli con capi
tribù locali, utili in caso di azioni straniere a danno dei territori italiani.
I gruppi sono formati da tre-cinque persone, per non dare nell’occhio. Caratteristica comune è la presenza di un
medico ed un cuoco. Quest’ultimo per gestire al meglio le vettovaglie, in modo tale da evitare di contrarre il vero
“Mal d’Africa”, cioè dissenteria e intossicazioni alimentari.
Plebani viene trasferito a Roma per un periodo di addestramento, in collaborazione con il Ministero per le
Colonie ed avviato ad un programma di istruzione ed addestramento.
E’ in questo periodo che entra in contatto con l’Art Negrè. Ha libero accesso al Museo Coloniale, viene a
conoscenza del cubismo e dell’influenza dell’arte africana su quella europea. Consulta i libri d’arte francesi
presenti al Museo, comprende il coinvolgimento e la dimensione del collezionismo nord europeo per gli oggetti
africani. Un interesse deriso dai propri commilitoni, che hanno, invece, una visione dell’Africa più da “Faccetta
Nera”.
Dopo l’addestramento giunge a Tripoli, per proseguire la preparazione. La prima spedizione è in Egitto,
preceduta da un’esperienza al fortino italiano di Marzuq, quasi 1000 chilometri a sud di Tripoli, nella profondità
meridionale del deserto libico. Viaggi ai quali fanno seguito le esplorazioni nei territori del Ciad, Niger e Mali.
Tra il 1932 ed il 1935, sino all’irrigidimento inglese ad un’eventuale invasione italiana dell’Etiopia, Plebani si
reca esclusivamente nell’Africa Occidentale ed in modo particolare nelle aree della Nigeria, Ghana, Guinea,
Costa d’Avorio, ed altri.
Alla vigilia della guerra d’Etiopia, Plebani giunge a Mombasa (Kenia). Nel 1936 è inviato a Massaua in Eritrea
per la partecipazione alla guerra a supporto della colonna comandata dal Generale Paolini degli Alpini della
divisione Pusteria.
Ritornato in Italia nell’autunno del 1936, viene decorato per le tutte le operazioni svolte. Nel 1937 è nuovamente
in Africa Occidentale, soprattutto in Nigeria e successivamente in Gabon e Congo. Alla vigilia della guerra, nel
’39, viene richiamato in Italia.
Nel corso di queste missioni vengono raccolti una serie di oggetti d’arte e di uso comune, in buona parte donati
dai capi villaggio o tribù locali, a ricompensa delle donazioni, pagamenti o aiuti offerti dai militari italiani.
All’inizio del 1940 Plebani viene inviato in Grecia. Con la conquista della penisola ellenica, chiede di essere
affiancato ad un corpo non d’attacco ed è inserito nella sezione panettieri della Divisione Acqui, a Cefalonia.
Preso prigioniero dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, viene obbligato a continuare il proprio
lavoro, provvedere alle cucine, questa volta per l’esercito germanico. Un periodo duro per Luigi Plebani, oggetto
di vessazioni e maltrattamenti di ogni sorta. Liberato nel settembre 1944 dai partigiani greci, rientra a Brindisi.
Dopo un periodo di convalescenza, supporta e collabora con gli alleati. E’ in questo periodo che incontra un
ufficiale Britannico, con cui aveva avuto rapporti anni prima in Nigeria, a cui si affianca sino alla fine della
guerra.
Rientra a casa nell’estate ’45, ma la situazione economica e finanziaria della famiglia è però difficile. Tutte le
attrezzature della ditta paterna sono state confiscate dai tedeschi ed utilizzate dalla TODT.
Come ricompensa per la collaborazione offerta all’esercito Britannico durante il conflitto, Plebani ottiene dal
Comitato di Occupazione Alleato, l’autorizzazione per l’importazione e la commercializzazione di materie
prime, in modo particolare carbone e legna. Con il supporto finanziario di imprenditori, amministrazioni e
banche locali, si trasferisce ad Asola (Mn), all’epoca importante scalo ferroviario sulla linea Brescia-Parma,
dove avvia l’attività. Dal 1946 è nuovamente in viaggio per l’Europa, a chiudere i contratti. Gli ufficiali inglesi,
con cui aveva collaborato anni prima, saranno la sua base in Gran Bretagna.
Grazie alle disponibilità economiche, che il commercio internazionale di materie prime gli consente e al
sostegno degli amici londinesi, dal 1947 sino a buona parte degli anni ‘50, acquista oggetti africani appartenenti
ad importanti collezioni britanniche.
L’insieme degli oggetti viene in buona parte murato nella stanza di una vecchia casa, per paura di essere
depredato. Da allora e fino alla morte di Luigi, nel 1977, la camera viene, però, aperta solo in casi sporadici e
principalmente per inserirvi altre opere acquistate. In altre parole diventa una sorta di sacrario del passato
africano di Plebani
A dare un senso a questa collezione, che sino ad allora si presentava come un ammasso di opere, è Angelo
Torreggiani, marito dell’unica figlia di Luigi, Ivana Plebani. Angelo ha studiato all’Accademia di Belle Arti di
Brera, e prima di avviare una propria impresa è stato professore di Storia dell’Arte. L’azione di recupero è durata
oltre trent’anni e ha visto la collezione allargarsi ulteriormente, andando a coprire alcune culture non presenti.
Moltissime sono le persone che in questo tempo hanno collaborato, per ridare vita ad opere rimaste troppo a
lungo chiuse in una stanza.
Eugenio De Caro
Vice direttore di Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia
e di Machina Lonati Fashion and Design Institute