Così è deciso

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Così è deciso
Renzo La Costa
Così è deciso
(2009 - 2016)
La giurisprudenza, il diritto
e la prassi del lavoro
raccontate dall’uomo qualunque
Così è deciso (2009 - 2016)
Prefazione
In ogni contenzioso, in ogni sentenza che riguarda il vasto contesto del
lavoro, c’è un turbinìo di fatti, di emozioni, di accadimenti che non verranno
mai raccontati.
Nel leggere il testo di un provvedimento giudiziale – così come un documento di prassi - siamo solitamente troppo impegnati a comprenderne il percorso logico e motivazionale, per trarre ed assimilare i principi di diritto ivi
enunciati, che andranno poi a far parte del nostro patrimonio culturale e
professionale.
Per la prima volta nel 2004, la pagina settimanale dell’Associazione Nazionale Consulenti del Lavoro di Italia Oggi – per la quale spesso collaboro –
ospitò in un defilato riquadro la rubrica che volli chiamare “Così è deciso”.
Avevo pensato, in sostanza, che un principio di diritto può essere anche
raccontato in maniera diversa da quella rigida e formale, ed essere anche
più piacevolmente compreso.
Si trattava cioè di ricostruire – il più realisticamente possibile rispetto ai fatti,
ma con la giusta dose di fantasia – le vicende emozionali che si potevano
supporre a margine della specifica vicenda giudiziaria, non senza una
punta di ironia.
Quel timido tentativo nato da quest’idea, cominciò a registrare consensi e
apprezzamenti da parte dei lettori, tanto da divenire, nel tempo, un appuntamento atteso e pressoché stabile.
Grazie alla immediata e preziosa disponibilità dell’Ancl, ho ora la possibilità
di racchiudere in questa seconda raccolta tutte le pubblicazioni che si sono
succedute dal 2009 al metà del corrente 2016.
Una diversa lettura del diritto, che auspico possa divertire ed interessare i
Lettori, sperando di sottrarre utilmente del tempo al loro lavoro.
Renzo La Costa
2016
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Così è deciso (2009 - 2016)
Avuta la proposta di questa iniziativa editoriale - che ritengo utile quanto
particolarmente originale - mi sono ritrovato a riflettere su quanto anche le
iniziative collaterali all’attività sindacale dell’Ancl siano cresciute nel tempo.
Ne è l’esempio proprio questa pubblicazione: da una singolare idea giuridico/letteraria, inizialmente ospitata con timidezza sui nostri mezzi di informazione, ad una serie di consensi ed apprezzamenti che hanno fatto della
rubrica “Così è deciso” una nota distintiva della più complessa attività di
informazione del Sindacato di Categoria.
Non posso quindi che esprimere tutto il mio compiacimento all’autore per
aver valorizzato in questa collaborazione una iniziativa pubblicistica nata e
cresciuta in casa Ancl, riconoscendone la valenza e l’opportunità di realizzazione.
La più ampia e nota collaborazione dell’Autore alla formazione ed informazione nell’ambito delle attività editoriali del Centro Studi Ancl , va pubblicamente riconosciuta quale prezioso contributo allo sviluppo della cultura
professionale dei Consulenti del Lavoro che accedono alle pubblicazioni
Ancl.
Pubblicazioni, che fanno ormai parte essenziale del complesso delle accresciute attività svolte dall’Ancl, nella nuova visione e veste di Sindacato
proteso alle innovazioni ed al progresso professionale.
Sono convinto, infatti, che quella attività sindacale posta a tutela e alla valorizzazione della professione di Consulente del Lavoro, passi anche attraverso la realizzazione di strumenti a sostegno dell’attività professionale, in ogni
forma idonea a perseguire tale obiettivo.
Per tutte quelle iniziative sindacali ed editoriali, organizzative e formative
che qualche anno fa sono state pensate in embrione ed oggi si concretizzano o vanno realizzandosi, non posso che ringraziare quanti hanno riposto
fiducia nelle proposte dell’attuale Presidenza Nazionale
Roma, giugno 2016
Il Presidente Nazionale ANCL
(Francesco Longobardi)
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Il figliol prodigo
Con questa crisi che non finisce, il Sindacato capirà che la revoca dell’iscrizione non è dovuta a sfiducia nei suoi confronti ma solo per risparmiare
quella quota mensile trattenuta in busta paga, che mi farebbe proprio
comodo. Ma vedi che ti capita, che ti arriva la contestazione disciplinare e
devo precipitarmi a giustificarmi.
Non ho la faccia per chiedere assistenza al Sindacato, ma a mio cugino
avvocato sì, che spesso mi usa come il garzone del suo studio.
Orbene, l’audizione non si fa – dice l’azienda – e ti becchi la sanzione, posto
che ad assisterti è abilitato solo il sindacato e non l’avvocato.
E se proprio non ci credi, vatti a leggere la sentenza di Cassazione nr.
26023/2009 secondo la quale nel sistema dell'art. 7 della legge n. 300 del
1970, il diritto di difesa è garantito al lavoratore dalla contestazione dell'addebito, dal diritto che egli ha di essere sentito e dalla necessità di attendere
cinque giorni prima che il datore possa dar luogo a sanzioni più gravi del
rimprovero verbale, nonché dall'assistenza di un rappresentante sindacale,
riconosciuta dalla legge al fine di assicurare al lavoratore una migliore
tutela, dovendosi invece escludere la facoltà per quest'ultimo di farsi assistere da un legale, non essendovi nella legge alcun riferimento all'assistenza
cosiddetta tecnica, che è normalmente prevista nell'ordinamento solo in
giudizio. Vorrà dire allora che il sindacato capirà che mi sono d’un tratto
redento.
Fortemente pentito e redento.
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Il dubbio
Ricordo sempre con amarezza quella volta che mi recavo dal dirigente con
urgenti scartoffie del nostro pubblico ufficio, cadendo rovinosamente per le
scale, per quella benedetta ascensore sempre rotta.
Nessun risarcimento né danno da nessun tribunale; sin’anche dal Consiglio
di Stato, per il quale se è vero che l'infortunio è configurabile anche nel caso
di incidente occorso durante "la deambulazione" all'interno del luogo di
lavoro , dall’altra avrei dovuto dimostrare che le scale fossero in condizioni
tali da rendere insicuro il transito delle persone: circostanza che non può
certamente essere desunta in modo automatico per la sola dall'assenza di
dispositivi antisdrucciolo.
Per tali Giudici, in assenza di particolare pericolosità, deve ritenersi sufficiente un livello minimo di attenzione per evitare ogni tipo di lesione, sicché tutta
colpa mia perché va esclusa la dipendenza dell'infortunio da un rischio
specifico (sent. 514/2010).
Vi chiederete perché m’è tornato in mente l’episodio: perché or ora il
dirigente mi ha chiamato con urgenza dal piano di sotto, e la benedetta
ascensore è di nuovo rotta.
Meditavo sul come attenuare il fattore rischio: forse forse , calandomi dalla
finestra.
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Il comporto flessibile
Anche se la contrattazione collettiva nulla dice a riguardo, il giudice ha il
potere di riproporzionare il periodo di comporto fissato nel ccnl per i lavoratori a tempo pieno, nella minore misura rapportata all’orario part time.
Ciò – dice la cassazione in sentenza 27762/09 - al fine di evitare conseguenze eccessivamente onerose per il datore di lavoro ed applicare il rapporto di
proporzionalità in relazione all'impegno lavorativo in funzione del tempo.
In altre parole, il lavoratore part time non ha certezza del proprio periodo di
comporto contrattualmente previsto per la generalità dei dipendenti.
Tale pronuncia, nonostante le superiori direttive europee ed il Dlgs 61/2000
hanno affermato il principio di non discriminazione fra il lavoro a tempo
parziale e quello a tempo pieno.
Vorrà dire, che anche se il CCNL nulla dice, si potrà chiedere al datore ed al
giudice di riproporzionare anche le fasce di reperibilità per le visite di
controllo, tanto al fine di applicare il rapporto di proporzionalità in funzione
dell’impegno lavorativo.
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Il reintegro che complica la vita
Dopo aver impugnato il licenziamento e richiesto al Giudice il reintegro nel
posto di lavoro, ho trovato nuova occupazione.
A nulla sono valse le eccezioni del primo datore, il quale sosteneva che la
nuova occupazione precludeva la continuazione dell’azione giudiziaria volta
al reintegro.
Glielo ha affermato la Corte di Cassazione (sent.n. 3682/2010) secondo la
quale il fatto che un lavoratore licenziato reperisca, dopo avere impugnato
il licenziamento davanti al giudice del lavoro, un'altra occupazione, non
preclude il suo diritto di continuare l'azione giudiziaria e di ottenere l'annullamento del licenziamento con condanna dell'originario datore di lavoro alla
reintegrazione a termini dell'art. 18 St. Lav.
Ora, però, si pone un problema: dato che la reintegrazione comprende la
nullità del licenziamento e quindi che il rapporto non si era mai interrotto,
come ho potuto essere lavoratore subordinato di altro datore, con doppia
retribuzione, doppia contribuzione, doppia fiscalità?
Che il secondo rapporto possa essere annullato? Ed ancora: il nuovo datore
che mi vedrà reintegrato nel vecchio non la manderà giù, e penso proprio
che mi licenzierà.
Impugnando il licenziamento e chiedendo il reintegro, avrei piena facoltà di
proseguire l’azione anche con la nuova - ( pardon) - vecchia occupazione?
Credo di aver bisogno con urgenza di un Consulente del Lavoro.
Ma nel frattempo, studiatevi un po’ questo caso….umano
.
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La salute innanzi tutto
Non solo ho patìto un licenziamento ingiustificato, ma nella liquidazione del
danno che mi spetta il mio datore di lavoro richiede al giudice una riduzione
di tale risarcimento, perché non mi sono diligentemente iscritto nuovamente all’ufficio di collocamento, cosicché trovare nuova occupazione e limitare
il danno, tanto da decurtare il dovuto.
E’ come se in un incidente stradale, si richiede al giudice di ridurre il risarcimento perché dopo l’incidente l’auto ha fatto la ruggine non avendola prontamente riverniciata.
Non c’è stato verso per far recedere il datore di lavoro da questa richiesta,
di cui tanto è convinto, da rivederci in Cassazione.
Orbene secondo i supremi giudici (sent 5862/2010) sussiste il diritto del
lavoratore al risarcimento del danno senza decurtazione alcuna, mancando
la prova (il cui onere gravava sull'azienda) che, qualora lo stesso si fosse
iscritto alle liste di collocamento, avrebbe reperito adeguata occupazione,
così da ridurre il danno patito a seguito del licenziamento illegittimo.
Una decurtazione però l’ho sicuramente subita: sulla salute che ci ho rimesso in questi quattro anni di cause.
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Cosa buona e giusta
Passata la sfuriata in ufficio con il gran Capo, non passano dieci minuti che
mi richiama al suo cospetto.
Sei avvertito giovanotto – mi fa – tutti quei turpiloqui ( fino a chiamarmi
“pazzo”) con cui ti sei rivolto a me in riunione ( cioè “alla faccia del Capo”) ti
costeranno carissimi, a costo di arrivare in Cassazione.
Tento di spiegargli che quelle espressioni servivano per ravvivare il concetto
e dargli efficacia, ma il dito che mi indica la porta non lascia ben sperare.
E infatti, ci ritroviamo in Cassazione. Hanno sostenuto i supremi Giudici in
sent. 17672/2010 che “il termine usato è di sicuro inelegante e riassume in
modo rozzo il pensiero di chi la pronuncia, ma di sicuro non ha valenza diffamatoria, essendo entrato nel linguaggio parlato di uso comune come i
termini scemo e cretino. Quando tali termini vengano usati nelle discussioni,
spesso accese, che si svolgono tra colleghi in ambito lavorativo e/o sindacale aventi ad oggetto temi concernenti la organizzazione del lavoro e/o l'adozione di particolari iniziative che possano aumentare la produttività dell'Ufficio e rendere più agevole l'attività degli addetti, finiscono con l'avere un
significato rafforzativo del concetto espresso ed evocativo delle gravi conseguenze che si potrebbero verificare in caso di non accettazione delle critiche e dei consigli.
L'espressione pazzo, pertanto, ha finito con il perdere, nel caso di specie, la
sua valenza offensiva per divenire espressione, sintetica ed efficace, rappresentativa di una conduzione scorretta dell'ufficio, che non potrà che portare
alla rovina dello stesso.
E' certamente disdicevole e poco corretto che in una discussione di lavoro,
che per affrontare con esiti positivi un problema dovrebbe essere pacata e
serena, si usino termini che possano essere irritanti e poco rispettosi per
l'interlocutore e, quindi, controproducenti, perchè evidentemente la forte
polemica non consente di trovare soluzioni condivise, ma si deve escludere
che essi siano tali da superare la soglia del penalmente rilevante.”
Io glielo avevo detto. Bastava che il Maestro ascoltasse il Discepolo.
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Il contenzioso rosa
Se volessi conoscere i veri motivi del trasferimento così bruscamente e
verbalmente disposto dal mio datore di lavoro, per giunta dalla sera alla
mattina, non c’è santo in Paradiso: potrò solo ricorrere al Tribunale.
Già, perchè dice ora la Cassazione (sent. 1194/2010) che il provvedimento di
trasferimento non è soggetto ad alcun onere di forma e non deve necessariamente recare l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro ha l'obbligo di
rispondere al lavoratore che li richieda.
Sussiste però l'onere di provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno
determinato, rientranti tra quelle tecniche, organizzative e produttive che
giustificano il provvedimento.
Quindi il principale continua a non rispondere alle mie richieste, non credendo che per saperne di più lo trascinerò in tribunale.
Bella figura farà quando scoprirà di ricondurre le ragioni della mia ferma
opposizione al trasferimento ai miei sempre più frequenti incontri con la di
lui figlia.
Ma se Cassazione dice così, non è tutta colpa mia se non contribuisco a
deflazionare il contenzioso del lavoro.
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Il campionato aziendale
Per quella mail inviata al Capo con la quale – in maniera riservata – lo insultavo per i suoi modi e metodi usati con noi miseri dipendenti, sono quattro
anni che giro per tribunali, corte d’appello e ora Cassazione. Se insiste così
tanto, è proprio segno che non l’ha mandata giù.
Ne manderà giù quel che i supremi giudici hanno finalmente sentenziato
(sent. 24510/2010).
L’invio di un messaggio di posta elettronica contenente insulti non costituisce una “molestia” sanzionabile ai sensi dell’art. 660 del codice penale,
come invece avviene per l’insulto via sms o con il citofono. Inviare una mail
ingiuriosa realizza una comunicazione asincrona (che non richiede il collegamento contemporaneo degli interlocutori alla rete).
La molestia sarebbe invece configurabile con citofono o telefono perché si
avrebbe la comunicazione sincrona, che invece, presuppone che due o più
interlocutori siano collegati contemporaneamente.
L'invio di un messaggio di posta elettronica - esattamente proprio come una
lettera spedita tramite il servizio postale - non comporta (a differenza della
telefonata) nessuna immediata interazione tra il mittente e il destinatario,
nè nessuna intrusione diretta del primo nella sfera delle attività del secondo.
Ciò posto, va osservato che la mail ingiuriosa non è sanzionabile penalmente semplicemente perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Inutile dirvi quale attività dei colleghi è diventata ora un vero e proprio sport
aziendale: siamo ora nel girone di andata del “campionato di mail al Capo”
e non me la sto cavando mica male.
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Horned and beaten
Secondo la legge 17 ottobre 1967 n. 977 (tutela del lavoro dei bambini e
degli adolescenti) non è proprio possibile far lavorare un minore di 15 anni,
ovvero un fanciullo di età inferiore a 15 anni.
Sacrosanto principio, del vivere civile, a tutela dello sfruttamento e contro il
lavoro minorile che fa vergogna in tutto il mondo.
Ma se proprio succede che un minore è messo a lavorare, non creda di
avere diritto alla stessa retribuzione di un adulto.
La violazione del divieto di legge non fa certo venir meno il diritto alla retribuzione per l'attività lavorativa effettivamente prestata dal minore, dato
anche l'art. 37 della Costituzione, che sancisce il diritto del lavoratore minorenne alla parità di retribuzione a parità di lavoro.
Ma la maggiore inesperienza dei più giovani e l'opportunità di favorire
l'occupazione possono giustificare una più bassa retribuzione, rispetto ai
lavoratori maggiorenni, dato che ad essi vengono riservate mansioni diverse e meno impegnative (Cassazione – sent. 18856/2010).
P.S.: Si è tentato di dare un titolo elegante a questa notizia, aggrappandosi
all’inglese.
Ma per chi ha poca dimestichezza con le lingue, la traduzione è “cornuto e
mazziato”.
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L’importanza delle lingue
Non sono arrivato neanche alla terza media, perché in famiglia c’era bisogno di lavorare.
Come ricordo quanto mi piaceva la lingua francese, con la erre moscia e
tutti quegli accenti.
Cosicché il parroco del paese mi trovò un lavoro nello stabilimento del commendatore che produce tappi per bottiglie da generazioni. Si spinge un
bottone, si insacca il sughero, si spinge la pressa, ed il tappo è fatto.
Così dalle sette di mattina alle cinque del pomeriggio, per tante settimane,
per tanti mesi, per tanti anni, con paga il 27 del mese. Ma ora che grandicello son fatto, (e qualcosa di francese l’ho imparata da libri di terza mano)
chiedo al giudice di riconoscere in quel lavoro fatto a mo’ di garzone, un
rapporto di lavoro subordinato da persone normali.
Ma è un’odissea, sino alla Corte di Cassazione (sent. nr.18271/2010).
Codesti illustri Giudici con un solenne ceffone alle mie carte da bollo, hanno
sentenziato che ove la prestazione lavorativa sia assolutamente semplice e
routinaria e con tali caratteristiche si protragga per tutta la durata del
rapporto, l'esercizio del potere direttivo del datore di lavoro potrebbe non
avere occasione di manifestarsi.
Conclusione, questa, che tanto più appare valida laddove nel momento
genetico del rapporto di lavoro siano state dalle parti puntualmente predeterminate le modalità di una prestazione destinata a ripetersi nel tempo.
Quindi, niente potere direttivo, niente subordinazione.
Ho tentato di convincere i Giudici – forte delle mie conoscenze linguistiche –
che comunque il commendatore il potere direttivo lo esercitava, anche se
solo nella cerimonia di apertura del panettone a Natale dove da una parte
c’erano gli auguri e dall’altra la strigliata sulla produttività e sulla necessità
di produrre più tappi. Macchè.
Non ha funzionato neanche la teoria del potere direttivo ….“en passant” .
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Fine dell’incognito
Dopo non so più quante udienze, prove testimoniali, documenti, arringhe, e
tanti anni ormai passati da quel licenziamento che già so essere illegittimo
(ma quel lavoratore me lo dovevo proprio togliere di torno) sento odore di
reintegro.
Con tutte le mensilità da riconoscergli dalla data di licenziamento alla data
di reintegro: praticamente un capitale, stante gli anni decorsi dalla introduzione del giudizio alla definizione dello stesso.
Mosso da sentimenti di conservazione della specie, mi sfogo con uno scritto
con il mio Consulente del Lavoro: ma è possibile che non si riesce a riformare
questo benedetto sistema della giustizia, che per una causa di lavoro mi
tiene appeso anni e anni, e poi a pagare queste deficienze devo essere io?
Mobilitate Ministri, Sottosegretari, addetti, portaborse ed anche le escort se
dovessero essere utili alla causa.
Noi datori di lavoro questo sistema “ giustizia del Lavoro” non lo sopportiamo più! Fine e saluti. Mi perviene ora la seguente dal mio CDL: “ Gentile
Cliente, da contatti “importanti” che ho attivato a seguito della Sua, mi è
stato riservatamente risposto che riformare il sistema Giustizia del lavoro,
tribunali, udienze, cancellieri, archivi, tecnologia dei tribunali, etc, etc, è praticamente impossibile.
Ma il legislatore è stato particolarmente sensibile alle Sue giuste rimostranze. Non si può risolvere il problema della Giustizia? Bene, si risolve il problema dell’indennizzo.
L’art 32 del fresco fresco Collegato lavoro dispone che “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di
lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati
nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.”.
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Quindi per male che ti potrà andare corrisponderai 12 mensilità anche se la
causa dura dieci anni, anche per le cause in corso (come la Sua) alla data di
entrata in vigore della nuova legge.
Santo Consulente perfettamente informato.
Con questa novità, dovrò dirgli però che nella prossima proiezione del costo
lavoro di una nuova assunzione, dovrà quantificarmi anche questa evenienza, visto che è ormai specificatamente quantificata a priori. Quello che era
incognito ora diventa budget.
Caro lavoratore, cambiano i tempi!
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Le conseguenze toponomastiche
Alla mia antica fabbrica – posta in piazza 1° maggio del paese – è un continuo andirivieni di compaesani che cercano lavoro, chi mandato dal Sindaco,
chi dal Cappellano, etc, etc.
Con tutta questa offerta di lavoro, mi viene facile minacciare (pur larvatamente) di licenziamento i miei dipendenti se si rifiuteranno di sottoscrivere
le buste paga relative ai salari mensili per importi corrispondenti a un orario
di lavoro inferiore a quello effettivamente prestato.
Lo chiamano ingiusto profitto, ma è invece un modo come un altro per dare
stabilità alla loro occupazione.
Non vuoi che questi irriconoscenti dipendenti si sono coalizzati portandomi
dritto dritto in Cassazione?
Orbene, la Suprema Corte (sent. 1284/2011) ha concluso che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della
situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell'offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e
non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di
lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi.
Infatti, per configurarsi il reato di estorsione è sufficiente che la minaccia sia
tale da incutere una coercizione dell'altrui volontà. Ora nella mia antica
fabbrica non vuole venire a lavorarci più nessuno, neanche con promessa di
paga doppia.
E il Sindaco mi ha fatto sapere che presto verrà cambiato il nome della
piazza: dal 1° maggio a Piazza della Giustizia.
Ci sarà qualche nesso secondo voi
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Problemi di famiglia
Non c’è verso di far capire all’agente che il contratto di agenzia in essere
con lui, posso legittimamente risolverlo per giusta causa, dopo che ho
scoperto le sue malefatte.
Solita trafila di carte bollate sino al giudizio in Cassazione. I supremi giudici
– anche se dopo qualche anno – mi danno ragione ( sent. Nr. 395/2011): nel
contratto di agenzia, pur nella sostanziale diversità delle rispettive prestazioni e della relativa configurazione giuridica, per stabilire se lo scioglimento
del contratto stesso sia avvenuto o meno per un fatto imputabile al preponente o all'agente, tale da impedire la prosecuzione anche temporanea del
rapporto, può essere utilizzato per analogia il concetto di giusta causa di cui
all'art. 2119 cod. civ., previsto per il lavoro subordinato; tale principio può
parimenti essere applicato anche nell'ipotesi di recesso ante tempus dal
contratto di agenzia a tempo determinato.
Vi sembrerà strano, ma l’agente è tanto sorridente dell’esito del giudizio, da
dovergli chiedere il perché.
Avrò anche perso il posto di lavoro – mi fa – ma ora corro a casa: pur nella
sostanziale diversità della configurazione giuridica , mi urge applicare per
analogia la risoluzione del rapporto con mia suocera. Carta canta!
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Un futuro da attore
Codesto datore di lavoro , per il solo sospetto sulla mia dignitosa persona,
dipendente da data immemorabile, mi ha puntato ed inseguito con telecamere e mezzi investigativi invasivi, sul posto di lavoro, in violazione dello
Statuto dei Lavoratori.
E con quelle immagini illegittimamente ottenute, mi licenzia per appropriazione indebita di patrimonio aziendale. Poveretto, ci rimetterà anche il compenso all’agenzia di investigazioni. Giù carte bollate, avvocati, anni di udienze, primo grado, secondo e finanche Cassazione.
Finchè mi sento sentenziare: le disposizioni dell'art. 2 dello Statuto dei Lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di
lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest'ultimo di
ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella
vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3 dello
statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori.
Tuttavia, a giustificare l'intervento in questione è necessaria non l'avvenuta
perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma solo il
sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (Cassazione Sezione Lavoro n. 3590 /2011).
Ora, mi ritrovo senza posto, e con il video che impazza sul web, tra i colleghi,
e quei perfidi parenti di famiglia.
Visto che non posso propormi a nuove aziende per questo precedente, mi
sto proponendo presso qualche casting dimostrando le mie attitudini da
fiction.
Speriamo ci credano.
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La scadenza beatificata
Il termine per quella sanzione è perentorio, il termine per quell’altra non si
discute, se paghi oltre il termine ti conteggiano comunque la mora e gli interessi, se paghi oltre il termine è come se non hai adempiuto.
Un sistema oseremmo dire certo ed efficace (fin troppo) che non lascia
spazio a dimenticanze o sufficienze, un sistema che non fa differenze tra il
pigro e lo svelto.
Eppure, in questa concordanza di norme e circolari d’autorità, appare all’orizzonte un luce bianca: non è l’ennesima santona che ha contati con l’aldilà,
ma la recente sentenza della Corte di Cassazione nr. 6905/2011 per la
quale il contribuente non decade dall'accertamento con adesione se versa
con due giorni di ritardo rispetto al termine concordato.
Questo perché il versamento in lieve ritardo mantiene comunque l'interesse
attuale e concreto dell'amministrazione al perfezionamento dell'adesione in
base ai principi di efficacia, efficienza ed economicità dell'azione amministrativa.
A questo poi si deve aggiungere il principio di collaborazione che deve
sempre sussistere tra amministrazione e contribuente, così come previsto
dallo Statuto del contribuente (legge 212/2000). Orbene, lor signori, avete
letto bene.
La mano del perdono si spande sugli adempimenti tributari . E’ solo l’inizio di
una nuova visione dei rapporti P.A/Contribuente? Non lo sappiamo.
Ma l’aria pasquale avrà di certo avuto il suo peso.
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La compassione interessata
Qualche velata minaccia nei luoghi di lavoro è pane di tutti i giorni.
Ma sentirmi apostrofare dal mio datore di lavoro con "Ti farò schiattare" e “
Sei una vergognosa” per non aver voluto sottoscrivere la lettera di dimissioni ,è davvero troppo.
Di corsa dal giudice con tanto di denuncia per il reato di minacce e ingiurie
commesso dal datore di lavoro, che invece di pensare alla sua ormai vacillante salute, ha pensato di rovinare la mia.
Su e giù per tribunali sino alla pronuncia della Corte di Cassazione (
sent.nr.22816/2011).
Quanto alla rilevanza penale delle espressioni su menzionate – hanno affermato i Giudici - il ricorso del datore è manifestamente infondato atteso che
contrariamente a quanto assume il ricorrente, l'espressione "ti farò schiattare" non solo è di uso comune, ma è riportato su tutti i dizionari della lingua
italiana con l'inequivoco significato "ti farò crepare"; l'espressione "vergognosa" poi è stata correttamente valutata nel contesto, ed aveva il chiaro ed
univoco significato ingiurioso che la sentenza impugnata ha giustamente
ritenuto.
Spero davvero che il mio ex datore abbia retto al colpo e resista a lungo: non
foss’altro per avviare la causa civile risarcitoria.
Del resto, a schiattare, c’è sempre tempo
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Specializzando a suo rischio e pericolo
I termini rischio e pericolo appartengono al linguaggio quotidiano e la differenza fra di loro può apparire scontata.
Nel caso della sicurezza nei luoghi di lavoro è bene precisarne il significato:
si intende per pericolo la fonte di possibili lesioni o danni alla salute, mentre
si parla di rischio quando c'è probabilità che, in presenza di determinati pericoli, si verifichi un effettivo danno alla salute.
Orbene, l’indennità di rischio radiologico ed il congedo straordinario riconosciuta ai medici radiologi, non può essere riconosciuta ai medici specializzandi.
Per il semplice motivo che tali medici specializzandi non sono dipendenti
della struttura sanitaria (Cassazione nr. 14850/2011) il che, è di una semplicità sconcertante.
Dice la Corte che se è vero che la formazione del medico specialista radiologo implica la partecipazione del medesimo alla totalità delle attività mediche del servizio, è altresì indubitabile che tutte le disposizioni normative che
regolano il rapporto intercorrente fra il servizio sanitario e lo specializzando
puntualizzano che l'ammissione e la frequenza alle scuole di specializzazione non comportano la costituzione di alcun rapporto d'impiego.
Come dire che al tirocinante in un cantiere si può anche risparmiare l’elmetto protettivo, tanto non c’è alcun rapporto di lavoro.
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Il compenso ortopedico
Quando mi sono recato dal Commenda chiedendogli il giusto compenso per
la mia reperibilità domenicale, mi sono sentito dire che stare a casa in
attesa di una (eventuale) chiamata non rappresenta una prestazione lavorativa, ma solo un atto di fiducia : dice il Commenda che può contare solo su
di me, e per compenso basta una pacca sulla spalla (sempre sulla destra).
Dato che tali pacche non equivalgono neanche ad un buono pasto, saranno
i giudici a diglierlo, al Commenda.
La reperibilità prevista dalla disciplina collettiva si configura come una
prestazione strumentale e accessoria, qualitativamente diversa dalla
prestazione di lavoro e consistente nell'obbligo del lavoratore di porsi in
condizione di essere prontamente rintracciato in vista di una eventuale
prestazione lavorativa. Non equivalendo pertanto ad una effettiva prestazione lavorativa, il servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo
settimanale limita soltanto, senza escluderlo, il godimento del riposo stesso
e comporta il diritto ad un particolare trattamento economico aggiuntivo
stabilito dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, determinato dal
Giudice ( Cass. Sent. nr. 14301/2011).
E’ un po’ di tempo che il Commenda non mi dà più pacche sulla spalla.
Proprio adesso che volevo offrigli la sinistra per riequilibrare la postura.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Tanto gentile e tanto onesta pare
Quella gentil donzella che vado discretamente indicandoti, tempo addietro
faceva il mestiere più antico del mondo, con un volume d’affari di tutto
rispetto.
Venne il giorno però che cominciò a scoraggiarsi, allorquando la Corte di
Giustizia UE sancì che quel mestiere “costituisce una prestazione di servizi
retribuita, che rientra nella nozione di attività economica,ovvero lavoro
autonomo senza alcun vincolo di subordinazione” (Sent.nr. 268/2011).
Come se non era bastata la sentenza della Corte di Cassazione nr. n. 20528
dell' 1/10/2010 secondo la quale i redditi derivanti da quel mestiere, vanno
assoggettati ad Irpef.
Poi gli è arrivata la sentenza della suprema Corte nr. 10578/2001 secondo
la quale i compensi da lei ricevuti vanno anche assoggettati ad IVA.
Ho saputo che dalla gentil donzella ormai non ci va più nessuno, infastiditi
non poco – ogni volta - dal dover attendere la compilazione della prima
nota. Ad voler essere onesti, ci si rimette sempre.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Sintomatologia “on call”
Leggo di quel professionista sanzionato dal proprio Ordine professionale
per essersi sottratto agli obblighi della formazione continua.
Ha giustificato innanzi ai giudici che la protratta mancata frequentazione
era causata da agorafobia, ovvero quello stato di malattia che comporta la
sensazione di paura o grave disagio che un soggetto prova quando si ritrova in ambienti non familiari, temendo di non riuscire a controllare la situazione che lo porta a desiderare una via di fuga immediata verso un luogo da
lui reputato più sicuro.
In sentenza nr. 15963/2011 la suprema Corte ha deciso che tale patologia
in effetti non costituiva una valida ragione per disertare i corsi di aggiornamento, tenuto conto che il ricorrente partecipava abitualmente ad affollate
udienze nella qualità di Giudice onorario del Tribunale.
La difesa del professionista quindi non ha funzionato.
Avesse studiato un po’ di legislazione del lavoro, avrebbe potuto accampare
più efficacemente, una particolare forma di agorafobia, quella intermittente
o a chiamata.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Uno di voi mi tradirà
La crisi, lo spread, le tasse, la prima manovra, la seconda , la terza: c’è poco
da fare, devo licenziare qualcuno degli operai, anche di quelli fidati che mi
hanno sopportato tutti questi anni. Il consulente mi dice di fare una procedura di mobilità, per espellere almeno cinque lavoratori e garantire loro
l’indennità.
Penso alle loro famiglie, nel mentre mi disbrigo tra comunicazioni, trattative
sindacali, uffici e di tutto di più. Tutto fatto, passo ai licenziamenti, e perché
sono testardo, riesco a ridurre i licenziamenti da cinque a soli tre.
Ma dei tre c’è chi (l’ingrato) mi intenta causa, sostenendo che essendo
inferiori cinque i licenziamenti di cui alla procedura della legge 223/91, salta
la procedura, il licenziamento è inefficace, e quindi vuole essere reintegrato.
Per fortuna esistono i giudici di Cassazione.
Secondo tali Signori del diritto, ove il datore di lavoro, che occupi più di quindici dipendenti, intenda effettuare, in conseguenza di una riduzione o
trasformazione di attività o di lavoro, almeno cinque licenziamenti nell'arco
di centoventi giorni, ai sensi dell'art. 24 della legge n. 223 del 1991, è tenuto
all'osservanza delle procedure previste dalla legge stessa, mentre resta
irrilevante, ai fini della configurazione della fattispecie del licenziamento
collettivo, che il numero dei licenziamenti attuati, a conclusione delle procedure medesime, sia eventualmente inferiore ( Cass. Sent. Nr. 24566/2011).
Il Giuda si era rivelato ed ora rimane a casa, ma come si suol dire, bisogna
avere fede…
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Così è deciso (2009 - 2016)
L’insulto argomentato
Senta, Onorevole o Senatore che Lei sia: Le voglio dire nei denti che Lei è un
autentico incapace, ma ora aspetti ancora qui con me cinque minuti perché
devo argomentare.
Il politico mi guarda incredulo, non capendo la necessità di questo trattenimento ulteriore.
Orbene, (mi spiego) le devo ampiamente motivare il mio insulto per evitare
di passare un guaio. Come è capitato a quel giornalista condannato per
diffamazione a mezzo stampa che, dopo aver dato conto del suicidio e del
tentativo di suicidio di alcuni giovani disoccupati, accenna alla situazione di
degrado sociale del Meridione d’Italia e ne indica i responsabili negli onorevoli X ed Y definiti,”parassiti”, persone che portano a casa non so quanti
milioni di lire al mese.
Quel signore ha perso anche il ricorso in Cassazione ( sent. Nr. 48553/2011)
perché - dicono i supremi giudici - che “tali severi giudizi avrebbero dovuto
essere espressi all’interno di un percorso argomentativo e come corollario
di un ragionamento, che, viceversa, nel caso in esame, manca del tutto”
Compito del giudice non è “certo quello di valutare (condividendolo o respingendolo) il ragionamento predetto, ma di prendere atto della sua esistenza
e di verificarne la formale coerenza logica”
Ecco perché le devo motivare l’incapace con un percorso argomentativo.
Sono già scaduti i 5 minuti? Inserisca nel mille proroghe anche questa, Lei
che può, ma mi faccia argomentare.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Retribuzioni: la mail te le arrotonda
Sono uscito dal lavoro da quasi un’ora. Ho da dedicarmi alla cena, a moglie
e figli ed al meritato riposo. Ma ecco – un po’ come sempre più frequentemente accade – che ti arrivano le mail del Capo per questioni di lavoro
urgenti sul telefonino.
Voi direte: non solo maleducato, invadente, irrispettoso , ma anche arrogante, quel Capo. Vi sbagliate, e di grosso. Mi affretto con gran piacere a risolvere le questioni del Capo con le mail di risposta, puntuali e complete.
Vi chiederete: sei impazzito? No, affatto, anzi. La differenza tra me e voi è
che io vivo e lavoro in Brasile, dove il mio Presidente Dilma Rousseff, ha
deciso di introdurre, lo scorso dicembre, una legge decisamente innovativa,
con la quale si attribuisce validità, ai fini del calcolo per lo straordinario degli
impiegati, all’invio di e-mail sul cellulare fuori dall’orario lavorativo.
Cioè, i messaggi di posta elettronica per i lavoratori brasiliani valgono come
“ordini impartiti direttamente al dipendente“, e quindi, i dipendenti che
rispondono a tali e-mail hanno il diritto alla corrispondente retribuzione a
titolo di “straordinario“.
Tra i colleghi, c’è ora la corsa ad ingraziarsi quel capo del reparto che spreca
l’orario aziendale per far la corte alla segretaria, accorgendosi a fine giornata di avere ancora qualche centinaia di cose da sistemare.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Come ai tempi di scuola
A quel concorso ci tenevo davvero tanto. Non è che mi ero particolarmente
preparato, ma i vecchi appunti tenuti da qualche parte, avevano sempre
funzionato, e a scuola io ne ero davvero maestro. Senonchè mi ritrovo
escluso dal concorso perché sorpreso a consultare un appunto scritto sul
palmo della mano.
Possibile che i più alti giudici daranno retta a quei commissari di concorso
che mi hanno escluso per questa innocente – e forse – anche tenera trovata? Ebbene, il Consiglio di Stato, udite,udite, ha confermato l’esclusione (
Sent. 23 febbraio 2012, n. 980).
Pur nella evidente impossibilità di acquisire una prova diretta mediante
sequestro degli appunti vietati (e lo credo!!!) e nella impossibilità di trascrivere per esteso il contenuto degli appunti vietati (se del caso, imponendo al
candidato di mostrare il palmo della mano con mezzi coercitivi), sempre di
appunti trattavasi, in violazione del divieto di consultazione di appunti
manoscritti di qualsiasi genere.
Davvero un peccato per quel concorso. Avevo consultato a riguardo i migliori legali ed i migliori esperti amministrativisti, ma come è il caso di dire,
nessuno è riuscito a darmi una mano.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Le modalità di pagamento
Quel tiranno del datore di lavoro, mi ha tolo gli straordinari, non mi manda
più in trasferta, niente premi di produzione. Lui dice che c’è la crisi, ma
secondo me ce l’ha proprio con me. Insensibile alle mie educate istanze del
tipo “tengo famiglia”, il tiranno non mi riceve neanche più, o, al peggio, è
fuori sede.
Non appena lo incontro nei binari di produzione, mi viene dallo stomaco
avvicinarlo e bisbigliargli nell’orecchio “te la faccio pagare”. E’ così che mi
ritrovo con una condanna penale per minaccia , e in più niente straordinari,
ne trasferte, né premi di produzione. Ho cercato in tutti i modi di convincere
i giudici che quella velata minaccia era quasi infantile e assolutamente
modesta. Macchè.
Secondo i giudici con la pelliccia (Cass. Sent. N. 18730/2012)” la norma incriminatrice non richiede affatto che il male minacciato debba essere “notevole”; nulla autorizza a ritenere che per la penale perseguibilità del fatto sia
richiesta la notoria pericolosità dell'autore della minaccia.
Una tale interpretazione - che indurrebbe ad escludere assurdamente la
punibilità di qualsiasi minaccia, se rivolta da soggetto sconosciuto alla
persona offesa - non trova alcun sostegno nella lettera della norma, né
nella ratio che la sostiene.
E neppure il carattere generico del male minacciato esclude la punibilità.”
Perlomeno ho imparato che alla prossima minaccia – visto che mi si
condanna comunque - dovrò essere più preciso.
Magari intimidendolo con la specifica richiesta di pagamento delle ferie
arretrate, così pagandola lo stesso.
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Così è deciso (2009 - 2016)
La saggezza popolare che salva il lavoro
La gelosia maniacale dei miei documenti di lavoro è spesso motivo di ilarità
di tutti i colleghi. “Ma che ti conservi, le carte???” così mi irridono.
Sarà, forse conservo abitudini culturali della mia terra, evidentemente diversa dalla loro. Sinquando non vengo sottoposto a procedimento disciplinare
con addebiti di scarso rendimento. Mi difendo inviando alla società un plico
di documenti aziendali riguardanti l'attività di ricerca e sviluppo cui sono
addetto. Il che mi frutta un nuovo procedimento disciplinare con l'addebito
di trafugamento di documenti aziendali riservati, con il lieto fine del licenziamento.Orbene, nonostante la società sia stata condannata al mio reintegro
ed al risarcimento del danno tanto dal Tribunale quanto dalla Corte d’Appello, si osa scomodare anche i giudici di Cassazione.
Secondo la Suprema Corte, (Sent. n. 7993/2012) il lavoratore che produca, in
una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia
di atti aziendali, che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa ,
non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all'art. 2105 cod. civ., tenuto
conto che l'applicazione corretta della normativa processuale in materia è
idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione
aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi
prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di riservatezza dell'azienda; ne
consegue la legittimità della produzione in giudizio dei detti atti trattandosi
di prove lecite.
Tale orientamento vale anche, con riferimento alla utilizzazione da parte del
lavoratore di documenti aziendali di carattere riservato allorché la produzione in giudizio dei documenti è determinata al fine di esercitare il diritto di
difesa, di per sé da considerarsi lecita per la prevalenza di detto diritto.
I colleghi non mi irridono più, anzi , la fotocopiatrice è in piena attività.
Mi appaiono ora un po’ compaesani, quasi delle mie parti, dove un tempo si
diceva “conserva, che poi trovi”.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Il listino prezzi dei rapporti di lavoro
Questa volta non commentiamo una decisione di Cassazione o di merito
(tutte anche opinabili) ma alcune disposizioni di legge ( in quanto Legge,
poco opinabili, da applicare e basta).
Trattiamo della riforma del mercato del lavoro, che – ad uso di quanti sia
sfuggito – adotta una nuova tecnica commerciale.
Nel senso: una cosa non si può fare, ma se la fai, paghi una tassa e la puoi
fare. Come nel contratto a termine: il rapporto subordinato a tempo indeterminato è la forma comune di rapporto di lavoro, ma se proprio vuoi fare
il rapporto a termine, paghi un 1,4% in più sulla contribuzione.
Il lavoro a progetto? Tanto per cominciare adegua la retribuzione (pardòn, il
corrispettivo) a quello previsto dal CCNL di riferimento, e poi giù con l’escalation della contribuzione. Licenzi un dipendente? eccoti la tassa sul licenziamento per finanziare l’ASPI, apprendisti licenziati compresi, ogni qual volta
l’interruzione del rapporto di lavoro non è scaturita dalle dimissioni.
Concludi una conciliazione a seguito di licenziamento con esito di risoluzione
consensuale del rapporto di lavoro? C’hai una contribuzione da versare
all’Aspi (oltre l’indennizzo dovuto al lavoratore, s’intenda). Siamo alla mercificazione del rapporto di lavoro.
Essendo il rapporto di lavoro oramai attratto alla disciplina commerciale,
presto assisteremo alla abolizione della giusta causa o giustificato motivo, in
quanto si fa spazio l’inadempienza contrattuale propria dei contratti commerciali ( artt.1218 c.c. e seguenti).
Alla fine tutto ha un prezzo. Chissà quanto costerà di questo passo un eventuale licenziamento in tronco senza ragione giustificatrice (come si suol dire,
dalla sera alla mattina).
Il listino è aperto, via al televoto.
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Così è deciso (2009 - 2016)
La domanda nasce spontanea
Si può essere sorpresi a copiare in sede di esame di maturità (e quindi
esame di Stato), esserne quindi esclusi a norma delle disposizioni vigenti, e
poi riammessi? In questo Paese, si può.
Ne sa qualcosa quella studentessa impegnata nell’esame di maturità che
era stata esclusa dalla prova d’esame di Stato in quanto risultava “sorpresa…a copiare da un telefono cellulare palmare”.
La sacrosanta esclusione si è poi riversata nelle aule di giustizia, dapprima
al Tar che confermava l’avvenuta esclusione e poi sino al Consiglio di Stato
(sentenza nr.4834/2012). I supremi giudici amministrativi hanno riformato la
precedente pronuncia, affermando che la condotta sanzionabile doveva
trovare una più approfondita valutazione, in rapporto all’intero curriculum
scolastico della candidata, tenuto conto dei cosiddetti crediti formativi, non
potendo prescindere dal contesto valutativo dell’intera personalità e del
percorso scolastico dello studente.
Non potevano dunque ignorarsi, nel caso di specie, il brillante curriculum
scolastico della candidata (ammessa all’esame con un giudizio che ne
evidenziava “le notevoli capacità, il personale vivace interesse e il costante
costruttivo impegno”), né le peculiari circostanze, che caratterizzavano il
fatto contestato (tra l’altro uno stato d’ansia probabilmente riconducibile
anche a problemi di salute).
Peraltro andava anche valutato che l’Autorità scolastica aveva riferito come
l’alunna si era dichiarata – “profondamente e sinceramente pentita del suo
comportamento…”.
Risultato: studentessa riammessa. In altri termini, se sei stata brava per
tutto il ciclo di studi, copiare si può. Ora, tutte le sentenze vanno rispettate,
ma, la domanda nasce spontanea: ma gli esami, allora, che si fanno a fare??
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Così è deciso (2009 - 2016)
Gli obblighi (del lavoratore) opinabili
Non è da tutti i Consulenti del Lavoro ricevere un bel giorno la visita di un
imprenditore straniero che vuole aprire una fabbrica dalle nostre parti.
La sua preoccupazione principale è l’assiduità, la fedeltà, l’affidabilità dei
lavoratori all’impresa che, secondo lui, è la carta vincente per valorizzare la
produzione. Senta, caro signore – gli dico – questo è un Paese nel quale
quelle qualità che cerca, sono, come dire, opinabili.
Ad esempio, lavoratore in malattia: da noi, sono sacrosante le tutele. Obbligo
del lavoratore alla pronta guarigione? Macchè! Obbligo del lavoratore ad
essere reperibile nelle apposite fasce orarie? Macchè! Assenza dal lavoro
per una malattia che di certo gli causa impedimento? Macchè! Guardi
questa sentenza di Cassazione nr. 15476/2012.
Un lavoratore assente per malattia dal posto di lavoro a causa della sua
caviglia malconcia, viene trovato nel chiosco della moglie a riordinare, servire ai tavoli ed altre incombenze: licenziato.
Si dirà: dovè l’opinabilità? Legga qua: "Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di
correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e
fedeltà, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente
a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, possa
pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio".
Il lavoro presso il chiosco “per un paio di giorni, avevano comportato un
impegno per la caviglia meno gravoso di quello caratterizzante il lavoro
presso la società…risolvendosi in condotte parificabili a quelle tenute di
norma nella propria abitazione. In tema di licenziamenti per giusta causa, la
condotta del lavoratore, che, in ottemperanza delle prescrizioni del medico
curante, si sia allontanato dalla propria abitazione e abbia ripreso a com-
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Così è deciso (2009 - 2016)
piere attività della vita privata - la cui gravosità non è comparabile a quella
di un'attività lavorativa piena - senza svolgere una ulteriore attività lavorativa - non è idonea a configurare un inadempimento ai danni dell'interesse
del datore di lavoro.
Quell’imprenditore si congedò dicendomi che m’avrebbe fatto sapere. Non
l’ho più visto. Ma ho saputo che nei colloqui di lavoro che ha tenuto in un
altro Paese per l’apertura della nuova fabbrica, ha comunque chiesto ai
candidati se le loro mogli gestissero un chiosco.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Il professionista si vede nei momenti di bisogno
Mi muove ad umana compassione la disperazione di questo mio cliente di
studio che maneggia il verbale ispettivo con tanto di maxi sanzione per
lavoratori tenuti al nero.
Ma come consulente del lavoro, non posso che fargli una sonora ramanzina,
per la serie “te l’avevo detto”, ed anche ridetto. Quale integerrimo professionista, davanti al lavoro irregolare intrattenuto con più lavoratori, inorridisco:
a nulla possono valere le sue giustificazioni, la crisi, la congiuntura, etc,etc.
Ma proprio quale serio professionista, non posso sottrarmi dall’assisterlo
anche in questo doloroso frangente. Caro cliente discolo, la frittata è fatta
ma possiamo attenuare il colpo.
Già, perché risulta a verbale che dagli accertamenti compiuti sono emersi
costi del personale dipendente non annotati nelle scritture obbligatorie.
Detti costi aziendali non registrati in contabilità devono ritenersi deducibili,
in ossequio al disposto di cui all’art. 109, 4° comma, del DPR n. 917/86, che
nell’ultimo periodo, recita: “Le spese e gli oneri specificamente afferenti i
ricavi e gli altri proventi, che, pur non risultando imputati al conto economico, concorrono a formare il reddito, sono ammessi in deduzione nella misura
in cui risultano da elementi certi e precisi”. ( Commissione Tributaria Regionale , sentenza N. 50/2/12).
E quali possono essere elementi più certi e più precisi di quelli contenuti nel
verbale ispettivo? Metti quindi insieme i compensi che hai erogato a quei
lavoratori, e fatti una bella deduzione. Al cliente discolo torna un barlume di
sorriso, e con fare acculturato gli sottolineo: ricordati, dice il proverbio delle
mie part , che “sotto il guasto, c’è sempre l’aggiusto”.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Due pesi e due misure
Lei mi deve spiegare – mi fa il sindacalista infuriato che neanche bussa alla
porta già qui a prima mattina – perché mi ha licenziato il dipendente mio
iscritto per assenza ingiustificata e invece alla bionda del reparto amministrativo gli ha solo trattenuto la retribuzione della giornata non lavorata.
Non sarà perché la tale bionda, ha qualcosa a che fare con suo figlio,
responsabile del reparto amministrativo? Mi faccia parlare con il mio consulente, un motivo per il quale mi ha consigliato siffatto comportamento ci
sarà.
Al telefono rosso, il consulente mi fa: In caso di assenza ingiustificata del
dipendente, il datore di lavoro può limitarsi a non corrispondere la retribuzione a termini dell'art. 1460 cod. civ., senza necessariamente adottare
provvedimenti disciplinari.
La giurisprudenza di legittimità, ha escluso che il datore di lavoro possa
reagire alla inadempienza del lavoratore soltanto con sanzioni disciplinari
oppure, con il licenziamento; ciò che va evidenziato, è che il recesso dal
contratto per giustificato motivo ovvero per giusta causa costituisce una
facoltà della parte datoriale, la quale tuttavia, ove per qualsivoglia motivo
non ritenga di ricorrervi, quand'anche ne sussistano i presupposti, non per
questo può ritenersi incondizionatamente tenuta all'adempimento della
prestazione retributiva. ( Cassazione, sentenza nr. 17353/2012).
Il sindacalista torna ramingo sui suoi passi, leggendosi la sentenza. Ma sono
certo che domattina me lo rivedrò qui, con qualche domanda inerente l’illecita disparità di trattamento tra i lavoratori. Speriamo che il telefono rosso
funzioni di nuovo.
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Così è deciso (2009 - 2016)
C’è sofferenza e sofferenza
Caro Principale, dal punto di vista biologico la sofferenza rappresenta un
campanello d’allarme, un indicatore mediante il quale gli organismi viventi e
dotati di vita sensitiva reagiscono a situazioni che potrebbero essere nocive
per loro e, pertanto, possono assumere comportamenti conseguenti per
salvaguardare se stessi e la propria salute.
Aggiungo che la sofferenza non è solo di natura fisica, ma spesso si radica
in problematiche di tipo psicologico e relazionale, che a loro volta retro-agiscono sulla stessa fisicità (somatizzazione).
Resto basito, caro dipendente, di queste tue profonde affermazioni, ma a
me, tuo Principale, cosa importa?
Te ne importa sì: perché è l’ora di finirla di farci lavorare oltre il sesto giorno:
lo ha detto la Corte di Cassazione (sent. Nr. 18284/2012) secondo la quale
“il lavoro prestato oltre il sesto giorno determina non solo, a causa della
prestazione lavorativa nel giorno di domenica, la limitazione di specifiche
esigenze familiari, personali e culturali alle quali il riposo domenicale è finalizzato, bensì una distinta ulteriore "sofferenza": la privazione della pausa
destinata al recupero delle energie psico-fisiche è inscritta, come fatto
lungamente protrattosi nel tempo, nella nostra coscienza e nella nostra
biologia.”
Dinanzi a cotanta saggezza, anche un Principale china la testa. Da domenica tutti a messa e fabbrica chiusa. Anche se, a pensarci bene, sarà il mio
bilancio a provarne sofferenza.
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Così è deciso (2009 - 2016)
L’anno che verrà
La mia è pura invidia: che meraviglia guardare i bambini che scrivono le loro
speranze a Babbo Natale, rimesse su quei foglietti improvvisati con indecisa
scrittura. Preso da un impeto di ritorno al passato, eccomi con carta e
penna, chissà dovesse funzionare davvero.
Caro Babbo Natale, desidererei tanto per semplificare il mio lavoro di Consulente del Lavoro che ci potessi regalare delle leggi semplici, di quelle che
davvero risolvono il problema della disoccupazione , di quelle che non siano
da interpretare, ma da applicare, di quelle che aiutano e facilitano il lavoro.
Capisco che in questi giorni avrai molte cose da fare, ma ti garantisco che
questo sarebbe un regalo non da poco, visto e considerato che in molti si
cimentano, ma fanno solo danni.
Personalmente, posso garantirti che quest’anno mi sono comportato bene,
anche se c’erano molti motivi per cambiare mestiere e sparlare in pubblica
piazza delle corbellerie che dicono in televisione. Se davvero prendi a cuore
la questione, sappi che il tuo dono non sarebbe mica da poco: famiglie più
felici, lavoratori con il sorriso, Consulenti in festa, imprenditori che riescono a
fare gli imprenditori, praticamente un altro mondo.
So anche che non è proprio facile, ma visto che tutti dicono di avere la bacchetta magica che poi di magico vendono solo gli incantesimi, sono certo –
a questo punto - che solo tu potrai soddisfare questo desiderio.
Neanche il tempo di affidare al vento la letterina, come fanno i bimbi incantati che ci contano davvero, eccomi un Tweet da Babbo Natale (che a sua
volta si è regalato un nuovo pc).
Caro Consulente, ho ricevuto la tua letterina che mi ha davvero commosso,
tanto da mettere per un attimo da parte tutto quello che c’ho da fare. Il tuo
regalo è già bell’e pronto, perché qualcuno aveva già deciso di risolvere la
questione, per cui, non ho nessuna difficoltà a soddisfare il tuo desiderio.
Devi andare a trovarti una certa Legge nr. 92/2012 che così esordisce
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Così è deciso (2009 - 2016)
all’art. 1: “La presente legge dispone misure e interventi intesi a realizzare
un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione,…”.
Tutto il resto non ho avuto il tempo di leggerlo,ma viste le premesse deve
essere proprio qualcosa di eccezionale. Hai tutto il tempo di leggerla tu per
me, in modo tale che il prossimo Natale mi saprai dire e ringraziare.
Ora devo scappare, anche a te Buon Natale. Ora, ho l’impressione di dover
dedicare tutto l’anno prossimo a studiare come quella legge ha poi tradotto
in misure efficaci quella premessa che sta tanto a cuore a Babbo Natale.
Per decidere, per il prossimo Natale, se mandarlo male, o non ritornare
bambino mai più.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Una brutta razza
Accusato in pubblica assemblea sindacale, di non rispettare i diritti dei lavoratori. Al punto tale che quel sindacalista, mi apostrofa dinanzi ai miei affezionati dipendenti, dandomi del “babbuino” e “ barbagianni”.
La mia onorabilità di “datoredilavorotuttodunpezzo”, non può esimermi dal
ricorrere alla umana Giustizia. Con grande soddisfazione, vedo che anche la
Corte di Cassazione sez. penale, la pensa come me (sentenza nr.
44966/2012): gli epiteti che rievocano gli animali hanno una obiettiva
valenza denigratoria in quanto, assimilando un essere umano ad un animale, ne negano qualsiasi dignità, ovvero una forma ritenuta disgustosa.
Ed ecco di corsa che il sindacalista condannato per ingiuria, viene a farmi
visita per mediare sul risarcimento del danno derivante dall’ingiurioso accostamento all’animale.
Sa cosa le dico? Mi fa: non voglio pensare a cosa mi sarebbe successo se
l’avessi chiamato toro, ma andrò a dire a quelli della Cassazione che il principio enunciato non è giusto: che avrebbero scritto in sentenza se l’avessi
chiamata cigno bianco o gatto persiano?
Ho solo sbagliato la razza, e siccome i diritti dei lavoratori non me li si tocchino, per la prossima assemblea ho già pronto il Bignami delle specie animali.
Tanto per andare sul sicuro.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Beati noi
C’è una legge - da qualche parte del mondo – che intende favorire l’ingresso
dei giovani nel mercato del lavoro. Per far questo, si sono abrogate tutte le
altre forme agevolate di contratto di introduzione al lavoro per privilegiare
cotanto contratto.
Contributi da pagare? Macchè! Ma c’è anche quella sui licenziamenti. Obblighi formativi per gli apprendisti? Macchè, ma solo una legge nazionale, 20
normative regionali, un cinquecento contratti collettivi, e poi basta intendersi di formazione di base, trasversale o professionalizzante, esterna, interna,
o parallela. Tanto è stata la folgorazione per questa nuova formula, che si è
avvertito anche il bisogno di darne degna pubblicità televisiva: niente niente
a qualcuno possa essere sfuggita.
I datori di lavoro – colpiti nel profondo dal messaggio pubblicitario e dalla
scoperta di questo nuovo rapporto di lavoro – sono accorsi in massa agi
uffici di collocamento per attivare questi contratti. Code interminabili, estenuanti, roba da sopravvivenza estrema: datori di lavoro che nel dubbio di
non farcela, hanno dapprima lasciato le ultime volontà sull’azienda di famiglia al più prossimo erede.
Già, perché si tratta è vero di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato
dall’origine, ma al termine della formazione, si può licenziare tranquillamente. Chissenefrega della montagna di sgravi contributivi spesi dallo Stato che
gravano sulla collettività a sostegno di questi rapporti, delle spaventose
risorse pubbliche delle regioni per sostenere la formazione, di base, trasversale o professionalizzante, esterna, interna ecc, ecc, delle legittime aspettative umane di stabilizzazione del lavoratore interessato.
Praticamente, un rapporto di lavoro a scadenza, tipo una merendina, da
consumarsi preferibilmente entro il…( data di scadenza formativa). Certo in
giro per il mondo se ne vedono di tutti i colori.
Fortunati noi che su un rapporto del genere (da noi chiamato apprendista-
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Così è deciso (2009 - 2016)
to) abbiamo deciso di intervenire con leggi adeguate che il mercato del
lavoro attendeva da tempo, e più di una volta, spesso e volentieri ed in
maniera risolutiva.
Il mercato del lavoro da noi ha risposto con convinzione: ben il 3,2% - dico il
3,2% - del totale dei rapporti di lavoro attivati nel 2011 (fonte: rapporto
annuale sulle comunicazioni obbligatorie MinLavoro 2012) Poveretti quelli
che invece – da qualche parte del mondo - hanno a che fare con quella
legge che vi ho descritto.
Sulla quale sta ridendo il tutto il resto. Del mondo.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Il lavoratore con il pannolino
Prendo carta e penna e faccio un bell’esposto all'Ispesl, all'ASL, all'Ispettorato del Lavoro, all'Inail e al RINA, denunciando carenze organizzative e lavorazioni non a regola d'arte, con conseguente necessità di interventi diretti a
garantire la sicurezza dei lavoratori e alla popolazione residente.
Così imparerà il Commenda ad aver maggior rispetto dei sindacalisti in
questa fabbrica.
Senonchè l’ispezione arriva, il Commenda trema, io origlio, ma per sentir
concludere che tutto il macchinario è decisamente a posto. Al Commenda
non tremava più niente quando ha firmato la lettera del mio licenziamento,
con l'addebito di aver violato gli obblighi di lealtà, correttezza e buona fede,
screditando l'operato della società e suscitando un grave allarme.
Spero almeno che un qualche giudice sappia apprezzare la mia premurosità, diciamo così. Macchè. Conclude la Corte di Cassazione per la legittimità
del licenziamento già pronunciata dalla Corte d’appello ( Cass. Lavoro nr.
7499/2013).
Ha ritenuto la suprema Corte “che la Corte territoriale con motivazione in
fatto logica ed incensurabile abbia correttamente accertato che non ricorrevano i presupposti della continenza sostanziale e formale.”.
Oltre al danno, anche la beffa: licenziato e incontinente.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Chi di spada ferisce…..
Quella notte in fabbrica è successo il putiferio tra colleghi: è volato di tutto,
ceffoni, parole, attrezzi, scrivanie, etc, etc. Puntualmente mi arriva la contestazione disciplinare quale responsabile del putiferio, e dritto dritto anche il
licenziamento.
Per fortuna c’è mia moglie, che il capello lo spacca in quattro, come in
vent’anni di matrimonio ha spaccato me. La dolce (si fa per dire) metà, mi fa
notare che la data del putiferio che mi viene addebitato nella lettera di
contestazione è sbagliata, è di tutt’altro giorno. E allora non indugio a
portare il mio datore di lavoro sino in Cassazione.
Per fortuna c’è stata mia moglie e poi i Supremi Giudici che sentenziano
(sent. Nr. 15006/2013: “costituisce onere del datore di lavoro che esercita il
potere disciplinare quello di fornire, nella previa contestazione dell'addebito,
l'indicazione degli elementi di fatto che consentono di evidenziare il significato univoco dell'addebito stesso, sicché tale necessaria contestazione deve
esprimersi nell'attribuzione di fatti precisi dai quali derivare una responsabilità del lavoratore al fine di consentire a quest'ultimo un'idonea e piena
difesa. Nel caso in esame l'errore nell'indicazione del giorno in cui sarebbe
stato commesso il fatto addebitato non rivela una negligenza trascurabile
ma assume un valore decisivo poiché pregiudica il diritto alla prova spettante all'incolpato, e specificamente il diritto a provare di non essere stato sui
luoghi dell'illecito, compiuto nottetempo.”
Alla fine della vicenda, mi tocca il sacrosanto reintegro.
Devo però, onestamente, ringraziare mia moglie: decido di farlo nel giorno
del suo compleanno con tanto di data iscritta sulla torta e la mia prima
busta paga da reintegrato con tanto di fiocchetto.
Ma quando vedo che comincia a volare di tutto, comprendo che devo aver
sbagliato la data del compleanno sulla torta: non vi dico il putiferio!
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Così è deciso (2009 - 2016)
Il succo del discorso
Chi lo doveva dire che con la mia laurea in scienze dell’alimentazione, mi
sarei ritrovata a fare la rappresentante di spremute di frutta: ma con la crisi
che c’è, dovetti accettare quel contratto a progetto che prevedeva la
promozione e vendita di succhi di frutta a marchio X, la distribuzione di
depliants illustrativi, di campioni per l’assaggio, l’illustrazione di offerte
promozionali, con obbligo di effettuare 18 visite clienti al giorno in circa 20
giornate al mese, vendere 70 cartoni di succo di frutta per ogni giornata
lavorativa; trasmettere alla azienda, con cadenza quotidiana e settimanale,
i dati di vendita.
Non vi dico che cos’era una giornata lavorativa: di più e peggio di una trottola.
Ma quando ha prevalso la dignità, quel contratto l’ho impugnato, sino a
vincerla in Cassazione (sentenza n. 15922 del 25 giugno 2013).
Tale attività lavorativa – hanno confermato i supremi giudici - per l’oggetto
e per le modalità con le quali veniva realizzata, non integra un lavoro autonomo a “progetto”, ma un lavoro di natura subordinata.
Ora vendo le spremute con un regolare rapporto subordinato, ma soprattutto - è questo il succo del discorso - la più spremuta non sono più io.
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Così è deciso (2009 - 2016)
La pulizia a carico e stornata
La riunione sindacale tenuta in fabbrica mesi or sono non era proprio
connessa alle condizioni di lavoro, agli orari, alla busta paga, alla sicurezza:
c'era da discutere la rivolta delle nostre mogli stanche di lavare, rilavare in
continuazione le nostre divise di lavoro.
Cosìcchè, neanche tanto convinti, ma per tacitare quel coro assordante di
mogli in rivolta e lavate di testa domestiche quotidiane, mettiamo la faccenda nelle mani del Giudice.
La questione non è stata tanto semplice, anche perchè il nostro principale
ha realizzato che se dovesse lavare lui le nostre divise, quasi quasi cambia
mestiere e si apre una lavanderia.
Di tempo ne è passato, e giunge ora la sentenza di Cassazione ( 19579 del
26 agosto 2013 ): qualora il datore di lavoro imponga ai propri dipendenti di
avere la divisa sempre in ordine, è tenuto a rimborsare le spese della lavanderia, atteso che si ravvisa in ciò un suo interesse concreto.
Ciò in quanto la “divisa sempre pulita” è una specifica previsione che
emerge nel contratto di appalto stipulato dal datore, che ha assunto tale
impegno per i propri dipendenti nei confronti del committente. Succede ora
che ci viene corrisposta una indennità per il lavaggio domiciliare delle divise.
Con l'unico particolare che quella indennità viene stornata mensilmente da
noi tutti direttamente nelle mani delle mogli – ultimamente costituitesi in
comitato pro-divisapulita – a ristoro delle pulizie pregresse.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Il professionista buono
Che ne sa quel mezzo, presunto, probabile approssimativo parente che per
risolvere benevolmente la sua pratica senza prendere alcun compenso mi è
costato un accertamento fiscale? Glielo vado a raccontare che ho dovuto
intraprendere un ricorso tributario perché il fisco mi accusava di prestazioni
professionali al nero? Eccomi additato alla pubblica gogna quale evasore
fiscale, e nel paese su queste cose non si scherza mica, finanche a rifiutarmi
la comunione da parte del parroco. Ho dovuto attendere nella clausura del
mio studio, quasi segregato, la pronuncia della CTP cui avevo riposto ogni
mia speranza di riscatto, morale e professionale.
Secondo i giudici di prime cure, non è sempre corretta la presunzione secondo cui i professionisti sono soliti prestare i propri servizi solo a titolo oneroso.
È plausibile, infatti, che un avvocato, un commercialista, un ingegnere o un
altro professionista possa svolgere durante l’anno parte della propria attività senza percepire alcun compenso e soltanto per ragioni di amicizia, parentela o di pura convenienza (C.T.P. Cosenza, sent. n. 365/04/2013).
I giudici hanno precisato che il numero dei clienti rappresenta ai fini
dell’accertamento senz’altro un elemento fondamentale da cui è possibile
evincere il reddito di un professionista. Tuttavia, in relazione a un numero
esiguo di pratiche rispetto al totale, un professionista può aver prestato la
propria opera senza percepire alcun compenso, ma solo per amicizia o per
parentela o per altri motivi di pura convenienza.
La presunzione secondo cui i professionisti non sono soliti prestare i propri
servizi a titolo gratuito è, infatti, compatibile con la possibilità che un numero
esiguo di pratiche vengano trattate gratuitamente. E vabbè, l’abbiamo
spuntata a suono di carte da bollo, sul fisco che ha fatto il cattivo solo
perché avevo fatto il buono.
Diceva bene Stanisław Jerzy Lec (Pensieri spettinati, 1957): Anche il bene ha
due lati: uno buono e uno cattivo.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Il disoccupato in carriera
Cosa mai può centrare la disoccupazione con la fedina penale? Centra,
centra, vi assicuro che centra. Val la pena raccontarvi di quel Tizio che viene
fermato ad un posto di blocco e trovato in possesso di sostanze stupefacenti.
Naturalmente, precisa il Tizio, è per uso strettamente personale, e quindi
non c’è il reato di spaccio. La qual cosa non convince i solerti agenti ,che
rimettono al Giudice l’ipotesi di detenzione ai fini di spaccio.
La questione va avanti nelle aule giudiziarie con esiti alterni, sino a giungere
in Cassazione. Come fare a capire – si saranno chieste le supreme toghe –
se trattasi di uso personale o detenzione ai fini dello spaccio?
La distinzione tra uso personale e spaccio è infatti fondamentale ai fini della
condanna penale. Orbene, per il fatto accertato che il medesimo Tizio è
disoccupato, emerge il convincimento che a causa della precaria situazione
reddituale, non si può giustificare un esborso così elevato per l’acquisto di
sostanze stupefacenti per uso personale e quindi è evidente l’attività di
spaccio. (Cassazione, sent. n. 44697/2013 ).
Come può ben vedersi, la disoccupazione aiuta almeno nel guadagnarsi
titoli: prima solo disoccupato, ora disoccupato e delinquente.
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Destini comuni
Non avrei mai pensato, io attempato ma fascinoso megadirigente d’azienda, di dovermi recare presso l’ufficio di collocamento per mettere riparo
alla mia disoccupazione a seguito di licenziamento.
Egregio signore, mi fa l’impiegata per niente fascinosa ma simile ad un
faldone di carte mangiucchiate, a lei non tocca niente, né disoccupazione,
né mobilità, né cassa integrazione. Perché lei è un dirigente: già per i disoccupati normali non c’è trippa per gatti, figurarsi per lei.
E’ venuto qui a farmi perdere tempo, con tutti i certificati di disponibilità che
c’ho da fare e quella coda che neanche lo sportello dei pagamenti del totocalcio si sogna? Ahh, è così? Gli dico: ma io vado in fondo, caro lei, molto in
fondo sinanche alla Corte di Giustizia Europea.
C’è voluto qualche anno, tant’è che mi ritrovo barcollante nella mia casa di
riposo per ex dirigenti. Una struttura studiata apposta dove comandano
tutti, e nessuno, poi, alla fine, esegue. Ma mi piace lo stesso: tutti ci teniamo
in allenamento in attesa di ricollocazione.
Orbene, la Corte di Giustizia ha condannato l’Italia perché “Avendo escluso,
mediante l’articolo 4, paragrafo 9, della legge del 23 luglio 1991, n. 223,
recante norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di
disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento
al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro, la categoria
dei «dirigenti» dall’ambito di applicazione della procedura prevista dall’articolo 2 della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente
il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa
incombenti in forza dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2, di tale direttiva.” (causa
C-596-12).
Quando torno carte alla mano all’ufficio di collocamento, non ritrovo più
l’impiegata per niente fascinosa ma simile ad un faldone di carte mangiuc-
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Così è deciso (2009 - 2016)
chiate. Mi dicono che è in pensione,in una casa di riposo per affetti da
sindrome da mancanza di coda. Me ne dispiace tanto. Neanche la soddisfazione di fargli leggere le carte.
Mi dicono che in quella casa di cura, si mettono tutti in coda, in attesa,
speranzosa, di ricollocazione.
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Così è deciso (2009 - 2016)
C’è sempre da imparare
Dopo la pronuncia del Tribunale sulla nullità del termine apposto al mio
contratto, mi ritrovo ampiamente reintegrato. Non avete idea della molteplicità di colleghi che – spartiti in due ali di folla- mi accolgono in fabbrica con
applausi e striscioni della serie “sei tutti noi!”.
Ma giunto in quel ministero che è l’ufficio del personale, mi viene comunicato che sì sono reintegrato, ma presso altro ufficio e presso altra sede. E giù,
dacapo, nuove cartebollate, sindacati,avvocati, bolli e diritti di segreteria.
Finchè si giunge in Cassazione dove ho quasi avvertito un fare paterno dei
Supremi Giudici ( sent. Nr.13060/2014) . “L'ottemperanza del datore di
lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio a seguito di accertamento della nullità dell'apposizione di un termine al contratto di lavoro - ha
affermato la Corte - implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve quindi avvenire nel
luogo e nelle mansioni originarie, atteso che il rapporto contrattuale si
intende come mai cessato e quindi la continuità dello stesso implica che la
prestazione deve persistere nella medesima sede; resta salva la facoltà del
datore di lavoro di disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità
produttiva, ma in tal caso devono sussistere le ragioni tecniche, organizzative e produttive richieste dall'art. 2103 c.c..” . E ancora: “Nel caso in esame ha osservato la Corte - l'invito a riprendere servizio in una sede diversa da
quella originaria non contemplava alcuna motivazione, né questa era stata
dedotta e dimostrata in giudizio; la modifica della sede di lavoro è stata
quindi correttamente intesa come un trasferimento nullo, implicante un
inadempimento del contratto di lavoro”.
Ne ero sicuro che non mi si poteva dare torto. Avevo sicuramente letto qualcosa sull’adozione a distanza, sui corsi a distanza, sul lavoro (telelavoro) a
distanza, sulla formazione a distanza, ma del reintegro a distanza , proprio,
non ne avevo sentito parlare.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Effetto dòmino
L’ambiente di lavoro non è un proprio un granchè: c’è il collega che tempera
la matita fuori dal contenitore, fogli di carta per terra che il commesso non
vuole raccogliere perché non è di sua competenza, cestini ricolmi di carta
perché la donna delle pulizie viene una volta la settimana dovendo economizzare, finestre che si aprono all’improvviso con l’effetto magico di
mischiare le pratiche da una scrivania all’altra.
Càpita che in questo bell’ambiente, ho patito un autentico ruzzolone, cadendo lungo lungo sul pavimento dopo essere scivolato su una matita
anch’essa giacente per terra. Il 67% di lesioni permanenti mi induce a chiedere il risarcimento all’Inail per responsabilità del datore di lavoro, che
perlomeno imparerà a far pulire l’ufficio un po’ piu spesso.
Insisto sino in Cassazione, confidando nella umana solidarietà dei supremi
Giudici. Macchè!
La scivolata incriminata – dicono gli ermellini – può capitare in ufficio così
come può capitare a casa o per strada: ergo, non vi è alcuna responsabilità
del datore di lavoro tenuto conto che tale rischio non è diverso da quello che
incombe su ogni altro soggetto che si sposti a piedi per ragioni non di ufficio.
(Corte di Cassazione, sentenza n. 22280/14).
Quindi: io mi tengo le lesioni, l’Inail si tiene il risarcimento, e la donna delle
pulizie si tiene la riduzione dell’orario, perchè da ora – su ordine del capo verrà una volta al mese.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Ogni limite ha una pazienza
Allora stai attenta: qui si tratta di svolgere le faccende domestiche, lavare i
piatti, lucidare i pavimenti, fare le pulizie ed eseguire ogni incombenza
domestica: ti riconoscerò, ovviamente un lauto compenso.
Queste parole me le sentii dire 20 anni fa, da quando lavoro da domestica
per la Signora, ma di compenso da allora non ne ho visto neanche l’ombra,
tanto da doverla trascinare in tribunale, appello e poi cassazione.
Già, perché la Signora – evidentemente alla ricerca di un Giudice che la
credesse - insiste convinta con il sostenere che non vi era alcun vincolo di
subordinazione, ma si trattava di prestazioni derivanti dal legame affettivo
che si era instaurato. Per fortuna, non è stata creduta neanche dai Giudici
di Cassazione (Sezione Lavoro n. 12433/ 2015).
Secondo il collegio, era effettivamente emerso che la svolgevo le faccende
domestiche ed eseguivo ogni incombenza dietro le direttive, il controllo e le
indicazioni della Signora. Inoltre, per tali prestazioni era stato sempre
promesso il pagamento di un congruo compenso, senza che però questo
fosse stato mai corrisposto.
Tutto ciò escludeva e comunque superava la presunzione di gratuità delle
prestazioni, a nulla rilevando il legame affettivo tra le due donne creatosi
per effetto della prolungata durata del rapporto. Si trattava, in definitiva, di
prestazioni oggettivamente riconducibili allo schema del rapporto di lavoro
domestico subordinato, dovendo escludersi che fosse stata provata l'instaurazione di quella comunanza di interessi che attrae il rapporto nell'orbita del
vincolo di solidarietà, con presunzione di gratuità delle prestazioni.
Mi è stata anche riconosciuta una bella sommetta, oltre a interessi e rivalutazione: non è stata monetizzata solo la santa pazienza, chissà perché, non
ancora quantificabile nel nostro diritto.
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Così è deciso (2009 - 2016)
50 sfumature di giusta causa
Commesso da 20 anni, presso la stessa rivendita, con un rapporto con i
titolari più affettivo che di lavoro: tant’è che neanche mi chiedo se ho un
rapporto subordinato o di carattere sentimentale. Con i tempi che corrono,
si è stretta un po’ la cinghia: non esiste più il negozio che riapre alle 17,00
ma pausa solo di mezz’ora per poi ripartire sino a sera.
Il pranzetto frugale con la moglie che calava la pasta in perfetto orario non
c’è più, c’è solo un panino nel retrobottega, tra fardelli, conserve, marmellate
e surgelati. Ovvio che se ritrovo in questo anfratto un vinello sfuso, un
dolcetto solitario, un succo di frutta dimenticato, non lesino di consumarlo.
Scoperto a consumare e quindi a sottrarre “beni aziendali” non ci sono 20
anni che tengano, con tanto di lettera di licenziamento. Per così poco, mi
chiedo? Non posso che consultarmi con quel luminare apparentato da
parte di mia moglie che fa consulenza del lavoro e che mi saprà dire se
intentare una causa. Con la giustizia italiana, mi fa, si sa da dove si parte ma
non si sa mai dove si arriva.
Una sentenza di Cassazione (n. 15058 del 17 luglio 2015) ha annullano un
simile licenziamento avendo accertato la particolare tenuità del danno, trattandosi di appropriazione di beni di scarso valore commerciale (succo di
frutta, quattro merendine, una bevanda in bottiglia, due spremute di frutta
e una vaschetta di gelato, il tutto ripartito fra cinque lavoratori) e consumati
sullo stesso luogo di lavoro senza ricorrere a loro occultamento o ad altre
precauzioni sintomatiche della consapevolezza dell'illiceità della condotta.
Un’altra sentenza della medesima suprema Corte (n. 13168 del 25 giugno
2015) dice che La tenuità del danno, prodotto da un dipendente dell'azienda, non è da sola sufficiente ad escludere la lesione del vincolo fiduciario. In
caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non già
l'assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione
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Così è deciso (2009 - 2016)
sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la
futura correttezza dell'adempimento, in quanto sintomatica di un certo
atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti. Come vedi, questioni di sfumature.
Ora, caro Consulente le chiedo umilmente, che fare? Di certo, mi fa, la tenuità del fatto c’è. Speriamo nel giudice che c’ha la sfumatura giusta.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Due pesi e due misure
Quella sfacciata della signora per cui svolgo i servizi domestici da oltre dieci
anni, appena saputo che sono incinta, mi ha licenziata. Sarò una povera colf,
ma so che non poteva assolutamente licenziarmi, addirittura sino al compimento di un anno di vita del pargolo.
Ma mi sentirà, sonoramente! Cosicchè tra una scartoffia e l’altra si arriva
presso quei Giudici che vestono la pelliccia, mi dicono di Cassazione, che così
sentenziano: Ai sensi dell'art. 62 d.lgs. n. 151/01 alle lavoratrici addette ai
servizi domestici e familiari si applicano le norme relative al congedo per
maternità e le disposizioni di cui agli articoli 6 co. 3°, 16, 17, 22 commi 3° e
6°, ivi compreso il relativo trattamento economico e normativo, con esclusione - dunque - del divieto di licenziamento.
Dunque, non essendo per legge vietato licenziare - in ambito di lavoro
domestico - la lavoratrice in stato di gravidanza, detto recesso non può
essere illecito o comunque discriminatorio (Cassazione, sentenza nr.
17433/2015).
Sarà pure che per legge ho torto marcio, ma c’è da imparare che mentre
tutte le lavoratrici possono fare una cosa e l’altra, per la colf s’impone una
scelta di vita: o fa la colf, o fa la mamma.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Licenziamento a sua insaputa
Oggi mi ha chiamato il capo per notificarmi la lettera di licenziamento. Hai
voglia ad elencarmi concitatamente e animatamente le motivazioni, io la
lettera non la firmo, giro i tacchi e dopo una sonora litigata me ne vado,
paonazzo ma soddisfatto.
Cosicchè, nulla ufficialmente conoscendo del licenziamento che è nell’aria,
domani mi ripresenterò al lavoro come nulla fosse successo. Ma la mattina
dopo, invece di ritrovarmi la guardia giurata all’ingresso della fabbrica, mi
ritrovo una guardia del diritto, ovvero il Consulente del Lavoro del Capo, che
non vuole più vedermi.
Caro operaio di lungo corso, devi sapere che il rifiuto di una prestazione da
parte del destinatario non può risolversi a danno dell'obbligato, inficiandone
l'adempimento; tale principio si coniuga, nell'ambito del rapporto di lavoro,
con l'obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul
posto di lavoro e durante l'orario di lavoro, in dipendenza del potere direttivo
e disciplinare al quale è sottoposto.
Il rifiuto da parte del lavoratore di ricevere l'atto scritto di licenziamento non
impedisce il perfezionarsi della relativa comunicazione. Al rifiuto di ricevere
la lettera di licenziamento. consegue l'avvenuta comunicazione del provvedimento datoriale, il che implica la conoscenza dell'atto nella sua integralità.
Lo dice la Cassazione con sentenza nr. 22717/2015 che ti lascio per ricordo.
Sicchè sei licenziato, punto e basta. L’avvessi presa quella lettera, almeno
risparmiandomi il picco di pressione.
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Così è deciso (2009 - 2016)
La sacra vestizione
Questa pretesa del Commenda di vederci arrivare sul posto di lavoro già con
la divisa indossata, proprio non la si manda giù. Sono anni che nel condominio mi vedono uscire di casa sempre con lo stesso abbigliamento e gli stessi
colori: penseranno che neanche ai saldi riesco a cambiarmi. Invece la questione sta nel fatto il Commenda non ammette poterci indossare la divisa sul
luogo di lavoro qualche minuto prima della prestazione di lavoro, ritenendo
di obbligarci – quasi fosse sacro – presentarci già con la benedetta divisa
indosso. Cosicchè alle otto di mattina, vedi accedere alla casa di cura una
schiera di sosia, stessi colori, stessi gonnellini e stessi calzoni, neanche fosse
il personale d’aeroporto. Beh, allora è opportuno trascinare il Commenda in
tribunale, almeno da farci pagare il lavoro straordinario per i tempi di vestizione e svestizione, anche se trascorsi a casa. Ma il Commenda è osso duro,
e contando sulla nostra debolezza, resiste sino in Cassazione.
Ed ecco allora come hanno sentenziato i supremi giudici: (sent. nr.
1352/2016): che al fine di valutare se il tempo occorrente per tale operazione debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina
contrattuale specifica. In particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di
scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa o gli indumenti (anche
eventualmente presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro), la
relativa operazione fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale il tempo necessario per il suo compimento non deve essere retribuito. Se, invece, le modalità esecutive di detta
operazione sono imposte dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed
il luogo di esecuzione, l'operazione stessa rientra nel lavoro effettivo e di
conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito. Così da
riconoscerci il lavoro straordinario, tanto in entrata quanto in uscita, con
tanto di arretrati.
Ora il Commenda dovrà predisporre anche uno spogliatoio, sia per le femminucce che per i maschietti e considerare la sacra vestizione quale tempi
di lavoro. E Amen.
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Così è deciso (2009 - 2016)
La pentola ed il coperchio
La nobile famiglia che conduceva l’azienda di produzione pentole e tegami
tanto amati dalla clientela, non ce l’ha fatta più ed ha ceduto la ditta a fior
fiori di imprenditori. Adesso non abbiamo più il “Commenda” che ci vigila sul
lavoro con il suo fare paterno, ma abbiamo l’Amministratore Delegato.
Che si precipita – appena insediato – a ricevere noi sindacalisti. Ponti d’oro
e prospettive inimmaginabili, secondo lui, per questa impresa destinata a
crescere. Ma tra una pacca sulle spalle e l’altra, ci chiede chiarimenti su
quell’uso aziendale cui tanto teneva il Commenda che consente ai dipendenti di portarsi a casa un po’ di pentolame, con uno sconto sostanzioso sul
prezzo di vendita che le nostre mogli sfoggiano orgogliose con le amiche.
Davanti alla chiara e perentoria intenzione dell’A.D. di abolire questo sconto,
un convenuto della pattuglia sindacale si ritrova casualmente in tasca il
testo della sentenza di Cassazione nr. 5768/2016 secondo la quale – legge
a gran voce e con fare acculturato – “La reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei
propri dipendenti integra, di per sé, gli estremi dell'uso aziendale il quale, in
ragione della sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali
agisce sul piano dei singoli rapporti individuali alla stesso modo e con la
stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale.”
L’A.D. non ha più dubbi: se è così, meglio non intavolare una vertenza sindacale per quattro tegami. Ma ci prega di non fare parola di quella sua malsana intenzione con i dipendenti, così da non rovinare sul nascere il suo insediamento.
In altre parole, lui adesso produce le pentole, e noi gli dobbiamo fare da
coperchio.
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Così è deciso (2009 - 2016)
La sosta a pagamento
Devo immediatamente recarmi dal mio fidato Consulente del Lavoro per
farmi spiegare che càspita significa la sentenza che mi è stata notificata
oggi (Corte Cassazione nr. 2424/2016). Orbene – mi fa il luminare - caro il
mio datore di lavoro, il fatto che tu - senza avermi preventivamente consultato a riguardo, della qual cosa ne rimango indispettito - di tua iniziativa,
concedi l’uso di aree aziendali per il parcheggio gratuito delle autovetture
dei tuoi dipendenti, non è affatto ascrivibile ad una rapporto di cortesia tra
le parti. Anzi.
Dice questa sentenza che la nozione di retribuzione imponibile ex art. 12
della legge n. 153 del 1969 comprende pure tutte quelle integrazioni salariali derivanti da un risparmio conseguito dal lavoratore : pertanto, anche la
possibilità di beneficiare gratuitamente del posteggio per l'autovettura, che
si configura come una erogazione in natura da parte del datore di lavoro , si
traduce in un indubbio vantaggio per il lavoratore.
Cosicchè sei tenuto a pagare i contributi come un comune benefit destinato
ai lavoratori.
Me ne torno mesto col capo chino alla mia scrivania. Chi glielo dice ai dipendenti di parcheggiare al di fuori dell’area aziendale? Mi dovrò inventare la
nuova destinazione del parcheggio ad area esclusivamente a verde.
Che è il colore che ho in questo momento.
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Così è deciso (2009 - 2016)
Il concordato preventivo
Credo che tu sia il candidato perfetto per lavorare nella mia azienda: ma
prima dell’assunzione, devo elencarti qualche particolare. Ti assumerò part
time, ma svolgerai orario a tempo pieno, niente tfr, ferie o riposi, e se dovessero capitare da queste parti quei signori dell’ispettorato del lavoro, mi
raccomando a dichiarare che lavori a tempo parziale.
Anzi, visto che ci siamo, devi firmarmi anche queste dimissioni in bianco. E
per finire, giusto per tenere vivo il rapporto di lavoro, sarai sempre minacciato di licenziamento. Nel bel mentre sto cercando di capire perché il candidato è rimasto impietrito, mi tira per la giacchetta il mio Consulente. Guarda
che quello che hai appena proposto, configura il reato di estorsione.
Lo ha detto di recente la Corte di Cassazione: “… integra il reato di estorsione
anche la condotta del datore di lavoro che, anteriormente alla conclusione
del contratto, impone al lavoratore ovvero induce il lavoratore ad accettare
condizioni contrarie a legge ponendolo nell'alternativa di accettare quanto
richiesto ovvero di subire il male minacciato. un accordo contrattuale tra
datore di lavoro e dipendente, nel senso dell'accettazione da parte di
quest'ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sè, la sussistenza dei
presupposti dell'estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo, può essere usato per scopi diversi da quelli
per cui è apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una
minaccia, ingiusta, perché è ingiusto il fine a cui tende” (Sentenza nr.
18727/2016).
Pensavo solo di concordare delle condizioni di lavoro leggermente flessibili,
ma non di arrivare a cotanta gravità. Poi si parla della disoccupazione! Già,
ma anche di carceri affollate, mi fa il Consulente.
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Così è deciso (2009 - 2016)
In fin dei conti, il lavoro è ancora il mezzo migliore
di far passare la vita.
Gustave Flaubert (1821 – 1880, scrittore)