Capitolo 13 Se trovi una donna a terra, limitati a tastarle il polso

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Capitolo 13 Se trovi una donna a terra, limitati a tastarle il polso
Capitolo 13
Se trovi una donna a terra,
limitati a tastarle il polso
Ci fu una morta prima di Natale. Si chiamava Giovanna. Giovanna era un vecchia di novantadue anni con in bocca ancora
tutti i denti. Suo figlio l’aveva trovata morta un mattino appena
sveglio. Era uno di quegli uomini che venivano al cimitero ogni
giorno presto, prima di andare a messa. Gli avevo lasciato una
brochure e il mio biglietto da visita tempo addietro. Ricordo che
mi guardò schifato per la mia insensibilità, ma il giorno in cui la
sua vecchia morì non sembrava così dispiaciuto di vedermi.
Francesco, Igor e Mirko erano occupati su un altro funerale,
un tizio che si era fatto saltare le budella puntandosi un fucile
allo stomaco. Nessuno riuscì mai a spiegarsi come fece a premere il grilletto del fucile, i carabinieri seguivano la pista di un
possibile omicidio. Ma chi vorrebbe ammazzare un vecchio?
Aveva un tumore allo stomaco, scommisi con Sté che i carabinieri non ne avrebbero cavato un ragno da un buco da quella
storia. Sté se ne venne fuori con una teoria. Il grilletto era premuto per metà, vicino al punto di fuoco ma la sicura era inserita. Poi il vecchio si era puntato la canna sullo stomaco, con
una mano aveva tolto la sicura e PATUM, la cartuccia era partita e i pallini da caccia gli avevano fracassato gli intestini. Era
una teoria che espose persino ai carabinieri, lo guardarono di
sottecchi e montarono in macchina per andarsene. Requisendo
il fucile.
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Così, coi tre ragazzi di punta delle pompe funebri occupati,
io e Sté fummo costretti a fare anche il lavoro sporco. Facemmo
a testa o croce per stabilire chi avrebbe ripulito Giovanna. Scelsi
croce. Lanciammo una moneta da cento lire e venne testa.
Avevo perso, mi toccava mettere le mani su della pelle flaccida
e avvizzita.
Era la prima volta che lo facevo, fino ad allora quella mansione era sempre stata ad appannaggio di Francesco perché ce
la sapeva fare sia coi morti che coi vivi, i parenti. Io non avevo
paura di toccare Giovanna, mi spaventava dire a suo figlio che
doveva comprare una cassa fuori misura perché dentro le standard non ci sarebbe stata. Ricordo di aver visto Giovanna al cimitero con suo figlio qualche mese prima, a braccetto. Dall’altra
parte portava una stampella verde. Aveva uno stomaco grosso
a dismisura, gli usciva il lardo da tutte le parti. Camminava a fatica, ma aveva sempre voglia di vedere suo marito in una foto
sbiadita di venticinque anni incastonata in una lapide di marmo
verde scuro. Le gambe erano gonfie fino alle caviglie e portava
una gonna di lana che gli metteva bene in evidenza il culone
grasso che si ritrovava.
Arrivai a casa della povera Giovanna. C’erano già una decina
di parenti e amici, tutti sopra i sessanta, che ricordavano la morta
ai suoi tempi migliori. Vidi anche una ragazza sui ventuno, ventidue anni parlare con uno dei tanti. Aveva i capelli castani lunghi, venti centimetri sotto le spalle. Il viso era triste ma tremendamente attraente. Non mi venne per niente voglia di guardarle
nella scollatura dell’abito nero che indossava, si voltò e non degnai di uno sguardo nemmeno il suo sedere. Le mani però le
osservai per bene, non aveva anelli né ammennicoli vari.
Tornando a Giovanna suo figlio non era riuscito a spostarla
dal letto, a malapena gli aveva chiuso le gambe. La donna dormiva sempre dalla sua parte del letto, la destra, vicino alla finestra. Da buona cristiana quale era credeva che l’anima del marito
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dormisse accanto a lei per farle compagnia e così gli lasciava il
posto libero.
“Sono Lorenzo Paladino delle Pompe funebri.”
“Salve, io sono il figlio. Venga, è di qua.”
“Mi dica solo dov’è, ci penso io. La chiamo quando ho finito. Il vestito è in camera?”
“Sì, sul letto accanto a lei. Ho aperto la finestra, aveva un
odore strano.”
“E non ha sentito niente…”
“Come, scusi?”
“Niente, prendo la roba sul furgone, torno subito.”
Andai sul furgone della ditta a prendere tutto il necessario.
Quello che non doveva mai mancare era una scatola di guanti in
lattice e del profumo per ambienti.
Mi feci un paio di corridoi stretti. In casa c’era un odore di
chiuso e di vecchio e più mi avvicinavo al reparto notte e più
quell’odore si faceva forte.
Arrivai alla camera della vecchia, entrai.
Sul letto c’era il vestito, dal lato del marito morto. Era incellofanato, immaginai fosse quello del cinquantesimo di nozze o
di un’occasione altrettanto importante. Sperai con tutto me
stesso di riuscire a farcela entrare dentro.
La vecchia però non era sul letto.
Eppure suo figlio mi aveva detto che era lì, accanto al vestito. Mentre aspettavo di capire spruzzai un po’ di profumo per
ambienti, non ci si stava dal puzzo in quella stanza.
Chiusi la porta.
Sté aveva già fatto arrivare la cassa, una delle più grandi che
avevamo e l’aveva messa in piedi vicino all’armadio come il sarcofago di un faraone. Pensai subito che mi avesse fatto uno
scherzo passando dalla finestra e mettendola dentro la cassa
prima che arrivassi. Era capace di fare una cosa simile.
Una volta, al cimitero, andai dai parenti di un defunto per
chiedergli dove volevano che lo seppellissi. Venne fuori che Sté
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l’aveva già cremato e sua figlia teneva in mano un’urna con le ceneri. Lo rincorsi per tutto il cipresseto con una pala.
Provai ad aprire la cassa ma era vuota. Uscii dalla stanza pensando di aver sbagliato camera da letto e aprii un’altra porta.
Niente, il bagno. Un’altra. Niente, il ripostiglio. Una ancora,
ecco, l’avevo trovata. C’era una vecchia sul letto con una corona
in mano, sembrava quasi dormisse da tanto che era serena. Indossava un lungo abito nero con delle calze di lana spesse. Ma
non era così grassa come la immaginavo, la pancia era bella gonfia ma il viso sembrava rilassato. Era davvero morta in pace,
pensai.
Tornai nell’altra stanza a prendere il vestito quando sotto alla
finestra trovai un’altra vecchia riversa su un fianco. Era grassa
come una scrofa incinta e indossava una camicia da notte di lana
spessa. Tentai di girarla, aveva dei rigoli di bava che gli scendevano giù dalla bocca.
Provai a tastarle il polso, niente. Pulii gli angoli della sua
bocca con il lenzuolo del letto.
Le misi un cuscino sotto la nuca e provai a farle il massaggio
cardiaco e la respirazione artificiale.
Quindici pressioni, due insufflazioni, proprio come mi avevano insegnato da militare.
Quindici pressioni, due insufflazioni, niente polso.
Feci una pausa per recuperare fiato.
Stavo per riprendere la respirazione quando dalla porta della
camera entrò quella ragazza dai capelli lunghi che avevo visto
fuori sulla veranda. Mi vide chino sulla donna e fece una faccia
spaventata che mi spaventai anch’io.
“CHE… CHE STAI FACENDO?” urlò impaurita.
“Ho trovato questa donna a terra, mi sa che è svenuta o cose
simili. Non ha il polso, senti. Chiama un’ambulanza.” Tastai
nuovamente il polso della donna quando le vidi in mano una
corona del rosario e le unghie gialle.
Era Giovanna.
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Giovanna la povera defunta.
Dio mio, pensai, avevo fatto la respirazione bocca a bocca a
una morta. Mi pulii subito le labbra con il dorso della mano e
cercai di pensare a come diavolo fosse finita lì.
“Cosa le hai fatto?” mi chiese la ragazza dagli occhi castani.
“Niente, l’ho vista qua in terra, pensavo… maremma cane mi
dispiace, c’è una donna di là su un letto, sembra morta.”
“È la sorella di Giovanna, si è sentita un po’ male e le abbiamo detto di stendersi un po’.”
“Allora Giovanna deve essere caduta dal letto, ora bisogna
rimettercela sopra perché devo cambiarla. Io sono Lorenzo, tu
sei la nipote?”
“No, sono un’infermiera, ho seguito Giovanna negli ultimi
giorni in ospedale, aveva il cancro.”
“Il cancro a novantadue anni? Pensa allora quanto avrebbe
vissuto se non ce l’aveva.”
“Già, ci avrebbe seppellito tutti. Io sono Sabrina.”
“Piacere di conoscerti Sabrina, le circostanze non sono delle
migliori ma tanto piacere.”
“Piacere mio Lorenzo. Così giovane e fai questo lavoro?”
“Lo faccio dai diciassette anni.”
“Cavolo, mi dispiace.”
“A me no, ho un buon rapporto coi morti. È coi vivi che
non mi trovo bene.”
“Ti capisco. Aspetta, vado a chiamare suo figlio, facciamoci
dare una mano perché in due non riusciamo a sollevarla.”
Aveva ragione, in due non l’avremmo messa nel letto e Sté
era al cimitero a fare il suo turno, riesumando un paio di cadaveri.
Sabrina era alta quasi quanto me, molto alta per essere una
donna. Indossava quell’abito che le calzava a pennello. Quando
se ne uscì dalla stanza per chiamare il figlio di Giovanna, ebbi
la tentazione di guardarle il sedere perché ero sicuro che le avrei
trovato un difetto dato che la perfezione non esiste. Ma desistei
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ancora un po’ e tornai ad occuparmi di Giovanna. Povera
donna, se fosse stata ancora viva magari le sarebbe piaciuto un
mio bacio. A novantadue anni ti scordi come si fa a baciare una
persona. La tua unica preoccupazione è di non fartela addosso
o di non sporcarti i vestiti quando mangi il brodo sennò chi li
sente i tuoi figli.
Mentre aspettavo che Sabrina tornasse tolsi il cellophane dall’abito.
Sabrina tornò col figlio di Giovanna. Appena vide la madre
riversa a terra mi tirò un’occhiata che avrebbe potuto fulminarmi, io alzai le mani per dimostrargli che non ero stato io.
“Deve essere caduta da sola, era troppo vicina al bordo del
letto” disse Sabrina difendendomi.
“Già, proprio così” dissi io.
In tre issammo la povera Giovanna sul letto mentre il grasso
le andava a destra e a sinistra come una gelatina. Io la tenevo per
le spalle insieme a Sabrina. Il figlio per i piedi. Quando fu sistemata al centro del letto, per evitare che cadesse di nuovo, dissi
a tutti e due di uscire.
“Vuoi una mano?” mi chiese Sabrina.
“Magari, in due facciamo prima.”
E così insieme la spogliammo della sua camicia da notte di
lana e la rivestimmo con l’abito che seppi poi dal figlio l’aveva
utilizzato per il suo quarantesimo di matrimonio. Due anni dopo
suo marito morì d’infarto.
Provavo compassione per quella donna e per la prima volta
provai compassione anche per suo figlio che continuava a guardarmi di sottecchi. Sabrina si lasciò scappare qualche lacrimuccia mentre la sistemavamo dentro la cassa di abete. Alla fine
riuscimmo a farcela entrare, il problema sarebbe stato riuscire a
chiudere il coperchio, ma per quello sarebbe venuto Sté a darmi
una mano, io non sapevo saldare.
Provavo pena per Sabrina, cercai di farla pensare ad altro.
“È molto che fai l’infermiera in ospedale?”
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“No, solo pochi mesi. Mi sono laureata da poco e ora sto facendo il tirocinio. È la prima volta che mi muore un paziente,
scusami.” E riprese a singhiozzare.
Mi avvicinai a lei mentre il braccio di Giovanna era piegato
in modo innaturale fuori dalla cassa. Francesco mi aveva insegnato che quando devi sistemare un morto in una bara non devi
farti troppi problemi, tanto non sente più dolore, puoi anche
torcergli il braccio, basta che ai parenti faccia una bella impressione.
Cercai di consolare Sabrina e mi stupii quanto potessi essere
sensibile col genere umano, coi vivi intendo.
Ma lei era diversa, come si dice delle persone che ci piacciono.
Sabrina mi piaceva, dovevo solo trovare una scusa per chiederle il numero.
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