rivolta delle truppe USA nella II guerra mondiale

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rivolta delle truppe USA nella II guerra mondiale
Una storia sconosciuta: la rivolta delle truppe Usa dopo la seconda guerra mondiale
Ci sono fatti storici che rimangono sconosciuti al largo pubblico. Uno di questi è stata la ribellione
delle truppe USA appena finita la seconda guerra mondiale. Una delle poche eccezioni in Italia che
ha descritto questi avvenimenti, per quanto ne sappia, è stato il libro di F. Gaja, Il secolo corto,
Maquis Editore.(1)
Appena finito il conflitto, la rivoluzione soffocata nelle metropoli imperialiste (grazie anche agli
accordi di Yalta) tornava a premere nella periferia dell’area storico-politica dei popoli coloniali e
semicoloniali dominati e controllati dall’imperialismo. Anche in assenza delle condizioni soggettive di
giuntura tra metropoli e periferia (mancanza dell’Internazionale, del Partito mondiale della
rivoluzione socialista) la ribellione dei popoli coloniale e semicoloniali, faceva comunque parte dello
scontro di classe tra borghesia e proletariato internazionale. In primo luogo perché essa faceva
entrare nel circolo vitale della lotta di classe masse sterminate di oppressi, in secondo luogo questo
processo in atto dei popoli coloniali e semicoloniali è un fattore destabilizzante dell’ordine borghese e
in terzo luogo la lotta dei popoli oppressi è destinata a reimpostare l’antagonismo di classe
all’interno delle metropoli imperialiste.
A mettere in moto questo processo, sono stati diversi meccanismi tra i quali:
1) I soldati coloniali chiamati a partecipare alla guerra che era stata spacciata come guerra per la
libertà e la democrazia, a guerra finita rivendicano, verso i paesi colonialisti per i quali avevano
combattuto, la libertà per i loro paesi e democrazia.
2) I partigiani che avevano combattuto le guerre di guerriglie in Asia contro i giapponesi, a guerra
finita rifiutarono di farsi disarmare.
3)
Sempre in Asia, i giapponesi a guerra perduta consegnarono il potere locale nelle mani delle
borghesie indigene, che proclamarono i loro paesi indipendenti (Sukarno in Indonesia).
Appena finita la guerra, la maggior parte dei paesi coloniali e semicoloniali, in Africa e in Asia, era,
come prodotto innescato dalla guerra imperialista appena finita, in rivolta.
Davanti a questo enorme rivolgimento, gli USA all’epoca erano gli unici possessori dell’arma
atomica, che ha funzionato come elemento di dissuasione sia nei confronti dell’URSS (che solo nel
1949 possedette l’arma atomica), che nei confronti dei ceti dirigenti dei paesi coloniali e
semicoloniali.
Riportateci a casa: la rivolta delle truppe USA
La rivolta delle sue truppe privò gli Stati Uniti della possibilità di mettere le mani su tutto il bottino
di guerra su cui la borghesia USA aveva messo gli occhi. Un pamphlet pubblicato nelle Filippine dal
Comitato dei Soldati di Manila nel momento culminante delle dimostrazioni proclamava: “Secondo un
portavoce del ministero della Guerra, la smobilitazione sta procedendo “con una rapidità allarmante”.
Allarmante per chi? Allarmante per i generali e i colonnelli che vogliono continuare a giocare alla
guerra e non vogliono ritornare a essere capitani e maggiori? Allarmante per gli uomini di affari che
hanno intenzione di fare soldi facendo fruttare i propri investimenti a spese dell’esercito? Allarmante
per il Dipartimento di Stato, che vuole un esercito per sostenere il suo imperialismo in Estremo
Oriente?”.
Quando il 2 settembre 1945 il governo giapponese si arrese, la guerra in Europa era già finita da
118 giorni. Tanto in Europa che in Estremo Oriente i soldati americani si aspettavano di essere
riportati rapidamente negli Stati Uniti. Non vedevano la ragione per cui 15 milioni di uomini
dovevano essere mantenuti in armi se la guerra era terminata.
Contrariamente alle loro attese, il comando dell’esercito cominciò a trasferire truppe di
combattimento dall’Europa al Pacifico. La spiegazione ufficiale era che servivano a disarmare i
Giapponesi. In realtà, oltre al Giappone vinto, i comandi americani vagheggiavano di presidiare tutti
i territori conquistati dai giapponesi fra il 1938 e il 1945. I giapponesi avevano trasformato questi
territori in colonie di sfruttamento e il capitale americano era attratto dall’idea di sostituirsi a loro.
Il Congresso fu sommerso da petizioni e lettere di soldati che protestavano per il prolungamento
del servizio. La Casa Bianca annunciò, di aver ricevuto il 21 agosto 1945, un telegramma di protesta
della novantacinquesima divisione di fanteria di stanza a Camp Shelby, nel Missisipi. La
novanticinquesima, che aveva operato in Europa, era stata assegnata al Pacifico. Durante il tragitto
attraverso gli Stati Uniti i soldati esposero nei finestrini dei treni, cartelli che dicevano: “Arruolati con
forza per il Pacifico”, “Siamo stati venduti”.
Per tutto l’autunno del 1945 la campagna per il ritorno delle truppe andò aumentando d’intensità.
Manifestazioni di massa si moltiplicavano in tutti gli Stati Uniti. I soldati invitavano la popolazione a
partecipare alle loro assemblee.
Prima della fine di dicembre il movimento nella truppa aveva raggiunto proporzioni esplosive. Il
giorno di Natale del 1945 a Manila 4.000 soldati raggiunsero in corteo il quartier del 21° Centro
Rincalzi con cartelli su cui si leggeva: “Vogliamo le navi”. La dimostrazione era stata originata dalla
cancellazione di un trasporto di truppe previsto per il ritorno di un certo numero di uomini negli Stati
Uniti, e durò soltanto pochi minuti. Ma la tensione si riaccese quando il comandante del Centro, il
colonnello Campbell tuonò irosamente contro i manifestanti gridando: “Dimenticate che non lavorate
per la General Motors. Siete ancora nell’esercito”. Il riferimento era alla lotta che negli Stati Uniti,
stavano conducendo i lavoratori della General Motors per gli aumenti salariali. Nell’esercito
americano, in particolare nella fanteria era costituita in gran parte da operai che sentivano come
propria la battaglia che stavano conducendo i lavoratori della General Motors. Le proteste dei soldati
americani venivano a coincidere con la più grande agitazione operaia della storia degli Stati Uniti.
Gli scioperi negli Stati Uniti
Con lo scoppio della guerra, i dirigenti dell’A.F.L. e quelli della C.I.O. richiesero la completa
sospensione degli scioperi. Assunsero la funzione di amministratori delle decisioni governative che
interessavano i luoghi di produzione, cercando di disciplinare la forza-lavoro e aumentare la
produttività. Philip Murray, del C.I.O., parlando alla radio incitò i lavoratori “Lavorare! Lavorare!
Lavorare! Produrre! Produrre! Produrre! Chi si opponeva alla guerra come i dirigenti della sezione
544 dei General Drivers di Mineapolis e i membri del Socialist Workers Party furono arrestati e
internati.(2)
Davanti al fronte compatto formato dal Governo, dagli industriali e dai sindacati, i lavoratori
svilupparono la tecnica dei piccoli scioperi, improvvisi e illegali, indipendenti e a volte contrastanti
rispetto alle direttive e alle strutture sindacali, su una scala molto più ampia di quanto non avessero
mai fatto prima. Jerome Scott e George Homans, due sociologi di Harvard che studiarono gli scioperi
selvaggi,(3) resero noto che responsabili dirigenti sindacali erano in difficoltà quanto i padroni di
fronte a questi scioperi, e il Governo lo era altrettanto. Essi descrissero in uno studio dettagliato 118
fermate della produzione nelle fabbriche dell’auto di Detroit, avvenute tra il dicembre del 1944 e
gennaio 1945: “Solo quattro scioperi … possono essere attribuiti a rivendicazioni salariali e più
specificamente attribuiti all’organizzazione sindacale. La maggior parte derivata da proteste contro la
disciplina, contro provvedimenti presi dalla compagnia, o contro i licenziamenti di uno o più
lavoratori”.(4)
Il senso di solidarietà era tale, che spesso gli scioperi selvaggi aggiungevano notevoli proporzioni.
Nel febbraio 1944, 6.500 lavoratori delle miniere di antracite in Pennsylvania scioperarono contro il
licenziamento di un compagno. 10.000 operai della Briggs Manufacturing Company di Detroit
scioperarono per una giornata di riduzione dell’orario di lavoro.
Nel periodo che va Pearl Harbor alla vittoria sul Giappone, ci furono 14.471 scioperi, una cifra mai
raggiunta in tutta la storia americana. Solo nel 1944 scioperarono 369.000 operai dell’industria
siderurgica, 389.000 dell’auto, 363.000 delle industrie produttrici di altri mezzi di trasporto e
278.000 minatori.
La tradizione e l’organizzazione degli scioperi selvaggi diede ai lavoratori un contropotere
immediato ed effettivo contro le decisioni del padronato, come i ritmi di produzione, il numero degli
addetti a una certa mansione, la scelta dei capi reparto, e l’organizzazione della produzione. I
portavoce dell’industria lamentarono un calo di efficienza lavorativa dal 20 al 50% durante il periodo
di guerra.(5) Il padronato, ovviamente era deciso a ristabilire e aumentare la produttività che i
lavoratori avevano conquistato durante la guerra. A questo scopo gli industriali chiesero ai sindacati
una garanzia contro gli scioperi selvaggi e il riconoscere il “diritto a dirigere” del padronato. In
questo periodo, i salari settimanali dei lavoratori delle industrie non direttamente coinvolte alla
produzione militare, ebbero un calo di salario del 10% fra la primavera del 1945 e l’inverno del
1946; i lavoratori delle industrie belliche ebbero un calo di salario del 31% e il potere di acquisto
era calato dell’11% rispetto al 1941.
Com’era previsto, alla fine della guerra cominciarono gli scioperi. Nel settembre del 1945, il primo
mese di pace, il numero dei giorni di lavoro persi raddoppiò. 43.000 operai dell’industria petrolifera
scioperarono in venti Stati il 21 settembre in sostegno della richiesta di contrattazione collettiva
portata avanti dagli addetti al controllo. 44.000 taglialegna scioperarono nel Nord-Ovest, e lo stesso
fecero 70.000 camionisti del Midwest e 40.000 macchinisti a S. Francisco e Oakland. I portuali della
costa Est scesero in sciopero per diciannove giorni. E non era che l’inizio.
Appena tre giorni dopo la vittoria contro il Giappone, l’United Auto Workers richiese un aumento
salariale del 30%, ma contemporaneamente si pronunciò contro un aumento dei prezzi da parte
della General Motors. La compagnia offrì un aumento del 10% e rispose al sindacato che lo stabilire i
prezzi era una faccenda esclusiva dell’azienda. All’inizio di settembre erano già in sciopero circa 90
fabbriche dell’auto e il 21 novembre i lavoratori in sciopero erano 225.000.
Agli scioperi degli operai dell’auto si aggiunsero presto quelli di altre categorie. Il 15 gennaio 1946
scioperarono 174.000 lavoratori delle aziende elettriche; il giorno dopo 93.000 dell’industria di
conservazione delle carni; il 21 gennaio scioperarono 750.000 operai dell’acciaio. Il primo aprile si
fermarono 340.000 minatori del carbone bituminoso, provocando un oscuramento parziale a livello
nazionale; e uno sciopero nazionale ferroviario da parte dei macchinisti e dei ferrovieri, intrapreso
per ottenere un cambiamento nelle condizioni di lavoro il 23 maggio, provocò il blocco quasi
completo del commercio nazionale.
Nei primi sei mesi del 1946 i lavoratori in lotta erano 2.970.000. Inoltre, l’ondata degli scioperi non
rimase limitata agli operai dell’industria: scioperarono gli insegnanti, i lavoratori municipali e dei
servizi. Alla fine dell’anno si raggiunse un totale di 4,6 milioni di lavoratori coinvolti negli scioperi.
In mezzo quest’ondata di lotta, ci furono degli atti politici di collegamento con la protesta dei
soldati. Il Consiglio della C.I.O. di Los Angeles convocò nel gennaio del 1946 una dimostrazione
pubblica di fronte al consolato cinese a sostegno delle richieste dei soldati americani contrari
all’appoggio al Kuomintang di Cian Kai-shek. I soldati di stanza nel Pacifico si opponevano
all’impiego di unità militari statunitensi nella guerra contro la sollevazione rivoluzionaria che stava
percorrendo la Cina. Il Consiglio della C.I.O. della città di Akron approvò una mozione, subito ripresa
e fatta propria da altri sindacati, che diceva: “Premesso che comitati si soldati delle zone di
occupazione hanno chiesto l’aiuto del movimento dei lavoratori per accelerare il ritorno alle loro case
e alle loro famiglie, il Consiglio Sindacale Industriale di Akron si associa alle proteste contro il
rallentamento della smobilitazione e da il suo appoggio ai milioni di lavoratori in uniforme che
desiderano la pace e il ritorno alla vita normale. Il Consiglio Sindacale Industriale di Akron si dichiara
assolutamente solidale con i soldati che protestano perché non vogliono essere usati per la
proteggere le ricchezze e le proprietà all’estero di società private ostili ai lavoratori, come la
Standard Oil e la General Motors”.
La protesta continua
Il 13 gennaio 1946 il giornale di New York PM pubblicò un servizio dal suo corrispondente da
Norimberga: “I soldati hanno la febbre dello sciopero. Ognuno di loro a cui rivolgo la parola si
mostra pieno di risentimento, di umiliazione e di rabbia (…) Ora sentono di avere una legittima
rivendicazione nei confronti del loro datore di lavoro, l’esercito. Che la rivendicazione non comprenda
anche un aspetto salariale, è un fatto assolutamente marginale. Ai soldati non piacciono né le
condizioni di lavoro, né il prolungamento della durata del contratto, né tantomeno gradiscono i loro
capi, i generali”.
L’agitazione continuò a estendersi nel Pacifico. Subito dopo la grande dimostrazione di Manila il
colonnello Krieger, l’ufficiale addetto al personale del comando generale delle Filippine, diede
l’assicurazione a 15.000 uomini del Centro Rincalzi che sarebbero stati riportati negli Stati Uniti
senza indugio. Ma a gennaio del 1946 sul Stars and Stripes il giornale dell’esercito letto dai militari
americani in tutto il mondo, riproduceva un comunicato del ministero della Guerra secondo cui le
smobilitazioni della zona del Pacifico sarebbero state ridotte da 800.000 a 300.000 al mese a causa
d’imprecisate difficoltà.
Tutto ciò nasceva dal fatto che gli USA non avevano un servizio militare obbligatorio prima del
conflitto. Questo fu istituito all’inizio dell’entrata in guerra, ma si trattava di una coscrizione
provvisoria, a termine, di cui la legge fissava la scadenza del marzo 1947. A quella data gli Stati
Uniti, rischiavano di trovarsi senza esercito, il che contrastava con i programmi imperialisti dei
gruppi dirigenti del paese. Era in discussione una legge che prevedeva un nuovo servizio militare
obbligatorio che incontrava, però, forti resistenze all’interno del paese e difficoltà nel Congresso.
Ritardando la mobilitazione, il Pentagono mirava a conservarsi sui vari fronti una capacità operativa
adeguata d’intervento.
Cogliere i frutti della guerra per la borghesia americana voleva dire stabilire un solido controllo
sulle risorse naturali dei paesi occupati ed eliminare le resistenze popolari sorte durante l’ultimo
conflitto.
Nelle Filippine nei giorni finali della seconda guerra mondiale, si passò direttamente, per ordine del
generale MacArthur, ad arrestare i dirigenti del movimento Huk (abbreviazione di Hukbalahap,
Esercito Popolare Antigiapponese) e del partito comunista delle Filippine, disarmando tutti i militanti
su cui fu possibile mettere le mani, ed estromettendo tutti i militanti nei governi locali. In questa
campagna anti-Huk, gli Stati Uniti utilizzarono molti filippini che avevano collaborato con i
giapponesi, i proprietari terrieri e restituirono loro le cariche a cui i giapponesi li avevano
precedentemente posti. Le operazioni contro i giapponesi non erano ancora finite che unità
dell’esercito americano avevano attaccato sistematicamente gli Huk. Non solo cominciarono ad
addestrare, in funzione anti-huk, unità militari filippine.
Quando una divisione di fanteria nelle Filippine ebbe l’ordine di riprendere l’addestramento al
combattimento, cominciarono le proteste e dimostrazioni da parte dei soldati che volevano tornare a
casa. Rivelava il New York Times dell’8 gennaio 1946 in un articolo dal titolo Proteste dei soldati
americani nelle Filippine, che il ripristino dell’addestramento al combattimento “fu interpretato dai
soldati e da alcuni giornali filippini come la preparazione della repressione di possibili sollevazioni da
parte di gruppi di contadini scontenti”. Nei mesi che seguirono le elezioni politiche dell’aprile 1946
un’ondata di violenza da parte di militari, polizia e dalle squadracce dei proprietari terrieri si abbatté
nei villaggi degli Huk. Centinaia di contadini furono uccisi e migliaia arrestati. La resistenza filippina
non ebbe altra scelta che riprendere le armi e trasformarsi in resistenza antiamericana.
Era questa la situazione in cui si collocavano le agitazioni dei soldati americani
Manila divenne il centro propulsore del movimento di protesta della truppa. Il 6 gennaio 1946
migliaia di militari manifestarono in punti diversi della città. Un gruppo venne disperso dalla polizia
militare mentre si avvicinava alla sede del quartier generale. Le dimostrazioni continuarono il 7
gennaio: più di 2.500 uomini in uniforme marciarono inquadrati fino al quartier generale portando
striscioni che dicevano: “Servizio sì, servitù mai” e “Siamo stanchi di promesse”. Nei volantini
ciclostilati che i soldati distribuivano al passaggio del corteo, si diceva: “Il rimpatrio delle truppe
viene deliberatamente rallentato in modo da forzare l’approvazione del nuovo servizio militare
obbligatorio per il tempo in pace (…) Il Dipartimento di Stato vuole l’esercito per sostenere il
suo imperialismo”.
Il movimento andava via via assumendo un carattere più marcatamente politico, il 7 gennaio
1946, non meno di 20.000 soldati si accalcarono all’interno del palazzo del Congresso filippino di
Manila per ascoltare oratori che denunciavano energeticamente l’aggressione degli Stati Uniti contro
la Cina (dall’inizio del 1946 più di 100.000 militari americani, operavano in Cina per sostenere Ciang
Kai-shek).
Il fermento era vivo in tutto il Pacifico. Seimila soldati che si trovavano sull’isola di Saipan, nella
Micronesia, inviarono a Washington una protesta contro il rallentamento della smobilitazione. A
Guam 3.500 militari diedero inizio a uno sciopero della fame. Sempre a Guam 18.000 presero parte
a due grandi raduni di protesta.
Via via che le notizie delle proteste di massa dei soldati dal Pacifico si diffondevano, l’ondata delle
manifestazioni cominciò toccare i soldati americani in Europa. Il 7 gennaio 1946, nel secondo giorno
di dimostrazioni di Manila, 2.000 di truppa diedero vita a un raduno di massa a Camp Boston, in
Francia chiedendo un’accelerazione della smobilitazione in Europa. A Reims, 1.500 militari di truppa
manifestarono contro le “spiegazioni illogiche” che i comandi fornivano per il rallentamento dei
congedi. Sui muri di Parigi comparvero manifesti di solidarietà con i militari in rivolta a Manila.
Partendo dall’Arco di Trionfo, più di un migliaio di soldati sfilò lungo i Campi Estivi. In Germania, un
centinaio di soldati sottoscrisse un telegramma indirizzato a Washington chiedendo: “Si deve
consentire agli ufficiali superiori di costruire imperi? Perché?”.
Da Londra, 1.800 soldati e ufficiali chiesero una spiegazione per il rinvio della smobilitazione. La
protesta continuò ad allargarsi: a Francoforte, in Germania, una dimostrazione di 5.000 soldati fu
affrontata con le baionette in canna dalla polizia militare e furono compiuti arresti. Cinquemila
soldati dimostrarono a Calcutta, in India e 15.000 a Honolulu nelle Hawaii. A Seul, in Corea, diverse
migliaia di soldati resero pubblica una risoluzione in cui si affermava: “Non riusciamo a capire
l’insistenza del ministero della Guerra a mantenere all’estero in tempo di pace un esercito
sovradimensionato. A che deve servire?”.
La protesta si fece più profonda anche all’interno degli Stati Uniti. I soldati nella posta che
scrivevano a casa, nelle lettere inserivano slogan come: “Scrivi al tuo deputato: riportaci a casa”,
“Niente navi, niente voti”. Il senatore Elbert D. Thomas, che era capo della Commissione per gli
Affari Militari, si sfogò con la stampa: “Gli elettori incalzano giorno e note. La pressione è incredibile.
La posta inviata dalle mogli, dalle madri e dalle fidanzate che chiedono che i loro uomini siano
riportati a casa, sta arrivando a una media di 100.000 lettere al giorno” senza contare le lettere dei
soldati.
La protesta dei militari di truppa giunse infine a toccare una tematica allarmante per gli alti
comandi. Il 1° gennaio 1946 a Parigi 500 militari fecero proprie una serie di rivendicazioni definite
da un dispaccio dell’agenzia stampa United International come un ”programma rivoluzionario per la
riforma dell’esercito”. “La magna carta degli arruolati”, come fu chiamato questo programma,
reclamava l’abolizione delle mense ufficiali, l’apertura dei circoli per ufficiali di ogni caserma, campo
o centro a tutti i sottoufficiali e soldati semplici senza distinzione, l’abolizione delle sezioni riservate
agli ufficiali in occasione delle manifestazioni ricreative e l’abolizione degli alloggiamenti riservati agli
ufficiali. Si avanzava inoltre la richiesta che tutti gli ufficiali dovessero trascorrere un anno nei ranghi
come soldati semplici prima di ottenere i gradi, e si richiedeva la riforma della composizione delle
giurie nelle corti marziali dell’esercito, includendovi anche soldati semplici. I soldati presentarono
questo programma a una Commissione di inchiesta del Senato in visita a Parigi. Si costituì un
Comitato per la liberazione dei soldati, che lanciò un invito a tutte le unità americane di stanza in
Francia a organizzare ulteriori azioni di protesta. Avanti di questo passo, la macchina bellica
statunitense minacciava di sgretolarsi. La rivolta dei soldati costituiva una seria interferenza nei piani
dei Capi di Stato Maggiore.
Il carattere di massa delle proteste, assunse tali proporzioni da rendere impossibile, per
il momento, un intervento repressivo. Non esistevano le forze per reprimere centinaia di
migliaia di militari. L’arresto dei responsabili della rivolta avrebbe potuto scatenare
proteste più violente. Nel frattempo i graduati e i soldati semplici avevano cominciato a
requisire aerei e camionette per condurre i rappresentati eletti della truppa a incontri con
le commissioni d’inchiesta senatoriali per discutere sul come organizzare i trasporti verso
casa.
In un primo tempo la gerarchia militare usò metodi morbidi. Si limitò a ordinare che tutte lagnanze
passassero attraverso i normali canali gerarchici e imposero alla censura alla stampa dei militari. Poi
gli Stati Maggiori passarono alla repressione, il 17 gennaio 1946 l’allora Capo di Stato Maggiore D.
Eisenhower emise un ordine che proibiva qualsiasi ulteriore dimostrazione da parte dei soldati. Un
ordine analogo fu anche emesso dal generale J. McNarney, comandante delle forze statunitense in
Europa. Il generale Robert Richardson jr. ordinò il deferimento alla corte marziale di qualsiasi soldato
o ufficiale appartenente a unità di stanza nel Pacifico centrale che continuasse le agitazioni. Tre dei
militari che avevano preso la testa del movimento di protesta a Honolulu furono inquisiti dalla polizia
militare. Altre rappresaglie furono messe in atto principalmente sotto la forma di trasferimenti. Due
giornalisti furono rimossi dalla redazione di Stars and Stripes e trasferiti nell’isola di Okinawa
considerata la “Siberia” dell’esercito americano per aver firmato una protesta contro
l’imbavagliamento ufficiale del giornale.
A Okinawa furono deportati degli esponenti del movimento dei soldati di Manila. Tra questi c’erano
il sergente Emil Mazey ex presidente della sezione 212 dell’United Auto Workers (UAW) sindacato
aderente alla C.I.O. Mazey era un sindacalista combattivo che aveva guidato nel 1943 la lotta contro
il divieto di sciopero in tempo di guerra e aveva lavorato per la creazione di un partito dei lavoratori
negli Stati Uniti. Come Mazey altri ex sindacalisti ebbero una parte importante nell’organizzazione
della protesta della truppa e contribuirono alla saldatura fra il movimento dei soldati e l’ala più
radicale del movimento sindacale americano. Molti degli uomini inquadrati nelle forze armate
statunitensi durante la seconda guerra mondiale avevano partecipato alle grandi lotte sindacali degli
anni ’30 e ne erano stati profondamente influenzati. Migliaia e migliaia di loro avevano appreso i
metodi e le tattiche della lotta di massa; avevano acquisito capacità di organizzazione e conoscevano
il potere dell’azione unitaria. Queste lezioni furono utilizzate con grande efficacia per organizzare la
truppa in agitazione. In quasi tutte le basi militari vi erano soldati che dimostravano, e si
cominciavano ad organizzarsi. Le notizie che i soldati eleggevano i rappresentanti delegati a esporre
le loro richieste o nominavano comitati per pianificare ulteriori azioni si succedevano senza posa. Il
livello organizzativo più alto fu raggiunto senza dubbio dal Comitato dei Soldati di Manila come
sviluppo dell’azione iniziata il 6 gennaio. Il 10 gennaio 1946, 156 delegati, ognuno eletto da un
differente reparto della regione di Manila, in rappresentanza di 139.000 soldati tennero la loro prima
riunione, elessero all’unanimità un presidente e un comitato centrale composto di otto membri.
Le manifestazioni di massa da parte dei soldati con lo slogan “Riportateci a casa”, per quanto brevi
siano state ebbero conseguenze di vasta portata. In primo luogo costrinsero il governo degli Stati
Uniti a smobilitare le truppe, 15 milioni di uomini sotto le armi. Entro metà dell’estate del 1946 si
ridussero a 3 milioni. Entro il giugno del 1947 scesero a un milione e mezzo. In secondo luogo, la
rivolta fece comprendere in modo inequivocabile all’apparato militare che non sarebbe stato facile
ottenere un esercito di leva disciplinato a tal punto da essere buono per tutti gli usi. La resistenza
alla manovra dei vertici militari per imporre il servizio militare obbligatorio porto in evidenza che una
grande maggioranza della popolazione degli Stati Uniti non voleva essere coinvolta in un programma
i cui scopi erano nebulosi. In terzo luogo, le dimostrazioni all’insegna dello slogan “Riportateci a
casa” fecero comprendere alla borghesia USA che sarebbe stata necessaria una grande opera di
propaganda politica per convincere la popolazione degli Stati Uniti dell’esistenza di “minaccia
comunista” a livello mondiale.
Senza dubbio una delle conseguenze politiche più importanti della rivolta dei soldati americani, fu
quella far intendere che i coscritti americani non potevano essere utilizzati né in guerre coloniali né
in una guerra contro l’URSS.
Marco Sacchi
aprile 2009
1. Negli USA ne parlarono gli autori americani Hofstadter, Miller e Aaron nella loro opera The American Republic, dove si legge: “Alla fine della
guerra, si manifestò una forte pressione all’interno dell’esercito e tra i civili per un ritorno dei soldati americani da oltreoceano . Per un certo
periodo sembrò addirittura che si potesse non essere in grado di occupare gli stessi paesi che avevano sconfitto” il che danneggiò, affermano gli
autori “gli affari internazionali degli Stati Uniti”.
2. Il Socialist Workers Party (SWP) era la sezione statunitense della Quarta Internazionale, i suoi dirigenti come James C. Cannon furono
arrestati per loro opposizione alla guerra imperialista. Molti militanti del SWP, che si erano arruolati in marina, morirono sulla rotta di
Murmamsk nei convogli che portavano rifornimenti all’URSS, nel tentativo di introdurre propaganda trotzkista in questo paese.
3. Reflections on Wildcat Strikes, in American Sociology Revivew , giugno 1947.
4. Reflections on Wildcat Strikes, in American Sociology Revivew , giugno 1947
5. Morris Bruce R., Industrial Relations in the Automobile Industry, in Warne.