etica di un amore impuro

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etica di un amore impuro
ALESSANDRO SAVONA
ETICA DI UN
AMORE IMPURO
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Alessandro Savona
Etica di un
amore impuro
con la prefazione di
Simona Lo Iacono
2013 © Edizioni LEIMA
via Altavilla 55, Palermo
www.leimasrl.it
[email protected]
2013
Prima edizione
In copertina: densité d’abandon ©Alessandro Savona
Etica di un amore impuro
Alessandro Savona
Edizioni LEIMA, Palermo, 2013
Collana Le stanze, n°3
Isbn: 978-88-98395-02-6
Etica di un
amore impuro
Che sarà per me lo spettacolo del mondo?
Roland Barthes, Incidents
A mio padre e al nostro ponte
Prefazione
Siamo ponti senza saperlo.
Annodiamo esistenze. Solitudini. Mani tese.
Siamo ponti quando sussurriamo in una notte come tante: “Non lasciarmi”. Quando balocchiamo col fumo di un
desiderio. Quando – vivi o morti, dentro – ci ostiniamo a
percorrere una strada sospesa nel vuoto.
Questo è un ponte: una speranza nella precarietà.
Un punto d’appoggio tra due rive. Un modo per allungare
una mano, per trattenere qualcuno.
Non sempre ci riusciamo. Non sempre il ponte ci avvicina.
A volte frappone un inciampo, un impensabile ostacolo:
noi, la nostra stessa fragilità.
Tuttavia accade.
E il ponte sfreccia tra due destini, o tra tre, o tra mille. Balza
su stagioni. Miracolosamente restituisce un senso.
È una struttura, dicono alcuni. E forse lo direbbe anche
Marco, aspirante architetto e protagonista di questa storia.
Ma Roland Barthes direbbe: “No, non è una struttura. È
un segno”.
E lo direbbe a ragione, perché anche lui è protagonista di
questa storia. Anche lui è tra Marco e un libro.
E tra un libro e Olivier.
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Olivier vi si imbatte per caso, in una Parigi che risuona della
voce rauca di Edith Piaf. Che si snoda tra le vie del Quartiere
Latino. Che si inerpica verso il cielo, maglia dopo maglia,
svettando dalla Tour Eiffel, rimandando l’illusione in cui –
almeno una volta, a Parigi – vogliamo credere: La vie en rose.
Ne porta addosso ancora il calore quando – dopo molti
anni – incrocerà anche Marco. Quando, come Barthes, avrà
finalmente appreso la lezione dei segni.
Ma nel 1982 è ancora presto.
In quegli anni Olivier ignora i codici misteriosi che trafiggono l’esistenza. Che sta a noi decifrare pur nel travolgente spettacolo del mondo. Oltre la coltre che lo spalanca ai
nostri occhi. Ignora che persino in ciò che sembra impuro
si annida un senso.
È ancora presto.
Nel 1982 Barthes è appena morto, Marco è un embrione
nel corpo di una donna che attraversa il ponte Alexandre e
questa storia non esisteva ancora.
O forse no: le storie nascono prima di quando riusciamo a
comprenderle. Prima di noi e dopo di noi.
Il vero ponte sono le storie.
Simona Lo Iacono
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Prologo
Parigi, 1982
Quali parole si scrivono per raccontare un amore? Per entrare nel sangue di una storia, penetrare il silenzio di due
corpi, il grido di una carezza, l’armonia di un’imperfezione?
Forse sapresti dirmelo.
“È all’interno della lingua che la lingua deve essere combattuta, sviata: non attraverso il messaggio di cui essa è lo strumento, ma attraverso il gioco delle parole di cui essa è teatro”.
Dicevi così, più o meno. Te lo ricordi?
“Il testo mi sceglie”, continuavi.
Sono stato un libro, una frase, una notazione a margine.
Be’, sappi una cosa: adesso questo testo sceglie te. Saprai assumertene la responsabilità? Io sto ancora pagando il debito.
Mi porto dentro un’anima ferita.
È il 25 febbraio del 1982, un giorno qualunque con un cielo
brumoso. Cade nevischio, la gente cammina gelosa della
propria intimità, è stretta nei cappotti e molte sciarpe sono
tirate fino al naso. Sto seduto al tavolo di un bar, vicino al
vetro. Aspetto che il cameriere porti il caffè che ho ordinato, mi sorrida e dica, forse, in risposta al mio “Merci” un
gentilissimo “Je vous en prie”.
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Sulla sedia vuota, davanti a me, siede l’ombra del tuo corpo.
Ti sorrido e tu, come sempre, ti chiudi in una riservata serietà. Aiutami un po’ a rileggerle queste pagine. Vuoi? Un
paio d’ore e sarà tutto finito.
Mi chiamo Olivier.
Mi chiamo Olivier, ma questo non credo importi molto.
Ho trentasette anni. Potrei considerarmi perfino attraente,
con la giusta dose di narcisismo. La mia fronte è ormai stempiata, i capelli sono grigi sopra le orecchie, e sciolgono il nero
corvino d’un tempo in una sorta di riappacificazione estetica
con la quale il passare degli anni ha voluto graziarmi, rendendo morbidi i tratti spigolosi che avevo da giovane.
Ero e sono un farabutto, un escluso dagli alti ranghi della
società, dalla sua benevolenza borghese. Ho fatto soldi nei
modi più diversi, forse non ho proprio la coscienza a posto,
ma è certo che la vita, fino a oggi, l’ho sempre affrontata a
testa alta. Guardandola spesso in faccia con atteggiamento
di sfida, perché è così che va vissuta. Giorno per giorno. So
bene che l’ultima valigia farò fatica a prepararla, ma non avrò
rimpianti. Chiuderò gli occhi e terrò il medio alzato, come
quando ci appostavamo dietro le barricate del Quartiere Latino e non eravamo che cellule di un corpo che ci faceva credere d’essere importanti, uniti, eternamente giovani.
A modo tuo anche tu sei stato un terrorista, uno che ha
sputato sulle teste bianche del proprio tempo, ma questo
allora non potevo capirlo. Conducevi un’altra battaglia.
A quel tempo sapevo solo che in inverno mi si gelava il
culo, che non avevo soldi e che l’unica cosa che desideravo
era spassarmela senza dover necessariamente pensare trop-
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po alla dignità. È stato facile, come lo è per ogni incosciente: l’inesperienza protegge dalla paura, è solo col tempo che
diventi codardo. A vent’anni cosa potevo saperne di governo, morale cattolica e conservatorismo?
Con le interviste a De Gaulle ci pulivo il fango delle scarpe,
non per ideologia ma perché della politica me ne infischiavo. Avevo i capelli lunghi e un sorriso allegro. Con quel
sorriso ho spalancato le porte ai profumi della vita, odorato
la pelle di molte ragazze, goduto del loro sesso impudico.
Non esistevano ferite storiche ma anfratti di piacere.
Il cameriere poggia distrattamente la tazza di caffè sul tavolino. Non appena lo guardo riesce perfino a sorridermi.
Nessun compiacimento da parte mia, è pagato per questo. “Merci”. “Je vous en prie”. Avrà tra i venticinque e i
trent’anni, una chierica tradisce i primi segni di calvizie,
l’avambraccio è teso e le mani arrossate.
Chissà come giudichi la mia maniera di scrivere. Paratattica, veemente, ingenua? In questo saresti davvero bravo.
Intanto sono io a portare un vantaggio su di te, adesso. Io
che ho letto, riletto e non del tutto capito i libri che hai
consegnato alla posterità. Nei quali è addirittura scandaloso il tuo mutismo su “l’omosessualità malinconica” (è
così che l’hanno definita, lo sapevi?) che sfogavi con atteggiamento garbato lungo le strade di questo quartiere.
Il tuo - il nostro? - quartiere: Saint-Germain-des-Prés.
Vorrei che ti fosse chiaro un concetto: sono un uomo incazzato. Mentre noi rischiavamo il culo per cambiare le
cose senza neppure capirle, voi facevate gli intellettuali.
Dovevi aiutarci, stare con noi, non piangere solo per te
stesso. Cosa ti aspettavi?
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La bellezza non ti bastava. Ogni carezza disattesa lacerava
il tuo ego. Eravamo perfetti ma coglioni. Dietro quell’indifferenza giovanile c’era la rabbia che sgorga dal silenzio.
Oggi saprei spiegartelo. Ecco perché ho deciso che proverò a farlo.
Un tavolo, quattro sedie di legno, mio padre, mia madre,
mio fratello e io. Dentro una casa di un quartiere proletario, alla periferia di una città del Sud della Francia.
Davanti a noi le scodelle vuote che avevano accolto un
brodo che della carne serbava un vago ricordo. Briciole di
pane sulla tovaglia a quadri. La mia famiglia onorava la
rispettabilità e il senso del dovere, e la sera, nella cucina al
centro della quale pendeva una miserabile luce, mangiava
brodaglia a testa bassa.
Mio padre era solito stringere il bordo del piatto con una
mano, come a proteggerlo. Con mio fratello e me usava le
parole delle mani. Semantica gestuale, si potrebbe chiamarla. Altro che amore, carezze e spiccioli scivolati nelle tasche
come ricompensa per la buona condotta!
Andavamo in chiesa tutte le domeniche per ingraziarci
l’aiuto di Dio. Un Padre Nostro per ottenere il favore
di una buona raccolta e un’Ave Maria per la protezione
misericordiosa. Era merda, ti dico. Merda da timorati.
Sono stato partorito dalla sconfitta e cullato da un’ignorante rassegnazione.
Che Dio protegga la mia famiglia.
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Capitolo 1
Febbraio 2006
Ci vorrebbe un bel titolo. Facciamo Diario di un traditore
di preconcetti. Oppure Memorie di un aspirante nullafacente.
Vabbe’, tanto chissenefrega! Chi avrà la sfortuna di incappare in queste pagine sappia che ciò che segue è il resoconto
senza pretese di un giovane che nel tempo libero a sua disposizione - fin troppo, direi - ha deciso di ammazzarlo, il
tempo, scrivendo di getto a partire dalla data che leggete in
cima alla pagina. Non cercatene la ragione. La mia potrebbe essere questa: scrivere di me e dintorni, se non altro, mi
eviterà l’alternativa di costose sedute di psicanalisi.
Almeno lo spero.
Quando ho deciso di incrementare la paga settimanale dei
miei genitori con un lavoro, non sapevo che avrei accumulato un numero incredibile di ore d’anticamera. Ho girato
più studi di architettura di quanti non ne abbiano realmente progettati. A volte il mio entusiasmo moriva all’angolo
di una strada. Mi assaliva l’ansia di aver sbagliato ogni cosa.
La notte, sempre più spesso, mi svegliavo in preda a un
incubo ricorrente: c’èra una vecchia signora all’interno di
una casa, e io, studente d’architettura, avevo appena ter-
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minato di imbiancarne le pareti. Ero fiero del mio operato,
le superfici sembravano vibrare di un bianco abbagliante.
A un certo punto la vecchia mi guardava. Avrebbe potuto
abbozzare un sorriso di gratitudine da un momento all’altro, e invece no. Metteva le mani dietro la schiena, tirava
su col naso e cominciava a sputare sui muri. Mirando verso
quelle immense tele di intonaco bianco, si raschiava la gola
e sputava rumorosamente, e mentre le chiazze di saliva si
allargavano e scivolavano vischiose verso il fondo delle pareti, mi diceva:
“Lei non si laureerà mai. Le sembra bella questa pennellata, ragazzo?”.
E dire che avevo anche provato a sperimentare il praticantato: disegnatore part-time. Che gloriosa conquista! Duecentocinquanta euro lordi. Bell’affare. Ti prendono a fare
gavetta, a tirare linee e cacciano la paga con sforzi stitici. È
per il tuo bene, dicono, devi imparare a scalare la montagna
dal punto più basso, è una fortuna poter fare pratica in uno
studio rispettabile. Allora via, mi sono detto, metti in atto
la tua personale rivoluzione, prima che il rimpianto cancelli
ciò che resta del tuo logoro orgoglio.
Ai miei non racconto le mie sconfitte. Con mio padre si dialoga per frasi fatte. Dalla sua esperienza di impiegato statale,
cresciuto a pastasciutta e cultura da cassintegrato, non è facile
cavare speranze. Tra me e lui la distanza è imposta, ma non
voluta, dall’enorme quantità di libri che la mia testa e i miei
occhi hanno divorato durante la lunga attesa di un risvolto
esistenziale. Una specie di bulimia da cultura. Alla peggio
farò come le sorelle Brontë: scriverò un libro senza mai uscire
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dal mio baccello natio. Nutro qualche speranza: scrivere è
un riflesso condizionato. Dietro il tiralinee si nasconde un
genio, lo so. Anche se al momento non riesco a trovarlo.
Mai perdere le speranze. D’altra parte Montale era un ragioniere, Pessoa un impiegato del Comune e Calvino un
correttore di bozze. Dietro queste righe autobiografiche
potrebbe forse celarsi un primo germe creativo.
Ho letto una frase dal diario di mia sorella, “Per voi darei
la vita!”, seguita da tante foto di giovani illustri sconosciuti,
una collezione di santini patinati. Sarebbe sembrato uno
slogan patriottico, inneggiante alla profondità di un amore
globale. Peccato che si riferisse a una trasmissione televisiva
in cerca di talenti. Dare la vita per il talento è senz’altro
un controsenso, perché quello vero costruisce l’immortalità.
Nella trasmissione in oggetto, invece, di immortale c’è solo
la “sindrome da share”: malattia del nuovo secolo che strumentalizza il talento per tenere alti gli ascolti, mettendo in
piedi cattedrali di inutili discussioni. Ma questa è un’altra
storia e non mi va di parlarne.
Sonia. Cazzo, quanto è sexy! Dice che il professore di Antropologia avrebbe voluto darle più di un semplice trenta e
lode. Il porco vorrebbe scoparsela, secondo me. Ma ha
poco da sognare, ci sono prima io. Ci sto lavorando sopra
da un pezzo. Finché non gemerà per me, vedrò le sue curve come le principali responsabili e nemico numero uno
della mia svilita virilità di stampo fallocratico. Il nemico
numero due è l’apprensione di mia madre per i miei calzini bucati.
“È nelle parti nascoste che si vede quanto una persona è a
modo”, ha sempre detto.
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Difatti il suo primo pensiero, al mattino, è di far cambiare aria alla camera da letto e di agitare energicamente le
lenzuola: non sia mai che, morendo tutti all’improvviso, i
vicini arrivino a pensare “Però, che odore di chiuso nella
casa di quelli lì!”.
Morale cattolica più virus perbenista uguale me.
Pazienza. Peggio per me. Certo che, comunque, io una mossa
me la dovevo dare. Indi, per dare un senso al mio nonsenso,
una bella mattina ho deciso di occuparmi della fantomatica
videoteca della facoltà, di cui nessuno sapeva e che per me e
Giorgio sarebbe stata una dimostrazione di spirito di intraprendenza, nonché un modo per arruffianarci il prof.
Giorgio era con me, fatalista e sognatore. Complice il docente di Comunicazione visiva, armati di buona volontà ci
siamo presentati al preside. Era un uomo più largo che alto,
una specie di Danny de Vito palermitano, vicesindaco di
un paese completamente “rinnovato” dalla sua eclettica eglettica - visione dell’architettura pubblica. Ci ha guardati
stringendo gli occhi inespressivi col sospetto tipico dell’ignorante, ha allacciato le dita delle mani piccole e paffute
come se dovesse drizzarsi in piedi e saltare al ritmo di un
sirtaki, infine ha parlato con voce stridula, metallica, sottolineando il suo discorso con fonemi e storpiature del paese
da cui proveniva:
“Miei cari ragazzi, questa terra vive nel pieno rispetto delle
proprie tradizzioni sstoriche. Ammiro il rinnovamendo,
ma rimpiango la maggìa del tempo trascorso. È vero
che il compiuter lo dobbiamo accettare, ma non vedo la
precipua necessità di occuparci di videoteche e robba del
genere. D’altro cando se un allievo vuole erudirsi in fatto di
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immaggini, può sempre usufruire dei tanti volumi schedati
nella nostra gloriosa bibblioteca”.
E gloriosa lo era davvero, dal momento che gli ultimi numeri di Casabella risalivano agli anni Settanta e le rare foto
a colori avevano tonalità che ricordavano l’astrattismo russo
piuttosto che manufatti architettonici.
Giorgio e io ci siamo conosciuti al corso di Urbanistica.
Abbiamo subito riconosciuto l’uno nell’altro una specie di
pezzo mancante, siamo diventati amici e colleghi di studio.
Anche lui, come me, dedicava alle materie non più del tempo necessario, riuscendo a strappare agli esami voti degni di
invidia, con l’arguzia del lettore onnivoro che porta l’interlocutore sui territori che più gli si confanno. Non credo che
sia realmente incline alla professione d’architetto, ma sono
sicuro che col tempo e con la giusta esperienza potrebbe
acquisire serietà deontologica in qualunque campo.
Il coraggio, si sa, funziona se proiettato su lunghe gittate.
Malgrado l’atteggiamento conservatore e riluttante del preside, non ci perdemmo d’animo. La videoteca era la nostra
Utopia, il vagheggiamento di un mondo nuovo, la terra di
conquista verso la quale concentrare sforzi e strategie.
Avevamo bisogno di credere in qualcosa. Il panorama comune non offriva nulla di buono, trascorrevamo i pomeriggi sul
divano della mia camera a stilare elenchi di film d’argomento
specifico, cortometraggi d’autore, interviste ad architetti celebri. Cercavamo gli strumenti adatti per aprire una breccia
di novità nel mausoleo della nostra polverosa facoltà. Sognavamo aule interattive, con lettori laser, schermi di proiezione,
computer, e tutto quanto fosse necessario per attivare un luogo di incontro, svago e interdisciplinarietà culturale.
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Alla lettura di Delitto e castigo alternavo quella di un saggio
sulla Tour Eiffel, consigliatomi dal docente di Comunicazione visiva. Uno tosto, quello che l’ha scritto! Lo sapevate
che la Tour Eiffel incassa più soldi del Louvre e che è una
specie di architettura inesistente, a metà tra un gruviera e
un monumento? Ci avevate mai riflettuto? E che Maupassant amava trascorrervi i pomeriggi perché era l’unico posto
dal quale non fosse costretto a vederla? È stata definita anche la “torre dei suicidi”, per via dei tanti fuori di testa che
si sono buttati di sotto.
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“QUALI PAROLE SI SCRIVONO PER RACCONTARE UN AMORE?
PER ENTRARE NEL SANGUE DI UNA STORIA, PENETRARE IL SILENZIO DI DUE CORPI,
IL GRIDO DI UNA CAREZZA, L’ARMONIA DI UN’IMPERFEZIONE?
FORSE SAPRESTI DIRMELO”
Il linguaggio dei sentimenti è il più complesso e al contempo il più semplice tra le
espressioni umane. Sebbene talvolta dia l’impressione di sfuggirci di mano, si intreccia
intimamente con le fibre stesse dell’esistenza, al punto da riuscire a legare i destini di
uomini diversi, in epoche e luoghi distanti. Uomini che dall’amore sono chiamati,
ineluttabilmente, a diventare protagonisti di un’unica storia.
Così accade a Olivier, trascinato nel turbine del ’68 che investe Parigi, e a Marco, che
nel 2006 vive i dubbi e i conflitti di ogni giovane studente: due racconti divisi dallo
spazio e dal tempo, due esperienze di legami profondi che si riuniscono infine e inaspettatamente al culmine di una narrazione emozionante.
Figura cardine di queste due vicende un uomo che, noto al nostro secolo, è certamente
meno conosciuto dal punto di vista privato: quel Roland Barthes, semiologo francese,
che l’autore qui definisce “intriso di desiderio umano, bramoso d’amore e vittima di
un sesso proibito”.
Alessandro Savona, palermitano, si occupa di letteratura e teatro. Nel 2004 ha pubblicato il suo primo romanzo, Corpi contro (Zoe), e messo in scena lo spettacolo Corpi
a nudo. Sono seguiti i racconti comparsi nelle antologie A.A.A.Cercasi (Giulio Perrone
Editore, 2011) e Anthos (Bonanno Editore, 2012). La silloge Caffè d’orzo, latte di mandorla e seltz (Novantacento) è del 2013. Per Edizioni Leima, ad aprile 2013, ha scritto
il racconto Il piano di Benjamin, inserito nell’antologia Certe strade semideserte.
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ETICA DI UN AMORE IMPURO
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