ESAU` E GIACOBBE: Storia di una riconciliazione

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ESAU` E GIACOBBE: Storia di una riconciliazione
AdR newsletter
N. 12 – 5 marzo 2012
ESAU’ E GIACOBBE: Storia di una riconciliazione
Gaetano Pispisa
Esaù e Giacobbe erano fratelli gemelli, figli di Isacco e Rebecca, nipoti quindi di Abramo.
Esau’, il cui nome significa “peloso”, alla nascita si presentò infatti “rosso e peloso come un
mantello di pelo”, era il cocco di papà, perché divenne un abile cacciatore e a Isacco piaceva
la cacciagione.
Giacobbe, il cui nome significa “colui che prende per il tallone”, dato che alla nascita teneva
con la mano il calcagno di Esaù, che era uscito prima di lui dal grembo materno, era il cocco
di mamma, perché era “ un uomo tranquillo che se ne stava nelle tende”.
C’è da dire che “prendere per il tallone” in ebraico stava anche per “ingannare”. Potremmo,
quindi, tradurre il nome Giacobbe con “ingannatore”. Termine che era tutto un programma e
mai nome fu più appropriato. Perché, cosa successe?
Il giorno in cui Isacco, ormai molto in là con gli anni e per giunta cieco, stabilì il momento dell’investitura di Esaù del diritto di primogenitura, quale primo nato, avente il suo punto più solenne e sacro nella benedizione patriarcale, Rebecca, a conoscenza di questo proposito, si attivò perché quella benedizione venisse impartita a Giacobbe e non a Esaù. Escogitò, quindi, in combutta col suo figliolo, un piano ben congegnato per ingannare Isacco e sottrarre il diritto di primogenitura a Esaù. Perché tutto questo? Il Signore aveva parlato a Rebecca durante la sua gravidanza avvertendola : “il maggiore servirà il minore”. Isacco, secondo Rebecca stava sovvertendo il piano di Dio e, quindi, doveva essere fermato subito. S’intromise, perciò, nel piano di Dio, anzi si sostituì a Lui, quasi per aiutarlo, elaborando un suo piano che nulla aveva di divino; risultò, al contrario, piuttosto diabolico per le conseguenze drammatiche che produsse. Ma andiamo ai fatti. Isacco aveva così predisposto il cerimoniale dell’investitura: disse a Esaù “…va nei campi e prendimi un po’ di selvaggina. Poi preparami una pietanza saporita, di quelle che mi piacciono; portamela perché io la mangi e ti benedica prima che io muoia”(genesi 27:7). Rebecca che aveva udito tale intenzione di Isacco, si mise subito all’opera per elaborare ed attuare un suo progetto durante l’assenza di Esaù. Convinse Giacobbe, che per la verità si mostrò dapprima esitante, a sostituirsi a Esaù e presentarsi sotto false spoglie davanti al padre non vedente per carpirgli la sua benedizione. Preparò con due capretti del gregge una pietanza saporita di quelle che piacevano a Isacco. Fece indossare a Giacobbe i vestiti di Esaù. Gli coprì le mani e il collo con le pelli dei due capretti, per renderlo peloso come il fratello. Gli mise in mano la pietanza e lo mandò a presentarsi dal padre. Isacco, pur manifestando qualche perplessità che quelli fosse Esaù, rassicurato da Giacobbe, cascò nell’inganno e pronunciò la sua benedizione sul pseudo Esaù. Ora, la benedizione patriarcale era un atto solenne, perché, in nome di Dio, veniva trasferita quell’eredità di beni, valori, promesse, di cui Abramo era diventato, per volontà divina, depositario per sé e per la sua discendenza. Una volta pronunciata, quindi, non poteva essere sconfessata. L’azione compiuta da Giacobbe, con la complicità della madre, quindi, poteva considerarsi un vero crimine, perché eseguita con fredda premeditazione, manipolando e ingannando un povero cieco e arrecando un danno all’ignaro fratello. Poteva considerarsi anche un’offesa verso Dio, in quanto Isacco, nell’impartire la sua benedizione, agiva in rappresentanza di Dio. Esaù, vistosi ingannato e defraudato della benedizione paterna, andò su tutte le furie e maturò propositi di vendetta nei confronti di Giacobbe. Fu ancora Rebecca, moglie e madre superattiva, a organizzare la fuga di Giacobbe per sottrarlo alle ire del fratello. Consigliò a Giacobbe di fuggire a Caran presso Labano, fratello della stessa Rebecca, e convinse Isacco a lasciarlo partire adducendo, come motivazione, la necessità di trovare moglie nel suo parentado, per scongiurare un’eventuale unione con donne ittite o cananee, come era avvenuto per Esaù. Isacco lasciò partire Giacobbe e gli rinnovò, questa volta in maniera consapevole, la sua benedizione: “Il Dio onnipotente ti benedica, ti renda fecondo e ti moltiplichi, in modo che tu diventi un’assemblea di popoli, e ti dia la benedizione di Abraamo a te e alla tua discendenza con te, perché tu possieda il paese dove sei andato peregrinando, che Dio donò ad Abraamo.”(genesi 28:3,4). Giacobbe, solo e senza beni, doveva, quindi, costruire il suo futuro partendo da zero, lontano dalla casa del padre e soprattutto dall’ intraprendente Rebecca. Ma ricevette il conforto di Dio sin dal suo primo giorno di viaggio. A Bethel gli si rivelò in un sogno, nel quale vide una scala poggiata sulla terra mentre la cima toccava il cielo e gli angeli che salivano e scendevano per essa. Il Signore, stando al di sopra della stessa, gli rinnovò praticamente la stessa benedizione impartitagli da Isacco aggiungendo: “Io sono con te, e ti proteggerò dovunque tu andrai e ti ricondurrò in questo paese, perché io non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto.”(genesi 28:15) Promessa che non si realizzò subito, ma dopo 20 anni, durante i quali gli toccò subire, lui l’ingannatore, inganni , soprusi e angherie da parte di suo zio, persona astuta e avida. A casa di Labano venne inizialmente ricevuto festosamente, poi, però, trasformato dallo zio a poco a poco in un suo servo, in una sua proprietà, in un suo ostaggio, soprattutto quando quegli ebbe la consapevolezza che la presenza di Giacobbe in casa sua era fonte di grande benedizione e prosperità. Giacobbe si innamorò perdutamente di Rachele, figlia minore di Labano. Per averla in moglie lo zio gli stabilì, quale prezzo, sette anni di lavoro al suo servizio. Allo scadere del termine , però, con grande stupore, Giacobbe trovò nel suo letto nuziale Lia, la figlia maggiore, al posto dell’amata Rachele, per avere la quale lo zio gli fissò altri 7 anni di lavoro al suo servizio. Ai 14 anni se ne aggiunsero altri 6, durante i quali Labano continuò la sua opera vessatoria nei confronti di Giacobbe, per tenerlo soggiogato alla sua autorità e per non perdere, quindi, la “gallina dalle uova d’oro”. Gli ultimi 6 anni servirono a Giacobbe per costituirsi un suo patrimonio, era, infatti, questo quello che aveva chiesto a Labano come salario. Il Signore lo benedisse abbondantemente, da parte sua ci mise un po’ di quell’astuzia che aveva nel suo DNA e diventò “ricchissimo, ed ebbe greggi numerose, serve, servi, cammelli e asini”. Era stato benedetto anche con una numerosa prole: 11 figli e una figlia, avuti dalle 4 donne che facevano parte del suo focolare domestico, cioè dalle due moglie e dalle loro rispettive serve, che facevano parte della dote toccata alle mogli e che, nella cultura dell’epoca, potevano, anche, sopperire a brevi o lunghi periodi di infecondità delle loro padrone, offrendo il loro utero per partorire nuova prole, segno, a quel tempo, di benedizione divina. Aveva una sua famiglia, un suo cospicuo patrimonio era tempo per Giacobbe di staccarsi da Labano e seguire la sua strada, quella tracciata per lui da Dio. E’ Dio stesso che lo incoraggiò: “Torna al paese dei tuoi padri, dai tuoi parenti, e io sarò con te”(genesi 31:3). Ottenuto l’accordo e il sostegno della propria famiglia attuò il suo progetto di fuga da Labano, approfittando di un’assenza prolungata di quest’ultimo e usando le sue ben collaudate doti di ingannatore. Labano seppe della fuga di Giacobbe tre giorni dopo e organizzò subito una spedizione punitiva con l’intento di fargliela pagare e di riportare a casa le figlie, i nipoti e tutti i beni che viaggiavano con loro, perché nella sua mentalità c’era che: “Queste figlie sono mie, questi figli sono miei figli, queste pecore sono pecore mie e tutto quello che vedi è mio.”(genesi 31:43). Dio ammonì Labano attraverso un sogno perché non facesse del male a Giacobbe. Questo calmò l’ira di Labano e l’incontro con Giacobbe si risolse con una festa di commiato e con un patto di non belligeranza. Finalmente Giacobbe ritornò a essere un uomo libero e autonomo. Da quel momento il suo obiettivo sarebbe stato quello di raggiungere la terra promessa ad Abramo per costituire quel popolo sul quale Iddio poteva contare per essere rappresentato sulla terra. Un altro ostacolo si presentava, però, in terra di Canaan. Lì vi era la presenza di Esaù, con il quale erano rimasti dei conti in sospeso. Giacobbe sapeva che Esaù voleva la sua testa e che avrebbe potuto sterminare, anche, tutta la sua gente. Fu assalito, quindi, da una grande paura che non si calmò neanche quando incontrò sul suo cammino degli angeli inviati da Dio per rassicurarlo. Aveva provato a inviare dei messaggeri a Esaù per rabbonirlo con l’offerta di un copioso numero di armenti, ma per tutta risposta aveva ottenuto che suo fratello si preparava ad affrontarlo con un gruppo di 400 uomini ben armati. Giacobbe era molto vulnerabile di fronte a quella schiera di 400 uomini, perché i suoi figli erano ancora dei ragazzetti e la sua gente non aveva mai tenuto un’arma in mano. La paura crebbe e si mise a gridare a Dio: “Liberami, ti prego, dalle mani di mio fratello, dalle mani di Esaù, perché io ho paura di lui e temo che venga e mi assalga, non risparmiando né madre né figli.”(genesi 32:11). Pur avendo chiesto l’aiuto al Signore, provò lo stesso a mettere in atto il suo progetto: divise in due schiere la sua gente, le sue greggi e i suoi armenti, perché pensava che se Esaù avesse sterminato una schiera l’altra poteva salvarsi. Predispose, inoltre, dei cospicui doni in armenti suddivisi in schiere, che avviò incontro a Esaù, distanziate le une dalle altre, davanti alla sua gente, sperando di fare colpo sul fratello e di chiudere ogni contrasto e ogni contesa con lui con quella sorta di risarcimento per il danno arrecatogli. Esaù non si mostrò interessato a quel piano di riconciliazione preparato dal fratello. Si aspettava sicuramente ben altro per il danno subito. Anche per il Signore la soluzione trovata da Giacobbe non era sufficiente per risolvere detta crisi. La notte prima dell’incontro fra Giacobbe ed Esaù, si presentò nelle vesti di uno sconosciuto a Giacobbe, che aveva deciso di restare solo e lontano dalla sua gente sicuramente per cercare quella risposta di Dio che poteva rassicurarlo. Giacobbe non riconobbe subito l’angelo del Signore in quell’individuo che si avvicinò a lui e iniziò a lottare con lui senza esclusioni di colpi fino all’alba. Da quella lotta Giacobbe ne uscì azzoppato e con il nome cambiato, non più Giacobbe l’”ingannatore”, bensì Israele l’”uomo che lotta con Dio”. Mi piace pensare che non si trattò solo di una lotta fisica, necessaria perché potesse scaricare le forti tensioni determinate dalla grande paura che si era impossessata di lui, ma un tentativo disperato e, quindi, violento di affermare le proprie ragioni a giustificazione del suo misfatto. Purtroppo in ogni litigio, in ogni contesa quella che tiene lontani e distanti l’una dall’altra parte è la convinzione forte del valore delle proprie ragioni, che arrivano a giustificare anche gli errori, i misfatti, i peccati più evidenti e ovvii. Mi viene di immaginare, in quella lotta concitata, Giacobbe gridare a Dio: “Non eri stato tu, o Signore, a rivelare a mia madre che il figlio maggiore avrebbe servito il minore? Ebbene, mia madre e io, abbiamo cercato di fare in modo che questo si realizzasse.” E Dio ribattere: “Quello era un affare mio, io avevo già un piano mio con modi e tempi diversi da quelli scelti da voi. Vi siete arrogati un compito che non vi spettava, cadendo inevitabilmente nell’inganno, che è un peccato grave e ingiustificabile. C’è solo da chiedere perdono alle persone offese e danneggiate.” E Giacobbe di nuovo: “Ti ricordi quando mio fratello mi vendette la sua primogenitura per un piatto di lenticchie, disprezzando un’istituzione così sacra? La benedizione di mio padre non gli spettava più, era nel mio diritto di sostituirmi a lui.” E il Signore:” Si, è vero, tuo fratello ha sbagliato e per quello che ha fatto io sono ‘sdegnato’ con lui. Ma tu, anche lì, hai usato l’arma dell’inganno, non agendo correttamente.” E Giacobbe: “Signore, vogliamo parlare della sua condotta? Ha sposato delle donne pagane, aprendo la sua casa e la sua vita a pratiche che vanno contro le tue leggi, privandolo di quelle doti morali e spirituali, così importanti per qualificare il capo del tuo popolo. Non potevo permettere a mio padre che pronunciasse quella sacra benedizione su una persona indegna, come Esaù.” E il Signore: ”Giacobbe, non spetta a te il giudizio sull’operato di tuo fratello. E ancora una volta ti arroghi un diritto che non ti appartiene.” E Giacobbe ancora: ”Si, d’accordo, ho sbagliato ma ho anche pagato duramente il mio errore. Venti anni di esilio e di continue umiliazioni e vessazioni in casa di Labano non bastano quale prezzo per l’espiazione del mio peccato? Cosa mi tocca fare ancora? Forse, Signore, tocca a te adesso fare qualcosa: fermare mio fratello prima che faccia una strage.” E il Signore: “No, caro Giacobbe, non tocca a me fare qualcosa bensì a te: devi mostrare a tuo fratello un segno di pentimento e umiliazione per il male che gli hai arrecato. E’ questo l’ultimo atto indispensabile per meritare l’investitura di capo del mio popolo ed entrare nella terra promessa. Tu puoi presentarmi tutte le ragioni di questo mondo, ma quello che hai fatto ha un solo nome: peccato. E il peccato non può avere alcuna giustificazione.” E Giacobbe continuava a replicare, insistendo col volere fare intendere che il suo operato era motivato dall’ intento di salvaguardare il bene dell’Opera di Dio. A questo punto quando l’angelo “vide che non poteva vincerlo, gli toccò la giuntura dell’anca e la giuntura dell’anca di Giacobbe fu slogata”(genesi 32:25), a significare che doveva prostrarsi in segno di umiliazione sia in quella occasione sia in eventuali altre simili situazioni. Restò zoppo , infatti, per il resto della sua vita. Non poteva, infine, uscire da quella esperienza con lo stesso nome. Giacobbe, l’ingannatore, evocava ormai ricordi dolorosi, che doveva lasciarsi alle spalle. Era una nuova creatura, quindi meritava un nome nuovo: Israele, l’uomo che lotta con Dio. Lottare con Dio è un grande privilegio perché aiuta a forgiare il proprio carattere per il regno dei cieli. Mentre Giacobbe era impegnato in quella lotta sulle sponde del torrente Iabboc, in quella stessa notte, gli angeli del Signore erano sicuramente impegnati sull’altro fronte, quello di Esaù. Esaù aveva dimostrato di non avere intenzioni pacifiche, altrimenti non sarebbe andato incontro al fratello accompagnato da 400 uomini. La sua gente sapeva dell’atto ignobile di Giacobbe perpetrato nei suoi confronti. Per Esaù sarebbe stata una caduta d’immagine il lasciar correre, mostrandosi misericordioso. L’avrebbe reso debole agli occhi del suo popolo. Ma gli angeli del Signore sono riusciti a raggiungere il suo cuore, scardinando ogni sentimento di vendetta. Alla rabbia e alla sofferenza per l’orgoglio ferito si sostituì a poco a poco un forte desiderio di rivedere e abbracciare il fratello gemello, con il quale, sicuramente, aveva trascorso dei bei momenti di giochi e di festa nella casa del padre. Questi eventi contribuirono a creare l’atmosfera giusta per un momento di riconciliazione dei più belli e più commoventi che la storia biblica abbia raccontato: “Esaù gli corse incontro, l’abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero” (genesi 33:4). Giacobbe, addirittura, disse a suo fratello: “ho visto il tuo volto come uno vede il volto di Dio” (genesi 33:10). Ed Esaù, perfino, offrì la sua protezione a Giacobbe nel suo viaggio in terra di Canaan :”Permettimi almeno che io lasci con te un po’ di gente che ho con me” (genesi 33:15). Si trattava di quella stessa gente che aveva portato con sé per fare del male al fratello, per procurare morte, adesso desiderava utilizzarla per proteggerlo e per mantenerlo in vita. Che straordinario miracolo! Frutto di una resa completa all’azione di Dio nella vita dei due. Tutto questo avvenne, certamente, sotto lo sguardo sbalordito sia della gente di Giacobbe sia della gente di Esaù. Il terrore degli uni che si aspettavano un bagno di sangue e la voglia degli altri di mettere mano alle armi per compiere la” giusta” vendetta si smorzarono di colpo per l’atteggiamento spiazzante di Giacobbe, che andò incontro a Esaù inchinandosi fino a terra per sette volte e per la corsa di Esaù verso il fratello per abbracciarlo e baciarlo. Avranno apprezzato tutti tale epilogo? Forse, agli occhi di alcuni, quegli atteggiamenti mielosi e concilianti dei due fratelli, capi di due popoli, apparvero come un segno di debolezza e di meschinità. Avrebbero preferito vedere i due affrontarsi a muso duro, forse in un duello all’ultimo sangue, affidando alle armi la conclusione della contesa. In effetti un atto di autentica riconciliazione può maturare e può essere pienamente capito solo in ambito di vero cristianesimo, in presenza di menti trasformate dallo Spirito di Dio. Non è possibile, infatti, con le proprie sole forze, sradicare o trasformare sentimenti di astio, di odio in sentimenti di amore vero e disinteressato. Questa storia è ricca di spunti di riflessioni per l’anno della riconciliazione, proclamato dall’Unione per vedere risolte situazioni di tensioni, di contese, di litigi, là dove esse esistono. Situazioni che fiaccano le relazioni fra fratelli in fede, fra fratelli e le comunità, fra fratelli e le istituzioni, arrecando un grave danno all’Opera del Signore, perché rischiano di comprometterne lo scopo primario, che è quello della proclamazione della buona novella al mondo. Ecco alcuni di detti spunti: 1. Giacobbe vedeva il fratello che aveva ingannato come un nemico, “Signore liberami, ti prego, dalle mani di mio fratello”, non come un individuo offeso, ferito da quello che era avvenuto, bisognoso di un suo gesto di pentimento, accompagnato da una richiesta di perdono. Può succedere anche a noi, sapendo che c’è un fratello che si sente offeso, ferito da un nostro comportamento, di dire “io non gli ho fatto nulla di male, è un suo problema” e si preferisce mantenere le distanze, anzi si preferirebbe non vederlo, non averlo intorno a noi, restando arroccati sulle nostre convinzioni, suffragate da motivazioni che riteniamo troppo serie per essere sacrificate in un gesto di riconciliazione. Le nostre “ragioni” spesso diventano degli idoli, sull’altare dei quali sacrificare le relazioni con dei nostri fratelli. Se pensate di essere in tale condizione, occorre subito prendere quegli “idoli” e bruciarli sull’altare del Signore, lasciandosi vincere da Lui, di maniera che possiamo dire di quel fratello offeso “ho visto il tuo volto come uno vede il volto di Dio”. 2. Esaù, parte offesa e lesa, non vedeva altra soluzione che quella di cancellare dalla faccia della terra suo fratello. La sua smania di vendetta s’infranse, però, prima contro l’azione degli angeli di Dio e poi contro l’atteggiamento spiazzante di Giacobbe, non previsto né contemplato da Esaù. Anche l’atteggiamento di quest’ultimo spesso ci appartiene: se qualcuno che ci offende, oltre a cancellarlo dalla nostra agenda, vorremmo cancellarlo dalla nostra vita. Vorremmo vederlo soffrire, vorremmo che il Signore gliela facesse pagare. Forsanche preghiamo il Signore che sia Lui a vendicarci. Cosa che il Signore non potrà mai fare. Egli non presterà mai il suo braccio per aiutarci a compiere le nostre personali vendette, neanche se noi fossimo le persone più “fedeli” del mondo. Egli è l’Iddio della riconciliazione e del perdono. Semmai quello che il Signore potrà fare, se noi ci lasciamo “vincere” da Lui, è di rendere il nostro volto simile al suo per convincere chi ci ha offeso a compiere gesti riconcilianti capaci di ripristinare quell’armonia fra fratelli che il nostro Dio vuole vedere realizzarsi nella sua Chiesa. 3. A Giacobbe, nonostante si fosse macchiato di un grave misfatto, il Signore non gli fece mancare il suo conforto, la sua benedizione, la sua assistenza: Dio a Bethel gli si rivelò promettendogli tra le altre cose “Ed ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai, e ti ricondurrò in questo paese; poiché non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto” (genesi 28:15); Labano riconobbe che la benedizione del Signore accompagnava il nipote “…rimani, perché ho toccato con mano che l’Eterno mi ha benedetto per causa tua” (genesi 30:27); fu l’Eterno che gli disse di lasciare la casa di Labano “Torna al paese dei tuoi padri e al tuo parentado, e io sarò con te”; fu ancora l’Eterno che lo confortò quando la paura di Esaù l’assalì “Or Giacobbe continuò il suo cammino, e gli si fecero incontro degli angeli di Dio”. Tuttavia Giacobbe non poté esimersi dal compiere quel gesto di umiliazione nei confronti di Esaù. Non poteva escludere né ignorare la sua presenza in terra di Canaan. Spesso può accadere che a causa di tensioni o di dissapori con dei fratelli o con la chiesa stessa si scelga l’isolamento, la non frequenza della comunità, confortandosi col dire “Io ho un buon rapporto con il Signore, lo sento vicino e questo mi basta”: E , invece, questo non basta. Il Signore non potrà escludere dalla Canaan celeste le persone che non ci piacciono. Ricordiamoci che non saremo giudicati soltanto per aver saputo mantenere un buon rapporto “verticale” con Dio, ma soprattutto per aver saputo curare e mantenere un buon rapporto “orizzontale” col nostro prossimo. In casi del genere il gesto di umiltà diventa il biglietto d’ingresso obbligatorio per la Canaan celeste. Stiamo attenti che nel volere, noi, escludere alcuni dalla Canaan celeste non finiamo per rimanerne esclusi! 4. L’allontanamento dalla casa paterna, l’esilio lungo 20 anni, una sorta di “censura”, furono le conseguenze immediate del peccato di Giacobbe. Eppure era stato scelto da Dio come guida del suo popolo sin dal grembo materno. Dio non gli fece mancare, come abbiamo visto, durante detto periodo, la sua guida e la sua assistenza, ma non gli evitò tutte le angherie, i soprusi, le umiliazioni che dovette subire in casa di Labano . Aveva bisogno di maturare e soprattutto di provare sulla sua pelle quale sofferenza aveva provocato l’inganno e la frode perpetrati ai danni di suo fratello. In genesi 29:38 è detto, infatti, “ ed Esaù alzò la voce e pianse”, quando Isacco gli comunicò che non c’era più alcuna benedizione per lui, perché l’unica e valida era stata impartita, anche se viziata dall’ inganno, a Giacobbe. Può succedere anche nelle nostre comunità che si debba arrivare a “censurare” comportamenti scorretti e non cristiani di fratelli, sanzionati con periodi di “esilio”. Non si tratta certo di escluderli dalla grazia del Signore e dalle sue benedizioni, si tratta, bensì, di accordare loro un periodo e un’occasione di riflessione, che deve condurre necessariamente a una più evidente maturità spirituale, che li qualifichi meglio quali membri di un consesso cristiano. Molto spesso, però, simili situazioni creano rotture, separazioni, inimicizie, mentre dovrebbero costituire l’occasione per guardarsi meglio dentro e per aprire un dialogo sereno e franco con Dio, capace di creare consapevolezza della precarietà della propria condizione e della necessità, quindi, di fare un salto di qualità. E lavorare per la riconciliazione, col fratello, con la propria comunità, rappresenta quel salto di qualità. Non prendere coscienza di questo vuol dire che si vuole restare prigionieri del proprio orgoglio, del proprio egoismo, della propria arroganza, della propria testardaggine, opponendosi allo Spirito di Dio in una lotta interminabile. Ricordiamoci che il vero cristianesimo si misura, anche e soprattutto, dalla capacità dimostrata di saper creare, sempre, le condizioni per una vera riconciliazione con Dio e con il prossimo. Senza aspettare che siano gli altri a dover fare il primo passo. Una delle beatitudini recita: ”Beati coloro che si adoperano alla pace” (Matteo 5:9) e l’apostolo Paolo scrive: “il Regno di Dio non è mangiare e bere ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Romani 14:17) e ancora: “Dio…ha dato a noi il ministero della riconciliazione,… e ha posto in noi la parola della riconciliazione” ( 2 Corinzi 5:18,19). Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno
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