l`intervento integrato nelle anoressie ad esordio

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l`intervento integrato nelle anoressie ad esordio
L’INTERVENTO INTEGRATO NELLE ANORESSIE AD ESORDIO PRECOCE
di
Daniela Tortolani*
La prospettiva multigenerazionale consente di riconoscere, in una
dimensione di maggiore complessità, l’effettiva rilevanza degli aspetti che
riguardano le vicende dell’attaccamento come fattori di rischio per lo sviluppo
del disturbo alimentare.
Per quanto riguarda la rilevanza psicologica di questi aspetti, va tenuto presente
che il loro potenziale patogeno non è da riferire alla valenza traumatica che essi
veicolano, quanto piuttosto alla costellazione di difese che contribuiscono ad
attivare nella mente familiare ed individuale, al fine di escludere dalla vita
emozionale i sentimenti d’angoscia e i vissuti di colpa che si accompagnano a
certi episodi nonché a salvare le figure d’attaccamento dalle quali in ogni caso
dipende la possibilità di sopravvivenza psicologica (Montecchi1994).Ciò
comporta una visione sistemica, meno determinista, del concetto di “madre
sufficientemente buona”: ciascun bambino, infatti, rispondendo ad
un’imprescinbile esigenza di carattere biologico e psicologico, si attiva con le
risorse di cui dispone per stimolare le parti contenitive del proprio ambiente
affettivo, quando le condizioni ambientali sono particolarmente sfavorevoli, il
bambino è portato ad organizzare i propri vissuti e i propri pensieri in modo da
renderli in ogni caso buoni, anche a costo di dover modellare il funzionamento
della propria mente secondo i caratteri disgregati e confusi della psicosi.
Anoressia ad esordio precoce
E’ stato ipotizzato, a questo proposito, che già i neonati, essendo dotati del
sistema d’attaccamento che regola la ricerca di vicinanza e di contatto con le
figure protettive allo scopo di aumentare le possibilità di sopravvivenza,
costituiscono nel corso dell’interazione con il proprio ambiente affettivo dei
modelli operativi interni del mondo fisico e sociale, la cui adeguatezza è
naturalmente anche influenzata dalla sensibilità delle figure di riferimento,
secondo uno schema del genere (Brethertorn, 1991):
-------------------*Daniela Tortolani picologo dirigente del Servizio di Psichiatria e Psicoterapia
U.O. di Neuropsichiatria Infantile Ospedale Pediatrico Bambino Gesù,Analista Didatta
dell’A.I.P.A.,Didatta di Terapia Familiare,Prof.della 2°Scuola di Specializzazione in
Psicologia Clinica Università la Sapienza di Roma
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insensibilità-evitamento (attaccamento A)
sensibilità-sicurezza (attaccamento B)
mutevolezza bizzarra-ambivalenza (attaccamento C)
maltrattamento-disorganizzazione psicotica (attaccamento D)
Questo spiega sia la frequenza di patologie psichiatriche in bambini con
disturbo alimentare sia la valutazione retrospettiva di disordini nel
comportamento di
accudimento-attaccamento nella prima generazione delle famiglie trattate per
anoressia.
In generale secondo questa visione, l’anoressia può essere perciò compresa solo
all’interno della storia di un gruppo, l’ambiente familiare, dove ogni membro
mette in comune con gli altri le esperienze della propria famiglia d’origine e del
proprio ambiente sociale. (Tortolani1994).
Dati a conferma di questo emergono in modo alquanto significativo
dall’esperienza clinica all’interno della casistica raccolta dal 1978 nel Servizio
di Psichiatria e Psicoterapia, U.O. di Neuropsichiatria Infantile, dell’Ospedale
Pediatrico Bambino Gesù di Roma, essendo le storie familiari dell’anoressia
caratterizzate, da disfunzioni strutturali e carenze affettive.
Elementi interessanti per l’ulteriore sviluppo della ricerca invece sono
rintracciabili all’interno di una particolare fenomenologia di presentazione del
disturbo alimentare, nell’ambito della casistica delle anoressie ad esordio
precoce.
In generale, infatti, quando si descrive l’anoressia mentale si fa riferimento ad
un disturbo che, sebbene possa protrarsi nel tempo, insorge in adolescenza e
coglie la famiglia alle prese con la fase del ciclo vitale che accompagna lo
svincolo dei figli.
Le fasi dell’accudimento sono ormai lontane, i modelli operativi interni sono
già costituiti e il comportamento d’attaccamento consolidato: da questo punto
di vista si tratta di una fase in cui si evidenziano allo sguardo dell’osservazione
piuttosto gli esiti di un percorso di storia familiare, che l’inizio di un nuovo
processo evolutivo, bloccato dalla patologia.
Si sono perciò evidenziati più forme cliniche all’interno della casistica del
reparto negli ultimi anni:
• anoressia del lattante (0-1 anno)
• pseudo-anoressia (3-4 anni)
• anoressia prescolare (4-5 anni)
• anoressia pre-menarcale (8-10 anni)
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• post-menarcali (12 ai 18 anni)
Nei casi d’anoressia ad esordio precoce ci si trova in una sorta di stato nascente
sia rispetto alla storia individuale sia rispetto alla storia familiare, nei casi in cui
il disturbo alimentare sia a carico del primogenito, frequentemente ancora figlio
unico.
Da una parte, per l’osservazione delle dinamiche dell’attaccamento questo é un
momento particolarmente interessante ed altrettanto interessante potrebbe
essere predisporre un programma di followup per il monitoraggio del processo
evolutivo successivo.
D’altra parte, ugualmente fecondo potrebbe essere lo studio di questi casi per
l’approfondimento ulteriore della comprensione del disturbo anoressico.
La situazione individuale e familiare in questi casi é, infatti, assai diversa da
quella descritta per l’anoressia comunemente intesa e non possono essere
applicate tout court a queste situazioni le categorie convenzionalmente
utilizzate per la comprensione del significato del sintomo anoressico.
Quando i figli sono neonati o attraversano le prime fasi dell’infanzia, é difficile,
infatti, attribuire le difficoltà della famiglia alle problematiche poste dal
sottosistema figli nella lotta per l’autonomia, nella difficoltà di svincolo, nella
difesa maniacale per il controllo dell’angoscia depressiva, nel bisogno di
controllo per la negazione dei bisogni di dipendenza, dell’adultomorfismo.
Queste famiglie che per gli aspetti di cornice generale, invischiamento, conflitto
coniugale, triangolazione reciproca, sono tipicamente ascrivibili alla casistica
delle famiglie anoressiche, sono invece piuttosto differenti per altri e non meno
rilevanti aspetti.
In primo luogo si tratta di famiglie con problematiche precoci e molteplici, al
contrario delle famiglie in cui il sintomo anoressico compare come un fulmine a
ciel sereno a turbare l’atmosfera d’equilibrio idealizzato.
Inoltre, un altro dato che emerge é una certa differenziazione rispetto alla
definizione di precocità: s’incontrano, infatti, famiglie in cui il sintomo
anoressico insorge nell’arco dei primi cinque anni di vita di uno dei figli ovvero
bambini che rifiutano il cibo dall’età scolare e infine anoressie del periodo
adolescenziale.
In modo alquanto significativo si evidenzia che nella primissima
infanzia si può presentare l’anoressia del lattante (0-1 anno) il sintomo
anoressico si presenta con una sospensione improvvisa dell’alimentazione,
senza una patologia organica del bambino, all’interno di contesti familiari
mutiproblematici, anche per condizioni socio-ambientali alquanto disagiate fino
al limite del deterioramento.
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Uno dei genitori, di solito la madre, risulta frequentemente problematico per
depressione o psicosi, così com’emergono elementi d’abuso nella storia
d’attaccamento tra prima e seconda generazione.
Sono presenti ampie aree simbiotiche nella relazione parentale, mentre la
valenza psicologica del sintomo é misconosciuta, le aree sentite come
problematiche sono esclusivamente quelle dell’accrescimento, il rifiuto del cibo
si connette con idee d’intolleranza alimentare, allergie e simili. E’ inoltre
interessante che nei bambini il rapporto tra maschi e femmine è quasi uguale,
mentre questo rapporto inizierà ad aumentare a favore delle femmine dall’età
scolare.
Il trattamento familiare di queste forme ad esordio precoce si differenzia come
tipo d’intervento perché è centrato sulla psicoterapia individuale e/o
farmacologia del genitore e ci si avvale d’osservazioni dirette del rapporto
Padre-Madre-Bambino tramite le terapie di gioco e le lunch-session in cui il
terapeuta lavora sugli scambi comunicativi fra genitori e figli, osservando gli
scambi complementari e simmetrici, le capacità di cooperazione nella gestione
del rapporto sia di gioco che alimentare con il bambino. Lo schema terapeutico
comprende tre tipi di sedute:
Padre-Bambino, Madre-Bambino, Genitori-Bambino con cadenza settimanale
seguite da una seduta con la coppia genitoriale cui si rielabora quanto emerso e
vissuto da ognuno dei due genitori nelle sedute precedenti, sia come coppia
coniugale, che come coppia genitoriale. L’ottica relazionale viene integrata da
un visione intrapsichica che si rifà al modello di Stern (1987 e 1995) di lavoro
sulla diade corretto dall’esperienza di lavoro con la triade di Fivaz (1994).
Nelle pseudo-anoressie che insorgono dai tre ai quattro anni
è presente un’iperinvestimento alimentare in famiglia ed il bambino che
attraversa la fase dell’opposizione utilizza quest’area per manifestare la propria
autonomia nutrendosi di cibi alternativi, come caramelle o merendine, non
accettando il cibo proposto dai genitori; i pediatri si allertano perché sono
bambini sottopeso e sottostatura rinforzando il “braccio di ferro” fra genitori e
figli i bambini divengono iperattivi e rimangono inappetenti ed iposomici.
In questi casi è opportuna una terapia familiare associata ad una terapia
genitori-bambini come abbiamo già descritto.
Nelle anoressie pre-scolari (5-6 anni) è presente con un blocco
dell’alimentazione o regressione alimentare al biberon o ai cibi liquidi od
omogeneizzati, una simbiosi con la figura materna che impedisce al bambino
l’inserimento nella scuola, poiché è presente o un conflitto negato della coppia
coniugale o una psicopatologia dei genitori e la patologia del bambino è
funzionale alla coppia.
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E’ pertanto indispensabile proporre una terapia di coppia ed una per la triade
genitori-bambino mirata a raggiungere poi una terapia individuale del bambino
per svincolarlo dal gioco di coppia
Nelle anoressie premenarcali (8-10 anni) è presente una
pregressa patologia simbiotica, un’iperinvestimento scolastico, un conflitto
coperto con la figura materna poiché non è stato risolto il processo
d’individuazione separazione e si avvicina l’adolescenza con il conseguente
desiderio-paura dell’autonomia che si manifesta con un’ambivalenza nei
confronti dell’accrescimento é invece molto accentuata la componente fobica, il
rifiuto del cibo coincide con l’idea di danneggiamento, fino alle fantasie di
veneficio, e si correla con difficoltà di socializzazione, anche nella fratria;
l’intera famiglia é impegnata in dinamiche di controllo dispendiose ed elaborate
che vanno a discapito della possibilità di contenimento.
In queste famiglie si lavora in modo più tradizionale utilizzando le sedute
familiari secondo lo schema classico e lavorando di più sui doppi legami e sulle
modalità schizofrenogene e sull’interazione conseguente che porta i bambini
pre-puberi a scegliere il sintomo anoressico com’equivalente pre-psicotico.
Pertanto il terapeuta deve sapere che non sta in realtà trattando una famiglia di
“anoressica”, ma una famiglia a transazione psicotica oppure l’anoressia si
manifesta in misura maggiore secondo una modalità ipocondriaca e
psicosomatica, e queste famiglie sono caratterizzate da importanti componenti
depressive, frequentemente nutrite da lutti di difficile elaborazione e il bambino
con una psicoterapia individuale può fare l’esperienza di uno spazio” libero e
protetto” dove trovare la propria individualità separata da quella dei genitori, ed
il trattamento è quell’integrato già descritto
In considerazione di queste altre forme d’anoressia, l’attività di ricerca clinica
andrà ad orientarsi verso l’approfondimento dei loro ulteriori significati, sia
perché essi danno riscontro di situazioni relazionali differenti rispetto alle
aspettative relative alla descrizione tradizionale della famiglia anoressica e sia
perché, sul piano della teoria della tecnica terapeutica, l’approfondimento dello
studio delle differenze consente di poter disporre di standard dell’intervento
clinico sempre più adeguati e validati in senso precoce .
Giungiamo infine a parlare delle anoressie post-menarcali
dai 12 anni in poi partire dalla riflessione critica intorno alle varie formulazioni
teoriche, e dal quotidiano riscontro della loro efficacia nella pratica clinica,
all’interno del Servizio di Psichiatria e Psicoterapia dell’Ospedale Pediatrico
“Bambino Gesù” di Roma dove si é costituito, già dal 1978, un gruppo di
ricerca che si é occupato di mettere a punto e monitorare un modello di
rappresentazione e d’intervento relativamente allo sviluppo di patologie
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anoressiche, individuando elementi caratterizzanti, fattori di rischio, modalità di
lavoro ed ulteriori spunti di ricerca.
Alcuni aspetti di carattere generale risultano coerenti con i dati disponibili in
letteratura: in prima istanza, l’anoressia sembra frequentemente correlata a
situazioni familiari d’invischiamento, con una dinamica di scontro madre-figlia
piuttosto incidente.
L’iperprotettività di entrambi i genitori in questi contesti risulta molto
accentuata, da parte della figura paterna soprattutto dopo l’insorgere della
sintomatologia, in quanto il padre, generalmente fino a quel momento in
posizione alquanto periferica, tende poi ad evidenziare un alto grado di
preoccupazione e coinvolgimento.
Allo stesso modo é elevato il misconoscimento della realtà da parte dei genitori
nei confronti della paziente, che viene idealizzata in senso positivo o negativo,
ma raramente presa in considerazione in una dimensione realistica.
I confini intergenerazionali sono confusi e non adeguatamente sviluppati,
spesso si riscontra una genitorializzazione della paziente stessa, che si prende
cura dei bisogni emotivi dei genitori e non può percorrere la strada dello
svincolo.
La scarsa tollerabilità del conflitto all’interno della famiglia é infine un
elemento importante come fattore di rischio se si considera che si riscontra nella
coppia coniugale una conflittualità frequentemente occultata attraverso la
negazione. (Micheli 1998).
La struttura psicopatologica della paziente
Dall’esperienza clinica si sono evidenziate, poi, le due dimensioni
dell’impossibilità di categorizzare, l’anoressia com’entità nosografica autonoma
e della necessità di raggruppare la varietà emergente di forme cliniche nelle
quattro differenti costellazioni: fobica-ossessiva, somatoforme, depressiva e
psicotica.(Montecchi 1998).
Le forme cliniche individuate presentano le seguenti caratteristiche:
1. fobico-ossessiva: l’ideazione è concentrata sul quanto e cosa mangiare e/o sul
conteggio delle calorie, sul peso e sulla forma corporea con i ben noti rituali che
accompagnano questi pensieri. La fobia per il cibo e il peso viene vissuta con
modalità assolutamente egodistoniche;
2. somatoforme: l’esordio è caratterizzato spesso da episodi di soffocamento
durante l’ingestione di cibo, del tipo bolo isterico. E’ indubbia la valenza
comunicativa verso l’ambiente circostante, tesa a sollecitare richiami affettivi
nonché l’elusione d’impegni non sostenibili dalla paziente;
3. depressiva: senso d’insicurezza e d’inefficienza e sensi di colpa fanno parte di
questa tipologia che nega l’accesso al piacere del cibo, visto con modalità
collusiva verso quegli stimoli corporei, fautori poi di pesanti sensi di colpa;
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4. psicotica: il cibo è vissuto come un oggetto persecutorio e l’ideazione di questi
pazienti presenta elementi comuni al delirio d’influenzamento o di
danneggiamento. Al cibo può legarsi anche lo sdoppiamento della propria voce
che assume connotazioni imperative e tiranniche. L’assunzione del cibo viene
in questi casi proibita da una voce interna. Può essere presente una
dismorfofobia dalle connotazioni deliranti. In altri casi che rientrano nell’area
del disturbo affettivo bipolare, l’alternarsi delle fasi anoressiche con le fasi
bulimie, indipendentemente da qualunque risorsa terapeutica, precede il
passaggio alle fasi depressive e maniacali.
Struttura psicopatologica dei parenti e diagnosi familiare
Per quanto concerne le patologie, uno dei motivi per cui, a differenza della
prassi adottata da altri terapeuti familiari, vengono valutate la patologia della
paziente e quella dei genitori, è legato al concetto di trattabilità. La fase
diagnostica orienta verso la valutazione della trattabilità terapeutica della
paziente e del suo nucleo d’appartenenza e deve portare ad effettuare una scelta
terapeutica mirata, attraverso l’utilizzazione degli strumenti a disposizione, che
non sono rappresentati solo dalla terapia familiare ma comprendono una più
ampia gamma di possibilità. Nei casi d’anoressia mentale in pazienti aventi una
struttura di personalità somatoforme o depressiva, il trattamento del sistema
familiare è indispensabile e porta a risultati positivi, mentre nei casi in cui
l’anoressia poggia su un’ideazione fobica-ossessiva grave, il solo intervento
familiare ,non associato ad un intervento farmacologico, risulta fallimentare
perché l’ideazione ossessiva blocca qualunque spostamento del fuoco
dell’attenzione dal cibo ad altri argomenti durante la seduta familiare in un
gioco coattivo e non trasformativo, impedendo alle metafore e ai paradossi
terapeutici di penetrare nel tessuto relazionale. Nelle anoressie che coprono una
personalità di base psicotica, in cui domina una patologia della struttura del
pensiero, l’intervento terapeutico deve essere mirato a questo sintomo
sottostante e non unicamente alla sintomatologia anoressica, che scompare
rapidamente lasciando il posta alla componente psicotica. Nelle patologie in cui
domina una patologia dei contenuti del pensiero con connotazione delirante, si
deve tener presente che è necessario lavorare sul contenuto stesso del delirio,
ricco di messaggi relazionali, prima che questo scompaia o divenga stereotipato
e di difficile trasformabilità simbolica (Tortolani D., 1998).
Tuttavia queste formalizzazioni non vanno intese nell’ottica della diagnosi
tradizionale, a causa della valenza iatrogena che questa può assumere, ma
vanno intese nell’ottica relazionale e articolate in un discorso complesso che
coinvolge l’intero sistema familiare (Marciano, 1998).
La famiglia, in questo modello, viene considerata un’entità psichica globale e
complessa, luogo d’intersezione degli psichismi individuali, dotata di un mondo
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fantasmatico condiviso, descrivibile in base alle dimensioni del senso
d’appartenenza, dello spazio mentale condiviso, della storia comune del passato
e delle aspettative per il futuro (Eiguer, 1993).
In questa prospettiva, il mondo interno individuale é una componente della
mente sistemica familiare, che ha vari livelli di funzionamento più o meno
evoluti: il sintomo non può essere quindi attribuito ad un individuo, ma deve
essere considerato come una qualità del sistema.
In questo approccio, la comprensione dell’anoressia, nelle sue differenti
espressioni relazionali e familiari, é strettamente correlata alla possibilità di
disporre di una modalità di descrizione delle caratteristiche d’indifferenziazione
della mente sistemica che costituiscono il risvolto dell’invischiamento
caratteristico delle famiglie anoressiche.
L’invischia mento, correlato alla mancata differenziazione, si traduce, infatti, in
aspetti patologici peculiari quali l’incapacità di distinguere tra realtà e fantasia,
la mancanza di costanza percettiva dell’immagine dell’altro, l’uso massiccio
della negazione della realtà.
Sintomi psichiatrici quali l’articolazione di sistemi d’idee di riferimento, ovvero
vissuti d’incongruità, possono essere quindi piuttosto definiti come modalità
d’organizzazione della mente familiare in certe situazioni di disagio, aspetti che
esprimono la confusione tra interno ed esterno, tra se stessi e ambiente (Searles,
1988).
Nelle famiglie anoressiche studiate, ad esempio, é stato possibile evidenziare
come un genitore depresso o disorganizzato, incapace di costruire una
soddisfacente relazione di scambio affettivo con l’altro genitore, possa adottare
come modalità relazionale privilegiata la ricerca di conforto e cure per se
stesso, rivelandosi insensibile, incongruo o addirittura abusante nei confronti
della prole.
Nella pratica clinica, poi, si riscontra come le dinamiche e i vissuti
d’indifferenziazione descritti risultino già presenti al momento della domanda,
che ne viene influenzata, ponendo quindi la necessità di orientare il primo
livello dell’intervento alla costruzione della domanda stessa, piuttosto che
all’erogazione di risposte sul piano clinico.
La funzione diagnostica si realizza pertanto nella comprensione della possibilità
che il contesto familiare autorizzi una domanda e nella promozione di una
disalienazione del gruppo: la formulazione della domanda é perciò già
espressione della funzione terapeutica (Neuberger, 1985).
Gli aspetti trasformativi della terapia coincidono quindi con la sua connotazione
d’area transizionale per la riattivazione delle funzioni più creative della mente
familiare, spazio in cui si sperimenta la pensabilità delle prime forme di
separazione tra sé ed altro da sé.
Il legame terapeutico che si instaura in questa fase con la famiglia, inoltre, é lo
specchio del legame che ne caratterizza la relazionalità interna, strumento
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fondamentale per l’ulteriore comprensione della storia familiare e per la
promozione ulteriore di cambiamento dall’indifferenziazione e dal
conformismo della patologia all’acquisizione di un modello originale e creativo
d’adattamento.
Il lavoro del gruppo di ricerca, dunque, é omologo dall’attività clinica sia
perché con le famiglie viene stipulato un contratto che definisce il contesto
come un luogo d’analisi delle relazioni intercorrenti tra le persone che
compongono il sistema e il ruolo del clinico in qualità d’osservatore
partecipante, sia perché le informazioni vengono raccolte, organizzate ed
elaborate articolando gli aspetti intrapsichici con quelli interpersonali; sia
perché le esperienze vengono considerate in senso storico e per la loro
significatività emotiva ed affettiva.
L’esperienza di lavoro ha, infatti, evidenziato la necessità di disporre di un
modello all’interno del quale la clinica e la ricerca fossero accomunate dalle
operazioni costitutive a livello logico, metodologico ed empirico per modulare
l’intervento con le famiglie anoressiche: l’attenzione alla dimensione
relazionale salvaguarda, infatti, dal rischio di attuare un intervento che può
risultare collusivo rispetto alle dinamiche di misconoscimento della realtà
caratteristiche di queste famiglie.
L’organizzazione dell’intervento risulta pertanto articolata attraverso un
protocollo di tipo sistemico, in base al quale le famiglie vengono accolte in uno
spazio connotato da diversi livelli d’approfondimento
La fase diagnostica integrata
Si propongono:
• un monitoraggio biologico e specialistico, per evitare che la situazione
“precipiti”, costringendo ad un ricovero che farebbe allungare i tempi
terapeutici e di ripresa;
• colloqui, test e sedute individuali alla ragazza, per comprendere quali
meccanismi l’hanno indotta a scegliere questa modalità
comportamentale;
• sedute familiari esplorative per comprendere i giochi interattivi, le
possibilità di cambiamento e le disponibilità terapeutiche.
In questo spazio si realizza peraltro tra gli operatori coinvolti una costante e
fluida comunicazione attraverso momenti di discussione e supervisione in
gruppo, aree di mediazione per l’intervento integrato.
Vengono previste così riunioni con l’equipe del reparto, con il personale
medico e paramedico, per la gestione delle relazioni con la famiglia e gli
eventuali conflitti che possono caratterizzarle. (Tortolani 1998)
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L’anoressia, infatti, per la particolarità di combinazioni patologiche, somatiche
e psichiche, che frequentemente nel contesto ospedaliero richiedono il ricovero
della paziente, prevede, soprattutto nei casi più gravi dove il ricovero si rende
indispensabile, l’intervento di più specialisti che, attivati dalle problematiche di
morte e dalle dinamiche familiari, rischiano di entrare in conflitto tra loro o di
colludere con la famiglia rischiando il fallimento dell’intervento.
Il personale del reparto si connota come l’elemento di collegamento con la
famiglia per la parte medica e farmacologica, il terapeuta familiare raccoglie
invece le angosce e le problematiche connesse con i significati relazionali
dell’intervento.
Durante le fasi del ricovero, ad esempio, il personale paramedico é quello più
esposto alle dinamiche relazionali di controllo associate agli aspetti nutrizionali
rischiando la collusione, che può provocare il blocco del miglioramento o il
riacutizzarsi della sintomatologia.
Ulteriori difficoltà nella gestione del reparto si incontrano quando, sia durante il
ricovero che successivamente alla dimissione, la famiglia tende a scindere
l’intervento organico-nutrizionale da quello psicologico-psicoterapeutico
triangolando il personale medico e paramedico.
Per contenere i rischi di queste situazioni, che costituiscono dei veri e propri
attacchi alle possibilità trasformative, la prospettiva relazionale prevede che gli
operatori del reparto vengano considerati parte integrante del sistema
terapeutico e come tali possano avere momenti di riflessione critica comune per
il monitoraggio delle emozioni attive nel sistema in un certo momento.
(Tortolani 1998)
In questo approccio, la dimensione relazionale rappresenta una modalità
all’interno della quale la diagnosi familiare si connota come un momento,
centrale ma parziale, di un più complesso sistema d’intervento multifocale in
cui le componenti organiche e psicologiche vengono gestite dall’intero staff
composto da psichiatri, nutrizionisti, internisti, terapisti familiari, analisti
individuali, analisti di gruppo e dal personale paramedico del reparto.
(Tortolani 1998)
La gestione coordinata dei vari sottosistemi terapeutici a partire dalla fase acuta
é, quindi, propedeutica al trattamento psicoterapeutico, sia perché tutela dai
rischi della collusione e sia perché é mirata allo spostamento dalla cura medica
alla cura delle relazioni col mondo esterno e col mondo interno, dal somatico
allo psichico. (Montecchi1998)
La concentrazione della famiglia, nelle fasi iniziali della diagnostica o del
ricovero, sugli aspetti organici e concreti del problema, costituisce un elemento
di preferenza per cominciare il trattamento dopo la dimissione della paziente
dal reparto: la seduta con la famiglia compresa nella fase diagnostica iniziale
rappresenta il momento cruciale in cui si sonda la trattabilità, vale a dire la
possibilità del sistema di accettare la definizione della situazione problematica
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nella sua dimensione relazionale, e si inizia a lavorare sui giochi interattivi
esplicitando il passaggio dal sintomo somatico a quello psichico.
(Tortolani1998).
La fase diagnostica ha inoltre come fine la scelta mirata del modulo terapeutico
in relazione alle caratteristiche specifiche del caso coniugate con l’utilizzazione
dei vari strumenti clinici disponibili in reparto.
Tuttavia, nel caso di pazienti che necessitano del ricovero ovvero nel caso in
cui il ricovero si protragga nel tempo, l’intervento psicoterautico inizia prima
della dimissione ed anzi vede la sua fase iniziale mirata proprio alla
preparazione della dimissione e al rientro in famiglia: concretamente gli
obiettivi si concentrano intorno allo svincolo della gestione del cibo dal
controllo genitoriale, evidenziando gli aspetti di lotta per la differenziazione
della fase del ciclo vitale che la famiglia sta attraversando e lasciando emergere
nuovi ulteriori spazi per tale esercizio.
Inoltre s’interviene per la promozione della creazione di una diade coniugale
funzionale che possa attivarsi sul piano genitoriale per la gestione della
famiglia in una prospettiva collaborativa.
Infine, si lavora anche con il sottosistema dei fratelli, trattando le alleanze e le
rivalità frequentemente negate stimolando la costruzione di nuove modalità
relazionali in luogo dell’isolamento della paziente. (Tortolani 1998).
Terapia integrata
Dopo la fase d’urgenza, poi, la terapia familiare prosegue con un lavoro
focalizzato sempre più intorno alle tematiche relazionali, spostando l’attenzione
dal cibo ad altre aree che sono quelle realmente problematiche. La terapia
familiare diventa un momento, anche se centrale, di un più complesso sistema
d’intervento multifocale in cui le componenti organiche e psicologiche vengono
tutte gestite da uno staff: lo psichiatra, l’analista, il terapeuta di gruppo, il
terapeuta familiare, l’internista nutrizionista. L’intervento familiare diviene
parte di un lavoro di èquipe dove, perché la terapia abbia successo, è
indispensabile la collaborazione degli operatori per raggiungere una coesione e
per evitare di “triangolare” e farsi “triangolare” dai pazienti e dai colleghi. In
quest’ottica operare sul sistema familiare e sugli altri sottosistemi permette
un’integrazione e non una scissione.
Allo scopo di incrementare questo processo la terapia familiare viene combinata
con la terapia individuale ad orientamento analitico, a cura di due differenti
terapeuti che condividono i presupposti teorici di base dell’intervento: le due
terapie sono inserite all’interno di un unico setting che le comprende entrambe,
all’interno del quale vengono costantemente monitorati l’accordo e la sintonia
tra i terapeuti, che funzionano come una coppia di co-terapeuti, con competenze
ed ambiti distinti ma integrati (Tortolani, 1998)
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La terapia congiunta individuale e familiare, proprio nella misura in cui
contempla la differenziazione all’interno del sistema terapeutico, promuove la
differenziazione nel sistema familiare: infatti, consente spazi differenziati per
parlare di sé, affrontare le aree conflittuali, elaborare le resistenze e le paure che
frenano il processo trasformativo, e permette in ultima analisi, il riconoscimento
di ciascuno dei membri del sistema come componenti che permettono una
reciproca autonomizzazione.
L’iter terapeutico descritto comporta il passaggio dalla gestione delle crisi
alimentari all’elaborazione quelle familiari, evidenziando i conflitti sottostanti.
In questo contesto la terapia non si considera conclusa con la remissione del
sintomo, ma prosegue fino alla riorganizzazione della struttura familiare con la
demarcazione dei confini generazionali e l’elaborazione delle problematiche
anche in una prospettiva multigenerazionale
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• Montecchi, F., (1994); Anoressia mentale adolescente. Rilevamento e
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• Montecchi, F.; (1998), Anoressia mentale dell’adolescenza: modelli
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• Montecchi, F. - Tortolani, D.; (1984) Trattamento combinato di
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• Neuberger,R.; (1985) Aspetti della domanda: la domanda in
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• Ruffiot,A.; Eiguer,A.; Litovsky,D.E.E.; Liendo,E.; Gear,M.C.;
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• Selvini Palazzoli,M., Cirillo,S.; Selvini,S.; Sorrentino,A.M.;
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• Stern D.; (1998), Le interazioni madre-bambino, Raffaello Cortina
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• Tortolani,D.; (1998), Il rilevamento e la diagnosi in ambito
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• Tortolani D.; (1998), Diagnosi e terapia familiare dell’anoressia
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teorici diagnostici e terapeutici, Franco Angeli, Milano
E’ inoltre interessante integrare la bibliografia sull’argomento con i
seguenti testi
• Classificazione dei disturbi alimentari nella prima infanzia
• WORD HEALTH ORGANIZAZION (1996) Classificazione
multiassiale dei disturbi psichiatrici del bambino e dell’adolescente.
Classificazione dei disturbi psichici e comportamentali dell’ICD-10
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• EPIDEMIOLOGIA
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